Abstract
Viene esaminata l’immunità degli Stati dalla giurisdizione cognitiva ed esecutiva degli Stati esteri, con particolare riferimento alle eccezioni sviluppatesi a partire dalla fine del XIX secolo. Viene altresì presa in esame l’immunità dalla giurisdizione straniera degli organi dello Stato, tenendo presente la distinzione tra immunità funzionale e immunità personali. Si prendono in esame, anche in riferimento alle immunità degli organi statali, le eccezioni formatesi per gli organi statali sospettati di avere compiuto gravi crimini internazionali.
L’immunità degli Stati dalla giurisdizione degli Stati esteri è prevista da una delle norme più antiche del diritto internazionale moderno e tuttavia è ancora al centro di vivace dibattito dottrinale relativo alla portata delle eccezioni alla regola. Ad essa si affiancano una serie di norme, consuetudinarie e convenzionali, relative all’immunità dalla giurisdizione straniera degli organi dello Stato. Anche le immunità giurisdizionali di cui beneficiano gli organi statali sono riconducibili al rispettivo Stato di appartenenza, che resta il titolare del diritto di invocare l’immunità e che può ad essa rinunciare nel caso concreto. Conviene dunque procedere a una trattazione separata dei vari tipi di immunità, poiché distinte sono le norme che le prevedono.
La regola consuetudinaria in materia di immunità degli Stati ha la funzione di sottrarre questi ultimi alla giurisdizione civile e amministrativa dei tribunali degli Stati stranieri, tanto per i procedimenti cognitivi quanto per i procedimenti cautelari ed esecutivi. Essa si fonda su uno dei principi cardine delle relazioni interstatali: il principio di sovrana eguaglianza degli Stati ben espresso dal brocardo par in parem non habet iurisdictionem. Gli organi dello Stato godono di immunità dalla giurisdizione amministrativa, civile e penale: nell’esaminare le immunità degli organi occorre tenere presente la distinzione tra immunità di carattere funzionale e immunità personali e avere particolare riguardo alle possibili eccezioni per crimini internazionali.
In origine, il diritto internazionale generale conferiva agli Stati un’immunità giurisdizionale di carattere assoluto (Corte Suprema degli Stati Uniti, The Schooner Exchange v. Mc Faddon, 1812 in 11 U.S. 7 Cranch 116). Tuttavia sul finire del XIX secolo, quando gli Stati cominciarono a essere ampiamente coinvolti in attività di carattere commerciale, si fece sentire l’esigenza di introdurre dei limiti all’immunità assoluta. I tribunali italiani e belgi argomentarono per primi che l’immunità avesse la funzione di tutelare esclusivamente le funzioni sovrane degli Stati (acta jure imperii) e non le attività da questi svolte in veste di soggetti privati (acta jure gestionis o jure privatorum; sul ruolo avuto dalla giurisprudenza belga e italiana nell’evoluzione della norma si veda Sbolci, L., Immunità giurisdizionale degli Stati stranieri, in Dig. pubbl., VIII, Torino, 1993, 118 ss.). La prassi e la giurisprudenza della maggioranza degli Stati si sono gradualmente conformate a tale indirizzo restrittivo: l’immunità “relativa” o “ristretta” ai soli atti sovrani è oggi corrispondente a una norma di diritto internazionale generale.
La materia è regolata nel dettaglio dalla Convenzione sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, adottata nel dicembre del 2004 dall’Assemblea generale dell’ONU. Un precedente tentativo di codificazione è rappresentato dalla Convenzione europea sull’immunità degli Stati, adottata dal Consiglio d’Europa nel 1972 e entrata in vigore nel 1976, che ha però ottenuto un basso numero di adesioni (la Convenzione europea, il cui testo è disponibile in http://conventions.coe.int, è stata ratificata solo da 8 Stati). Nessuno dei due strumenti convenzionali adotta la distinzione tra atti jure imperii e atti jure gestionis, entrambi adottano invece il c.d. metodo della lista, ovvero elencano una serie di attività, prevalentemente commerciali, per le quali lo Stato non può invocare l’immunità. La Convenzione ONU del 2004 stabilisce che lo Stato estero può essere convenuto in giudizio nelle controversie relative ai contratti commerciali (art. 10); ai contratti di lavoro che non implichino l’esercizio di poteri sovrani (art. 11; v. infra, § 2.2); a danni causati a persone o cose da un atto o un’omissione che si sono prodotti, interamente o in parte, sul territorio dello Stato del foro e se l’autore dell’atto o dell’omissione era presente su tale territorio nel momento in cui si è prodotto l’atto o l’omissione (art. 12); alla definizione di diritti di proprietà, di possesso e altri diritti reali (art. 13); alla determinazione di diritti di proprietà intellettuale e industriale (art. 14); in relazione alla partecipazione a società e altri enti associativi (art. 15), e infine per operazioni di navi di Stato utilizzate con fini commerciali (art. 16). Anche alcuni Stati adottano, nella propria legislazione interna in materia di immunità, il metodo della lista: proprio da questi esempi si è preso spunto per la redazione delle norme inserite nella Convenzione ONU del 2004 (si vedano ad esempio il US Foreign Sovereign Immunities Act del 1976, in http://uscode.house.gov e il UK State Immunity Act del 1978, in http://www.legislation.gov.uk).
