GIUSTINIANO, imperatore d'Oriente
La figura di G. s'impone all'attenzione dello storico per la sua personalità e per l'imponenza della sua opera, che fu multiforme e influì enormemente sullo svolgimento politico e culturale dell'Oriente e dell'Occidente. Il suo regno rappresenta un momento definitivo nel moto di trasformazione dell'impero da romano in bizantino. Sotto di lui e per sua iniziativa, da un lato, si compie il più poderoso sforzo che si sia mai fatto dalla morte di Teodosio in poi per restaurare, con la conquista delle provincie occidentali, l'unità del mondo romano, e dall'altro si rende manifesta, in modo definitivo, l'impossibilità di una duratura unione politica dell'Occidente con l'Oriente; da un lato, si raccolgono in un codice le antiche leggi romane, monumento imperituro della sapienza giuridica dell'antica Roma al quale G. lega il proprio nome, dall'altro appaiono nell'ordinamento dello stato e nella stessa legislazione quelle forme e quelle tendenze, in prevalenza cristiano-orientali, che diventeranno distintivi dell'Impero bizantino; da un lato, si ribadisce l'obbligo della lingua latina nell'amministrazione pubblica e se ne promuove lo studio, dall'altro il greco fa dei progressi negli usi della corte e penetra finanche nella legislazione, e l'arte assume in Oriente forme peculiari che la distinguono dall'arte romana e dall'arte occidentale.
G. ebbe umili e oscure origini. Nacque nel 482 d. C. a Tauresium, villaggio forse vicino all'odierna Uskub in Macedonia.
È stato affermato da qualcuno che egli fosse di stirpe slava e che il suo nome di battesimo fosse Upravda, ma senza fondamento. La Vita di G. attribuita a un certo abate Teofilo, dalla quale l'Alemanni, per il primo, trasse quella notizia, è, come ha provato il Bryce e come è ormai ammesso dagli studiosi, una compilazione dei primi del sec. XVII e non ha valore storico (J. Bryce, Life of Justinian, in English Hist. Review, 1887).
Apparteneva senza dubbio a famiglia romana o illirico-romanizzata e la sua lingua materna era la latina. Nei dittici consolari è chiamato Flavius Petrus Sabbatius Iustinianus; e da questi nomi possiamo ben desumere quale fosse il suo proprio, sapendosi che il padre di lui si chiamava Sabbatios e che Iustinianus si disse per essere stato adottato dallo zio Giustino. Non è noto in quale anno dalla Macedonia si trasferisse in Costantinopoli; certo è che egli ebbe un'accurata educazione, come è dimostrato dalle sue vaste e sicure cognizioni giuridiche e teologiche. Di lui nelle cronache bizantine non si parla se non dal momento in cui Giustino salì al trono (518). G. fu allora elevato alle più alte cariche e, per la sua capacità, e anche perché Giustino non aveva figlioli e oltre che essere molto avanti negli anni, mancava d'istruzione, divenne la mente direttiva del governo. A lui si deve, senza dubbio, il cambiamento d'indirizzo che allora si operò nella politica ecclesiastica dell'impero. Fu in questo periodo di tempo che G. conobbe e sposò Teodora e fu questo un avvenimento di grande importanza soprattutto perché Teodora sul trono si dimostrò donna di alta intelligenza e di forte volontà e influì sulla politica dell'imperatore. Senza soffermarci ad esaminare quale fondamento abbiano le accuse di vita scandalosa lanciate da Procopio contro Teodora, notiamo solo che il matrimonio, se pure si dovettero vincere alcune difficoltà per celebrarlo, non suscitò né scandalo né sorpresa a Costantinopoli, né nocque al prestigio e alla fortuna di G. Questi, il 1° aprile 527, fu dallo zio associato al trono: nello stesso giorno Teodora fu sposata e incoronata con grande solennità in Santa Sofia; e quando, nell'agosto successivo, Giustino morì, essi furono riconosciuti e acclamati legittimi sovrani.
G. era allora nel pieno dell'età virile. I suoi contemporanei ci hanno lasciato abbondanti notizie intorno al suo carattere e alle sue abitudini. Essi sono quasi unanimi nel lodare la cortesia e l'affabilità dei suoi modi, che lo rendevano accessibile a tutti, anche ai più umili; la sua mansuetudine e carità, la sua pietà, la sollecitudine per il pubblico bene, l'assiduità al lavoro per cui dai suoi contemporanei fu chiamato: l'insonne (βασιλεὺς ἀκοίμητος); ma notano anche che era geloso degli altrui meriti, avido di denaro, sensibile all'adulazione, facile nel dare ascolto alla calunnia, debole di volontà.
In realtà egli non fu un "debole di volontà" e "un'anima mediocre" come ammette anche il suo più recente biografo (Diehl). Se, invece che a certi episodî contingenti della sua vita e del suo regno, si guarda all'insieme della sua opera, c'è in questa una nobiltà d'intenti e una continuità di sviluppo che contrastano con l'asserita debolezza di volontà e mediocrità d'anima. Pochi sovrani hanno avuto un concetto così alto dell'autorità, dei diritti e dei doveri imperiali quanto G. Per il fatto stesso di essere il successore dei Cesari egli si crede investito da Dio di una missione universale. Roma è all'apice dei suoi pensieri: restaurarne le leggi, gli ordini, i confini, è il programma che egli si propone sin dal momento in cui perviene al potere e al quale si mantiene fedele poi per tutta la vita. Certo egli ebbe dei momenti di dubbio e di depressione e parve qualche volta smarrirsi, ma si riprese sempre e, quel che più conta, non abbandonò mai la via che si era tracciata, né venne meno alla sua missione. Certo, anche, egli ebbe preziosi collaboratori alla sua opera; ricordiamo fra i principali: Triboniano (v.), giureconsulto di grande valore, che fu questore del sacro palazzo, cioè capo della cancelleria e ministro della giustizia, e presiedette ȧi lavori per l'unificazione e la riforma delle leggi; Giovanni di Cappadocia, prefetto del pretorio e ministro delle finanze, uomo corrotto, ma di straordinaria capacità nell'escogitare misure fiscali atte a dare all'erario le somme che occorrevano a sostenere la politica del monarca; Belisario e Narsete che con le loro imprese militari raddoppiarono l'estensione dell'impero; ma essi non furono se non gli esecutori dei suoi ordini, gli strumenti della sua politica. G. riservò sempre a sé l'iniziativa dell'azione e il diritto di decisione, non permettendo mai, come nota Procopio (Le Inedite, ed. Comparetti, p. 96) che "alcuno deliberasse di proprio arbitrio negli affari dello stato". Nemmeno Teodora, la quale, come abbiamo detto, fu donna di grande energia e che G. volle associata agli atti del suo governo, riuscì mai a far prevalere totalmente la sua politica religiosa che era favorevole ai monofisiti e contrastava con quella del marito.
