Immigrazione e asilo
Le più recenti dinamiche migratorie evidenziano le carenze delle politiche comunitarie e italiane in materia e il sostanziale insuccesso del progressivo sbilanciamento di tali politiche sul versante della limitazione degli ingressi e del contrasto dell’irregolarità. Sarebbe invece necessario un ripensamento delle politiche europee d’immigrazione e asilo che tenesse conto della centralità di tali questioni nel progetto di integrazione politica europea, oltre che nella storia della cittadinanza e dei diritti in Europa.
Ragioni geografiche e ragioni storiche collocano l’Italia al centro delle dinamiche migratorie europee. Terra d’emigrazione per un secolo; cerniera tra est e ovest nell’Europa bipolare del secondo dopoguerra; oggi tra i principali approdi delle migrazioni dirette in Europa.
La Costituzione del 1948 è quella di un Paese di emigranti: riconosce «la libertà di emigrare» e «tutela il lavoro italiano all’estero» (art. 35, co. 4), ma si occupa poco di stranieri, operandone una costituzionalizzazione indiretta della condizione giuridica mediante il doppio vincolo della riserva di legge e della conformità alle norme e ai trattati internazionali (art. 10, co. 2). Anche la disciplina della cittadinanza (l. 5.2.1992, n. 91) riflette ancora un Paese di partenze più che di arrivi, dove lo status circola per via sanguigna e si conserva in capo alle seconde generazioni di emigrati. Nondimeno, la Costituzione, rompendo con le concezioni liberali e fasciste dei rapporti tra i soggetti, i loro diritti e l’autorità dello Stato, esprime invece una visione democratica e inclusiva della cittadinanza – a partire dall’allargamento delle forme di partecipazione, dal riconoscimento e dalla garanzia dei diritti fondamentali – e afferma un’idea forte e larga di asilo (art. 10, co. 3), legandolo all’impossibilità di esercitare effettivamente i diritti di libertà garantiti dalla Costituzione italiana nel proprio paese di origine. Questo diritto tuttavia solo nell’ultima decade del Novecento ha trovato, per via giurisprudenziale, contenuti ed effettività, e all’inattuata riserva dell’art. 10, co. 3, Cost. hanno dato parziale risposta i regolamenti e le direttive adottati in seguito al Trattato di Amsterdam.
L’Italia si scopre paese d’immigrazione nell’ultimo quarto di Novecento, tra la fine del “boom” e il crollo del muro di Berlino, quando i paesi europei di risalente immigrazione inizieranno a limitare gli ingressi e a fare i conti con la natura permanente della presenza immigrata, indirizzando verso gli Stati mediterranei flussi di migranti prima diretti più a nord. Su questa convergenza poggia l’europeizzazione delle politiche migratorie, avviata secondo moduli intergovernativi con gli accordi di Schengen (1985) e di Dublino (1990), progressivamente comunitarizzata tra i trattati di Maastricht (1992) e quello di Amsterdam (1997) e che mira a combinare il contrasto dell’irregolarità migratoria con politiche d’integrazione degli stranieri regolarmente residenti. Schengen e Dublino hanno posto alla base di questa costruzione dispositivi di esternalizzazione dei controlli e di limitazione della libertà di circolazione dei cittadini extracomunitari che puntano a trasferire agli Stati di confine tanto i controlli quanto la presa in carico dei nuovi flussi di migranti: Schengen si propone come obiettivo principale la chiusura delle frontiere esterne e l’attribuzione agli Stati di confine dei relativi controlli, mentre Dublino preseleziona i richiedenti asilo mediante elenchi di “Stati sicuri”, con il criterio del Paese di primo ingresso impedisce ai richiedenti di scegliere la propria destinazione e scarica sui Paesi di confine il maggior peso di queste migrazioni.
L’articolarsi di un diritto italiano dell’immigrazione si connette strettamente a questa europeizzazione della materia. L’adozione della legge Martelli (1990) permise all’Italia di aderire alle convenzioni di Schengen e Dublino, mentre il Testo unico sull’immigrazione del 1998, di seguito TUIM, introdusse nell’ordinamento quel doppio binario che caratterizza le politiche migratorie europee dalla fine degli anni Novanta. Il TUIM, infatti, inasprisce e amplia i previgenti dispositivi in materia d’ingresso e allontanamento, e al contempo aggiorna un quadro normativo datato e lacunoso in materia di soggiorno e diritti sociali degli stranieri “in regola”, approntando più complessive politiche di accoglienza e d’integrazione, che affidano alle regioni la promozione di tali politiche e agli enti locali l’erogazione dei relativi servizi.