Cionondimeno, la distinzione tra atti jure imperii e atti jure gestionis mantiene ancora oggi la sua validità per quei paesi che non hanno adottato una normativa interna in materia di immunità degli Stati esteri e che decidono caso per caso interpretando la norma consuetudinaria. Non vi è però omogeneità di vedute sui criteri da utilizzare per distinguere tra atti jure imperii e atti jure gestionis. Secondo alcuni per individuare la categoria di appartenenza di un atto ai fini dell’applicazione della norma sull’immunità si dovrebbe fare riferimento alla “natura” dell'atto, secondo altri invece alla funzione o “scopo” dell’atto. Il risultato cui si perviene è suscettibile di variare a seconda del criterio scelto. Per questa ragione si è optato, in sede di codificazione, per il metodo dell’elenco, che è preferibile ai fini della certezza del diritto poiché riduce il margine interpretativo e la discrezionalità del giudice.
La distinzione tra atti sovrani e atti privati è stata applicata nella giurisprudenza di vari paesi anche ai casi in cui la controversia tra Stati verteva su rapporti di lavoro di dipendenti delle ambasciate o di altri enti o istituti di Stati stranieri aventi sede nello Stato del foro. La giurisprudenza italiana, ad esempio, ha riconosciuto l’immunità allo Stato estero avendo riguardo alle mansioni svolte dal lavoratore e ha riconosciuto l’immunità se queste mansioni implicavano una partecipazione all’esercizio di funzioni sovrane o attività pubblicistiche di tale Stato (si veda, nella stessa direzione, la sentenza della C. eur. dir. uomo, 21.11.2001, Fogarty c. Regno Unito, in Recueil des arrệts et décisions, 2001-XI, par. 33). Tale criterio risulta però talora insoddisfacente a garantire la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori ed è stato abbandonato in favore di criteri più precisi negli strumenti convenzionali. La Convenzione europea del 1972 esclude l’immunità nel caso in cui il lavoratore sia cittadino o residente dello Stato territoriale e qui abbia svolto la propria prestazione lavorativa (art. 5). L’art. 11 della Convenzione ONU del 2004 accoglie come regola generale il criterio del luogo di prestazione dell’attività, ma prevede anche una serie di altre ipotesi nelle quali l’immunità può essere invocata. Nella materia dei rapporti di lavoro si è quindi manifestata una tendenza all’abbandono del criterio tradizionale jure imperii/jure gestionis, ma allo stato attuale non si può ancora sostenere che si sia formata una regola consuetudinaria con un contenuto preciso.