Le difficoltà che sin dall'inizio del regno gli si paravano dinnanzi erano veramente enormi, poiché si trattava non solo di riconquistare l'Occidente, dove Vandali, Visigoti, Franchi, Ostrogoti dominavano da oltre un secolo, ma anche di riformare all'interno dello stato l'amministrazione pubblica, di far cessare i contrasti e le lotte religiose che indebolivano l'impero, di dare un nuovo impulso alle forze economiche che avevano il loro centro in Oriente. Egli procedette con grande energia affrontando in pieno la situazione. Pochi mesi dopo il suo avvento, nel febbraio 528, nominò una commissione di giureconsulti, presieduta da Triboniano, con l'incarico di rivedere, coordinare e unificare le leggi romane. Mentre si attuava questa vasta opera legislativa (v. appresso) G., da un lato, intraprese la riforma dell'amministrazione pubblica colpendo i funzionarî prevaricatori e venali, rendendo più rigida la riscossione delle tasse; dall'altro, accentuò la politica favorevole all'ortodossia e al riavvicinamento con la Chiesa romana, che era la premessa necessaria per la riconquista dell'Occidente cattolico. Con una serie di rescritti, emanati nel 527 e nel 528, egli non solo colpì duramente i pagani, ai quali furono confiscati i beni e posta l'alternativa fra la conversione e l'esilio - l'università di Atene, dove si conservava la tradizione pagana, fu chiusa il 529 - ma anche gli eretici, monofisiti, nestoriani, manichei, montanisti, i quali furono esclusi dagli uffici pubblici, mentre molti vescovi dissidenti furono destituiti ed esiliati. Questa politica di persecuzione, com'è facile immaginare, provocò una viva reazione. La venalità era una tradizione in Bisanzio, l'attaccamento all'eresia, specialmente alla monofisita, in alcune provincie come la Siria, l'Egitto, e nella stessa capitale, era profonda, e l'accrescimento degli oneri fiscali pesava al popolo che non era in floride condizioni economiche. Il malcontento trovò un'espressione nell'ippodromo di Costantinopoli che era il luogo dove si manifestavano meglio gli umori del pubblico.
Al tempo di G. due erano le fazioni che dominavano nell'ippodromo: gli Azzurri (Βέξετοι) e i Verdi (Πράσινοι). Essi si disputavano il favore imperiale e per il numero degli aderenti, per le loro ricchezze, per i privilegi di cui godevano costituivano dei veri potenti partiti politici coi quali il governo doveva fare sempre i conti. I Verdi sostenevano il monofisismo ed erano stati favoriti da Anastasio; G. favorì gli Azzurri che erano ortodossi. Sembra che, forti dell'appoggio imperiale, questi si siano abbandonati ad ogni sorta di eccessi; certo si è che i Verdi furono esasperati al punto da rivolgere le loro ire contro il governo dal quale non si ritenevano sufficientemente tutelati nei loro diritti né nella loro incolumità personale. La loro fazione divenne il centro di ogni risentimento e opposizione, politica e religiosa, contro il governo, e la rivolta assunse anche un carattere dinastico in quanto erano ancora vivi i nipoti di Anastasio imperatore, i cui diritti alla successione si ritenevano conculcati da Giustino.
L'11 gennaio 532, durante lo spettacolo delle corse, al quale assisteva l'imperatore, i Verdi provocarono un violento tumulto accusando apertamente i loro rivali di avere assassinato alcuni dei loro e reclamandone la punizione. Per calmare l'opinione pubblica e anche per dar prova di imparziale giustizia, il giorno dopo furono arrestati alcuni dei membri più compromessi dell'una e dell'altra fazione; ma questo provvedimento invece di ristabilire la calma eccitò maggiormente gli animi. I due partiti, ritenendosi egualmente offesi nei loro privilegi e minacciati. dimenticarono a un tratto i loro contrasti e si unirono contro il governo. Il 14 essi reclamarono la liberazione degli arrestati e la destituzione del prefetto della città e dei ministri Triboniano e Giovanni di Cappadocia contro i quali si appuntavano gli odî per le recenti leggi fiscali e per la politica di rigore seguita da G. Il monarca cedette; ma quest'atto di debolezza gli fu fatale e lo stesso giorno il tumulto si cambiò in aperta rivoluzione. Le milizie che il governo aveva a sua disposizione furono nel primo impeto sopraffatte e dovettero per alcuni giorni limitarsi alla difesa della reggia. Rimasti padroni della città, gl'insorti al grido di Νίκα (vinci), grido che diede poi nome all'avvenimento, si abbandonarono a ogni sorta di violenze. Il 18, G. tentò un colpo di audacia. Egli apparve nella loggia imperiale dell'ippodromo, diventato il quartiere generale degl'insorti, e tenendo in mano i Vangeli cominciò ad arringare la folla esortandola a rientrare nell'ordine, con promessa di una generale amnistia. Ma le sue parole furono coperte da improperî e minacce, sì che egli dovette ritirarsi in fretta mentre la folla più esasperata che mai acclamava imperatore Ipazio, nipote di Anastasio. Nella corte si passarono momenti di grande ansietà e in un consiglio della corona convocato da G. si discusse se non fosse opportuno che i sovrani si allontanassero da Costantinopoli. Teodora si oppose recisamente a questa proposta e il suo energico atteggiamento spinse a tentare un'azione risolutiva. Lo stesso giorno, mentre Narsete con denaro e promesse riusciva a insinuare la divisione fra i rivoltosi, Belisario lanciava le milizie imperiali contro l'ippodromo. Dopo un furioso combattimento, nel quale non meno di 30.000 uomini caddero uccisi, questo fu espugnato. La rivolta allora fu domata completamente e Giustiniano ne approfittò non solo per fare le sue vendette ma anche per consolidare l'assolutismo. Ipazio, i capi superstiti delle fazioni, un gran numero di senatori furono o giustiziati o esiliati; si procedette a una vasta confisca di beni che mentre abbassava la potenza dei grandi latifondisti, fu molto vantaggiosa all'erario pubblico; si limitarono i privilegi e le attribuzioni delle fazioni togliendo loro il carattere politico; furono emanate nuove e più severe ordinanze per la riforma della pubblica amministrazione e ai funzionarî statali fu imposto l'obbligo del giuramento di fedeltà al sovrano. Con ciò l'opposizione all'interno non scomparve del tutto, come non furono mai totalmente eliminati gli abusi nei pubblici uffici; ma il potere monarchico acquistò una nuova forza e G. senza troppe preoccupazioni per la situazione interna poté volgere le sue forze a realizzare i progetti di restaurazione imperiale.
