immortalita
Dottrina secondo la quale l’anima dopo la morte sopravvive al corpo, benché non necessariamente in forma personale. Nonostante l’esperienza della morte come qualcosa di singolare e specificamente umano si esprima anche presso i popoli più primitivi, una chiara idea della differenza tra vita e morte difficilmente si definisce senza il contributo del pensiero speculativo.
I primi tentativi di dimostrazione filosofica rigorosa si trovano presso i Greci, e in primo luogo nelle opere di Platone, che torna sull’argomento in vari dialoghi (Menone, Fedone, Fedro, Gorgia, Repubblica) avvalendosi di diversi mezzi di dimostrazione. La reminiscenza rivela un intimo rapporto fra l’anima e quelle essenze eterne e immutabili che Platone chiama idee; l’anima si manifesta quindi capace di esistere senza il corpo, il quale le è piuttosto d’impedimento che di aiuto nella ricerca della verità, che l’anima deve perseguire sola con sé stessa (αὐτὴ καϑ’αὐτήν). Un altro argomento si fonda sulla «semplicità» dell’anima, accertata per via gnoseologica (in quanto essa unifica i dati sensibili) e per via pratica (in quanto essa domina sul corpo, e non può quindi essere una risultante armonica delle varie parti e delle varie funzioni di questo). Inoltre, poiché l’anima è, per definizione, datrice di vita, non si può pensare senza contraddizione che essa riceva in sé la morte. Affine a quest’ultimo argomento è quello fondato sull’affermazione che l’anima è per sua natura semovente (αὐτοκινοῦν), appunto perché essa deve avere per essenza ciò di cui fa partecipe il corpo. Questo movimento essenziale è quindi piuttosto un’attualità energica da cui può procedere l’attualizzazione (mediante il movimento) di altro. Nella filosofia aristotelica il problema dell’i. si pone soltanto per l’anima intellettiva (νοῦς). Aristotele afferma l’anorganicità delle operazioni del pensare e del volere razionale e quindi l’immaterialità e immortalità del principio da cui tali operazioni procedono. Tra gli interpreti di Aristotele (in part. gli scolastici), alcuni sostennero che ogni individuo umano abbia in sé medesimo, come suo proprio, un principio sostanziale e immortale. Altri invece sostennero in vario modo trattarsi di un principio universale e impersonale (così Alessandro d’Afrodisiade e gl’interpreti arabi, fra i quali Averroè; tra gli alessandristi italiani Pomponazzi). Dagli stoici l’i. fu in genere attribuita soltanto al Logos universale, concepito come il divino fuoco animatore del mondo, di cui le singole anime sono scintille, che in esso devono venire riassorbite nella conflagrazione (ἐκπύρωσις) universale al termine di ogni ciclo cosmico. L’affermazione decisa della materialità, e conseguente corruttibilità, dell’anima come del corpo (dal momento che permangono in eterno, come ab aeterno esistono soltanto i singoli atomi), è sostenuta dagli atomisti (Democrito, Epicuro, Lucrezio). Anche se gli stessi atomi si riunissero per ricostituire ciò che la morte ha dissolto, quelli più grossolani un medesimo corpo e quelli più sottili una medesima anima, mancherebbe il ricordo della vita antecedente, e quindi la continuità della coscienza personale.