L’immunità dalle misure cautelari o esecutive dei beni degli Stati stranieri è oggetto di autonoma disciplina rispetto all’immunità dalla giurisdizione cognitiva (si veda in particolare Iovane, M., Stato straniero (Immunità dall’esecuzione dello), in Enc. giur. Treccani, Roma, 2001, 1 ss.). La regola generale, anche in questo caso, prevede un’immunità di carattere ristretto, ma si è affermata con notevole ritardo rispetto a quella concernente l’immunità dalla giurisdizione in ragione del fatto che l’esecuzione forzata sui beni arreca agli Stati un pregiudizio maggiore di quello derivante dallo svolgimento di un procedimento cognitivo. Il criterio applicato dai tribunali nella maggior parte dei paesi è quello della distinzione jure imperii/jure gestionis. Gli Stati non possono sottoporre a misure esecutive i beni di Stati esteri che siano destinati allo svolgimento di funzioni pubblicistiche; possono invece procedere all’esecuzione dei beni destinati ad attività private, anche per garantire un più adeguato bilanciamento con la tutela del diritto degli individui ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti o interessi legittimi, come sottolineato dalla Corte costituzionale in riferimento all’art. 24 cost. (C. cost., 15.7.1992, n. 329, Condor e Filvem c. Ministero di Grazia e Giustizia). L’orientamento restrittivo è stato sviluppato dai tribunali italiani e svizzeri a partire dagli anni ’70 del secolo scorso per poi esser adottato anche dai tribunali degli altri paesi europei (per indicazioni sulla giurisprudenza si veda Atteritano, A., Stati stranieri (immunità giurisdizionale degli), Enc. dir., Annali, IV, Milano, 2011, 1127-1147). Il principio dell’immunità dall’esecuzione ristretta ai beni destinati allo svolgimento di funzioni pubblicistiche è stato accolto anche nelle legislazioni statali in materia di immunità e infine nella Convenzione ONU del 2004. Quest’ultima distingue tra immunità dalla giurisdizione cautelare (art. 18) e dalla giurisdizione esecutiva (art. 19).
Lo Stato può rinunciare all’immunità e sottoporsi alla giurisdizione di uno Stato estero. La rinuncia, in via di principio, deve essere espressa (si veda in questo senso l’art. 7 della Convenzione ONU del 2004). Tuttavia va precisato che si ritiene che uno Stato rinunci all’immunità, anche senza dichiararlo espressamente, nel caso in cui agisca in giudizio come attore o intervenga nel merito di una causa senza ribadire il proprio diritto all’immunità o infine nel caso in cui, in qualità di convenuto, presenti domanda riconvenzionale (si veda anche l’art. 9 della Convenzione ONU del 2004). In ogni caso la rinuncia all’immunità dalla giurisdizione non implica anche la contestuale rinuncia all'immunità dalle misure esecutive, che deve essere oggetto di specifica e separata rinuncia.
La questione più dibattuta negli ultimi anni e oggetto di una controversia tra Italia e Repubblica Federale di Germania sottoposta alla Corte internazionale di giustizia è se stia emergendo o meno un’eccezione alla regola sull’immunità dalla giurisdizione quando uno Stato abbia compiuto gravi violazioni di norme di carattere imperativo, in particolare di norme poste a tutela dei diritti umani fondamentali.
La giurisprudenza della Corte di cassazione italiana, a partire dalla sentenza emessa nel caso Ferrini nel 2004 (Cass., S.U., 11.3.2004, n. 5044, Ferrini c. Repubblica federale di Germania, in Riv. dir. int., 2004, 539 ss.) e confermata in una serie di casi successivi, ha negato alla Germania l’immunità dalla giurisdizione per crimini di guerra commessi durante la seconda guerra mondiale sostenendo che l’immunità non poteva trovare applicazione a fatti illeciti che consistevano nella violazione di norme imperative. La Corte di cassazione ha ritenuto applicabile l’eccezione anche relativamente al riconoscimento e all’esecuzione di sentenze straniere. La necessità di introdurre un’eccezione era stata riconosciuta anche da tribunali greci e statunitensi (si vedano i casi riportati da Atteritano, A., Stati stranieri, cit., passim). La possibilità di fare eccezione è stata invece risolutamente negata dalla House of Lords britannica che ha considerato la giurisprudenza italiana come non conforme al diritto consuetudinario vigente (House of Lords, 14.6.2006, Jones v. Ministry of Interior of the Kingdom of Saudi Arabia and others, in ILM, 2006, 992 ss.). La necessità di introdurre un’eccezione all’immunità per violazione di norme di jus cogens è stata motivata in vari modi dalla dottrina e dalle corti interne. Alcuni hanno sostenuto, ad esempio, che il mancato riconoscimento dell'immunità avvenga in questi casi a titolo di contromisura nei confronti dello Stato autore del grave illecito (Ronzitti, N., L'eccezione dello ius cogens alla regola dell'immunità degli Stati dalla giurisdizione è compatibile con la Convenzione delle Nazioni Unite del 2005?, in Accesso alla giustizia dell'individuo nel diritto internazionale e dell'Unione Europea, a cura di F. Francioni, M. Gestri, N. Ronzitti e T. Scovazzi, T., Milano, 2008, 45 ss.). La tesi di gran lunga prevalente è quella che riposa sulla superiorità gerarchica delle norme di jus cogens, che consentirebbe di fare eccezione all’applicazione delle norme in materia di immunità. Questa tesi è stata sostenuta, a partire dal 2004, anche dalla Corte di cassazione italiana che ha sviluppato però un’argomentazione di più ampio respiro: secondo la Corte è necessario far prevalere le norme di jus cogens sulle norme in materia di immunità degli Stati non tanto per pervenire a una meccanica soluzione del conflitto in base a rapporti tra norme di diverso rango, ma con l’obiettivo di garantire un adeguato bilanciamento di valori e di impedire che, in mancanza di rimedi alternativi, le vittime risultino private del diritto di accesso alla giustizia e alla riparazione.
