IMMUNITÀ
(XVIII, p. 893; App. II, II, p. 8; III, I, p. 844; IV, II, p. 155)
L'i. o resistenza dell'individuo verso le malattie infettive risulta dalla risposta dell'organismo contro l'invasione di agenti patogeni. Il concetto di i. ha origini antichissime, risalendo all'osservazione (Tucidide) che coloro che sopravvivono a una malattia infettiva raramente contraggono di nuovo la stessa malattia. L'analisi dei meccanismi dell'i. ha rivelato che nei vertebrati la risposta difensiva dell'organismo consiste in un processo adattativo estremamente versatile nel quale stimoli efficaci inducono la produzione di cellule e proteine reattive a una varietà pressoché illimitata di strutture molecolari. Lo studio dei fenomeni immunitari e delle possibili applicazioni in medicina costituisce l'immunologia, una disciplina biomedica nata alla fine del 1800, sviluppatasi gradualmente nella prima metà del 1900 e in rapida evoluzione durante la seconda metà del secolo. Nell'ultimo decennio, le ricerche immunologiche hanno chiarito alcuni processi fondamentali dell'i. e identificato le maggiori componenti molecolari, genetiche e cellulari del sistema immunitario. Inoltre, l'immunologia sta dimostrando, in modo sempre più convincente, l'esistenza di interazioni fra il sistema immunitario e i sistemi nervoso ed endocrino nel corso della risposta immunitaria.
Antigeni. − Gli antigeni sono strutture che il sistema immunitario può riconoscere specificamente mediante cellule e molecole solubili. Nella definizione di antigene bisogna distinguere due aspetti: l'immunogenicità, cioè la capacità di indurre una risposta immune, mediante l'attivazione di cellule T e cellule B; l'antigenicità, cioè la capacità di reagire con recettori delle cellule T e loro prodotti solubili e con recettori delle cellule B e anticorpi. Pertanto, ogni struttura immunogenica è anche antigenica ma non tutti gli antigeni sono immunogeni. Strutture relativamente complesse sono provviste di entrambe queste caratteristiche mentre alcune sostanze semplici (apteni) hanno capacità ligante (antigenicità) ma non sono immunogeni.
Gli apteni acquisiscono la proprietà immunogenica se vengono coniugati a un supporto (carrier) più complesso. Per es., il dinitrofenile (dinitrophenyl, DNP) non induce formazione di anticorpi o ipersensibilità di tipo ritardato, anche quando è iniettato in presenza di adiuvanti (sostanze che favoriscono la risposta immunitaria). Se il DNP è coniugato a un carrier, per es. albumina di siero di bue (Bovine Serum Albumin, BSA), l'iniezione del coniugato può indurre la formazione di anticorpi capaci di legarsi specificamente a DNP. Questo legame può essere evidenziato se l'aptene viene coniugato a un supporto precipitabile o agglutinabile perché l'anticorpo anti-DNP provocherà precipitazione o agglutinazione. L'una o l'altra reazione può essere inibita specificamente dall'aggiunta di aptene solubile in concentrazione tale da saturare i siti combinatori dell'anticorpo.
Gli antigeni sono costituiti da determinanti antigenici o epitopi. La dimensione degli epitopi direttamente coinvolti nel legame con gli anticorpi è stata studiata con varie tecniche, ed è di circa 15÷30 Å. Lo studio dell'effetto inibitorio di oligosaccaridi del glucosio con diverso grado di polimerizzazione sulla reazione del destrano (un polimero del glucosio) con anticorpi antidestrano ha dimostrato che in questo caso l'epitopo è costituito da 6 residui di glucosio. Lo studio dell'interazione fra anticorpi monoclonali ed epitopi della molecola di lisozima mediante cristallografia a raggi X ha dimostrato che il legame antigene-anticorpo coinvolge 17 residui aminoacidici della molecola di lisozima e 16 residui aminoacidici delle regioni variabili della catena leggera e pesante dell'anticorpo. Alcuni risultati di queste ricerche sono riportati in tab. 1. La valenza dell'antigene, cioè il numero di epitopi, fra loro uguali o diversi, per molecola di antigene corrisponde al massimo numero di molecole di anticorpi che si possono legare a una molecola di antigene. Poiché gli anticorpi possiedono almeno due siti combinatori, la valenza dell'antigene è almeno il doppio del rapporto molare anticorpi: antigene nell'immunocomplesso ottenuto in eccesso di anticorpi. Per gli antigeni proteici la valenza tende ad aumentare con il peso molecolare dell'antigene, pur con qualche eccezione. La valenza è generalmente una sottostima del numero di molecole anticorpali che si possono combinare con una molecola di antigene perché, se gli epitopi sono fra loro troppo vicini, il numero di anticorpi che effettivamente si combinano è minore di quello teorico per impedimento sterico. Inoltre, la valenza dipende dall'affinità degli anticorpi per i diversi epitopi, in quanto antisieri ottenuti dopo lunghi intervalli di tempo dall'immunizzazione formano complessi con crescente rapporto molare anticorpi:antigene.
Gli antisieri che contengono una miscela di anticorpi specifici per diversi epitopi possono essere resi specifici per un singolo epitopo mediante adsorbimento. Se un immunogeno A possiede due epitopi diversi, 1 e 2, esso può indurre la formazione di anticorpi specifici per ciascun epitopo, anti-1 e anti-2. Questi anticorpi possono essere completamente adsorbiti dall'antigene A se l'antisiero è stato incubato con un eccesso di questo antigene. L'incubazione dello stesso antisiero con un eccesso di antigene B, provvisto di epitopi 2 e 3, consentirà l'adsorbimento degli anticorpi anti-2 ma non degli anticorpi anti-1. Con questa tecnica di adsorbimento specifico si mette in evidenza che gli antigeni A e B sono cross-reagenti o parzialmente identici poiché possiedono un epitopo, il 2, in comune. L'antigene A, usato come immunogeno, è denominato omologo, l'antigene B eterologo. La reazione crociata fra due antigeni può anche risultare dalla somiglianza strutturale fra due epitopi. Se gli epitopi crossreagenti fossero molto simili l'adsorbimento dell'antisiero con un eccesso di antigene eterologo potrebbe rimuovere tutti gli anticorpi.
Nelle proteine, che rappresentano la maggior parte degli antigeni, si possono distinguere due tipi di epitopi: segmentali e assemblati. Un epitopo segmentale (continuo) è interamente contenuto in una sequenza continua di residui aminoacidici mentre un determinante assemblato (discontinuo) è formato da residui distanti nella sequenza primaria ma riuniti topograficamente nella struttura terziaria della proteina.
Le cellule T e le cellule B riconoscono l'antigene in maniera fondamentalmente diversa. Mentre i recettori delle cellule B e gli anticorpi (da qui in poi usati come sinonimi) riconoscono l'antigene solubile, i recettori delle cellule T riconoscono l'antigene in associazione con molecole codificate dal complesso maggiore di istocompatibilità (Major Histocompatibility Complex, MHC). Il riconoscimento dell'antigene da parte delle cellule T non è quindi diretto, come negli anticorpi, ma avviene dopo interiorizzazione e degradazione nelle cellule capaci di presentare l'antigene (macrofagi e cellule B) che esprimono poi sulla membrana alcuni frammenti polipeptidici dell'antigene associati a molecole MHC. Questo diverso meccanismo di riconoscimento spiega perché i determinanti riconosciuti dagli anticorpi sono soprattutto quelli assemblati, in quanto gli anticorpi riconoscono proteine non denaturate, mentre i determinanti antigenici riconosciuti dalle cellule T sono, in gran parte dei casi, segmentali, in quanto le cellule T vengono attivate da peptidi relativamente piccoli (10÷15 residui) derivati dalla frammentazione enzimatica dell'antigene.
Tutta la superficie accessibile dell'antigene può essere immunogenica. Quindi la superficie esterna, per es. delle proteine, forma una continuità di determinanti antigenici. Alcuni determinanti, sia per caratteristiche intrinseche dell'antigene che per caratteristiche proprie dell'individuo immunizzato, possono essere immunodominanti, cioè rappresentare epitopi riconosciuti dalle cellule T o da anticorpi indotti dall'immunizzazione con l'intera proteina.
L'interesse nell'analisi di determinanti potenzialmente immunogenici e antigenici deriva, in gran parte, dai recenti progressi nella preparazione di vaccini sintetici. La definizione di regole generali che permettano di identificare, sulla base della sequenza aminoacidica, un epitopo immunogenico o immunodominante, non è, allo stato attuale delle conoscenze, totalmente soddisfacente ma, utilizzando una combinazione di metodi predittivi, è possibile nel 60÷70% dei casi selezionare sequenze con le caratteristiche richieste e preparare quindi efficaci immunogeni sintetici. Le più importanti caratteristiche molecolari dell'antigene, utili per predire determinanti immunogenici e antigenici, sono: accessibilità, idrofilicità, mobilità e anfipaticità.
Accessibilità. − I determinanti antigenici devono essere esposti sulla superficie dell'antigene, per es. di una proteina, per poter essere riconosciuti dagli anticorpi. Studi con anticorpi monoclonali hanno dimostrato che la superficie della neuraminidasi dell'influenza è composta da una serie continua di epitopi mentre non sono stati rivelati anticorpi diretti contro determinanti contenuti all'interno della molecola. L'esposizione degli epitopi sulla superficie dell'antigene è meno stringente per quanto riguarda gli epitopi riconosciuti dalle cellule T in quanto l'antigene, prima di essere presentato nel contesto di molecole MHC, viene frammentato permettendo così l'induzione della risposta contro siti non esposti sulla proteina nativa.
L'analisi dell'accessibilità dipende comunque dalla conoscenza della struttura tridimensionale della proteina basata sulla cristallografia a raggi X ed è quindi utilizzabile solo per poche proteine.
Idrofilicità. − Proteine globulari solubili, per essere stabili in un solvente acquoso, mantengono la conformazione nativa interiorizzando i residui idrofobici ed esponendo sulla superficie i residui idrofilici.
È quindi possibile predire determinanti antigenici sulla base della sequenza aminoacidica determinandone i residui più idrofilici sulla base di scale correlate alla solubilità in acqua dei singoli aminoacidi. In questo modo Hopp e Woods hanno predetto un determinante antigenico del virus B dell'epatite e verificato sperimentalmente la sua esistenza. Questo metodo può essere utilizzato per tutte le proteine di cui si conosca la sequenza aminoacidica e nella maggior parte dei casi i tre picchi più elevati di idrofilicità corrispondono a residui aminoacidici riconosciuti da anticorpi. Questo tipo di osservazioni ha permesso alcune generalizzazioni utili per predire immunogenicità e antigenicità. Anche se i profili di idrofilicità non vengono solitamente utilizzati per valutare strutture di tipo secondario, essi forniscono utili informazioni sul grado di esposizione al solvente di queste strutture delle proteine. I picchi di idrofilicità quindi corrispondono a residui di superficie o a ripiegamenti della catena polipeptidica che sono localizzati sulla superficie esterna delle proteine.
Un notevole vantaggio della localizzazione di determinanti potenzialmente immunogenici e antigenici sulla base dell'idrofilicità è che la sua determinazione richiede soltanto la conoscenza della sequenza aminoacidica e non di quella tridimensionale di una proteina. I profili di idrofilicità possono essere utilizzati per predire determinanti antigenici riconosciuti sia da anticorpi che da cellule T in quanto, in generale, i picchi di idrofilicità rappresentano siti di interazione fra proteine, quindi fra antigene e anticorpo, e fra antigene, molecole MHC e recettore delle cellule T.
Mobilità. - La mobilità di una proteina, cioè il grado di mobilità dei singoli atomi in una struttura cristallina, viene calcolata da fattori di temperatura ottenuti mediante cristallografia a raggi X ad alta risoluzione ed è quindi disponibile solo per poche proteine. Il rapporto fra mobilità e determinanti antigenici è stato analizzato esaminando la mobilità termica dei siti legati da anticorpi anti-proteina. Con questo metodo si possono analizzare solo determinanti segmentali e non determinanti assemblati, che rappresentano la maggioranza degli epitopi riconosciuti dagli anticorpi. La mobilità di sequenze aminoacidiche in una proteina è importante non solo per l'immunogenicità ma anche per determinare la reattività di anticorpi anti-peptide con la molecola nativa. Ciò è di fondamentale importanza per la selezione di peptidi sintetici da usare come vaccini, in quanto è necessario che anticorpi anti-peptide riconoscano la molecola naturale, per es. un virus, da cui il peptide è stato ottenuto.
Lo studio della mobilità dei determinanti antigenici contribuisce anche a comprendere come il sistema immunitario possa riconoscerne la grandissima varietà. La specificità dei linfociti T e B è preesistente all'incontro con l'antigene e questo è in grado di attivare solo i linfociti che hanno recettori con siti combinatori complementari a un determinato epitopo. Poiché, nonostante la grande diversità dei siti combinatori (108÷109), è improbabile che questi siano in grado di legare tutti i determinanti in tutte le possibili conformazioni, la flessibilità delle proteine può rendere possibile un legame efficace anche in assenza di assoluta complementarietà, espandendo così il repertorio delle specificità riconosciute e riducendo quello delle affinità di legame.