I predecessori di G., quali eredi di Roma, non avevano mai cessato di rivendicare a sé il possesso dell'Occidente, ma l'impero era alle prese con troppi nemici in Oriente, quali i Persiani in Asia e le orde di Germani, Slavi, Unni sulla linea del Danubio, per poter volgere ad imprese lontane e rischiose le proprie forze. Quello che non avevano tentato gli altri intraprese G., non solo per quel senso di romanità che era in lui, ma anche per il desiderio di liberare dal dominio degli ariani le popolazioni cattoliche dell'Occidente e di ristabilire l'unità politica e religiosa del mondo romano.
Quando egli annunziò la sua decisione di intervenire con le armi in Africa, ci fu a Costantinopoli fra gli alti funzionarî civili e militari un vivo panico. L'impresa appariva formidabile e le risorse finanziarie e militari dell'impero inadeguate alle sue esigenze. Per tutti, in un consiglio della corona, parlò Giovanni di Cappadocia enumerando i pericoli della spedizione. Ma G. rimase fermo. Egli, nel 532, aveva concluso la pace col re di Persia per avere a sua completa disposizione tutto l'esercito; era già in relazione in Africa col re Ilderico che, privato del trono da Gelimero, invocava il suo intervento, e in Italia sia con Amalasunta che in urto coi principali dei Goti per la sua politica di conciliazione con l'elemento romano si era messa sotto la sua protezione e gli prometteva aiuti per l'impresa contro i Vandali, sia con Teodato che, nell'intento di ridurre nelle proprie mani il governo allontanandone Amalasunta, si diceva disposto a cedergli parte della penisola; suoi agenti sobillavano le popolazioni romane contro i dominatori rinfocolando gli odî religiosi.
La spedizione fu decisa e il 22 giugno 533 con un esercito di circa 16.000 uomini scortato da una flotta di 92 vascelli Belisario salpava da Costantinopoli. L'annunzio dell'intervento imperiale provocò nel regno vandalo insurrezioni dell'elemento romano. La campagna fu rapida e fortunata: sbarcato, ai primi di settembre, a Caput Vada, Belisario sconfisse i Vandali nelle battaglie di Decimum e di Tricamarum e nel marzo dell'anno seguente fece prigioniero il re Gelimero che fu condotto a Costantinopoli. Con ciò la resistenza dei Vandali non venne a cessare e negli anni seguenti ci furono guerriglie e insurrezioni pericolose specialmente dell'elemento berbero non latinizzato che fece causa comune coi Vandali, mentre la popolazione romana favorì sempre i Bizantini; ma il regno ormai era distrutto e l'Africa rientrata nell'orbita dell'impero. G. sin dal 534 vi ristabilì le leggi e l'amministrazione romana ordinandola in provincia del pretorio, e affidandola al patrizio Solomon che si dimostrò un ottimo governatore. Conquistata l'Africa, nel giugno del 535 fu intrapresa la spedizione contro i Goti d'Italia. Vi diede pretesto l'uccisione di Amalasunta ordinata da Teodato. L'impresa non si presentava qui così agevole come quella contro i Vandali e fu preparata con mezzi più vasti; ma G., oltre che sulla superiorità delle armi bizantine, contava sul favore delle popolazioni romane che in realtà poi non gli venne mai meno. Mentre Belisario nell'estate del 535 sbarcava a Catania e procedeva alla conquista della Sicilia, G. inviava un esercito nella Dalmazia per attrarvi una parte delle forze avversarie, e induceva il re dei Franchi, Teodeberto, a unirsi con lui contro i Goti. Assalito da ogni parte Teodato, temendo di fare la fine di Gelimero, domandò di trattare e offrì a G. la cessione dell'Italia a patto che i Goti vi sarebbero rimasti in qualità di federati. G. spedì dei legati per negoziare l'accordo, ma a un tratto, avendo i Goti riportato qualche successo e sentendo che Belisario era passato in Africa per reprimervi una sollevazione, Teodato mutò parere e fece imprigionare i legati imperiali. Ricominciò la guerra. Belisario, richiamato dall'Africa, nel maggio 536 sbarcava a Reggio e dopo quattro anni di lotta, occupava Ravenna, abbatteva il regno gotico. G. accompagnò e sorresse le operazioni militari con un'attiva azione diplomatica.
La sua condotta fu ferma e decisa fino al 540, ma da allora cominciò a farsi fiacca. La ragione di questo mutamento si deve attribuire non, come a volte si afferma, a un indebolimento di volontà o a un ripiegamento nella direttiva della politica estera di G., ma all'improvviso aggravarsi della situazione in Oriente. Appunto in quell'anno, 540, ci fu nella Balcania un'invasione di Unni che si spinsero minacciando nella Tracia, nella Macedonia e nella Grecia; mentre i Persiani, venendo meno ai patti del trattato del 532, ricominciavano la guerra in Asia. Oltre a ciò lo sforzo fatto per la riconquista dell'Occidente pesava sull'economia dell'impero e il bilancio dello stato era in gravi difficoltà. Belisario aveva ragione quando, rimandato nel 544 in Italia contro i Goti che sotto Totila avevano ripreso la guerra, rivolgeva disperati appelli all'imperatore facendogli presente che non bastava aver mandato un buon generale per vincere e che occorrevano denari e soldati; ma nelle condizioni in cui allora si trovava l'impero G. non poteva fare più di quanto fece.