La Corte internazionale di giustizia (con sentenza resa il 2 febbraio 2012: la sentenza e le opinioni separate e dissidenti allegate ad essa sono disponibili in http://www.icj-cij.org) ha però condannato l’orientamento assunto dai tribunali italiani e ha ritenuto l’Italia responsabile di avere violato la norma consuetudinaria in materia di immunità degli Stati dalla giurisdizione cognitiva e esecutiva degli Stati esteri. Secondo la Corte, la prassi e la giurisprudenza dimostrano che la regola che prevede l’immunità dalla giurisdizione degli Stati steri è applicabile anche agli atti jure imperii che costituiscono violazioni gravi dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale umanitario. Non può esser fatta valere una prevalenza gerarchica delle norme di jus cogens, poiché non vi è in realtà conflitto tra norme di carattere sostanziale – come quelle che vietano i crimini internazionali – e norme di carattere procedurale come quella che prevede l’immunità dalla giurisdizione degli Stati esteri. L’esistenza di un conflitto è stata invece riconosciuta sia dall’Institut de Droit International nel 2009 (Resolution on the Immunity from Jurisdiction of the State and of Persons Who Act on Behalf of the State in case of International Crimes, in http://www.idi-iil.org) sia da alcuni autori in dottrina (Cannizzaro, E., A Higher Law for Treaties?, in The Law of Treaties beyond the Vienna Convention, a cura di E. Cannizzaro, Oxford, 2011, 437 ss.). La Corte ha respinto anche la tesi italiana secondo la quale alla Repubblica Federale di Germania non andava concessa l’immunità dalla giurisdizione nei procedimenti relativi ai risarcimenti del danno per morte o lesione alla persona avvenute in territorio italiano in base alla regola del locus commissi delicti o c.d. “tort exception”, prevista anche dall’art. 12 della Convenzione ONU del 2004. La Corte non si è pronunciata in generale sull’esistenza o meno della “tort exception” – peraltro prevista nella legislazione interna di vari Stati – ma ha sostenuto, più specificamente, che il diritto consuetudinario continua ad accordare l’immunità agli Stati per illeciti commessi sul territorio dello Stato del foro da forze armate o da altri organi dello Stato durante i conflitti armati (si veda sul punto l’opinione dissidente allegata alla sentenza dal giudice ad hoc Gaja). La Corte ha infine espresso rammarico rispetto alla mancanza di un rimedio alternativo per le vittime, ma ha ritenuto che questa circostanza non avesse alcuna incidenza sull’applicazione della regola dell’immunità: questo aspetto è stato fortemente criticato da alcuni giudici poiché rischia di condurre a un diniego di giustizia (si vedano le opinioni dissidenti dei giudici Yusuf e Cançado Trindade).
È opinione diffusa che gli organi dello Stato possano beneficiare di due diversi tipi di immunità dalla giurisdizione straniera: immunità di carattere funzionale (ratione materiae) e immunità di carattere personale (ratione personae).
L’immunità funzionale copre le attività svolte dagli organi nell’esercizio delle proprie funzioni e permane dopo la cessazione dalle funzioni. La ratio di questa norma risiede del fatto che le attività svolte in veste ufficiale dagli organi dello Stato sono svolte per conto dello Stato di appartenenza, che è il vero titolare dell’immunità e che può rinunciarvi.