Anfipaticità. - Mentre le caratteristiche di accessibilità, idrofilicità e mobilità sono state originariamente definite sulla base della reattività degli anticorpi con l'antigene, e poi applicate all'interazione fra recettore delle cellule T e antigene, l'anfipaticità è una caratteristica fisicochimica dell'antigene utilizzata esclusivamente per predire siti antigenici specifici per i linfociti T.
Come già ricordato, l'antigene viene riconosciuto in maniera molto diversa da cellule T e B. Le cellule T non distinguono la struttura terziaria delle proteine, cioè reagiscono ugualmente bene sia con proteine nella conformazione nativa che con proteine denaturate, mentre le cellule B riconoscono con molta precisione la struttura terziaria delle proteine. Ciò è dovuto al fatto che le cellule T riconoscono, in associazione a molecole MHC, soltanto brevi frammenti dell'antigene che è stato degradato enzimaticamente e ha quindi perduto la conformazione tridimensionale originaria. Sulla base di queste osservazioni è stato proposto che i determinanti immunogenici e antigenici per cellule T siano costituiti da due facce opposte formate da residui ordinati in una struttura secondaria: una contenente residui idrofobici, capaci di mediare l'interazione con le molecole MHC, l'altra contenente residui idrofilici capaci di interagire con il recettore T. Secondo questa ipotesi una delle caratteristiche dei determinanti antigenici riconosciuti dalle cellule T sembra consistere nella capacità dell'antigene di formare strutture anfipatiche stabili in cui residui idrofobici e idrofilici siano disposti su facce opposte. Quindi la frammentazione dell'antigene da parte degli enzimi lisosomiali contenuti nelle cellule capaci di presentare l'antigene potrebbe selezionare regioni anfipatiche dell'antigene esponendo residui idrofobici normalmente assenti dalla superficie di una proteina e rendendoli disponibili per l'interazione con le molecole MHC. Una caratteristica molto interessante di questi residui idrofobici è la loro periodicità che corrisponde a quella di una α−elica, una struttura secondaria con una periodicità di 3,6 residui/giro. Infatti, i determinanti antigenici riconosciuti dalle cellule T non sarebbero definiti dalla struttura secondaria nativa ma dalla capacità di un segmento peptidico di formare una struttura di tipo α−elica, indotta e stabilizzata dall'ambiente anfipatico della membrana citoplasmatica della cellula che presenta l'antigene. In conclusione, tutta la superficie accessibile di una proteina può essere antigenica ed è possibile predire, sulla base dell'accessibilità, idrofilicità, mobilità e anfipaticità, sequenze aminoacidiche preferenzialmente riconosciute dagli anticorpi o dai recettori delle cellule T. Inoltre, la mobilità può essere utile per predire determinanti segmentali che corrispondono a peptidi in grado di indurre anticorpi capaci di riconoscere l'epitopo immunogenico nella molecola di antigene allo stato nativo.
Queste caratteristiche intrinseche dell'antigene determinano il repertorio dei potenziali epitopi, ma vari fattori propri dell'individuo immunizzato sono critici per determinare l'effettiva immunogenicità e antigenicità di un epitopo. Fra questi i più importanti condizionano la tolleranza al self, la regolazione mediata dai geni della risposta immune, la specificità delle cellule T cooperanti e soppressorie, la presentazione dell'antigene e il network idiotipico.
Gli antigeni possono essere classificati in:
a) antigeni naturali: sono sostanze complesse presenti in microrganismi (virus e batteri) e in cellule animali (eritrociti, leucociti, cellule tumorali). Alcune sono strutture costitutive della membrana cellulare, altre, quali le proteine, sono prodotti cellulari che possono essere secreti in forma solubile. Oltre alle proteine, altri costituenti degli antigeni naturali sono polisaccaridi, lipidi e acidi nucleici.
b) antigeni artificiali: si ottengono modificando la struttura di antigeni naturali, per es. coniugando apteni a proteine. Molecole aptene-carrier ottenute in questo modo sono usate molto spesso in immunologia sperimentale e gli apteni più comunemente utilizzati sono quelli derivati dal benzene, per es. il nitrofenile (nitrophenyl, NP), DNP e trinitrofenile (trinitrophenyl, TNP).
c) antigeni sintetici: sono stati usati sia sotto forma di polimeri di aminoacidi che di polipeptidi sintetici desunti dalla sequenza di una proteina naturale, per definire le caratteristiche chimiche che determinano l'antigenicità (tab. 2) e per studiare il controllo della risposta immunitaria. I polipeptidi sintetici rappresentano fedelmente la struttura primaria della molecola da cui sono desunti e sono estremamente utili per mappare gli epitopi riconosciuti dalle cellule T, in quanto possono ristimolare cloni o ibridomi T indotti dalla proteina nativa. Al contrario, i peptidi sintetici non reagiscono con anticorpi antiproteina in quanto l'epitopo riconosciuto dagli anticorpi è solitamente un determinante assemblato formato da residui che sono molto distanti nella sequenza aminoacidica. I peptidi possono essere invece utilizzati come immunogeni per indurre anticorpi anti-peptide che siano in grado di reagire anche con la proteina nativa, cioè che riconoscano un determinante segmentale sia esso contenuto nella sequenza di un polipeptide sintetico o nella proteina nativa. La possibilità di ottenere questi anticorpi rappresenta la base teorica per lo sviluppo dei vaccini sintetici (v. vaccino, in questa Appendice).
Per i superantigeni, v. superantigeni, in questa Appendice.
Anticorpi. − Gli anticorpi sono immunoglobuline (Ig) prodotte dai linfociti B e dalle plasmacellule. Tutte le Ig sono costituite da un'unità fondamentale formata da due catene H e due catene L unite da ponti S-S. Questa unità possiede due siti combinatori per l'antigene.
Ogni catena H ed L contiene una serie di segmenti o campi (domains) di 110 aminoacidi. Le catene L, di cui esistono i tipi k e λ, possiedono due campi, di cui l'uno nella regione variabile (V) l'altro nella regione costante (C). Le catene H di tutte le Ig possiedono un campo nella regione V e 3÷4 campi nella regione C dei diversi isotipi (IgG, IgM, IgA, IgD, IgE). Fra il primo e secondo campo delle regioni Cγ, Cα, e Cδ, ma non delle regioni Cμ e Cε, esiste una regione cerniera (hinge region) che conferisce flessibilità alle catene H e, quindi, mobilità ai siti combinatori che appartengono alla stessa unità. Nelle regioni V delle catene H ed L esistono parti ipervariabili, denominate anche regioni determinanti la complementarietà (Complementarity-Determining Region, CDR) perché sono direttamente coinvolte nella formazione del sito combinatorio, e parti relativamente invarianti, denominate anche cornici (framework, FR), localizzate fra le CDR. Nelle catene L esistono 3 CDR mentre nelle catene H ne esistono 4 di cui la terza (posizione 81-85) non partecipa alla formazione del sito combinatorio. In base alle similarità delle sequenze FR, le regioni VL (Vk e Vλ) e le regioni VH sono state classificate in sottogruppi sia nel topo che nell'uomo. L'analisi cristallografica a raggi X ha dimostrato che il sito combinatorio per l'antigene è una fessura circondata da residui aminoacidici delle CDR delle catene H ed L lunga circa 16 ], larga 7÷10 ] e profonda 10÷30 ]. Le dimensioni e la forma del sito combinatorio variano in rapporto alla sequenza aminoacidica VH e VL e all'arrangiamento tridimensionale delle due catene. La specificità dell'interazione antigene-anticorpo dipende dalla complementarietà molecolare fra determinante antigenico e residui aminoacidici del sito combinatorio. Nel caso dell'interazione fra vitamina K1 e la proteina mielomatosa MOPC 603, in cui il contatto antigene-anticorpo coinvolge regioni idrofobiche dell'aptene e catene laterali idrofobiche dei residui aminoacidici che formano il sito combinatorio, l'energia di legame dipende soprattutto da legami idrofobici. In altri casi, altri tipi di legami non covalenti (legame idrogeno, forze di van der Waals, legami ionici) possono avere un ruolo predominante in relazione alla natura chimica del determinante antigenico e ai residui aminoacidici che formano il sito combinatorio.
L'elevata specificità del sito combinatorio, dovuta all'unicità delle regioni VH e VL che lo compongono, conferisce a queste strutture la proprietà di esprimere determinanti antigenici che possono essere riconosciuti da cellule B e T dello stesso individuo. Tali determinanti sono denominati idiotopi e nel loro insieme costituiscono l'idiotipo di un anticorpo specifico per un particolare determinante antigenico. Alcuni idiotopi sono associati a uno o più aminoacidi delle CDR, altri sono meno direttamente dipendenti dal sito combinatorio. Se la sequenza aminoacidica che definisce un idiotopo origina da mutazione somatica, è verosimile che quel particolare idiotopo sia presente esclusivamente su anticorpi di un solo individuo. Questi idiotopi privati caratterizzano gli idiotipi individuali (IdI). Se invece la sequenza che determina un idiotopo proviene da un gene presente nella linea germinale di un individuo, è probabile che questo idiotopo sia presente anche in altri individui che esprimono lo stesso gene, per es. topi dello stesso ceppo. Questi idiotopi ereditari, pubblici, costituiscono gli idiotipi cross-reattivi (IdX).
Spesso i geni VH per l'idiotipo sono ereditati in associazione (linkage) con i geni CH per l'allotipo, dimostrando che geni V e C si trovano sullo stesso cromosoma. Esistono casi, tuttavia, in cui un IdX non è associato allo stesso allotipo ma è espresso, per es. in tutti i ceppi di topi esaminati. Un'altra variante della definizione di IdX (già riferito a idiotipi di anticorpi prodotti da più individui, geneticamente identici o diversi, di una specie e diretti contro un singolo determinante antigenico) è rappresentata dall'esistenza dello stesso idiotipo in anticorpi prodotti da un singolo individuo o da individui diversi ma diretti contro antigeni non identici (paradosso di Cazenave e Oudin).
Nel corso della risposta anticorpale si può osservare che un determinato idiotipo è associato prima ad anticorpi IgM e poi ad anticorpi IgG. Quindi, a livello clonale, geni VH inizialmente associati a geni Cμ possono traslocare e associarsi a geni Cγ dello stesso cromosoma. L'ipotesi della traslocazione è sostenuta dall'osservazione che in rari pazienti mielomatosi lo stesso idiotipo è associato contemporaneamente a due isotipi diversi (IgM e IgG, IgG e IgA). Analogamente, recettori IgM e IgD presenti sulla membrana dello stesso linfocita B esprimono lo stesso idiotipo. Dopo attivazione, la stessa cellula B può produrre anticorpi IgM e poi IgG o IgA o IgE, tutti con specificità per lo stesso determinante antigenico. Il cambiamento di isotipo nella cellula B (switch) è regolato dall'azione dei linfociti T. Nel topo, IL-4 prodotta dalle cellule T regola la sintesi di IgG1 e IgE mentre l'interferone γ (IFN-γ) controlla la produzione di IgG2a. L'azione regolatoria di queste linfochine è a livello genico.
La molecola anticorpale è codificata da tre famiglie indipendenti di geni. La famiglia k contiene i geni Vk, Jk e Ck (cromosoma 6 nel topo, 2 nell'uomo). La famiglia λ contiene i geni Vλ, Jλ e Cλ (cromosoma 16 nel topo, 22 nell'uomo). La famiglia H contiene i geni VH, DH, JH e CH (cromosoma 12 nel topo, 14 nell'uomo). Gli esperimenti di S. Tonegawa hanno dimostrato che, come previsto dall'ipotesi di Dreyer e Bennet "due geni-una catena polipeptidica", ciascuna catena H ed L è codificata da geni V e C fisicamente separati nel DNA di cellule della linea germinale e successivamente traslocati l'uno accanto all'altro nel DNA dei linfociti B e delle plasmacellule.
L'organizzazione dei geni codificanti la sintesi delle catene K è la seguente:
a) Il gene Vk codifica i primi 95 aa e il gene Jk gli ultimi 12 aa della regione V. Esistono centinaia di geni Vk e cinque geni Jk di cui uno è inattivo. Quando avviene la traslocazione un gene Vk si mette in diretto contatto con un gene Jk che rimane a una distanza fissa dal gene Ck codificante i 107 aa della regione C. Rimangono quindi introni fra i geni Jk non associati a Vk e fra il gene Jk e il gene Ck.
b) Tutti gli esoni e introni sono trascritti in RNA e, dopo eliminazione enzimatica dei trascritti degli introni, si forma un mRNA in cui i trascritti VJC, che sono stati congiunti (splicing), si trovano adiacenti. L'organizzazione dei geni per la catena λ è simile a quella dei geni k. Si conoscono nel topo 2 geni Vλ, 4 Jλ (6 nell'uomo) ampiamente separati nelle cellule embrionali ma distribuiti in modo che ciascun gene Vλ è intercalato fra gruppi di coppie di geni associati Jλ e Cλ. Le catene H sono codificate da geni organizzati come quelli per le catene L. Si conoscono tre tipi di geni: nel topo un centinaio di geni VH, almeno 12 geni DH, 4 geni JH e 8 geni CH. L'eterogeneità è quindi maggiore per le catene H che per le catene L, anche per la presenza di regioni N fra V e D e fra D e J. Poiché nel topo l'ordine da 5′ a 3′ dei geni CH è: Cμ, Cδ, Cγ3, Cγ1, Cγ2b, Cγ2a, Cε, Cα, è probabile che dopo traslocazione vengano prima trascritti gli esoni VDJ, Cμ, e Cδ e gli introni intercalati fra questi esoni. Per le Ig di membrana vengono trascritti anche i geni M in 3′ rispetto a Cμ e Cδ. Il fenomeno dello splicing può spiegare la formazione di mRNA per IgM e IgD, sia di membrana che secrete. Per l'organizzazione dei geni che codificano IgG, IgE e IgA, il segmento VDJ, già in posizione 5′ rispetto a Cμ, viene traslocato in 5′ rispetto a Cγ, Cε o Cα. Infatti, sono state identificate sequenze caratteristiche, dove avviene la traslocazione, in 5′ rispetto ai geni CH (a eccezione di Cδ) e denominate S da switch.