G. non perse mai la fede nel successo finale dell'impresa rigettando tutte le offerte di accordi quando più disperata sembrava la situazione. Appena poté, tornò all'offensiva. Nel 550 incaricò il nipote Germano di preparare una grande spedizione in Italia. Prima che l'esercito fosse pronto, Germano morì. L'imperatore affidò l'incarico a Narsete e la scelta non poteva essere migliore. L'offensiva cominciò nel 551. Mentre una flotta, al comando di Artabano, assaliva i porti della Sicilia e toglieva l'isola ai Goti, Narsete movendo dalla Dalmazia penetrava in Italia per la Venezia Giulia, avanzandosi verso Ravenna. I Goti furono pienamente sconfitti nelle battaglie campali di Tagina e di Monte Lettere; i loro ultimi re, Totila e Teia, caddero uccisi e l'Italia passò sotto il dominio bizantino. Ma in quali tristi condizioni! Il quadro che ne fa Procopio è desolante: città distrutte, popolazione decimata, campi abbandonati, miseria spaventosa.
G. che già aveva ristabilito i quadri delle antiche circoscrizioni e creata la prefettura d'Italia, nel 554 promulgò una legge speciale, la Pragmatica sanzione, per portare un rimedio ai mali che affliggevano il paese; ai proprietarî furono restituiti i beni confiscati sotto Totila, furono condonati gl'interessi dei debiti che i privati avevano contratto a cagione della guerra e fu concessa una moratoria di cinque anni per il pagamento dei capitali. Per sovvenire alla miseria furono inoltre intraprese delle opere pubbliche e si provvide a restaurare i monumenti cadenti. Ma i rimedî furono inadeguati ai bisogni e ai mali antichi si aggiunsero quelli prodotti ora dal fiscalismo bizantino. Forse l'Italia si sarebbe ripresa; ma su essa doveva fra non molto abbattersi una nuova e più tremenda sventura: l'invasione longobardica.
A una integrale restaurazione dell'impero mancavano ancora la Spagna e la Gallia, questa tenuta dai Franchi, quella dai Visigoti. Ma l'impero era esaurito dallo sforzo fatto e G., già avanti negli anni, non aveva più l'energia né la fiducia di un tempo. Pure nel 554, approfittando della guerra scoppiata in Spagna fra il re Agila e l'usurpatore Atanagildo, e spinto dal desiderio di proteggere i cattolici dalla persecuzione scatenata contro di loro da Agila, egli tentò l'impresa affidandola al patrizio romano Liberio. Questi in poche settimane riuscì a battere le milizie visigotiche e ad occupare la regione sud-orientale della penisola con Cartagena, Malaga, Cordova, Assidona. Ma lì si arrestarono le sue conquiste; la scarsezza delle milizie poste ai suoi ordini, la strenua difesa approntata dai Visigoti che, posta fine alle loro discordie, unirono tutte le loro forze, impedirono che i Bizantini procedessero oltre.
La politica di G., aggressiva in Occidente, fu difensiva in Oriente. I confini da questa parte erano quelli romani e ampliarli non era né possibile né utile. G. si propose di mantenerli intatti. A questo scopo, mentre ne rafforzava la difesa con la costruzione di numerose fortezze e l'istituzione di milizie stanziali confinarie, si adoperò con donativi in denaro e con altre concessioni ad attrarre nella clientela dell'impero come federati i popoli confinanti. Ma questi provvedimenti non assicurarono la pace. L'impero da questa parte non ebbe a subire perdite territoriali, ma il confine, tanto nella penisola illirica quanto in Asia, fu continuamente violato e molte provincie ebbero a sopportare i mali della guerra e delle invasioni nemiche. Le cronache ricordano invasioni di Bulgari, di Slavi, di Unni nella Mesia, nella Tracia, nell'Illirico, nella Grecia, negli anni 534, 538, 540, 546-47, 551-52, 558, 562. Particolarmente gravi furono quelle del 540 e del 558, quando gli Unni, mettendo a fuoco e a sangue la Tracia, l'Illirico e la Grecia, arrivarono fin sotto le mura di Costantinopoli saccheggiandone i sobborghi. Secondo Procopio queste invasiomi ridussero le provincie illiriche in un vero deserto. In Asia la guerra fu provocata dai Persiani. Per avere le mani libere G. nel 532 aveva concluso con Cosroe Anūsharwān una pace perpetua, inducendosi a pagare al re una somma annua come contributo per il mantenimento delle fortezze a guardia dei passi caucasici che interessavano i due stati; ma nel 540, approfittando del fatto che l'impero aveva impegnato il meglio delle sue forze nella campagna d'Italia, Cosroe ruppe la pace e si gettò sulla Siria spingendosi fino ad Antiochia. Per cinque anni si combatté fra Persiani e Bizantini, e sempre in territorio dell'impero, dalla Siria fino al Caucaso, ciò che produsse molti danni. G. fu costretto a ritirare molte truppe dall'Italia con grande sollievo dei Goti i quali, come abbiamo già notato, poterono restaurare la loro fortuna. Finalmente nel 545 si concluse un armistizio per cinque anni che, rinnovato poi più volte, portò alla pace del 562. G. si impegnava a pagare un annuo tributo, ma otteneva in cambio che i Persiani sgombrassero la Lazica, la quale in tal modo entrava nel novero degli stati soggetti a Bisanzio, con grande vantaggio economico per l'impero. Nel medesimo trattato G. ottenne la libertà di culto per i cristiani soggetti al re di Persia, sotto la condizione espressa di rinunziare a svolgere una propaganda religiosa nel territorio persiano. Nel complesso la politica estera e le guerre di G. ebbero questo risultato finale: il mantenimento dello statu quo in Oriente e nella Balcania e l'ampliamento dei confini verso occidente fino alla Mauritania e alla Spagna. La Dalmazia, l'Italia, parte della Spagna, l'Africa settentrionale erano rientrate nell'unità dell'impero e il Mediterraneo era ridiventato, quasi interamente, un lago romano dominato da Costantinopoli, erede di Roma.
La riconquista dell'Occidente impose a G. quello stesso problema che avevano invano cercato di risolvere gl'imperatori del sec. IV e del V, cioè: stabilire l'unità religiosa del mondo cristiano.