Le crisi internazionali ed economiche succedutesi nel corso degli anni Duemila hanno diffuso un senso d’insicurezza e precarietà che ha trovato nell’immigrato, specie se “clandestino”, uno specchio della vulnerabilità delle nostre esistenze e del nostro benessere e un facile capro espiatorio al quale imputare colpe e conseguenze di queste crisi. In questo contesto, le politiche migratorie nazionali e comunitarie si sono sempre più orientate alla limitazione degli ingressi e al contrasto dell’irregolarità, evidenziando al contempo le criticità del sistema d’asilo e la disomogeneità, e i limiti, delle politiche nazionali d’accoglienza e integrazione.
Le riforme del TUIM finora intervenute riflettono e accentuano le criticità e lo sbilanciamento ora richiamati. Normative quali la “Bossi-Fini” (2002) e il “Pacchetto sicurezza” (2009) hanno reso sempre più difficoltose le condizioni per l’accesso e la permanenza dello straniero, ampliato ipotesi, durata e presupposti del trattenimento e generalizzato le ipotesi di allontanamento coattivo e d’immediata esecuzione dell’espulsione, fino alla criminalizzazione dell’irregolarità migratoria. Ha preso forma in tal modo un diritto speciale dell’immigrazione ad alta connotazione simbolica e che arriva a toccare il nucleo forte del principio di eguaglianza, quale divieto di distinzioni per ragioni soggettive ed esigenza di uniforme disciplina dei diritti fondamentali.
I giudici nazionali ed europei hanno posto più di un argine a queste derive del legislatore, dichiarando la contrarietà al diritto nazionale e comunitario d’importanti dispositivi di tali politiche e riconoscendo agli stranieri extracomunitari importanti diritti fondamentali, personali e sociali1. Questi itinerari giurisprudenziali possono almeno in parte ricondurre a ragionevolezza normative che si pongono in sempre più accentuato contrasto con i principi costituzionali e comunitari in materia, ma, nonostante la loro indubbia rilevanza quantitativa e qualitativa, non possono (e soprattutto non sono tenute a) mutare il verso che a queste discipline imprime il legislatore né a colmare deficit di elaborazione politica.
Le politiche ora abbozzate non hanno dato tuttavia i risultati sperati. Gli inasprimenti di polizia degli stranieri non hanno sensibilmente ridotto gli ingressi e l’irregolarità, concorrendo semmai a rendere più fragile e precaria anche la condizione giuridica degli immigrati in regola, che finiscono per trovarsi costantemente esposti a ricadute nell’irregolarità, discriminati nell’accesso al welfare e ai diritti sociali ed esclusi da ogni prospettiva di effettiva integrazione e partecipazione. A ciò si aggiunga che gli attuali flussi migratori diretti in Europa mal s’inquadrano nelle classiche partizioni economiche/familiari/umanitarie, e sollevano questioni inedite, che evidenziano l’inadeguatezza dello strumentario finora approntato.
Conferme di tale novità vengono dalla composizione di questi flussi migratori – dalla crescente percentuale di donne e di minori non accompagnati che tentano di migrare, e dalle questioni in tema di asilo e orientamento sessuale2 – e dalle provenienze di queste migrazioni, la gran parte originate da crisi internazionali in cui hanno avuto un peso notevole anche le scelte europee, che hanno condotto al collasso di Stati (Afghanistan, Eritrea, Somalia, Palestina, Pakistan, Libia, Siria) i quali non riescono più a garantire le più essenziali prestazioni. In questa situazione, per quanto il Mediterraneo resti al centro delle attuali dinamiche migratorie, si registra uno scarto rispetto al precedente contesto. Nel corso dell’estate 2015 si è riaperta la rotta centro-orientale e balcanica e si è assistito a una moltiplicazione e diffusione di spazi e dispositivi di confine: le isole siciliane e quelle greche, gli scogli di Ventimiglia, gli accampamenti nei pressi dei porti e delle stazioni di tante città europee, i muri in costruzione ai confini bulgari, macedoni, ungheresi, il ramificarsi del sistema dei centri dentro e fuori l’Europa.
In questa situazione non sono mancate iniziative di solidarietà e accoglienza ai migranti, spesso intraprese da singoli cittadini o piccole associazioni, che restituiscono un senso all’idea d’Europa. UE e Stati membri, invece, ancora faticano a individuare strumenti efficaci di tutela e gestione di questi flussi migratori: gli Stati membri rispondono in ordine sparso, con qualche apprezzabile iniziativa e molte resistenze, e il mix di controlli e protezione che il diritto nazionale e comunitario mette in campo intorno a un’Europa sempre più fortezza appare inadeguato dinanzi alle dinamiche migratorie in atto, incapace di ridurre gli ingressi ed evitare tragedie sempre più drammatiche e quotidiane dovute a mutamenti delle rotte e dell’organizzazione del traffico dei migranti che ne hanno innalzato costi e rischi.