L'assenza di molecole Ig ibride in cellule B indica che uno solo dei due cromosomi omologhi è attivo (esclusione allelica). Questo fenomeno potrebbe risultare dalla traslocazione dei geni solo in un cromosoma. Tuttavia è stato frequentemente osservato che la traslocazione avviene in ambedue i cromosomi omologhi. In questi casi, però, il riarrangiamento genico in un cromosoma è abortivo e non conduce a sintesi di Ig oppure comporta la sintesi di molecole incomplete che non vengono espresse dalla cellula. Non deve essere esclusa la possibilità che in alcune, forse molte, cellule B ambedue i cromosomi omologhi siano improduttivi. In cellule B umane e murine la traslocazione dei geni k precede quella dei geni λ. Se la prima traslocazione è produttiva, la cellula sintetizza solo Ig di tipo K. Se, al contrario, la traslocazione k è abortiva, la cellula attiva i geni λ.
Il fatto che la cellula B produca anticorpi di una sola specificità per l'antigene ha reso possibile un metodo che consente di produrre anticorpi omogenei o monoclonali in quantità illimitate. La fusione di cellule B attivate con plasmacitomi porta alla formazione di ibridi cellulari somatici (ibridomi). Gli ibridomi crescono in coltura come i plasmacitomi e producono grandi quantità di Ig codificate dai geni della cellula B normale fusa con il plasmacitoma. Solitamente i plasmacitomi usati nelle fusioni hanno perduto i geni Ig così che le sole Ig prodotte sono quelle della cellula B dell'ibridoma. L'applicazione degli anticorpi monoclonali in biologia e medicina è molto utile per scopi analitici, preparativi, diagnostici e terapeutici.
Sistema immunitario. - Il sistema immunitario è costituito da organi e tessuti linfatici le cui cellule partecipano, direttamente o indirettamente, alla risposta immunitaria. Si distinguono organi e tessuti linfatici primari o centrali (timo, midollo osseo e, negli uccelli, la borsa di Fabrizio) dove avviene la maturazione dei linfociti, e organi e tessuti linfatici secondari o periferici (milza, linfonodi, placche di Peyer e tonsille) dove avviene la maggior parte delle reazioni immunitarie. Le cellule mobili del sistema immunitario migrano negli organi e tessuti linfatici attraverso la circolazione sanguigna e linfatica.
I tipi principali di cellule del sistema immunitario sono i linfociti, granulociti e monociti-macrofagi. Oltre a queste cellule con funzioni effettrici o regolatorie, le cellule dendritiche e le epiteliali del timo hanno un ruolo importante nella selezione del repertorio dei linfociti T.
Ogni linfocita è specializzato a rispondere a un gruppo limitato di antigeni strutturalmente simili. Questa capacità dei linfociti è acquisita prima dell'immunizzazione ed è mediata da recettori di membrana che riconoscono specificamente i determinanti dell'antigene. Ogni linfocita, e il clone che ne deriva, possiede recettori con siti combinatori della stessa specificità. Ne consegue che, per es. nell'uomo adulto, la capacità del sistema immunitario di rispondere a qualsiasi antigene risiede nella disponibilità di linfociti con almeno 106 siti combinatori di diversa specificità. Oltre che per l'eterogeneità dei recettori i linfociti differiscono per le funzioni: i linfociti B sono precursori delle cellule che producono anticorpi; i linfociti T sono citotossici (Tc) o regolatori, in quanto possono ampliare (Th, cellule T helper) o sopprimere (Ts, cellule T suppressor) la risposta immune, oppure sono coinvolti nelle reazioni di ipersensibilità di tipo ritardato. Altri linfociti effettori che manifestano citotossicità non specifica sono le cellule NK (Natural Killer) e le cellule coinvolte nella ADCC (Antibody-Dependent Cellular Cytotoxicity).
Negli organi linfatici centrali avviene la maturazione delle cellule staminali in linfociti che, migrati nei tessuti linfatici periferici, rispondono alla stimolazione antigenica differenziandosi in cellule effettrici o regolatrici della risposta immunitaria.
Linfociti B. - Utilizzando gli isotipi delle Ig nella forma citoplasmatica, di membrana (mIg) e secretoria (sIg) come marcatori dei linfociti B, si possono distinguere i seguenti stati differenziativi: cellule pre-B, cellule B immature, cellule B mature, cellule B attivate e plasmacellule (tab. 3). L'attivazione delle cellule B può avvenire secondo due meccanismi: a) due o più determinanti identici dello stesso antigene si combinano con i recettori e ne inducono l'aggregazione (cross-linkage) che attiva la cellula B; b) un singolo determinante antigenico combinatosi con un recettore viene interiorizzato e degradato dalla cellula B. Alcuni peptidi dell'antigene sono riespressi sulla membrana della cellula B in associazione con molecole MHC di classe II. Questo complesso viene riconosciuto dal recettore di una cellula Th che, così stimolata, attiva la cellula B mediante il contatto cellulare diretto o l'azione locale di fattori solubili prodotti dalla cellula Th. L'attivazione della cellula B richiede anche la presenza di IL-4 (v. oltre) mentre la proliferazione della cellula B attivata dipende dalla presenza di IL-5 e altri fattori di crescita. La successiva differenziazione della cellula B a produrre anticorpi e a diventare plasmacellula dipende da IL-2 e IL-6. La stimolazione antigenica della cellula B immatura, specialmente in assenza di cellule Th e di linfochine, inattiva la cellula B con eliminazione del clone che ne poteva derivare.
È stata ipotizzata l'esistenza di sottopopolazioni di linfociti B che differiscono per caratteristiche funzionali. La mutazione xid nel cromosoma X dei topi CBA/N è associata all'incapacità di produrre anticorpi contro polisaccaridi solubili, mentre è normale la risposta contro altri antigeni, suggerendo la possibilità che in questo ceppo manchi una sottopopolazione di cellule B che risponde ai polisaccaridi mediante aggregazione dei recettori. Tuttavia, non si può escludere che tutte le cellule B dei topi CBA/N siano incapaci di questo tipo di risposta ma sensibili alla stimolazione mediata da cellule Th e linfochine. In individui normali una minoranza delle cellule B (2%) esprime CD5 (Ly-1 nel topo in cui è denominato Lyt-1 quando espresso, in maggior concentrazione, sulle cellule T; Leu-1 nell'uomo). Queste cellule sono numerose nei topi neonati ma rare in topi adulti dove sono relativamente abbondanti nel peritoneo. Le cellule B CD5+ mature hanno grande capacità proliferativa e frequentemente producono autoanticorpi. Le cellule B CD5+ sono molto numerose nei ceppi di topi NZB e Motheaten caratterizzati da fenomeni autoimmunitari.
Linfociti T. - La maggior parte dei linfociti T origina nel timo per differenziazione di cellule staminali dei tessuti emopoietici. Le cellule T mature migrano per via sanguigna nei tessuti e organi linfatici periferici e da questi alla circolazione linfatica e sanguigna. Le cellule T periferiche hanno recettori specifici per l'antigene (T Cell Receptor, TCR) e quasi tutte esprimono il marcatore CD4 oppure CD8. I TCR sono eterodimeri costituiti da catene polipeptidiche unite da ponti disolfuro. La maggioranza delle cellule T mature esprime le catene α e β, la minoranza le catene γ e δ. Ogni catena polipeptidica è codificata da geni V, D, J e C riarrangiati durante la differenziazione cellulare. La varibilità dei siti combinatori del TCR è molto grande anche se nelle cellule T non avvengono mutazioni somatiche efficaci nel corso della risposta immune, come invece è stato dimostrato per le cellule B.
Le cellule T attivate esplicano funzioni regolatorie ed effettrici. L'attivazione è indotta dal riconoscimento dell'antigene sulla membrana di altre cellule, solitamente macrofagi e cellule B, che l'hanno fagocitato, degradato e modificato (antigen-processing). Se l'antigene è una proteina, i peptidi che ne derivano sono espressi sulla membrana di queste cellule (AntigenPresenting Cells, APC) in associazione con molecole di classe I o II codificate da geni del complesso maggiore di istocompatibilità (Major Histocompatibility Complex, MHC). Queste associazioni antigene-MHC, ma non l'antigene in forma solubile, sono riconosciute dal TCR αβ specifico delle cellule T. Se l'antigene proteico è esogeno, dopo endocitosi l'antigen-processing avviene nelle vescicole delle APC e i peptidi sono espressi sulla membrana cellulare associati a molecole MHC di classe II. Questi complessi sono riconosciuti da cellule T che esprimono solo CD4 (CD8−). Se, invece, l'antigene proteico è endogeno, cioè sintetizzato in APC, come per es. antigeni virali, l'antigen-processing avviene nel citoplasma e i peptidi espressi sulla membrana cellulare sono associati a molecole MHC di classe I. Questi complessi sono riconosciuti da cellule T che esprimono solo CD8 (CD4−).
La maturazione delle cellule T nel timo avviene durante lo sviluppo fetale. I timociti più immaturi sono cellule doppie negative (CD4− CD8−), senza recettore (TCR−), localizzate nella corticale del timo. Dopo riarrangiamento dei geni V, D, J e C ed espressione sia del TCR che del complesso CD3 a esso associato, le cellule TCR+ CD4− CD8− con TCR γδ migrano dal timo ai tessuti periferici. Se il riarrangiamento genico per γδ è improduttivo vengono riarrangiati i geni per αβ e le cellule doppie negative diventano TCR+ CD4+ CD8+ attraverso la fase intermedia TCR− CD4− CD8+. Tutte le cellule TCR− CD4+ CD8+ e la maggior parte (>95%) di quelle TCR+ CD4+ CD8+ muoiono nel timo. Sopravvivono solo le cellule TCR+ CD4+ CD8+, che si legano alle molecole MHC delle cellule epiteliali, e, se il TCR si lega a molecole MHC di classe I, viene inibita l'espressione di CD4, oppure, se si lega a molecole MHC di classe II, viene inibita l'espressione di CD8. Vengono quindi selezionate positivamente cellule CD4+ CD8− e cellule CD4− CD8+. Se il TCR si lega a molecole MHC di classe I e II, viene inibita l'espressione sia di CD4 che di CD8, e le cellule TCR+ CD4− CD8−, una piccola popolazione, migrano ai tessuti periferici. Nella transizione fra cellule doppie positive a singole positive avviene la delezione clonale di cellule con elevata affinità per complessi formati da autoantigeni e molecole MHC sulle cellule dendritiche della zona cortico-midollare del timo. Dopo la selezione negativa le cellule T singole positive lasciano il timo, la cui composizione linfocitaria a un mese di vita è indicata nella tab. 4.
Nei tessuti linfatici periferici le cellule T mature che esprimono il TCR αβ sono CD4+ CD8− oppure CD4− CD8+ e riconoscono l'antigene sulle APC in associazione con molecole MHC rispettivamente di classe II o classe I. Le molecole CD4 riconoscono determinanti monomorfici di molecole MHC di classe II mentre le molecole CD8 riconoscono determinanti monomorfici di molecole di classe I. La differenza fra CD4 e CD8 per la proprietà associativa con MHC è molto più netta della diversità funzionale fra cellule CD4+ CD8− e CD4− CD8+ che, solitamente, esplicano rispettivamente o attività cooperante o attività soppressoria e citotossica.
Le cellule Th riconoscono il complesso antigene-molecole MHC di classe II sulla membrana della APC, che, nel caso di una cellula B, è attivata a produrre anticorpi. L'attivazione della cellula B è indotta dal contatto diretto con la cellula Th o dalle linfochine che questa produce e secerne nella zona dove è avvenuto il legame del TCR raggiungendo un'elevata concentrazione locale. Le linfochine prodotte dai linfociti T attivati sono IL-2, IL-3, IL-4, IL-5, IL-6, IL-7, IFN-γ, TNF e GM-CSF. L'attivazione dei linfociti Th può anche iniziarsi dal riconoscimento del complesso antigene-molecole MHC di classe II sulla membrana di altre APC, come macrofagi, cellule di Langerhans e cellule dendritiche, le quali liberano IL-1 che stimola le cellule Th.