Le immunità personali sono poste a beneficio di alcune specifiche categorie di organi dello Stato in ragione della posizione da questi ricoperta: agenti diplomatici, capi di Stato, capi di governo e ministri degli esteri. Le immunità personali sono molto ampie e coprono ogni tipo di attività svolta dagli organi che ne beneficiano, inclusi gli atti compiuti in veste privata. Si tratta di immunità di carattere temporaneo, di cui gli individui-organi cessano di godere non appena cessano dalla carica. La ragion d’essere di questo tipo di immunità risiede nel principio della “necessità funzionale”, cui spesso si fa riferimento con la formula ne impediatur legatio o ne impediatur officium, vale a dire la necessità che questi organi possano svolgere in piena libertà le loro funzioni, che sono cruciali per il buon andamento delle relazioni internazionali. Le immunità personali includono inviolabilità personale, immunità assoluta dalla giurisdizione penale e ampia immunità dalla giurisdizione civile.
La prassi in materia di esenzione dalla giurisdizione straniera – civile e penale – degli organi statali che hanno agito nell’esercizio delle proprie funzioni è vasta ed eterogenea. E diverse sono le opinioni espresse dalla dottrina sull’esistenza o meno di una norma di carattere generale applicabile a tutti gli organi dello Stato e sul fondamento di tale norma. Gli orientamenti principali sono due (per un’analisi approfondita delle varie tesi formulate in materia si rinvia agli studi che hanno trattato sistematicamente la materia: De Sena, P., Diritto internazionale e immunità funzionale degli organi statali, Milano, 1996; Frulli, M., Immunità e crimini internazionali, Torino, 2007).
La tesi di gran lunga prevalente sostiene l’esistenza di una norma di portata generale che garantisce un’immunità di carattere funzionale dalla giurisdizione straniera a tutti gli organi dello Stato. L’assunto di base è che gli atti compiuti da un organo dello Stato, agente in tale qualità, siano imputabili solo allo Stato e non all’individuo-organo, che quindi non può essere chiamato a risponderne. Secondo tale impostazione, se fosse possibile procedere contro organi stranieri per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni, si finirebbe per aggirare il principio di sovrana eguaglianza degli Stati, per effetto del quale uno Stato non può essere convenuto in giudizio di fronte ai tribunali di un altro Stato. La responsabilità dello Stato per gli atti compiuti dai propri agenti non deve essere fatta valere sul piano interno, ma, se del caso, sul piano internazionale, attraverso gli strumenti per la soluzione delle controversie tra Stati (Kelsen, H., Principles of International Law, London¸ 1952, 235 s.; Morelli, G., Diritto processuale civile internazionale, II ed., Padova, 1954, 201 ss). Secondo questa impostazione – pur da posizioni teoriche assai diverse tra loro – l’immunità funzionale è da intendersi come ostacolo sostanziale all’esercizio della giurisdizione: il comportamento dell’organo è un “atto di Stato” straniero e quindi non riferibile all’individuo che l’ha materialmente posto in essere. La natura sostanziale dell’immunità funzionale spiega la ragione per cui essa si concretizza nell’esenzione dalla giurisdizione degli Stati stranieri dell’individuo-organo che ne beneficia, ma non implica necessariamente l’inviolabilità personale dell’organo, né l’immunità dalle misure coercitive quali l’arresto o la detenzione preventiva finché non si sia accertato che l’individuo agiva in qualità di organo. Le eccezioni all’immunità dalla giurisdizione contemplate sono solitamente due: i casi nei quali l’organo straniero sia sospettato di aver compiuto atti di spionaggio o sabotaggio e i casi nei quali l’organo straniero sia accusato di crimini di guerra.
Secondo una dottrina minoritaria è invece errato fondare l’esame della prassi sull’equazione tra attività compiute in qualità di organo e attività dello Stato: non sempre infatti il trattamento dell’individuo-organo che ha agito nell’esercizio delle funzioni dipende dalla circostanza che questi abbia agito per conto del proprio Stato di appartenenza (De Sena, P., Diritto internazionale, cit., passim; Frulli, M., Immunità, cit., passim). Secondo questa opinione è impossibile ricondurre il fenomeno dell’immunità funzionale a unità e accertare l’esistenza di una norma di portata generale in materia di immunità funzionale applicabile a tutti gli organi statali. Si ritengono invece esistenti norme specifiche, di diverso contenuto e di carattere procedurale, che accordano ad alcune categorie di organi dello Stato il beneficio dell’immunità dalla giurisdizione straniera per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni. La regola sembra piuttosto essere quella che sancisce la libertà degli Stati di esercitare la giurisdizione nei confronti degli organi stranieri, a meno che non siano applicabili, nel caso di specie, norme particolari che accordano all’organo l’immunità dalla giurisdizione straniera.