È vano ricercare se a far ciò fosse spinto più da motivi temporali che da sentimento e convinzioni puramente spirituali; come sarebbe inesatto attribuire a lui l'inizio di quella politica d'invadenza del potere civile nelle cose della chiesa che fu detta cesaropapismo (v.). L'unità di fede, e quindi anche di chiesa, era indubbiamente un postulato della restaurazione imperiale e della tranquillità e sicurezza dello stato poiché le lotte religiose si ripercotevano sulla vita politica ed erano causa di continui disordini. G. pertanto non poteva non tentare di realizzarla. Ma facendo ciò egli appagava non solo una tendenza del suo spirito, amante dell'ordine e portato a stabilire un sistema totalitario nello stato, ma anche un bisogno della sua coscienza in quanto era convinto, come egli stesso scrisse, che "nulla poteva essere più gradito a Dio che l'unione di tutti i cristiani in una stessa e pura fede eliminando tutte le discordie dal seno della santa fede" (Patr. graec., LXXXVI, col. 994). Costante era stata poi la tradizione dell'intervento imperiale nelle cose della religione da quando Costantino, accordata la libertà di culto ai cristiani, si era fatto tutore della chiesa assidendosi in mezzo ai prelati "come uno di loro"; e G. non era uomo da rinunziare all'esercizio di una prerogativa che riteneva inerente alla sovranità.
Seguace convinto della dottrina calcedonese, egli cercò dapprima di realizzare l'unità religiosa accentuando l'accordo con Roma che riconobbe caput omnium sanctarum ecclesiarum, ciò che favorì i suoi piani di restaurazione in Occidente, e perseguitando, come già abbiamo accennato, tutti i non cattolici: pagani, Ebrei, eretici. Ma ben presto dovette constatare che le sue misure di rigore non si potevano applicare indistintamente a tutti i dissidenti. I monofisiti per il loro numero e per le loro aderenze a corte costituivano una potenza che era pericoloso volgere contro lo stato. Essi erano favoriti dalla stessa imperatrice Teodora che ne seguiva le dottrine e in certe provincie, come la Siria e l'Egitto, avevano per sé la maggioranza della popolazione. G., senza rinunziare mai alla sua fede, senza ritirare le leggi di rigore contro gli eretici, cercò di guadagnarli e farli rientrare nel seno della chiesa prima mitigando la persecuzione nei loro riguardi, poi escogitando un espediente che, secondo lui, avrebbe dovuto far accettare dai monofisiti la formula della fede calcedonese. Nell'uno e nell'altro tentativo egli si trovò dinnanzi all'intransigente opposizione del pontefice romano. Nel 535, essendo morto il patriarca di Costantinopoli, Epifanio, G. chiamò a succedergli il vescovo di Trebisonda, Antimo, che era segretamente favorevole ai monofisiti. Questi fece venire a Bisanzio l'ex-patriarca di Antiochia Severo, il quale, per la sua dottrina e per l'intrepidezza con cui aveva sostenuto l'esilio, era considerato il capo spirituale della chiesa giacobita, e con lui "nell'interesse della pace", si applicò a stabilire un accordo con gli altri prelati della Siria e dell'Egitto. Ma questo lavoro d'intesa fu interrotto dal papa Agapito I (v.), il quale, venuto nel febbraio 536 a Costantinopoli, lanciò la scomunica contro Antimo e ne proclamò la deposizione. G., che aveva tentato di salvare il patriarca, si sottomise alle deliberazioni del pontefice ratificandole. Era per lui una necessità, poiché in quel momento s'iniziava la campagna d'Italia e un aperto dissidio col papa avrebbe nociuto enormemente ai suoi piani. In un sinodo convocato dall'imperatore a Costantinopoli nel maggio seguente furono nuovamente condannati i capi monofisiti; ma la persecuzione fu piuttosto blanda. Per arrivare alla pace G. allora pensò di vincere l'opposizione della Santa Sede facendo pervenire al pontificato un uomo favorevole alla politica di accordi coi monofisiti. Il 537 il papa Silverio, che era succeduto ad Agapito morto l'anno innanzi, fu deposto con la violenza e mandato in esilio. In sua vece fu eletto il prete Vigilio già nunzio pontificio a Costantinopoli. In tutto quest'affare G. si tenne quasi da parte, dando l'impressione, per non compromettersi, che tutto avvenisse per volontà e opera di Teodora, ma è certo che egli era d'accordo con la moglie. Ma le speranze che si erano poste su Vigilio andarono deluse, poiché questi, arrivato al papato, si dimostrò altrettanto intransigente quanto i suoi predecessori. Fallito il tentativo di piegare alla sua politica di conciliazione la curia romana, G. allora pensò di attrarre nell'orbita della confessione calcedonese i monofisiti dando loro soddisfazione in qualche punto che, a suo giudizio, non toccava l'essenza del dogma. Nel concilio di Calcedonia erano stati approvati fra gli altri alcuni scritti di Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro e Iba di Edessa che venivano considerati come infetti di eresia nestoriana e che costituivano un ostacolo insormontabile per l'accettazione del concilio da parte dei monofisiti. Allo scopo di abbattere quest'ostacolo, nel 544 G., a ciò spinto dai suoi consiglieri ecclesiastici, emanò un decreto che condannava quegli scritti. Si apriva in tal modo la questione detta dei Tre Capitoli, che doveva assorbire gli ultimi anni dell'attività di G. e spingerlo sulla via della persecuzione anche contro il pontefice. Al decreto imperiale, che fu accompagnato da minacce contro i recalcitranti, i vescovi orientali si piegarono; ma il papa si oppose, in ciò sostenuto dal clero d'Occidente. G. ricorse alla violenza, deciso questa volta a spezzare ogni resistenza ai suoi voleri e a stabilire ad ogni costo l'unità ecclesiastica e la pace. Vigilio fu tratto a Bisanzio e sottoposto a ogni sorta di pressioni morali e materiali s'indusse per evitare ogni scandalo, come egli stesso ebbe a scrivere, per pacificare gli animi, per portare rimedio a una situazione grave, a condannare alla sua volta gli scritti incriminati e i loro autori (548). Non avendo questa sentenza fatto cessare l'opposizione cattolica e tentando il pontefice di riprendersi, G. emanò un nuovo decreto di condanna e fece poi proclamare tale condanna da un concilio convocato da lui a Costantinopoli nel 553. Vigilio, che non aveva voluto partecipare alle sedute di questo, fu ancora una volta costretto a cedere e a confermarne le deliberazioni. Ma né questa nuova condanna né quella del successore di Vigilio, Pelagio, il quale per avere il papato aveva dovuto impegnarsi a ratificare alla sua volta le decisioni del concilio di Costantinopoli, né le persecuzioni a cui fu fatto segno da parte del governo disarmarono l'episcopato occidentale. Questo nel suo complesso rimase avverso alla condanna dei Tre Capitoli. "La pace religiosa" alla quale aveva mirato G., e per la quale era ricorso alla violenza, non era raggiunta: ortodossi e monofisiti non si erano riconciliati e agli antichi si era aggiunto un nuovo motivo di divisione fra l'Occidente e l'Oriente.