Le cellule Ts sono organizzate in circuiti e hanno la funzione di inibire la risposta immune. Per es., una cellula induttrice (Ts1), attivata dall'antigene, secerne un fattore (TsF1) che induce una cellula transduttrice (Ts2) a secernere un fattore (TsF2) che stimola la cellula effettrice (Ts3), attivata dall'antigene, a produrre un fattore (TsF3) che sopprime la risposta immune di cellule Th e B. La difficoltà di clonare cellule Ts non ha ancora consentito di precisare il loro fenotipo e di chiarire come l'antigene attivi le cellule Ts1 e Ts3, la struttura dei fattori TsF1, TsF2 e TsF3, e i meccanismi di riconoscimento sia dei fattori e cellule del circuito sia delle cellule bersaglio. Analogamente agli anticorpi, anche alcune linfochine hanno funzione soppressoria. Per es. IFN-γ inibisce la capacità di IL-4 di indurre nelle cellule B l'espressione di IgG1 e IgE.
Le cellule Tc esplicano un'azione citotossica contro cellule allogeniche, tumorali e cellule infettate da virus. Il meccanismo della lisi cellulare non è chiarito, benché in alcune condizioni le cellule Tc rilascino granuli, contenenti molecole (perforine), che producono pori nella cellula bersaglio e conseguente lisi osmotica. In generale, le cellule Tc sono CD8+ e riconoscono l'antigene sulla cellula bersaglio in associazione con molecole MHC di classe I, ma esistono anche cellule Tc CD4+, che riconoscono l'antigene sulla cellula bersaglio in associazione con molecole MHC di classe II.
Complesso maggiore di istocompatibilit'a. -Il cromosoma 6 dell'uomo e il cromosoma 17 del topo contengono un gruppo di geni, denominato complesso maggiore di istocompatibilità (Major Histocompatibility Complex, MHC), che codifica gli antigeni dei trapianti e controlla la risposta immune. I principali prodotti dei geni MHC sono le molecole di classe I e II, le molecole di classe III (alcuni componenti del sistema del complemento) e altre proteine, per es. TNFα (Tumor Necrosis Factor) e TNFβ (lymphotoxin, LT).
Nel topo, procedendo dal centromero verso 3′, il cromosoma 17 contiene il complesso H-2 e il complesso Tla. H-2 è costituito dalle regioni K, I, S e D, mentre Tla è costituito dalle regioni Qa e Tla. I geni di classe I sono K, D ed L, localizzati nel complesso H-2, e Qa-2, 3, Tla e Qa-1, localizzati nel complesso Tla. Soltanto i geni dell'H-2 codificano molecole di classe I mentre la funzione dei prodotti dei geni del complesso Tla non è nota. I geni di classe II, Aβ, Aα, Eβ, e Eα, sono localizzati nella regione I del complesso H-2, mentre i geni di classe III, C4 e Slp, sono localizzati nella regione S.
Nell'uomo il cromosoma 6 contiene l'MHC costituito da geni HLA e altri. I geni di classe I sono HLA-A, B, C, E, i geni di classe II sono HLA-DR, DQ, DP, DO, DN, i geni di classe III sono C4A, C4B, Bf, C2, TNF A, TNF B. Non è noto se il gene HLA-E, localizzato fra i geni HLA-A e HLA-C, presenti polimorfismo e se le molecole codificate siano espresse.
Le molecole MHC di classe I sono glicoproteine di membrana. Ogni molecola è costituita da una catena α (45.000 dalton) molto polimorfica, associata non covalentemente alla β2−microglobulina (12.000 dalton), poco polimorfica e non codificata da geni MHC. La catena α è formata dai campi extracellulari α1, α2, α3, e dai campi transmembrana (TM) e citoplasmico (CY). Il polimorfismo interessa α1 ε α2 , che all'esame cristallografico, formano un sito occupato da un peptide della dimensione dei peptidi riconosciuti dal TCR di cellule T CD8+.
Le molecole MHC di classe II sono glicoproteine di membrana costituite da due catene, α e β, codificate dai geni dell'MHC. Ogni catena è formata da due campi extracellulari, (α1, α2) ο (β1, β2), e dai campi transmembrana (TM) e citoplasmatico (CY). L'elevato polimorfismo è localizzato nei campi α1 e β1, che, per analogia con le molecole MHC di classe 1, potrebbero costituire un sito di legame per peptidi antigenici. Nel topo, le catene α e β codificate dai geni Aα e Aβ si appaiano tra loro, analogamente alle catene α e β codificate dai geni Eα ed Eβ, mentre non si formano appaiamenti crociati fra le catene α e β codificate dai geni A ed E. In individui eterozigoti, per es. Aαb/k e Aβh/k, oltre agli appaiamenti parentali si possono formare anche appaiamenti ibridi, per es. αb βk e αk βb. Nell'uomo, contrariamente al topo che esprime un solo gene α e β in A ed E, più di un gene α e β è espresso in DR, DQ e DP con formazione di appaiamenti ibridi.
Mentre le molecole MHC di classe I sono espresse sulla membrana di tutte le cellule, quelle di classe II sono espresse sulle cellule del sistema immunitario, particolarmente su cellule B, macrofagi, cellule di Langerhans, cellule dendritiche, cellule epiteliali del timo e, nell'uomo, su cellule T attivate. L'espressione delle molecole MHC di classe II è aumentata in molte cellule dall'IFNγ e nelle cellule B da IL-4. IFN-γ induce la comparsa di molecole MHC di classe II anche in cellule che normalmente non esprimono queste molecole e, inoltre, aumenta l'espressione di molecole MHC di classe I.
La capacità delle molecole MHC espresse sulle APC di legare peptidi antigenici formando un complesso che stimola le cellule T rappresenta il meccanismo fondamentale del ruolo fisiologico dell'MHC. Il riconoscimento del peptide da parte del TCR è ristretto dall'MHC in quanto le cellule T e APC devono essere identiche all'MHC. Quando l'MHC è diverso, il riconoscimento non avviene per eventuale incapacità dello stesso peptide di combinarsi efficacemente con molecole MHC di struttura diversa oppure per incapacità del TCR di riconoscere strutture diverse delle molecole MHC che abbiano legato il peptide. Con questi meccanismi di restrizione l'MHC esplica il controllo genetico della risposta immune. Ne consegue che individui geneticamente incapaci di rispondere a un dato antigene potrebbero non attivare cellule T CD4+ o CD8+ perché il peptide antigenico non si combina efficacemente con certe molecole MHC rispettivamente di classe II o I. Inoltre, l'incapacità di rispondere potrebbe dipendere dall'assenza di cellule T con TCR specifico per il complesso peptideMHC, dovuta a difetti nella formazione del repertorio durante la selezione positiva delle cellule T nel timo oppure a eliminazione, durante la selezione negativa, di cellule T specifiche per peptidi di autoantigeni che riconoscono anche peptidi di antigeni cross-reagenti. Nell'uomo, l'associazione di alcune malattie con particolari alleli HLA potrebbe riflettere reattività immunitaria mediata dalla combinazione di peptidi e molecole MHC di classe I e II.
Citochine. -Le interazioni fra le cellule del sistema immunitario sono basate sul contatto diretto fra cellule o sul rilascio di mediatori solubili con funzione immunoregolatoria. Il riconoscimento dell'antigene da parte dei linfociti è altamente specifico, e ciò assicura la specificità dell'induzione della risposta immunitaria. D'altra parte, perché possa essere garantita una risposta efficace, l'attivazione dei pochi cloni cellulari antigene-specifici dev'essere seguita da una rapida amplificazione del numero di cellule attivate attraverso molecole solubili non specifiche per l'antigene capaci di promuovere la proliferazione e il differenziamento cellulare.
Le proteine che trasmettono non specificamente segnali di proliferazione e differenziamento fra le cellule del sistema immunitario sono generalmente chiamate interleuchine, molecole che trasferiscono un messaggio fra leucociti. Le interleuchine prodotte da linfociti sono definite linfochine mentre quelle prodotte da cellule della linea monocitomacrofagica sono definite monochine. Poiché la maggior parte delle interleuchine regola la proliferazione e il differenziamento non solo di leucociti, ma anche di molti altri tipi cellulari, è più appropriato il termine citochine per definire questo tipo di molecole.
Le citochine possono essere considerate ormoni polipeptidici con attività di tipo paracrino (agiscono su cellule bersaglio diverse da quelle produttrici) o autocrino (agiscono sulla stessa cellula produttrice). Esse sono proteine glicosilate del peso di circa 15.000÷60.000 dalton, attive a concentrazioni molto basse, dell'ordine di 10-9÷10−10 M. Come per altri ormoni polipeptidici, l'attività delle citochine dipende dal legame con uno specifico recettore di membrana presente sulla cellula bersaglio, il quale trasmette all'interno della cellula il segnale indotto dall'interazione con il ligante.
Lo studio delle citochine, iniziato negli anni Trenta, ha evidenziato oltre 100 diverse attività biologiche mediate da queste molecole, in origine definite da un acronimo sulla base dell'attività biologica esaminata. Nella seconda metà degli anni Settanta è stato chiarito che una singola citochina può stimolare attività biologiche molto differenti e che la stessa attività può essere stimolata da diverse citochine.
Le citochine decritte finora sono numerose (tab. 5); prenderemo in considerazione solo quelle meglio caratterizzate dal punto di vista strutturale e funzionale. Queste citochine e in alcuni casi anche i loro recettori sono stati caratterizzati e ora sono disponibili anche come prodotto di DNA ricombinante, rendendo così possibili studi funzionali più precisi. Il rapido progresso dell'analisi della struttura e della funzione delle citochine è stato reso possibile dalla disponibilità di linee cellulari che, costitutivamente o dopo induzione con mitogeni, ne producono quantità relativamente elevate, e di cloni cellulari la cui proliferazione dipende esclusivamente da una determinata citochina.
Interleuchina 1(IL-1). − Nel 1972 Gery e collaboratori identificarono, in sopranatanti di coltura di leucociti umani attivati, un prodotto capace di indurre la proliferazione di timociti murini. Questa interleuchina è stata successivamente denominata IL-1. Essa può essere prodotta praticamente da qualsiasi cellula nucleata e ha effetti stimolatori sulla proliferazione e il differenziamento di molti tipi cellulari.
IL-1 è una proteina di circa 17.000 dalton (=17 Kd) con punto isoelettrico (pI) 5-7, codificata da due geni distinti che danno origine a due diverse forme di IL-1: IL-1α (pI 5) e IL-1β (pI 7), entrambe di 17Kd.
Cellule produttrici di IL-1: molti tipi cellulari producono IL-1, ma i più importanti sono monociti e macrofagi. Le caratteristiche biochimiche dell'IL-1 prodotta da diversi tipi cellulari sono state analizzate solo parzialmente, ma sembra che ogni tipo cellulare sia in grado di produrre sia IL-1α che IL-1β, anche se cellule T producono soprattutto IL-1α e macrofagi IL-1β. Mentre alcune linee di cellule B trasformate da virus di Epstein-Barr (EBV) e di cellule T trasformate dal virus leucemico HIV-1 producono IL-1 costitutivamente, la maggior parte delle cellule normali e alcune linee cellulari producono IL-1 solo dopo stimolazione con appropriati induttori. Agenti immunosoppressivi, quali corticosteroidi e prostaglandine, inibiscono la produzione e/o il rilascio di IL-1 da parte dei macrofagi, e linfociti T soppressori (CD8+) possono inibire la produzione di IL-1 extracellulare da parte di LGL.
Attività biologiche di IL-1: gli effetti biologici di IL-1 sono pleiotropici e inducono proliferazione e differenziamento di molti tipi cellulari, in particolare di quelli coinvolti nell'infiammazione. Oltre agli effetti sui linfociti T e B, che verranno descritti in seguito, IL-1 ha molteplici effetti sulle cellule che partecipano alla flogosi e alla riparazione delle ferite. L'iniezione sottocutanea di IL-1 conduce entro un'ora alla marginazione dei neutrofili ed entro 3 ore a un infiltrato extravascolare di leucociti polimorfonucleati (PMN). Studi in vitro hanno dimostrato che IL-1 è un fattore chemiotattico positivo per PMN, attiva i PMN e induce il rilascio di enzimi lisosomiali. Le cellule endoteliali sono stimolate da IL-1 a proliferare, diventare più adesive, produrre trombossano e rilasciare molecole ad attività procoagulante. Inoltre, IL-1 aumenta la produzione di collagene tipo IV da parte di cellule epidermiche, induce proliferazione degli osteoblasti e produzione di fosfatasi alcalina, stimola gli osteoclasti a riassorbire l'osso. IL-1 induce febbre, sintomo patognomonico di flogosi, e ha anche vari altri effetti sul sistema nervoso centrale quali sonnolenza e anoressia. Infine, IL-1 induce la produzione, da parte degli epatociti, delle proteine della fase acuta e, in conseguenza, riveste un ruolo rilevante nelle varie fasi del processo flogistico.
IL-1, prodotta principalmente da monociti e macrofagi, ha effetto chemiotattico anche sui macrofagi stessi e induce in queste cellule un'elevata e prolungata attività tumoricida attraverso diversi meccanismi: a) aumento della produzione di linfochine (IL-2 e IFN-γ); b) aumento dell'attività di cellule CTL e NK, oltre che di macrofagi; c) sinergismo con IL-2 e IFN-γ nell'attivazione di CTL e NK; d) inibizione diretta della crescita di alcune cellule tumorali. La disponibilità di IL-1 purificata, ottenuta mediante tecniche di DNA ricombinante, ha reso possibile la marcatura con 125I di IL-1 per identificare il suo recettore di membrana, una proteina di p.m. 79.500 capace di legare ugualmente bene sia IL-1α che IL-1β. In generale, il numero di recettori per IL-1 sulle cellule bersaglio è piuttosto basso e va da circa 50 siti/cellula nei linfociti T a circa 1500÷5000 siti/cellula nei fibroblasti.