Alcune categorie di organi dello Stato godono di immunità e privilegi, ivi compresa un’ampia immunità dalla giurisdizione straniera, che sono loro accordati ratione personae, in ragione della posizione che occupano nell’apparato statale. L’immunità ratione personae dalla giurisdizione copre qualsiasi tipo di atto, per tutto il periodo in cui gli organi che ne beneficiano restano in carica. Alcuni organi dello Stato godono al contempo dei due tipi di immunità – funzionale e personale – che si sovrappongono per il periodo nel quale essi rivestono la carica: durante la permanenza in carica l’immunità personale assorbe quella funzionale.
Non è agevole identificare con chiarezza gli organi statali che beneficiano di immunità personali, nonostante si tratti di regole la cui formazione risale agli albori del diritto internazionale moderno. Le norme più chiare e consolidate in materia sono quelle relative agli agenti diplomatici, per i quali le norme che stabiliscono privilegi e immunità sono state codificate nella Convenzione sulle relazioni diplomatiche del 1961 (il testo della Convenzione è reperibile in http://untreaty.un.org). L’agente diplomatico gode anzitutto di immunità assoluta dalla giurisdizione penale e, con alcune eccezioni, di immunità dalla giurisdizione civile e amministrativa (art. 31); egli gode altresì di inviolabilità personale ed è esente dall’obbligo di deporre come testimone. Anche la Convenzione ONU sulle missioni speciali del 1969 (il testo della Convenzione del 1969 è disponibile in http://untreaty.un.org) include alcune norme che prevedono il beneficio dell’immunità personale dalla giurisdizione dello Stato ospite per i membri delle delegazioni statali inviate all’estero in missione speciale, ma essa non ha ottenuto un alto numero di ratifiche ed è dubbio che le norme in essa contenute abbiano acquisito natura consuetudinaria.
Vi sono però ancora incertezze di rilievo rispetto alle altre categorie di organi statali che godono di immunità personali e all’ampiezza delle immunità che li riguardano. L’opinione di gran lunga prevalente in dottrina, anche se formatasi in base a una prassi piuttosto ristretta, è che i capi di Stato, i capi di governo e i ministri degli affari esteri in carica godono di immunità personali, in analogia con gli agenti diplomatici (Watts, A., The Legal Position in International Law of Heads of States, Heads of Governments and Foreign Ministers, in R C, 1994 (III), 9 ss.).
La dottrina è concorde nel ritenere che l’immunità funzionale non possa essere invocata dagli organi dello Stato, ivi inclusi gli organi posti al vertice della gerarchia statale, che sono accusati di aver compiuto gravi crimini internazionali: genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e tortura. L’immunità funzionale non può essere invocata né di fronte a tribunali interni, né di fronte a tribunali penali internazionali.
L’impossibilità di invocare l’immunità funzionale di fronte all’accusa di crimini internazionali è ricostruita come eccezione alla regola generale da coloro che sostengono l’esistenza di tale regola. Coloro che ritengono impossibile ricostruire un regime unitario in materia di immunità funzionale vedono invece la mancata applicazione dell’immunità funzionale come conferma della libertà di esercizio della giurisdizione penale e come eccezione solo nel caso delle specifiche norme immunitarie esistenti. Qualsiasi impostazione teorica si prediliga, la prassi dimostra l’impossibilità per gli organi statali di invocare l’immunità funzionale di fronte all’accusa di crimini internazionali: tutti gli strumenti internazionali, a partire dallo Statuto del Tribunale di Norimberga del 1945, contengono una norma sull’irrilevanza della posizione ufficiale ricoperta dall’organo (art. 7 Statuto di Norimberga, art. IV della Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio (1948), artt. 7 (1) e 6 (2) degli Statuti del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia e del Tribunale penale internazionale per il Ruanda – TPIJ 1993 e TPIR 1994 – e art. 27 (1) dello Statuto della Corte penale internazionale – CPI 2001). Il caso più noto che conferma l’impossibilità di invocare l’immunità dalla giurisdizione penale degli Stati esteri per crimini internazionali è il procedimento di estradizione di Pinochet di fronte alla House of Lords nel 1999. Nel 2002 il dibattito si è riaperto dopo la sentenza della Corte internazionale di giustizia nel caso Mandato d’Arresto (14.2.2002, Repubblica Democratica del Congo c. Belgio, disponibile sul sito internet della Corte alla pagina http://www.icj-cij.org), a causa di un obiter dictum in cui la Corte affermava che i Ministri degli esteri possono esser processati solo per atti privati commessi durante il loro mandato, ma questa posizione è stata ampiamente criticata e non corrisponde alla prassi in materia. Isolata sembra essere quindi la posizione assunta dall’ex Relatore della Commissione di diritto internazionale dell’ONU, Kolodkin, che nei suoi primi rapporti dedicati al tema delle immunità degli organi dello Stato dalla giurisdizione straniera ha sostenuto che l’impossibilità di invocare l’immunità funzionale di fronte all’accusa di gravi crimini internazionali non corrisponde al diritto consuetudinario (i rapporti sono disponibili sul sito internet della CDI alla pagina http://untreaty.un.org).