All'attività di G. si può dire che nulla sfuggisse. Essa certo non fu sempre fortunata e a volte forse nemmeno utile; ma nel complesso appare imponente e per alcuni aspetti ebbe un influsso decisivo sull'ulteriore svolgimento della vita e della civiltà bizantina. Abbiamo già accennato alla riforma dell'amministrazione statale. G. la proseguì per tutta la durata del suo regno. Allo scopo di semplificare e migliorare i servizî pubblici egli rimaneggiò le circoscrizioni territoriali delle provincie, riunì in qualche luogo i poteri civili e militari nelle mani di un solo magistrato, abolì certi uffici ingombranti, sottopose a una severa disciplina i funzionarî. Non sembra però che sia riuscito a estirpare i vizî che inquinavano la burocrazia e la rendevano pesante e vessatoria, poiché fino agli ultimi anni egli ritorna sempre a lamentare i medesimi mali. Ebbe a cuore la prosperità economica e si adoperò a promuoverla promulgando ordinanze a favore dell'agricoltura, aprendo nuove strade, dando impulso al commercio. A lui si deve principalmente l'introduzione della coltura del baco da seta nei paesi mediterranei e quindi l'industria serica. Egli ebbe cura d'intensificare le relazioni commerciali fra l'Oriente e l'Occidente e cercò anche di avviare il commercio bizantino sui mercati dell'Etiopia. Seguendo la tradizione romana G. fu anche un grande costruttore. Durante la rivolta del 532 in Costantinopoli l'incendio aveva distrutto o guastato molti edifici nelle adiacenze dell'ippodromo fra cui l'antica chiesa di Santa Sofia. G. li volle riedificare con più magnificenza. Santa Sofia ricostruita di sana pianta su disegno degli architetti Antemio di Tralles e Isidoro di Mileto, oltre che il più insigne monumento del mondo cristiano, divenne il tipo che informò l'architettura religiosa bizantina e le diede un carattere proprio. All'impulso o agli aiuti finanziarî di G. si deve anche la costruzione o il completamento di altri notevoli edifici come San Vitale e S. Apollinare in Classe di Ravenna e il duomo di Parenzo. G. morì il 14 novembre 565 all'età di 83 anni. Alla sua morte, come avviene alla fine di ogni regno lungo e durante il quale ai cittadini sono stati imposti una dura disciplina e dei sacrifici finanziarî, i sudditi trassero un respiro di sollievo come se fossero stati liberati da un peso insopportabile. Essi ritennero che avevano a troppo caro prezzo pagato la politica imperiale del monarca. Ma i posteri hanno guardato sempre con meraviglia all'opera compiuta da lui. C'è in questa, come in tutte le opere umane specialmente in politica, una parte caduca; ma la conquista dell'Occidente, la legislazione, e la creazione di insigni opere d'arte rimasero come una conquista della civiltà e resero sempre grande e glorioso il nome di G. Per tutto il Medioevo egli fu considerato come il più compiuto e degno rappresentante dell'idea imperiale. Imperatore romano e cristiano: tale lo vide e lo cantò Dante (Paradiso, V), quando volle esaltare l'impero per la gloria delle armi e delle leggi.
Bibl.: F. A. Isambert, Histoire de Justinien, voll. 2, Parigi 1856; A. F. Gfrörer, Kaiser Justinian I, in Byz. Geschichte, II, Gratz 1873; C. Diehl, Justinien et la civilisatio byzantine au VIe siècle, Parigi 1901 (è la migliore monografia); W. G. Holmes, The age of Justinian and Theodora, voll. 2, Londra 1912. (Per le fonti, vedi bizantina, civiltà, VII, p. 137 segg.).
Legislazione giustinianea.
La restaurazione della monarchia assoluta e universale vagheggiata da G. gl'imponeva, accanto al vasto programma di politica estera e religiosa, anche quello del riordinamento amministrativo e soprattutto legislativo. L'unificazione e la semplificazione legislativa si presentavano infatti come uno dei mezzi più idonei ad arginare alcune correnti centrifughe che da tempo andavano disgregando lo stato, poiché non può esservi ordinata vita civile dove non esista certezza intorno al diritto. In questo campo il disegno di G. si svolge per gradi e, limitato da principio, si amplia, si completa sino ad assumere, nell'intenzione dell'imperatore, il carattere di una ricostruzione di tutto il sistema del diritto.
Storia della legislazione. - L'opera legislativa si inizia già nel secondo anno del regno di G. con una raccolta delle costituzioni imperiali. Il 13 febbraio 528 con la costituzione Haec quae necessario l'imperatore, riprendendo il disegno già imperfettamente attuato da Teodosio II, nominava una commissione di dieci membri, fra i quali erano Triboniano, allora magister officiorum, e Teofilo, maestro di diritto alla scuola di Costantinopoli. Tale commissione doveva compilare una collezione di costituzioni imperiali, che potesse sostituire i codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano, sopprimendo tutto quanto fosse inutile o invecchiato, eliminando ogni ripetizione e contraddizione, dando al testo semplicità e chiarezza, anche fondendo in una parecchie costituzioni. L'opera fu compiuta rapidamente sì che poteva essere pubblicata il 7 aprile 529 con la costituzione Summa rei publicae che ne fissava l'entrata in vigore per il 16 aprile dello stesso anno. Quest'opera che portava il titolo Novus Iustinianus Codex non è giunta sino a noi, perché sostituita poi da un nuovo Codex. Solo ci è pervenuto nel pap. Ox., n. 1814 un elenco delle rubriche e delle costituzioni del libro I, tit. 11-16, notevole perché ci permette di stabilire un confronto tra il primo e il secondo codice. Lo stesso frammento papiraceo rivela che nel 529 G. non aveva ancora l'intenzione di procedere a quella che fu la parte principale della codificazione: la raccolta della giurisprudenza.