Effetti di IL-1 sui linfociti T: l'induzione di proliferazione da parte di IL1 e mitogeni, in particolare PHA (effetto co-mitogenico) sui timociti murini è attribuibile a una sottopopolazione di timociti caratterizzati da bassa densità dell'antigene Thy 1, incapacità a legare l'agglutinina di arachide (PNA) e resistenza a idrocortisone. La capacità di IL-1 di aumentare l'effetto stimolatorio della PHA sulla proliferazione di timociti è alla base del test biologico utilizzato per quantificare la concentrazione di IL-1. Il meccanismo attraverso cui IL-1 induce la proliferazione di timociti e cellule T periferiche non è ancora noto con precisione ma sembra coinvolgere l'aumento dei recettori per IL-2, specie di quelli ad alta affinità, e l'aumento della produzione di IL-2. Inoltre, IL-1 ha anche altri effetti sulle cellule T fra i quali aumento della produzione di altre linfochine, oltre a IL-2, quali IL-4, IFN-γ e IL-6, aumento della stabilità di rosette E e chemiotassi.
È ancora controverso se IL-1 sia assolutamente necessaria per l'attivazione di tutte le cellule T. Infatti, ibridomi e cloni T possono essere attivati anche in assenza di cellule accessorie capaci di produrre IL-1, per es. da antigene e molecole MHC incorporate in una membrana lipidica artificiale. Poiché tuttavia alcune cellule T producono IL-1 è possibile che in questo caso IL-1 sia di origine autocrina.
Effetti di IL-1 sui linfociti B: IL-1 agisce in due stadi distinti del differenziamento delle cellule B: la maturazione di cellule pre-B e la proliferazione di cellule B mature in seguito ad attivazione. L'effetto di IL-1 sulla maturazione di cellule pre-B consiste nella sintesi di catene leggere seguita dall'espressione sulla membrana di molecole Ig complete. IL-1 promuove anche l'espansione clonale di cellule B attivate in associazione con altre interleuchine quali IL-2, IL-4 e IL-6. Naturalmente IL-1 ha anche effetti indiretti sulle cellule B attraverso l'attivazione di cellule T a produrre linfochine.
Interleuchina 2 (IL-2). − Originariamente definita fattore di crescita per le cellule T (T Cell Growth Factor, TCGF), IL-2 è una glicoproteina prodotta da cellule T che ha un ruolo essenziale nell'indurre la proliferazione di cellule T e influenza anche altri tipi cellulari quali le cellule NK e i linfociti B. IL-2 è l'interleuchina caratterizzata in maggior dettaglio. IL-2, sia umana che murina, è stata purificata chimicamente e sono stati ottenuti anticorpi monoclonali anti-IL-2. Il gene codificante IL-2, sia nell'uomo che nel topo, è stato clonato permettendo così la produzione di IL-2 ricombinante. Anche il recettore cellulare per IL-2 è stato purificato e clonato e sono stati ottenuti anticorpi monoclonali contro questo recettore.
IL-2 prodotta da cellule T di varie specie di mammiferi (uomo, scimmia, ratto, topo) è una glicoproteina di 15÷17 Kd formata da un polipeptide di 133 aminoacidi con variabile grado di glicosilazione, che dà origine a una microeterogeneità di peso molecolare e di carica. Il differente grado di glicosilazione di IL-2 ottenuta da diverse fonti non influenza la sua attività in vitro ma potrebbe avere un ruolo nell'eliminazione in vivo della molecola.
Cellule produttrici di IL-2: IL-2 è secreta soprattutto da cellule T con fenotipo cooperante (CD4+) anche se sono stati descritti linfociti T citotossici (CD8+) capaci di secernere basse concentrazioni di IL-2. Solitamente le cellule T producono IL-2 dopo stimolazione con lecitine (PHA, con A o PWM) o con antigene, associati a prodotti dei geni MHC di classe II, ma sono stati descritti alcuni ibridomi e linee T capaci di secernere IL-2 costitutivamente. Poiché esiste un solo gene codificante IL-2 e questo non va incontro ad amplificazione genica, la marcata differenza che si osserva in cellule T nella produzione di IL-2 dipende dalla quantità di mRNA specifico, indicando che il controllo della trascrizione e la stabilità del mRNA trascritto sono di fondamentale importanza per determinare la concentrazione di IL-2 secreta.
Recettori per IL-2 (IL-2R): come per altri ormoni e fattori di crescita l'attività di IL-2 dipende dal suo legame con un recettore specifico presente sulla membrana cellulare (IL-2R). I recettori per IL-2 sono composti da due polipeptidi, uno di 75 Kd (p75) e un altro di 55 Kd (p55), associati non covalentemente nella forma di recettore con alta affinità per IL-2. Ciascuna di queste molecole è in grado di legare IL-2 (p75 possiede 2 siti di interazione con IL-2 mentre p55 ne possiede uno solo) ma il dimero p75-p55 ha un'affinità per IL-2 molto più elevata (Kd circa 10−11 M) di quella delle singole catene. Quindi IL2R può essere distinto in tre classi di affinità: elevata (dimero p75-p55), intermedia (catena p75) e bassa (catena p55). Solo la molecola p75 può trasmettere il segnale di attivazione cellulare e la catena p55 sembra avere soltanto il ruolo di aumentare l'affinità di IL-2R. Nell'uomo solo la catena p55 esprime i determinanti antigenici Tac (T activation) riconosciuti da anticorpi anti-Tac.
Tutte le cellule T rispondono all'attivazione indotta dall'antigene o dal mitogeno con l'espressione di IL-2R ad alta affinità mentre solo una parte delle cellule T attivate producono IL-2. La maggior parte delle cellule CD4+ proliferano in maniera autocrina in risposta all'IL-2 che esse stesse producono mentre la maggioranza delle cellule CD8+ proliferano in maniera paracrina, in risposta all'IL-2 prodotta da cellule CD4+. Le cellule T quiescenti non esprimono IL-2R mentre linfociti T attivati posseggono 4000÷12.000 recettori/cellula. L'induzione di IL-2R rende quindi la cellula sensibile all'attività di IL-2. L'effetto principale dell'interazione fra IL2 e IL-2R consiste nell'induzione della progressione del ciclo cellulare dalla fase G1 alla fase S (sintesi di DNA) con conseguente mitosi cellulare. L'espansione clonale indotta da questa interazione è strettamente controllata per impedire la proliferazione autonoma di cellule T. Uno dei meccanismi di controllo più importanti dipende dall'antigene: l'espressione di IL-2R è transitoria e antigenedipendente e quindi l'eliminazione dell'antigene induce la graduale scomparsa di IL-2R. Inoltre IL-2 stessa regola l'espressione di IL-2R inducendo la diminuzione (down regulation) dei recettori ad alta affinità sulla superficie cellulare e quindi diminuzione della proliferazione cellulare con accumulo di cellule nella fase quiescente del ciclo (G0).
Oltre a questi due meccanismi di controllo dell'espressione di IL-2R (eliminazione dell'antigene e down regulation indotta da IL-2) è stato identificato un altro livello di regolazione, ristretto a cellule CD4+ e indipendente da IL2R, che consiste in uno stato transitorio di insensibilità delle cellule CD4+ a IL-2 pur in presenza di concentrazioni adeguate di IL-2R.
Attività biologiche di IL-2: come abbiamo precedentemente descritto, la più importante attività biologica di IL-2 consiste nell'induzione di proliferazione in cellule T attivate. Ciò avviene sia direttamente, inducendo la transizione dalla fase G1 alla fase S del ciclo cellulare, sia indirettamente, inducendo la secrezione da parte delle cellule T di altre linfochine, in particolare di IFN-γ. Anche se molte sostanze sono in grado di indurre secrezione di IFNγ, sembra che IL-2 abbia un ruolo importante nella produzione da parte di cellule T di questa linfochina, capace di indurre cellule con attività NK, di promuovere il differenziamento di linfociti T citotossici e di attivare i macrofagi modulando su queste cellule l'espressione di molecole MHC. Quindi IL2 occupa una posizione centrale nel network delle interleuchine che regolano la risposta immunitaria. Oltre a indurre IFN-γ, IL-2 stimola anche direttamente cellule NK e cellule citotossiche attivate da linfochine (Lymphokine Activated Killer, LAK). Infine IL-2 ha anche un ruolo diretto sulle cellule B in quanto le cellule B attivate hanno IL-2R ad alta affinità e l'aggiunta di IL2 a queste cellule aumenta la secrezione anticorpale.
Interleuchina 3(IL-3) e altri CSF. - IL-3 è uno dei numerosi fattori stimolanti colonie (Colony Stimulating Factors, CSF) che regolano l'emopoiesi. CSF sono glicoproteine ormonosimili biologicamente attive a concentrazioni di 10-n,12 M, prodotte dai linfociti T e da monociti. Si possono distinguere, sulla base delle colonie di cellule differenziate indotte a partire da progenitori midollari piastrati in agar, quattro tipi di CSF che danno rispettivamente origine a colonie di macrofagi (M-CSF), di granulociti-macrofagi (GM-CSF), di granulociti (G-CSF) e a colonie multiple (multi-CSF).
M-CSF è una glicoproteina di p.m. 70.000 che consiste in due subunità legate da ponte disolfuro e induce prevalentemente la formazione di colonie macrofagiche. GM-CSF stimola la formazione di colonie a partire da progenitori sia della linea granulocitaria che macrofagica mentre G-CSF stimola esclusivamente la formazione di colonie granulocitarie. Multi-CSF, sinonimo di IL-3, stimola uno spettro molto ampio di cellule formanti colonie. Un'importante attività dei CSF consiste, oltre che nell'induzione di colonie, nella stimolazione dell'attività di cellule funzionalmente mature, quali macrofagi e granulociti. Questa attività non è stata dimostrata per IL-3.
Il termine IL-3 è stato introdotto per descrivere un fattore capace di indurre l'espressione dell'enzima 20 α−steroid deidrogenasi (20 α SDH) in colture di splenociti da topi nudi. Poiché questo enzima è espresso esclusivamente da linfociti T, esso è stato usato come marcatore per la maturazione di linfociti T, e quindi nel test biologico per valutare la concentrazione di IL-3.
Le cellule T attivate e alcune linee T producono IL-3, ma più che una interleuchina IL-3 dovrebbe essere considerata una multi-CSF. Oltre che su molti altri precursori midollari, IL-3 è attiva anche su precursori dei linfociti T e B ma non sembra agire su linfociti maturi. È quindi possibile che prelinfociti esprimano un recettore specifico per IL-3 e che questo scompaia dalla membrana nel corso del differenziamento. Sui linfociti attivati il recettore per IL-3 verrebbe quindi sostituito dai recettori per IL-2 e per le interleuchine capaci di stimolare la crescita e il differenziamento delle cellule B mature.
Interleuchina 4 (IL-4). − IL-4 è una citochina prodotta da cellule T con molteplici attività biologiche sia su cellule B che su cellule T, mastociti e macrofagi. IL-4 induce sia proliferazione che differenziamento di cellule B attivate e aumenta la secrezione di IgG1 e IgE. Inoltre, IL-4 induce l'espressione di molecole MHC di classe II e recettori di bassa affinità per la regione Fc delle IgE (FcεR) in cellule B quiescenti. Le molteplici attività di IL-4 sulle cellule B hanno quindi effetti diversi: a) l'aumentata espressione di molecole MHC di classe II aumenta la capacità delle cellule B di presentare l'antigene a cellule T rendendo il sistema immunitario più sensibile a basse concentrazioni di antigene; b) l'induzione di proliferazione in cellule B attivate favorisce l'espansione clonale di cellule B antigene-specifiche; c) la regolazione dell'isotipo delle Ig prodotte modula la risposta umorale a diversi stimoli antigenici. IL-4 è anche un fattore di crescita per cellule T e per mastociti e aumenta l'espressione di molecole MHC di classe II sui macrofagi, aumentando quindi la loro capacità di presentare l'antigene.
Interleuchina 5 (IL-5). − Al contrario di IL-4, che è in grado di agire anche su cellule B quiescenti, IL-5 è efficace esclusivamente su cellule B attivate. IL-5 induce proliferazione di cellule B attivate, secrezione di IgM, IgG e IgA ed espressione del recettore per IL-2. Un'altra importante proprietà di IL-5 consiste nella sua capacità di indurre differenziazione degli eosinofili, favorendo selettivamente la loro proliferazione in colture cellulari di midollo osseo. Poiché IL-5 può indurre la differenziazione di timociti in cellule T citotossiche, i suoi effetti non sono limitati alle cellule B e ai granulociti eosinofili, anche se questi sono i bersagli cellulari più importanti di IL-5.