La storia europea e della stessa idea d’Europa sono strettamente connesse a movimenti internazionali di popolazione (per colonizzare, fuggire persecuzioni, emigrare, immigrare) e le stesse tendenze economiche e demografiche europee e dei paesi di emigrazione confermano che l’Europa rimarrà nei prossimi lustri meta d’importanti flussi migratori. Per questo le politiche migratorie costituiscono, oggi come ieri, un importante fattore d’interazione democratica: un termometro della democraticità degli ordinamenti e un importante ambito di dispiegamento delle lotte per la cittadinanza e diritti e di definizione dei loro contenuti. Al contempo, le questioni migratorie, all’interno di uno spazio e di un mercato che si vorrebbero unici, si rivelano determinanti per i destini del progetto di integrazione politica europea.
Intanto, dal 2000 a oggi, sono circa 25.000 i morti per migrazione nel solo Mediterraneo, vittime di un mercato che muove miliardi per economie formali, informali e criminali, che si rivela nelle sue dinamiche come una risposta alla chiusura delle frontiere europee e al quale invece si applicano letture riduttive e distorte, che producono importanti conseguenze ermeneutiche. La cattiva metafora del migrante oggetto di “tratta” al pari degli schiavi viene usata per giustificare la crescente bellicizzazione della lotta al traffico dei migranti, e la vittimizzazione di questi soggetti «rafforza i potenti e indebolisce i subalterni»3, giustifica standard minimi di tutela e rimuove il conflitto, impedendo di cogliere il deficit di elaborazione politica e collocando comunque in un fuori da noi le responsabilità riguardo alle crisi che originano quei fenomeni.
La profonda dinamicità delle migrazioni richiederebbe approcci realistici e ragionevoli, risposte flessibili. Invece sembra prevalere un approccio fobico al tema, alimentato da pulsioni non di rado xenofobe, che giustappone identità rigide e spesso fittizie e propone risposte semplicistiche, riduttive e univocamente orientate in senso restrittivo. Le odierne politiche nazionali e comunitarie si rivelano così incapaci di elaborare una risposta all’altezza delle attuali dinamiche migratorie e sempre meno coerenti con i principi che dal secondo dopoguerra quegli ordinamenti hanno posto alla base delle costituzioni, delle dichiarazioni internazionali dei diritti e della stessa costruzione comunitaria. Nel caso italiano, a tutto ciò si aggiunge l’urgenza di una riforma della legge sulla cittadinanza che ne agevoli l’accesso alle seconde generazioni d’immigrati, recuperando le valenze più aperte e inclusive che il testo costituzionale imprime a questo status, al fine di favorire non le chiusure e le marginalizzazioni, ma condizioni di convivenza adeguate all’esperienza, che sollecitino la crescita collettiva, la comprensione e la solidarietà tra le persone conviventi su uno stesso territorio.
Come la questione della cittadinanza “2G” impone ripensamenti intorno all’identità nazionale e alla comunità politica, al chi riceve diritti e restituisce doveri, analogamente le questioni migratorie e la crisi economico-finanziaria in atto si rivelano centrali nella costruzione di un’Europa politica. Finora a tali questioni si è opposto un approccio “austerico”, un diritto europeo dell’emergenza che altera il tradizionale quadro comunitario, nel quale operano le politiche dell’Unione e che si intendeva rafforzare col Trattato di Lisbona del 2009: il ricorso al Fiscal compact per fronteggiare la crisi dell’Eurozona, da una parte, e dall’altra la prima risposta europea alle dinamiche migratorie in atto, la “Agenda europea sulla migrazione” (COM 240/2015), che nella sostanza si limita ad abbozzare una governance delle future emergenze umanitarie accentuando l’esternalizzazione del sistema dei centri nei paesi di provenienza e transito, incrementando compiti e dotazioni di Frontex e puntando a una progressiva bellicizzazione della lotta alla clandestinità4.
Non mancano tuttavia importanti inviti a progredire nella comunitarizzazione delle politiche migratorie, ad ampliare i canali legali d’immigrazione, a rivedere il sistema Dublino e ad allentare la pressione sui paesi in prima linea. A tal fine, l’Agenda configura un duplice meccanismo di redistribuzione territoriale dei richiedenti asilo: temporaneo ed eccezionale in una prima fase (la cd. ricollocazione, per la quale è previsto, a conferma del carattere emergenziale dell’Agenda, il ricorso all’art. 78, par. 3, TFUE), da stabilizzarsi in seguito all’interno di una più complessiva revisione del sistema Dublino (il cd. reinsediamento).