Al pensiero cristiano, l’immortalità dell’anima apparve una verità fondamentale, a cui del resto si collegava anche quella della resurrezione dei corpi. I padri della Chiesa affermano che l’immortalità è per l’anima umana un attributo naturale (nel senso che, supposta la sua esistenza, la natura che Dio le ha data la destina a rimanere sempre quello che è, e non a trasformarsi in un’altra sostanza) sebbene non essenziale (perché essa potrebbe anche non esistere, in qualsiasi momento del tempo, se Dio non la creasse e la conservasse). Tale i. naturale Agostino dimostrava anche in altri modi, per es. fondandosi sulla capacità che l’anima possiede d’intuire le verità eterne. La maggior parte degli scolastici ritennero che l’i. dell’anima potesse essere filosoficamente dimostrata, con perfetta evidenza razionale. Altri sostennero invece che, filosoficamente, si potesse arrivare soltanto a un certo grado di probabilità. Fra i primi, il più importante (anche perché sintetizzò i risultati di un lungo processo storico) fu Tommaso d’Aquino. Questi sviluppò, in una piena e formale dimostrazione, gli accenni profondi ma oscuri di Aristotele, collegandoli con argomenti derivanti dalla tradizione platonica e patristico-scolastica. Il suo argomento fondamentale è quello strettamente metafisico, fondato sulla natura dell’anima come forma subsistens. L’anima umana cioè, a differenza di quella dei bruti, è ordinata per natura, in modo immediato, a esistere in sé e non soltanto a far esistere (sebbene essa abbia anche quest’ultima funzione), inerendo in una porzione di materia, il composto che ne deriva e che essa vivifica. L’anima cioè sussiste per proprio conto e fa partecipare il corpo della sua sussistenza, senza dipendere a tale riguardo dal corpo stesso, è quindi naturalmente ordinata a sussistere sempre (supposta la creazione e la conservazione da parte di Dio): «substantiae vero quae sunt ipsae formae nunquam possunt privari esse» (Summa contra Gentiles, II, 55). Tommaso conclude che l’anima sia una forma subsistens dal fatto che essa opera senza il corpo nelle sue attività razionali (pensiero e volontà, Summa Theologiae, I, q. LXXV, a. 2). Tra gli scolastici che ritennero che l’immortalità dell’anima, pur essendo certa per rivelazione, non potesse essere dimostrata con perfetta evidenza razionale, va ricordato Guglielmo di Occam.
Nella filosofia di Descartes, e dei pensatori che a lui più direttamente si ispirano, l’anima è concepita non come forma del corpo, ma come sostanza a sé, dotata di una semplicità essenziale, che è il fondamento metafisico della sua incorruttibilità. Più complessa è l’interpretazione del pensiero di Spinoza. Secondo quest’ultimo non vi è né dualità di sostanze secondo la specie, né pluralità secondo il numero; ma vi è dualità di attributi (almeno degli attributi a noi noti, pensiero ed estensione), e pluralità dei modi di questi attributi, nell’unità della sostanza. Ciò che si chiama anima individuale è un gruppo di modi del pensiero, corrispondente a un gruppo di modi dell’estensione, e inerente nella sostanza divina. Senonché, appunto per questo, l’anima (che in certo modo è l’idea del corpo) partecipa all’eternità di tale sostanza: eternità che è una presenza extratemporale, non un prolungarsi indefinitamente nel passato e nel futuro. Di questa sua presenza eterna, l’anima è sempre in qualche modo consapevole (Ethica, V, 23) ma questa consapevolezza non è ricordo di stati antecedenti, né anticipazione di stati futuri. L’antico materialismo, già sotto la forma di atomismo rinnovato nel sec. 17° da Gassendi (con riserve di carattere religioso) e da Hobbes, trovò largo credito nel sec. 18° e ancora nella seconda metà del 19°. La negazione dell’i. dell’anima è fondata, per alcuni pensatori che si collocano in quest’arco temporale, sul presupposto metafisico della corporeità e conseguente corruttibilità di tutto ciò che esiste (d’Holbach, Cabanis, J. Moleschott), ritenendo che le manifestazioni psichiche anche più elevate (pensiero e volontà) derivino per evoluzione da quella stessa sostanza eterna da cui procedono tutte le altre manifestazioni della realtà (Haeckel). Una particolare importanza storica ha avuto, anche nei riguardi di questo problema, il criticismo di Kant. Dal punto di vista della ragione, Kant riteneva che tale problema fosse insolubile, come insolubili erano per lui tutti i problemi metafisici, riguardanti non il «fenomeno» (accessibile) ma la «cosa in sé» (inaccessibile all’umana conoscenza). Vero è che noi pensiamo una sostanza (la nostra anima, appunto), come sostrato cui