Ma ben presto, probabilmente per suggerimento di Triboniano che fu veramente l'anima dell'impresa, il 15 dicembre 530 con la c. Deo Auctore egli affidava a Triboniano, allora quaestor sacri palatii, l'incarico di scegliersi un gruppo di collaboratori (e furono sedici fra cui Teofilo, che aveva partecipato alla redazione del codice, Cratino, della scuola di Costantinopoli, Doroteo e Anatolio, maestri della scuola di Berito, Costantino, comes sacrarum largitionum, e undici avvocati del tribunale della prefettura d'Oriente) e di procedere con essi a una raccolta di passi ricavati dalle opere dei giuristi che avevano avuto lo ius respondendi (tale regola però non fu osservata), eliminando le similitudines e le discordiae, componendoli in un'unità per quanto possibile organica, tenendo presenti gli scopi pratici e quelli didattici. L'opera doveva essere divisa in cinquanta libri, a loro volta suddivisi in titoli: l'ordine delle materie quello del codice e dell'editto pretorio. La commissione aveva facoltà di procedere a soppressioni, modificazioni e aggiunte. La compilazione doveva assumere il nome di Digesta o Pandectae. L'opera venne compiuta rapidamente e pubblicata il 16 dicembre 533 con la costituzione Tanta (testo latino) e Δέδωκεω (testo greco); entrò in vigore col 30 dicembre 533.
Ma accanto ai Digesta G. sin dal 530 aveva disegnato la redazione di un'opera elementare destinata alla cupida legum iuventus, che doveva sostituire le istituzioni di Gaio già usate nelle scuole. Tale compito fu affidato, quando già era terminata l'opera di redazione dei Digesta ma qualche mese prima della pubblicazione di questi, ad una commissione composta di Triboniano, Teofilo e Doroteo: e le nuove Institutiones furono pubblicate con la c. Imperatoriam del 21 novembre 533, ed entrarono in vigore, poiché esse pure avevano efficacia di legge, insieme coi Digesta.
Sennonché l'attività legislativa di G. non si era affatto arrestata negli anni 529-533: ché anzi in questo periodo appunto cade il gruppo delle costituzioni con cui Giustiniano decise controversie agitate dalla giurisprudenza (quinquaginta Decisiones), nonché un gruppo di costituzioni provocate appunto dalla compilazione del Digesto (ad commodum propositi operis pertinentes), infine un'altra serie di costitu̇zioni richieste da necessità amministrative o da circostanze speciali. Una massa notevole di leggi rimaneva quindi fuori dal Codex, che si trovava così ad essere rapidamente invecchiato. Pertanto G. attribuì ad una nuova commissione, composta di Triboniano, Doroteo e tre avvocati del tribunale imperiale, l'incarico di dividere le nuove costituzioni da lui emanate in varie parti e di inserire queste nel vecchio codice, modificandone il testo e aggiornandolo secondo la nuova legislazione. La nuova edizione del codice sotto il nome di Codex Iustinianus repetitae praelectionis fu pubblicata il 16 novembre 534 con la c. Cordi ed entrò in vigore il 29 dicembre. Col vecchio codice cessavano così di aver vigore anche le costituzioni precedenti di G., che potevano essere usate solo secondo il testo assunto nella nuova edizione del codice.
Nell'intenzione di G., il Codice, il Digesto e le Istituzioni costituiscono un solo complesso; le poche costituzioni emanate nell'anno 534 non modificavano il diritto codificato, perché o già erano inserite nel codice, oppure si adattavano perfettamente ai suoi principî.
Tuttavia quest'opera di compilazione conchiusa nel 534 non poteva essere per G. un punto di arrivo; essa era solamente un punto di partenza. Nella costituzione con la quale pubblicava la seconda edizione del Codice, egli già prevedeva la necessità di nuovi atti legislativi che avrebbero dovuto raccogliersi sotto il nome di Novellae constitutiones. Ma sotto G. una collezione ufficiale di queste nuove costituzioni non si ebbe. La maggior parte delle Novellae cade negli anni 535-540: prevalente è il numero di quelle greche. Solitamente al principio della novella sono esposte le considerazioni che l'hanno ispirata, mentre alla fine si leggono le disposizioni intorno alla pubblicazione e all'entrata in vigore della legge. Nelle edizioni, queste due parti sono indicate come il proemium e l'epilogus, mentre il testo è di solito diviso in capitoli.
Dopo la riconquista dell'Italia le tre compilazioni giustinianee vi vennero inviate per la pubblicazione e nel 554 con la Sanctio pragmatica pro petitione Vigilii venne pure ordinata la promulgazione per l'Italia delle numerose Novelle emanate in Oriente: talune però, come quelle dirette ai prefetti d'Italia, già vi erano in vigore.
Le Singole parti della legislazione. - Digesta. - S'indicano oggi con la sigla D; la cifra che segue immediatamente la sigla indica il libro, la successiva il titolo. Seguono con la sigla fr. o l. il numero del frammento e quello del paragrafo: taluni scrittori fanno precedere queste cifre alla sigla D. (I frammenti del Digesto citati nell'Enciclopedia It., s'indicano come segue: sigla Dig.; numero del libro in caratteri romani; numero del titolo in cifre arabe; titolo del titolo; numero del frammento e del paragrafo pure in cifre arabe. Analogamente si citano il Codice e le Istituzioni).