Interleuchina 6(IL-6). − IL-6 presenta alcune analogie con IL-1 sia per la molteplicità delle cellule capaci di produrre questa interleuchina che per la diversità delle cellule bersaglio. Inoltre, IL-1 è un potente induttore di IL6 in molti tipi cellulari ed è quindi importante distinguere fra effetti diretti di IL-1 ed effetti mediati da IL-6. Fra le cellule capaci di produrre IL-6 vi sono cellule T, monociti, macrofagi, fibroblasti, cellule tumorali (osteosarcoma, mixoma cardiaco, carcinoma). Gli effetti principali di IL-6 sono l'induzione di secrezione di Ig e la differenziazione di cellule B attivate. La presenza di recettori ad alta affinità per IL-6 su molti tipi cellulari, per es. cellule B attivate, cellule T quiescenti e alcune linee cellulari ematopoietiche, riflette la varietà delle cellule bersaglio di questa interleuchina. IL-6 è un componente importante nel network delle citochine non solo perché è espressa ad alti livelli in molte cellule attivate ma anche per la diversità delle cellule bersaglio. IL-6 sembra essere molto attiva nelle infezioni virali, in quanto IL-6 prodotta nel sito di infezione da fibroblasti, cellule endoteliali e macrofagi, oltre ad avere un'attività diretta antivirale, attiva cellule T e aumenta la produzione anticorpale di cellule B attivate. Entrata in circolo IL-6 espande cellule emopoietiche, aumenta la produzione di proteine della fase acuta da parte degli epatociti e induce febbre, cioè le risposte fisiologiche all'infezione.
Interleuchina 7 (IL-7). − IL-7 è una proteina costitutivamente prodotta da cellule staminali del midollo osseo. L'attività principale di IL-7 è la differenziazione selettiva di cellule pre-B in cellule B. Induce anche proliferazione di timociti immaturi attraverso un meccanismo indipendente da IL-2.
Interferone gamma (IFN-γ). − Il sistema interferone è costituito da varie proteine classificabili in tre gruppi principali denominati α, β, e γ. IFN-α è soprattutto prodotto da leucociti, IFN-β da fibroblasti e IFN-γ da linfociti attivati e per questo è anche definito IFN immune. Gli interferoni sono stati dapprima identificati come proteine ad attività antivirale, ma hanno poi dimostrato una serie di effetti pleiomorfici sulle cellule del sistema immunitario ed ematopoietico e si possono quindi considerare, in particolar modo l'IFN-γ, interleuchine. Alcune attività immunoregolatorie sono mediate da tutti i tipi di interferone, ma IFN-γ è attivo a concentrazioni molto inferiori rispetto a IFN-α e IFN-β, mentre altre funzioni sono esercitate esclusivamente da IFN-γ.
IFN-γ è una glicoproteina in cui la componente polipeptidica (p.m. 17 Kd) viene glicosilata per dare origine a due specie di IFN-γ di p.m. 20 Kd e 25 Kd. Poiché esiste un solo gene strutturale per IFN-γ, le due forme derivano da eventi di glicosilazione post-traduzionali. L'IFN-γ è specie-specifico in quanto è attivo solo nella specie animale che lo produce. Il recettore per IFN-γ è una glico-proteina di circa 100 Kd e il legame di IFN-γ radiomarcato dimostra la presenza di circa 4000 recettori/cellula sui fibroblasti umani e circa 12.000/cellula su macrofagi di topo. Anche per IFN-γ, come per IL-2, si sono dimostrate due classi di recettori, una ad alta e un'altra a bassa affinità.
Cellule produttrici di IFN-γ: le cellule più importanti nella produzione di IFN-γ sono linfociti T e cellule NK, ma l'origine cellulare di IFN-γ dipende dal tipo di induttore. Sia cellule T con fenotipo cooperante (CD4+) che con fenotipo citotossico-soppressorio (CD8+) producono IFN-γ in risposta ad alloantigeni o mitogeni, mentre antigeni associati a molecole MHC inducono produzione di IFN-γ soprattutto in cellule CD4+. Cloni CD4+ producono IFN-γ in risposta sia all'antigene specifico che a mitogeni. Nel corso della risposta immune la produzione di IFN-γ dipende da IL-1 e IL-2, ma in vitro è possibile attivare, mediante esteri del forbolo (PMA), cellule quiescenti a produrre IFN-γ. Se invece viene usato come induttore IL-2, la maggior parte delle cellule produttrici di IFN-γ sono cellule NK e non cellule T quiescenti che non hanno recettori ad alta affinità per IL-2. La produzione di IFN-γ da parte delle cellule NK stimolate con IL-2 potrebbe rappresentare, in vivo, un importante meccanismo di amplificazione della risposta immunitaria non antigene-specifica.
Attività biologiche di IFN-γ: IFN-γ ha un ruolo importante nel network delle interleuchine prodotte nel corso della risposta immunitaria. In seguito alla stimolazione antigenica, cellule T, e probabilmente cellule NK indotte da IL-2, producono IFN-γ che amplifica la risposta di cellule T e NK e induce la differenziazione di linfociti T citotossici. Inoltre, IFN-γ ha attività su cellule emopoietiche oltre ad avere attività antivirale.
Tutti i tre tipi di IFN aumentano l'espressione di molecole MHC di classe I e II, anche se IFN-γ è più efficace di IFN-α e IFN-β. Uno degli effetti più importanti di IFN-γ è l'induzione o l'aumento di espressione di molecole MHC di classe II sulla membrana di molti tipi cellulari, quali mielo-monociti, macrofagi, mastociti, cellule endoteliali, fibroblasti, neuroni, melanociti, cellule di melanoma e linfociti B. L'aumento dell'espressione di molecole MHC di classe II su macrofagi, cellule di Langerhans e cellule epiteliali ha un ruolo molto importante nella risposta immunitaria in quanto tali cellule possono presentare, nel contesto di molecole MHC di classe II, l'antigene a linfociti T.
L'induzione di antigeni MHC da parte di IFN-γ potrebbe anche avere un ruolo nell'etiologia di alcune malattie autoimmuni. Per es., è stato dimostrato che infezioni virali possono stimolare la produzione di IFN-γ che induce l'espressione di molecole DR su cellule epiteliali della tiroide umana che normalmente non esprimono questi antigeni. La presenza di autoantigeni microsomiali tiroidei associati a molecole DR può indurre attivazione di cloni T autoreattivi capaci di innescare meccanismi effettori con produzione di autoanticorpi. Si può così spiegare l'insorgenza non solo di alcune forme di tiroidite autoimmune ma anche di altre sindromi autoimmuni determinate dalla presentazione efficace dell'autoantigene associato a molecole MHC di classe II normalmente non espresse.
Oltre a indurre espressione di molecole MHC di classe I e II e di recettori per l'Fc delle IgG (FcR1) su cellule mielo-monocitarie, IFN-γ induce cellule midollari a differenziarsi in monociti promuovendo l'espressione coordinata di marcatori specifici. Inoltre, IFN-γ attiva granulociti neutrofili, monociti e macrofagi a mediare reazioni di citotossicità anticorpo-dipendenti (ADCC). È stato dimostrato che IFN-γ rappresenta la quasi totalità delle linfochine attivanti i macrofagi (MAF), che inducono o aumentano la citotossicità di monociti e macrofagi contro bersagli tumorali.
Fattori della necrosi tumorale (TNF e LT). − Animali invasi da parassiti, batteri, virus, tumori manifestano reazioni immunitarie ma possono anche andare incontro a stati catabolici gravi fino alla cachessia e morte. Il siero di animali iniettati con endotossina contiene dei fattori, detti della necrosi tumorale (TNF), che, se iniettati ad altri animali portatori di tumori, provocano una necrosi selettiva del tumore senza danneggiare le cellule normali. Questi fattori sono denominati cachessina (TNFα) e linfotossina (LT o TNFβ). TNFα è una citochina di 17 Kd prodotta da macrofagi, cellule T attivate e mastociti, mentre TNFβ è una citochina di 25 Kd prodotta da cellule T attivate. La produzione di TNFα è indotta da endotossina, virus, batteri, mentre altre interleuchine (IL-2, IFN-γ, GM-CSF) ne aumentano la produzione. TNFβ è indotta da antigeni e mitogeni. I TNF stimolano la produzione di IL-1 e IL-2, la fagocitosi dei granulociti, l'attività propria degli eosinofili di uccidere i parassiti e dei macrofagi di uccidere i tumori, e in generale favoriscono le manifestazioni dell'infiammazione.
Il ''network'' delle citochine. - L'attività immunoregolatoria delle citochine include il controllo della proliferazione e del differenziamento di tutte le cellule che intervengono nella risposta immunitaria.
La proliferazione di cellule T, oltre al segnale di attivazione primario formato dall'antigene presentato nel contesto di molecole MHC, richiede una cascata di segnali sequenziali durante la fase G1A del ciclo cellulare. Le cellule T attivate entrano nella fase S quando vengono stimolate, in successione, da IL-1 e IL-2. Per ricevere il segnale stimolatorio da parte delle interleuchine, nelle cellule T attivate dall'antigene, ma non in quelle quiescenti, viene indotta l'espressione di recettori specifici per IL-1 e IL-2. L'analisi citofluorimetrica della sintesi di RNA in cellule proliferanti permette di suddividere la fase G1 in G1A e G1B e il passaggio fra queste fasi sembra dipendere dall'interazione di IL-2 con il proprio recettore. Non è ancora chiaro se l'effetto stimolatorio di IL-1 sulle cellule T sia mediato da aumento della produzione di IL-2, aumento dell'espressione di recettori per IL-2, o da entrambi questi meccanismi. L'attivazione ottimale di un circuito immune non richiede soltanto l'espansione clonale ma anche la differenziazione in cellule effettrici.
Un'interleuchina capace di promuovere il differenziamento di cellule T è IL-3, che induce l'espressione di marcatori del differenziamento in cellule T immature. Inoltre, anche IL-4, IL-5 e IL-6 inducono crescita e differenziamento di cellule T. Un'altra interleuchina capace di promuovere il differenziamento cellulare è IFN-γ, prodotto da cellule T attivate, che amplifica il segnale di attivazione e induce differenziamento in tutte le cellule del sistema immunitario. Infatti tutte le cellule analizzate possiedono recettori per IFNγ ed è stato dimostrato che IFN-γ induce la differenziazione di linfociti T citotossici e influenza la produzione di Ig da parte dei linfociti B, l'attività citotossica delle cellule NK e numerose attività funzionali dei macrofagi.
La proliferazione e il differenziamento delle cellule B sono controllati da una cascata di linfochine simile a quella delle cellule T. In questo caso IL-7, IL-4 e IL-1 guidano le cellule B a entrare nella fase S del ciclo cellulare. Anche IL-2 e IFN-γ sembrano contribuire alla proliferazione e al differenziamento delle cellule B. Le cellule B proliferanti ricevono inoltre segnali differenziativi da IL-5 e IL-6.
Il network delle interleuchine si può quindi così schematizzare. Macrofagi e cellule T interagiscono fra loro in un processo ciclico di amplificazione in cui le cellule T producono CSF che stimola i macrofagi a produrre IL-1. IL-1 fornisce un segnale proliferativo a cellule T stimolate dall'antigene che quindi producono IL-2, IL-3, IL-4, IL5, IL-6 e IFN-γ. IL-2, IL-4, IL-5 e IL-6 sono segnali di proliferazione e differenziamento per cellule T. IL-7, IL-1, IL-4, IL-5 e IL-6 servono anche per l'espansione e il differenziamento di cellule B.
Le citochine nella clinica. - Il crescente interesse per l'immunoregolazione mediata da citochine deriva dalle importanti implicazioni cliniche di questo tipo di ricerca. Infatti, in molte disfunzioni del sistema immunitario il difetto è stato localizzato a livello della produzione di citochine o dell'espressione di recettori specifici. L'analisi di questi parametri ha già permesso di distinguere varie forme di immunodeficienze primitive di cellule T, di comprendere alcuni dei difetti associati all'invecchiamento e di ipotizzare un meccanismo etiopatogenetico nella trasformazione neoplastica e nelle malattie autoimmuni. L'utilizzazione delle citochine è promettente nell'immunoterapia antitumorale. L'incubazione in vitro di linfociti del sangue periferico umano con IL-2 induce cellule linfoidi che sono in grado di lisare cellule tumorali NKresistenti, ma non cellule normali. Queste cellule sono state denominate cellule LAK: il loro studio ha dimostrato che appartengono a una popolazione linfocitaria non-T non-B che dà origine a un sistema citolitico distinto dalle cellule NK e dai linfociti T citotossici. Rosenberg e collaboratori hanno dimostrato che, sia in modelli sperimentali che clinici, il trasferimento di cellule LAK associato alla somministrazione di IL-2 induce la regressione di metastasi tumorali, probabilmente perché le cellule LAK, in vivo, proliferano in risposta a IL-2 e mantengono la loro attività litica contro cellule tumorali.