Nei giorni in cui si licenzia questo lavoro (fine agosto 2015), la Commissione ha annunciato per l’8 settembre prossimo un nuovo pacchetto di misure, orientate prevalentemente a incrementare le quote d’ingressi da redistribuire intra UE, a sanzionare chi rifiuta questo burden sharing e a rendere automatica l’applicazione di tale riparto in situazioni di emergenza. Il pacchetto dovrebbe contenere inoltre proposte riguardo alla creazione di una lista unica di “Stati sicuri”, l’affidamento diretto a Frontex dei rimpatri di chi non si vede riconosciuto l’asilo, l’istituzione di campi UNHCR ai confini esterni della Libia, dai quali trasferire in Europa i richiedenti asilo e nei quali rimpatriare invece i migranti economici.
Sarà importante vedere come i diversi Stati UE reagiranno. Le proposte della Commissione non paiono tuttavia ancora affrontare gli aspetti più problematici del sistema europeo d’immigrazione e asilo, insistendo sull’esternalizzazione dei controlli per contenere gli ingressi e approntando, per coloro che riescono a entrare, un riparto di quote che suscita forti resistenze e apre aspri negoziati al ribasso tra gli Stati membri, e che a oggi non tiene conto delle scelte dei migranti, e dei contatti e relazioni che molti di essi già intrattengono nell’uno o l’altro Paese.
Sarebbero auspicabili interventi anche nelle altre direzioni, più timidamente evocate dall’Agenda: allargamento dei canali d’ingresso, riequilibrio tra contrasto e integrazione, ripensamento delle classiche partizioni migratorie. Le odierne dinamiche migratorie evidenziano in primo luogo l’inadeguatezza degli stessi assi portanti del sistema Dublino: il principio di “Stato sicuro” quale precondizione al riconoscimento di una protezione internazionale, e il meccanismo di distribuzione tra Stati delle competenze in materia d’asilo, inceppato, oltre che dal criterio del Paese di primo ingresso, dalle disomogeneità di trattamento tra Stati membri sia sul piano delle garanzie procedurali, sia sul piano delle condizioni garantite ai richiedenti nelle more dell’esame e, nel caso, una volta che questa venga accolta. Ancora, sarebbe importante che i paesi più esposti rivedessero profondamente il loro sistema di accoglienza e la loro rete di centri, più volte dichiarati dalla Corte di giustizia in contrasto col diritto comunitario, e nel nostro Paese rivelatisi occasione di ulteriore malaffare e corruttela. Infine, andrebbe avviata una rimessa in discussione dei processi di esternalizzazione che connotano le politiche migratorie, valutando gli effetti delle dinamiche migratorie in atto su una scala non esclusivamente europea (oggi, ad es., paesi come Libano, Turchia e Giordania ospitano percentuali di profughi decisamente superiori a quelle di qualsiasi Stato UE) e facendo i conti con la progressiva eclisse nello spazio europeo del diritto costituzionale d’asilo, operata a partire dalla rimessa in discussione di quel diritto all’ingresso che ne costituisce il contenuto minimo.
1 Cfr. ad es. C. cost., 8.7.2010, nn. 249 e 250 (risp. su aggravante e reato di clandestinità), C. cost., 17.7.2001, n. 252 (diritto alla salute), C. cost., 22.10.2010, n. 299 (competenze regionali in materia di accoglienza e integrazione). Nella giurisprudenza C. eur. dir. uomo si vedano ad es. 23.2.2010, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, (respingimenti in Libia) e 16.3.2010, Carlson e altri c. Regno Unito, (prestazioni sociali). Per la giurisprudenza C. giust. v. invece le sentt. 28.4.2011, C61/11, Hassen El Dridi, (sul reato d’inottemperanza all’ordine di allontanamento) e la recente 2.9.2015, C309/14, Cgil e Inca c. Presidenza del Consiglio dei ministri, Ministero dell’interno, Ministero dell’economia e delle finanze, (costi del permesso di soggiorno).
2 C. giust., 7.11.2013, C199/12 e C.201/12, X, Y e Z c. Minister voor Immigratie, Integratie en Asiel; 2.12.2014, da C148/13 a C150/13, A, B e C c. Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie e Cass., ord. 20.9.2012, n. 15981 e Cass., 5.3.2015, n. 4522.
3 Cfr. Giglioli, D., Critica della vittima, Roma, 2009, 107.
4 Da Mare nostrum a Eunavfor Med, passando per operazioni come Triton, si regista una progressiva dismissione da parte delle forze armate e di polizia dallo svolgimento di compiti umanitari e di soccorso, lasciati semmai all’iniziativa di ONG e attori privati, a favore di missioni militari incaricate di «individuare, fermare e distruggere le imbarcazioni prima che siano usate dai trafficanti», fino all’eventuale bombardamento dei ‘barconi’ nei porti di partenza (così le conclusioni della riunione straordinaria del Consiglio europeo del 23.4.2015).