ineriscono e da cui procedono i fenomeni psichici, dati come materia del senso interno e ordinati nella forma intuitiva a priori del tempo (non dello spazio). Ma questa categoria (concetto puro) di sostanza manifesta, secondo Kant, non un’entità reale che sussiste in sé, ma piuttosto una nostra (universalmente umana) esigenza mentale, che vale solo in quanto è applicabile all’esperienza, serve cioè a collegare in sintesi i dati del senso interno. Mentre la ragione nel suo uso teorico porta così a conclusioni agnostiche, nel suo uso pratico invece (in quanto pensa la legge direttiva della volontà come «imperativo categorico» e riflette sui presupposti necessari della validità di questa legge) essa implica una conclusione affermativa, non nel senso che faccia conoscere, ma che fa necessariamente «postulare» l’immortalità dell’anima; la fa postulare, perché senza di essa sarebbe inconcepibile quel progresso morale indefinito, che comunque l’uomo deve proporsi come scopo principale del suo agire. Non essendo per la volontà umana raggiungibile, in nessun momento del tempo, quella santità assoluta e definitiva che è propria della volontà divina, essa ha bisogno di continuare a sforzarsi per migliorare, nell’indefinito del tempo futuro. Benché non saputa, l’immortalità deve quindi essere creduta, con un atto di fede razionale pratica. Il positivismo insiste sull’aspetto agnostico del criticismo kantiano, affermando la conoscibilità del solo fenomeno e l’impossibilità di trascendere con la ragione l’esperienza sensibile. Se ammette una fede non l’ammette più come fede razionale (alla maniera di Kant), ma come stato puramente ‘sentimentale’, o come decisione arbitraria e autosufficiente della volontà. Così alcuni positivisti credettero di evitare il contrasto fra la loro dottrina filosofica e le aspirazioni religiose, compresa fra queste l’aspirazione all’i., fondando tale accordo sull’inconoscibilità perpetua (ignoramus, ignorabimus) della realtà in sé. Spencer sostenne perciò la necessità di affermare un «Inconoscibile» e fu combattuto su questo punto dal positivista italiano Ardigò. La scuola positivista italiana, che a quest’ultimo si ricollega, ne ha superato le tesi negative, sfruttando altri elementi del suo pensiero. Così specialmente Tarozzi (che però, nell’ultima fase della sua riflessione, si distacca dal positivismo) distinguendo la questione an sit dalla questione quid sit, conclude che una realtà trascendente e una vita oltremondana possa essere affermata (non però dimostrata), sebbene non possiamo sapere quale essa sia. Sul carattere volitivo delle nostre credenze insistono specialmente i pragmatisti (per es., W. James). Altri le considerano come ‘finzioni’ utili, per es. Vaihinger con la sua filosofia del come se (➔ Als ob). Diversa fu la via seguita dall’idealismo. Esso affermò l’eternità extratemporale dell’Io puro (Fichte), o dell’Assoluto (Schelling), o dell’Idea (Hegel), interpretando l’individualità come negativa e limitatrice, negando a quest’ultima ogni permanenza e ogni fondamento morale all’aspirazione corrispondente. Fra gli hegeliani posteriori alcuni accentuarono l’aspetto negativo della dottrina (per es., Feuerbach), altri cercarono di avvicinarla alla dottrina tradizionale, parlando di una conservazione nell’assoluto (per es., J. Michelet), altri infine, specialmente anglo-americani, parlarono di un valore positivo e di una permanenza dell’individuo stesso, come momento non superabile anzi insostituibile nella coscienza universale (per es., Royce). Una molteplicità di tendenze si ritrova anche nel neohegelismo italiano. Croce, concedendo all’individuo umano un carattere puramente istituzionale e convenzionale, conclude che la vera i. è soltanto quella delle opere conservate (in quanto appunto superate) nel processo storico. Gentile insiste sull’assoluto valore e l’eternità indefettibile dell’Io trascendentale come atto puro e di ogni momento positivo di vita, che nella sua concretezza si identificherebbe appunto con l’atto puro (Teoria generale dello Spirito, X, 8: «l’i. [...] è affermazione che il soggetto fa di sé nel proprio assoluto valore»). In quest’ultima con- cezione (dell’i. come assolutezza) si avvicina a Gentile anche Guzzo. Va infine ricordato che la dottrina spiritualistica tradizionale, che afferma l’esistenza, in ogni individuo, di un principio sostanziale incorporeo e indistruttibile (anima), è sostenuta dai neoscolastici, e da numerosi altri pensatori, anche se differiscono notevolmente tra loro nella più esatta determinazione di tale principio e attualità permanente.