Il discorso cambia quando gli organi sospettati di avere compiuto gravi crimini internazionali beneficiano di immunità personali. La prassi dimostra ampiamente che i tribunali interni continuano ad applicare le norme in materia di immunità personale anche quando un organo straniero è sospettato di gravi crimini internazionali (si vedano i casi citati da Frulli, M., Immunità, cit., cap. V). Sul punto si è pronunciata la Corte internazionale di giustizia nel caso Mandato d’Arresto, in riferimento ai ministri degli esteri, sostenendo che questi beneficiano, finché in carica, di immunità assoluta dalla giurisdizione penale. I tribunali penali internazionali invece hanno ritenuto di poter esercitare la propria giurisdizione anche nei confronti di organi statali beneficiari di immunità personali, ivi compresi capi di Stato in carica. Il TPIJ, ad esempio, incriminò Milosević quando era ancora Capo di Stato in carica e la Corte Speciale per la Sierra Leone incriminò Taylor quando era ancora Presidente della Liberia. L’art. 27 (2) dello Statuto della CPI rimuove la possibilità di invocare le immunità personali di fronte alla Corte. Tale norma pone però problemi di attuazione quando è in gioco il rispetto dell’immunità personale degli organi di Stati che non hanno aderito allo Statuto della CPI, come dimostra la vicenda del mandato d’arresto spiccato nei confronti del Presidente del Sudan, Omar Al-Bahsir, e non ancora eseguito (Cimiotta, E., Immunità personali dei Capi di Stato dalla giurisdizione della Corte penale internazionale e responsabilità statale per gravi illeciti internazionali, in Riv. dir. int, 2011, 1083 ss.).
Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, del 2 dicembre 2004.
Atteritano, A., Stati stranieri (immunità giurisdizionale degli), Enc. dir., Annali, IV, Milano, 2011, 1127-1147; Cannizzaro, E.-Bonafé, B.I., Of Rights and Remedies: Sovereign Immunity and Fundamental Human Rights, in From Bilateralism to Community Interest: Essays in Honour of Judge Bruno Simma, Oxford, 2011, 825-842; Cimiotta, E., Immunità personali dei capi di stato dalla giurisdizione della Corte penale internazionale e responsabilità statale per gravi illeciti internazionali, in Riv. dir. int., 2011, 1083-1175; De Sena, P., Diritto internazionale e immunità funzionale degli organi statali, Milano, 1996; Frulli, M., Immunità e crimini internazionali: l’esercizio della giurisdizione penale e civile nei confronti degli organi statali sospettati di gravi crimini internazionali, Torino, 2007; Gaeta, P., Immunity of States and State Officials: a Major Stumbling Block to Judicial Scrutiny?, in Realizing Utopia : the Future of International Law, a cura di A. Cassese, Oxford, 2012; Iovane, M., Stato straniero (Immunità dall’esecuzione dello), in Enc. giur. Treccani, Roma, 2001, 1 ss.; Ronzitti, N.-Venturini G., a cura di, Le immunità giurisdizionali degli stati e degli altri enti internazionali, Padova, 2008; Fox, H., The Law of State Immunity, II ed., Oxford, 2008; Sbolci, L., Immunità giurisdizionale degli Stati stranieri, in D. disc. pubbl.,VIII, 1993, 118 ss.; Van Alebeek, R., The Immunity of States and Their Officials in International Criminal Law and International Human Rights Law, Oxford, 2008; Watts, A., The Legal Position in International Law of Heads of States, Heads of Governments and Foreign Ministers, in R C, 1994 (III), 9 ss.