La diminuzione della produzione di IL-2 o della risposta a IL-2 è anche associata a numerose condizioni di immunodeficienza primaria o acquisita e all'immunosoppressione indotta da farmaci. Diminuita produzione di IL-2 è stata osservata in soggetti affetti da AIDS, in pazienti con immunodeficienza comune variabile e in individui che sono stati sottoposti a trapianto di midollo osseo. Nella maggior parte dei casi le cellule T di pazienti affetti da immunodeficienza possono essere indotte a esprimere il recettore per IL-2, ma in alcuni casi, come in pazienti con immunodeficienza grave combinata (Severe Combined Immune Deficiency, SCID), il difetto primario sembra consistere nell'incapacità dei linfociti T a esprimere il recettore per IL-2. Anche il meccanismo di immunosoppressione di alcuni farmaci ha luogo attraverso l'inibizione della produzione di IL-2. Per es., glucocorticoidi, quale il desametazone, inibiscono la produzione di IL-2 e la ciclosporina A inibisce l'espressione del gene codificante IL-2 inibendo la trascrizione di mRNA per questa e altre interleuchine. Quindi in molti casi il trattamento con IL-2 esogena potrebbe rappresentare una valida forma di immunoterapia.
L'osservazione che cellule della leucemia T dell'adulto (ATL) esprimono costitutivamente un'elevata concentrazione di recettori per IL-2, al contrario dei linfociti T non attivati, è stata utilizzata per disegnare protocolli terapeutici con agenti capaci di eliminare cellule che esprimono recettori per IL-2. Questi protocolli terapeutici sono basati sull'utilizzazione di anticorpi monoclonali anti-Tac (p55), che riconoscono il recettore per IL-2 espresso da linfociti T umani, o di IL-2 coniugata a tossine. Gli anticorpi anti-Tac sono stati iniettati in pazienti con ATL per via endovenosa sotto diverse forme: non modificati, coniugati a una tossina, quale la catena A della ricina, o coniugati a isotopi α−emittenti, quali il bismuto-212. Le prime prove cliniche per valutare l'efficacia di questi protocolli terapeutici sembrano essere positive e possono essere estese ad altre patologie caratterizzate da un aumento di cellule Tac+, quali sono alcune malattie autoimmuni e il rigetto dei trapianti.
Oltre a IL-2 anche altre citochine sono attive in vivo e le loro potenzialità terapeutiche vengono attualmente verificate da numerosi gruppi di ricerca. Per es., IL-3 e GM-CSF sono ora utilizzati in prove cliniche per migliorare le condizioni del sistema immunitario nel corso di trattamento radiante o chemioterapico, nelle ipoplasie mieloidi e nelle sindromi da neutropenia. Inoltre, si prevede di usare queste citochine nella cura di infestazioni da elminti e protozoi, in cui macrofagi e granulociti hanno un importante ruolo difensivo.
Regolazione della risposta immune. -La risposta immune è finemente regolata e dipende dall'attività stimolante esercitata da cellule T cooperanti, dalle funzioni modulatorie delle citochine, dall'attività inibente mediata da vari meccanismi soppressori e dall'attività regolatoria esercitata dal controllo isotipico e idiotipico.
Il controllo isotipico della risposta anticorpale consiste nella stimolazione o inibizione della risposta da parte di anticorpi rispettivamente della classe IgM e IgG. Questi effetti antitetici possono dipendere dalla modificazione dell'immunogenicità dell'antigene risultante dalla formazione di complessi con diverso rapporto antigene/anticorpo. Solitamente, l'inibizione da anticorpi IgG è mediata da inibizione diretta delle cellule B o da induzione delle cellule T soppressorie.
Il controllo idiotipico implica la presenza di idiotopi sui recettori delle cellule B e T e sull'Ig ed è basato sulla teoria del network idiotipico proposta da N.K. Jerne. Questa teoria presuppone: a) un dato idiotipo può essere associato a siti combinatori specifici per differenti antigeni; b) siti combinatori con la stessa specificità antigenica possono avere idiotipi diversi. Secondo la teoria del network, ogni sito combinatorio non solo riconosce epitopi (determinanti antigenici oppure idiotopi) ma è anche riconosciuto da siti anti-idiotipo presenti nello stesso sistema. La struttura del network, formulato da Jerne per le cellule B, è costituita da 4 tipi cellulari: cellula 1, con recettore Id+ specifico per un epitopo (E) dell'antigene; cellula 2, con recettore specifico per l'Id della cellula 1; cellula 3, con recettore Id+ riconosciuto dal recettore anti-E della cellula 1 (Id della cellula 3 è denominato immagine interna dell'antigene); cellula 4, con recettore Id+ riconosciuto dal recettore della cellula 2 (Id comune ai recettori della cellula 1 e 4 benché specifici per epitopi diversi). Prima dell'immunizzazione, le interazioni fra questi tipi di cellule mantengono il sistema soppresso. Dopo l'immunizzazione, l'antigene perturba il sistema, che risponde per mantenere l'omeostasi iniziale, finché un nuovo livello di equilibrio viene raggiunto. In assenza di antigene, la cellula 1 è stimolata dall'idiotipo della cellula 3, che rappresenta l'immagine interna di E, a produrre anticorpi specifici per l'idiotipo della cellula 3, ma è soppressa dalla cellula 2. In questa condizione gli anticorpi prodotti dalla cellula 1 inibiscono la cellula 3 e stimolano la cellula 2 a produrre anticorpi anti-idiotipo della cellula 1. La presenza dell'antigene perturba il sistema, perché E si lega agli anticorpi della cellula 1, che normalmente circolano in bassa concentrazione. La rimozione di questi anticorpi provoca un'espansione della popolazione di cellule 3 con idiotipo simile a E e riduce la stimolazione delle cellule 2. Ne consegue un'espansione della popolazione di cellule 1 che producono anticorpi anti-E. L'aumentata concentrazione di questi anticorpi stimola le cellule 2 e quindi la soppressione della produzione di anticorpi anti-E. Si raggiunge in questo modo un nuovo equilibrio con un numero di cellule 1 diverso da quello precedente l'immunizzazione. Un gran numero di risultati sostengono che la teoria del network idiotipico, originariamente proposta per le cellule B, può essere estesa anche alle cellule T regolatorie ed effettrici.
Oltre a questi meccanismi di regolazione intrinseca ne esistono di regolazione estrinseca che amplificano o inibiscono la risposta immune. Si tratta dell'influenza del sistema nervoso e del sistema endocrino sulle cellule del sistema immunitario, mediata da neuropeptidi e ormoni. Alcuni effetti immunoregolatori indotti da questi mediatori sono riportati nella tab. 6. Inoltre si può notare che le cellule del sistema immunitario producono alcuni ormoni e neuropeptidi (tab. 7) così come alcune cellule nervose (astrociti) producono alcune citochine (IL1 e IL-3). In conclusione, l'esistenza di comunicazioni reciproche fra i sistemi immunitario, nervoso ed endocrino aumenta il livello di complessità e di fine regolazione della risposta immune.
La scoperta della partecipazione del sistema nervoso ed endocrino alla risposta immune e dell'azione di prodotti del sistema immunitario sui sistemi nervoso ed endocrino offre una base scientifica per spiegare antiche credenze della cultura popolare sulla relazione fra condizioni psichiche e malattia. È noto, infatti, che lo stato emotivo può influire sul decorso di una malattia, come già segnalato dalla testimonianza di Galeno che l'incidenza di tumori femminili è maggiore in donne che soffrono di melanconia. Successivamente, è stato più volte confermato il ruolo dello stato psichico dell'individuo nell'insorgenza di malattie infettive o neoplastiche, specialmente in condizioni di stress che inducono un alterato stimolo delle fibre nervose vegetative dei tessuti linfatici e un'aumentata secrezione degli ormoni corticosteroidi ad azione immunosoppressiva. Reciprocamente, è stata dimostrata una diminuzione delle facoltà cognitive in corso di malattie infettive correlata ai livelli di interferone circolante nelle diverse fasi della patologia virale, suggerendo un'influenza del sistema immunitario sul sistema nervoso centrale.
Il recente sviluppo della psico-neuro-endocrino-immunologia denota l'evoluzione dell'immunologia verso una collocazione epistemologica di tipo olistico. Infatti, pur approfondendo lo studio analitico del sistema immunitario a livello molecolare, genetico e cellulare, l'immunologia attuale tende a considerare la risposta immune dell'individuo come un processo integrato che coinvolge più sistemi interdipendenti attivati dalla stimolazione antigenica del sistema immunitario.
Tolleranza immunitaria. - La tolleranza immunitaria è il risultato di una serie di meccanismi che prevengono la risposta immunologica dei linfociti T e B all'antigene e, in particolare, ad antigeni propri dell'organismo (autoantigeni o self-antigeni o antigeni-self).
Nel 1945 R.D. Owen osservò che spesso in vitelli dizigotici, per la fusione della placenta, si instaura uno stato di chimerismo per cui sono tollerati tessuti che, se trapiantati in età adulta a un gemello in cui non è avvenuto lo scambio di sangue placentare, verrebbero subito rigettati. Sulla base di questi risultati F.M. Burnet e F. Fenner conclusero che, se il sistema immunitario viene a contatto con un antigene estraneo nella fase in cui impara a distinguere self e not-self, questo antigene viene tollerato permanentemente come self.
Nella tolleranza il fattore critico non è rappresentato dall'immaturità dell'animale, ma dall'immaturità del sistema immunitario, come dimostrato dagli esperimenti con chimere di midollo osseo. Infatti, se animali adulti (A × B)F1 vengono letalmente irradiati e ricostituiti con lo stesso numero di cellule staminali di midollo provenienti da animali adulti dei due ceppi parentali, dopo circa 6÷8 settimane i tessuti linfatici degli animali F1 sono costituiti da numeri uguali di linfociti maturi di ceppo A e B. Questi linfociti sono reciprocamente tolleranti e funzionano normalmente nella risposta immunitaria contro antigeni diversi da quelli dei topi A e B. Il rapporto 1:1 tra linfociti A e B viene mantenuto molto a lungo e, poiché la ricostruzione è stata ottenuta mediante l'inoculazione di cellule staminali, questi animali sono chimere per quanto riguarda l'intero sistema emopoietico.
Si possono distinguere quattro meccanismi principali capaci di indurre la tolleranza ad autoantigeni: a) sequestro di antigeni self; b) delezione di linfociti capaci di reagire con antigeni self; c) anergia, cioè incapacità di risposta di linfociti potenzialmente autoreattivi; d) soppressione di linfociti autoreattivi. In generale, questi meccanismi non si escludono a vicenda e possono essere tutti operanti per mantenere la tolleranza ad antigeni self.
Sequestro di autoantigeni. - Se un antigene self non può entrare in contatto con il sistema immunitario non è in grado di indurre una risposta. Il sequestro di autoantigeni mediante rigide barriere anatomiche costituisce però un meccanismo poco importante per l'induzione e il mantenimento della tolleranza ad antigeni self. Autoantigeni normalmente sequestrati sono per es. le proteine del cristallino, degli spermatozoi e dei neuroni, e infatti questi antigeni, se iniettati, sono fortemente immunogenici. D'altra parte, considerando il traffico linfocitario attraverso i tessuti e il catabolismo cellulare, è evidente che antigeni self e peptidi da essi derivati possono essere facilmente presentati da cellule accessorie ai linfociti T. In questo modo si potrebbe innescare una risposta autoimmune, se non esistessero altri meccanismi capaci di mantenere la tolleranza al self.
Delezione dei linfociti autoreattivi. - Questo meccanismo di induzione della tolleranza al self riguarda soprattutto i linfociti T durante la loro differenziazione intratimica e rappresenta probabilmente il più importante meccanismo di tolleranza ad antigeni self.
Sulla base del fenotipo CD4/CD8 e sull'espressione del TCR α/β si possono distinguere quattro stadi di differenziazione intratimica dei linfociti T. I linfociti T più immaturi non esprimono né CD4/CD8 né TCR α/β. In uno stadio più avanzato di differenziazione essi esprimono sulla membrana sia CD4 che CD8 e possiedono nel citoplasma la catena β del TCR. Successivamente, le cellule CD4 e CD8 esprimono anche TCR α/β in bassa concentrazione. A questo stadio avvengono sia la selezione positiva che quella negativa dei linfociti T e viene così stabilito il repertorio delle cellule T che sono in grado di differenziarsi ulteriormente e quindi di emigrare dal timo.
La selezione positiva comporta due eventi molto importanti: 1) permette ad alcuni linfociti T di evitare la morte cellulare programmata (apoptosi); 2) induce la perdita selettiva di CD4 o CD8 per cui i linfociti T da doppi positivi diventano singoli positivi funzionalmente maturi. In questo stesso stadio differenziativo avverrebbe anche la selezione negativa che consiste nell'eliminazione (delezione) di linfociti T capaci di reagire con molecole MHC oppure con complessi formati da molecole MHC e peptidi derivati da antigeni-self. Queste conclusioni sono basate su due tipi di osservazioni.
Il sito combinatorio del TCR α/β è formato da entrambe le catene, ma per alcuni antigeni la catena β sembra essere l'elemento dominante per il riconoscimento dell'antigene. Per es., una proporzione molto elevata delle cellule T che reagiscono con la molecola MHC di classe II I-E possiede un TCR contenente una particolare regione variabile Vβ, Vβ17a. Nei ceppi di topi che mancano delle molecole I-E, e quindi non sono tolleranti a questo antigene, il 4÷14% delle cellule T periferiche esprimono TCR contenente Vβ17a. In contrasto, linfociti T nella milza e nei linfonodi di topi che esprimono molecole I-E possiedono solo lo 0,1% di cellule Vβ17a+, mentre nel timo si osserva la stessa proporzione di linfociti T Vβ17a+ sia nei ceppi di topi che esprimono molecole I-E che in quelli che non le esprimono. Quindi la presenza della molecola I-E causa l'eliminazione di cellule T periferiche mediante TCR contenente Vβ17a+, capace di riconoscerla. Il segnale di delezione potrebbe essere dato da cellule dendtitiche della giunzione cortico-midollare del timo che sono capaci di presentare peptidi, dericati dalla molecola I-E e associati a molecole MHC, ai linfociti T in transito. Queste osservazioni sono state confermate utilizzando anche un differente antigene self, denominato Mls.
I topi transgenici sono stati particolarmente utili per analizzare i meccanismi di induzione della tolleranza. Un esperimento molto significativo è quello che ha utilizzato l'antigene maschile H-Y. Questo antigene, presente solo in topi maschi, attiva cellule T quando tessuti di topi maschi sono trapiantati in topi femmine singenici. I geni del TCR α/β di un clone T citotossico, capace di riconoscere l'antigene H-Y, sono stati isolati e iniettati in uova fertilizzate. I topi transgenici così ottenuti di sesso femminile, che non possiedono antigene H-Y e quindi non sono tolleranti ad esso, esprimevano il TCR transgenico in un'alta proporzione di linfociti T periferici. In contrasto, cellule T di topi transgenici di sesso maschile non esprimevano il TCR transgenico capace di riconoscere l'antigene H-Y. Inoltre, il timo dei topi transgenici di sesso maschile dimostrava una notevole deplezione di linfociti T. Evidentemente il processo di delezione aveva eliminato i numerosi timociti immaturi che esprimevano il TCR transgenico. Rispetto all'esperimento precedente, la delezione dei timociti coinvolgeva non solo quelli della giunzione cortico-midollare ma anche quelli dell'intera regione corticale del timo. Questa differenza probabilmente riflette la diversa restrizione della risposta delle cellule T. Infatti l'antigene H-Y è presentato in associazione con molecole MHC di classe I, presenti su tutte le cellule somatiche, mentre l'antigene I-E è presentato da molecole MHC di classe II, poco frequenti nella corticale timica ma abbondanti nella giunzione cortico-midollare.
Anergia clonale. - Un terzo meccanismo di induzione della tolleranza consiste nel rendere cellule potenzialmente autoreattive incapaci di rispondere, senza tuttavia eliminarle fisicamente. Questo meccanismo coinvolge soprattutto linfociti B ed è stato analizzato in dettaglio utilizzando due tipi di topi transgenici. Nel primo caso il transgene iniettato consisteva nel gene del lisozima di pollo (Hen Egg-white Lysozyme, HEL). Questi topi transgenici producevano concentrazioni molto elevate di HEL a partire dalle prime fasi di vita e sia i linfociti T che quelli B erano tolleranti a HEL. Nel secondo caso il transgene iniettato conteneva i geni riarrangiati VDJ della catena pesante di un anticorpo anti-HEL ad alta affinità, le regioni costanti Cμ e Cδ, e i geni riarrangiati della catena leggera dello stesso ibridoma anti-HEL. Nei topi transgenici, che avevano integrato i geni sia della catena pesante che di quella leggera dell'anticorpo anti-HEL, circa il 90% delle cellule B spleniche esprimeva le immunoglobuline transgeniche anti-HEL, sia nella forma IgM che IgD. Questi topi producevano spontaneamente concentrazioni molto elevate di anticorpi anti-HEL. Questi due tipi di topi transgenici sono stati quindi accoppiati per creare topi F1 doppi transgenici, sia per l'antigene HEL che per anticorpi anti-HEL. In questi topi doppi transgenici le cellule B anti-HEL non erano assenti ma profondamente anergiche, in quanto non solo non producevano spontaneamente anticorpi anti-HEL, ma erano anche incapaci di rispondere a HEL coniugato a un carrier immunogenico.
Il meccanismo dell'anergia clonale non è chiaro. In generale potrebbe essere spiegato con la teoria del doppio segnale, proposta nel 1970 da P. Bretscher e M. Cohn, secondo cui, se una cellula B lega l'antigene provocando il cross-linking dei recettori Ig in assenza di un segnale costimolatorio prodotto da cellule T (per es. interleuchina), diventa anergica, mentre la presenza dei due segnali induce attivazione. Nel caso dei topi doppi transgenici per HEL e anti-HEL questo potrebbe essere il meccanismo di anergia clonale, anche se non si può escludere l'induzione di cellule T soppressorie specifiche per HEL.
L'anergia clonale può anche essere osservata a livello delle cellule T periferiche. In topi transgenici costruiti iniettando geni MHC di classe II uniti al promotore dell'insulina il transgene viene espresso esclusivamente a livello delle cellule β del pancreas che secernono insulina. Questi animali diventano diabetici, ma la malattia dipende da un effetto tossico diretto dell'aberrante espressione di molecole MHC di classe II nelle cellule β e non dall'attivazione di meccanismi immunologici. Questi topi sono tolleranti alle molecole MHC transgeniche anche se queste sono espresse soltanto nel pancreas e non nel timo, il che indica che un meccanismo di anergia clonale è probabilmente responsabile dell'induzione di tolleranza nelle cellule T periferiche.
Soppressione. - L'osservazione iniziale che suggeriva fenomeni di soppressione delle cellule T in alcune forme di tolleranza è stata ottenuta dal trasferimento di tolleranza mediante iniezione di cellule T da animali tolleranti ad animali normali. Questo tipo di esperimento, originariamente condotto nel 1970 da R. K. Gershon, che coniò l'espressione tolleranza infettiva, è stato confermato in molte situazioni sperimentali e non ci sono dubbi sulla sua riproducibilità. D'altra parte il fenotipo, il TCR e la specificità delle cellule T soppressorie, così come la caratterizzazione biochimica delle molecole con attività soppressoria, sono ancora controverse. È possibile che fenomeni di soppressione nell'induzione e mantenimento della tolleranza al self siano mediati da cellule T soppressorie con TCR α/β che riconoscono determinanti antigenici (idiotipi) presenti sul TCR di cellule T anti-self. Se cellule T potenzialmente anti-self lasciano il timo, possono incontrare peptidi self associati a molecole MHC, dando origine a cellule autoreattive. Queste cellule, a loro volta, potrebbero attivare cellule T anti-idiotipiche con funzione soppressoria.
Anche se è difficile valutare con precisione il ruolo relativo dei diversi meccanismi di induzione e mantenimento della tolleranza, è verosimile che la delezione a livello timico di cloni potenzialmente autoreattivi sia quello più importante. A livello periferico sono attivi sia meccanismi di anergia clonale che meccanismi di soppressione, ma mentre i primi sembrano coinvolti soltanto nel mantenimento della tolleranza i secondi potrebbero rivestire un ruolo secondario nella tolleranza e avere invece un ruolo primario nella regolazione della risposta ad antigeni not-self.
Un modello che illustra l'importanza dei meccanismi periferici di tolleranza nel controllo della risposta ad autoantigeni è quello del quinto componente del sistema del complemento (C5). I topi B10.D2/NSN (C5 presente) e B10.D2/OSN (C5 assente) sono topi congenici che differiscono soltanto per l'espressione di C5. Topi NSN, che possiedono C5, sono tolleranti a questa proteina, mentre topi OSN, che non la producono, non sono tolleranti. Linfociti da topi OSN iniettati in topi NSN riconoscono C5 come una proteina estranea e rispondono a essa. È interessante notare che nei due ceppi di topi le cellule B sono in grado di produrre anticorpi anti-C5. Questo è uno dei molti esempi in cui la tolleranza non esiste a livello delle cellule B ma solo a quello delle cellule T, la cui mancata attivazione impedisce l'espressione delle cellule B C5-specifiche. La tolleranza nei topi con C5 è mantenuta sia da cellule T soppressorie antigene-specifiche che da anergia clonale, e ciò sembra essere vero anche per altri autoantigeni quali tireoglobulina, α−fetoproteina e antigene F delle cellule epatiche. Numerosi fattori che dipendono sia dall'antigene che dall'individuo influenzano l'induzione, la durata e il grado di tolleranza.
Proprietà dell'antigene. - In generale è relativamente facile indurre la tolleranza ad antigeni, come i polisaccaridi, che sono eliminati molto lentamente. Le caratteristiche fisiche dell'antigene sono molto importanti nel determinare la sua capacità a indurre i. o tolleranza come dimostrato dagli esperimenti di D. W. Dresser sull'induzione della tolleranza a gammaglobuline eterologhe in topi adulti. Infatti, separando per ultracentrifugazione gammaglobuline umane (Human Gamma Globulin, HGG) in una frazione solubile e una frazione aggregata, la prima induce tolleranza e la seconda induce immunizzazione, come dimostrato dalla risposta alla ristimolazione con HGG aggregate. Il peso molecolare è un'importante caratteristica dell'antigene, che ne influenza la capacità tolerogena o immunogena. Per es., la flagellina polimerizzata (p.m. 107) è un immunogeno mentre la flagellina monomerica (p.m. 40.000) è un tolerogeno, benché questi due composti siano formati da determinanti antigenici identici.
Dose di antigene. - In generale, la tolleranza è indotta tanto più facilmente e persiste più a lungo quanto maggiore è la dose di antigene iniettato. Oltre che da elevate concentrazioni di antigene (high-zone tolerance) la tolleranza può essere indotta anche da dosi subimmunogeniche di antigene (low-zone tolerance) . Si ritiene che la tolleranza a bassa dose dipenda da mancata risposta delle cellule T cooperanti, mentre la tolleranza ad alta dose riflette incapacità di risposta sia delle cellule T cooperanti che delle cellule B.
Somministrazione dell'antigene. - In generale si può osservare che l'induzione della tolleranza è favorita dalla somministrazione di antigene in forma solubile per via endovenosa o attraverso l'apparato digerente. Per es., l'iniezione ripetuta di sieroalbumina bovina (BSA) solubile in conigli adulti induce tolleranza a dosi basse (1-10 μg) o elevate (1-10 mg) e immunizzazione a dosi intermedie. L'effetto dell'iniezione di BSA solubile viene evidenziato dall'iniezione secondaria di BSA in CFA, che dimostra l'avvenuta induzione della tolleranza o dell'immunizzazione.
Immunocompetenza dell'individuo. - Anche se si può indurre la tolleranza in animali adulti essa è indotta molto più facilmente in animali immunologicamente incompetenti, quali i neonati o animali immunosoppressi, per es., da radiazioni, da iniezione di siero anti-linfocitario o di ciclofosfamide (300 mg/kg).
Cinetica cellulare. - La tolleranza viene indotta sia in cellule T che in cellule B come dimostrato dal seguente esperimento di trasferimento adottivo. Le cellule di timo e di midollo osseo da topi iniettati con dosi tolerogene di gammaglobulina bovina deaggregata (DBGG, 2,5 mg/topo in forma solubile per via endovenosa) sono state trasferite assieme a cellule normali, rispettivamente di midollo o di timo, in topi riceventi singenici irradiati che venivano quindi iniettati con dosi immunogeniche di BGG. La risposta anticorpale anti-BGG ottenuta in questi topi era quindi paragonata a quella ottenuta in riceventi in cui erano state trasferite solo cellule normali di timo e di midollo. Si può notare che la tolleranza viene indotta più rapidamente (meno di 24 ore) in cellule T che in cellule B (8÷15 giorni). Inoltre la tolleranza dura più a lungo in cellule T (120÷135 giorni) che in cellule B (40÷50 giorni) e viene indotta in cellule T con dosi di antigene inferiori a quelle necessarie per indurre tolleranza nelle cellule B.
Mentre la tolleranza indotta dall'iniezione di proteine eterologhe viene perduta spontaneamente se si sospende la somministrazione di antigene, quella indotta dal trapianto di cellule è permanente in quanto si instaura uno stato di chimerismo stabile. Per es., topi di ceppo A iniettati alla nascita una sola volta con cellule di milza di topi di ceppo CBA accettano, in età adulta, un trapianto di cute da topi CBA e rigettano trapianti provenienti da altri ceppi di topi. Ciò dipende dal fatto che le cellule allogeniche iniettate alla nascita sono accettate permanentemente e continuano a replicarsi.
Perdita della tolleranza. - Lo stato di tolleranza indotto da una singola iniezione di proteine eterologhe termina dopo 4÷5 mesi, quando riprende la funzione delle cellule T cooperanti. Ciò dipende dal fatto che la tolleranza richiede la presenza del tolerogeno in concentrazione adeguata. Oltre che spontaneamente, la perdita della tolleranza può essere indotta da una serie di condizioni sperimentali che accelerano l'eliminazione del tolerogeno, stimolano il rinnovo dei linfociti o eliminano i linfociti T soppressori. Si può, infatti, eliminare la tolleranza mediante il trasferimento di linfociti normali o di anticorpi specifici, la somministrazione di ciclofosfamide o di raggi X, di adiuvanti o di attivatori policlonali dei linfociti B (LPS), l'induzione di GvHR, l'immunizzazione con antigeni cross-reattivi con il tolerogeno. L'efficacia di questi trattamenti dipende dall'alterazione dell'equilibrio raggiunto fra sistema immunitario e tolerogeno.
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