Giustiniano ha valutato gli scritti adoperati in duemila libri e tre milioni di righe: in realtà i libri usati nel Digesto non furono che 1625. L'imperatore ordinò pure un indice degli scritti escerpiti, indice che ci è conservato nel manoscritto fiorentino delle Pandette, ma che non risponde esattamente alle opere effettivamente usate per la compilazione. I commissarî avevano piena libertà nella scelta dei frammenti da inserire nel Digesto: essi dovevano però evitare ogni contraddizione nell'interno dell'opera, come fra essa e il Codice e dovevano pure eliminare ogni elemento superfluo o antiquato. Di questa facoltà essi fecero largo uso, donde le frequentissime alterazioni che furono dette in altri tempi emblemata Triboniani e che i moderni designano col termine interpolazioni. Naturalmente, non sempre i compilatori riuscirono a evitare ripetizioni e contraddizioni; queste ultime peraltro costituiscono, per la critica e per la ricostruzione dei testi originarî, indizî preziosi. I Digesta, secondo quanto l'imperatore aveva disposto, sono divisi in cinquanta libri, suddivisi (all'infuori dei libri 30-32) in titoli, ciascuno dei quali porta una sua rubrica; entro il titolo seguono i frammenti, ognuno dei quali col nome del giurista e l'indicazione dell'opera e del libro dell'opera da cui il frammento fu ricavato. A scopi didattici tutta l'opera è divisa in sette parti: πρῶτα, libri I-IV; de iudiciis, libri V-XI; de rebus (creditis), libri XII-XIX; umbilicus, libri XX-XXVII; de testamentis, libri XXVIII-XXXVI; pars VI, libri XXXVII-XLIII; pars VII, libri XLIV-L. Questa suddivisione deriva dai commentarî ad edictum, il cui ordine (e specie quello del commento di Ulpiano ad edictum) è stato seguito, per volontà dell'imperatore, nella compilazione. Ma nell'ordine edittale sono state largamente inserite le materie pertinenti allo ius civile, per le quali si è ricorso soprattutto ai libri ad Sabinum.
Per quanto si riferisce all'ordine dei frammenti nei singoli titoli, G. non aveva dato alcuna istruzione ai commissarî. Ma appunto questo ordine costituì il punto di partenza degli studî coi quali il Bluhme cercò di fissare il metodo seguito dai compilatori. Il Bluhme osservò anzitutto che nei varî titoli delle Pandette nella serie delle opere e dei libri si possono distinguere tre gruppi i quali si seguono l'uno all'altro in ciascun titolo, salvo alcuni brevi titoli in cui non sono rappresentati se non due gruppi e talvolta uno solo; quest'ordine è mantenuto rigorosamente, cosicché non solo i gruppi si susseguono l'uno all'altro, ma in ciascun gruppo le opere e i libri dalle opere si succedono pure conservando l'ordine. I tre gruppi, dalle opere che in ciascuno predominano e che costituiscono la testa del gruppo, e precisamente: i commenti ad Sabinum nel primo, i commenti ad edictum nel secondo, le quaestiones, i responsa e le definitiones di Papiniano nel terzo, prendono il nome di massa sabiniana, massa edittale, massa papinianea. A queste tre masse principali è poi da aggiungere un quarto gruppo rappresentato da tredici opere, avvicinate senza alcun criterio organico, gruppo che essendo collocato spesso in appendice alla massa papinianea fu chiamato dal Hugo massa postpapinianea e dal Krüger, nell'edizione mommseniana del Digesto, semplicemente appendice. Il succedersi delle varie masse nei singoli titoli è variabile. Di regola precede la massa che ha fornito il maggior numero di frammenti; ma le eccezioni non sono rare e sono dovute, in genere, come gli spostamenti di frammenti da una massa all'altra a criterî logici (spostamenti intenzionali). In minor numero sono gli spostamenti in cui non è dato stabilire una ragione plausihile (spostamenti accidentali). Riscontrata questa divisione delle opere in masse, il Bluhme emise pure una congettura circa l'ordine seguito dai compilatori nel loro lavoro. La commissione nominata da Giustiniano si sarebbe suddivisa in tre sottocommissioni, ciascuna delle quali avrebbe esaminato una delle tre masse principali. L'appendice rappresenterebbe un gruppo di opere sopraggiunte a lavoro incominciato e sarebbe stata affidata alla sottocommissione che studiava la massa papinianea. Le singole sottocommissioni avrebbero letto e scelto i frammenti della loro massa collocandoli sotto rubriche determinate in precedenza e desunte, come fu detto, dall'ordine del Codice, dell'editto o delle opere spogliate. Riscontrati questi frammenti ed eliminate le ripetizioni (anche in confronto al Codice) e le contraddizioni, le sottocommissioni si sarebbero poi riunite in commissione plenaria che avrebbe ricongiunto in ciascun titolo i frammenti ricavati dalle tre masse, sopprimendo di nuovo ripetizioni e contraddizioni e integrando e fondendo i passi ricavati dalle diverse masse avuto riguardo sia alla massa principale, sia alla necessità di raggiungere la maggiore organicità consentita dall'indole dell'opera. Questa seconda parte della dottrina del Bluhme non è che un'ipotesi, ma ipotesi plausibile.
Alla teoria del Bluhme mosse una vivace critica il Hofmann in un'opera pubblicata postuma nel 1900. Secondo il Hofmann non è possibile che i compilatori abbiano in tre anni compiuto quel lavoro di spoglio che Giustiniano vanta nella sua costituzione: le condizioni della capitale negli anni 531-533 non erano tali da permettere ai commissarî tranquillità di lavoro: nel Digesto sono molti frammenti brevissimi, la cui ricerca e il cui collocamento dovevano rendere lunghissimo il lavoro dei compilatori; i titoli che hanno dato lo spunto al Bluhme (Dig., XLV,1; L, 16 e 17) hanno carattere speciale e non possono fornire la base per ricostruire il metodo dei compilatori. Opponendosi con questi e altri argomenti di minor valore alla tesi del Bluhme, il Hofmann vuole sostituire ad essa la sua dottrina secondo la quale i compilatori si sarebbero giovati di compilazioni già esistenti e specialmente dei commenti glossati di Ulpiano ad edictum e ad Sabinum, di raccolte di sentenze e di regole. La divisione del lavoro sarebbe avvenuta non per masse, bensì per materie, secondo le grandi partizioni dell'opera futura, e per ciascuna parte taluni commissarî avrebbero esaminato i commentarî, altri gli scritti pratici, altri ancora le compilazioni. Il raggruppamento degli estratti, che anche il Hofmann non può disconoscere, sarebbe stato introdotto per dare un certo ordine alla materia. Le opere classiche direttamente esaminate dai compilatori sarebbero ben poche, a differenza di quanto vuol far credere Giustiniano, le cui dichiarazioni sarebbero un tessuto di inverosimiglianze. Alla tesi del Hofmann si opposero con argomenti varî T. Mommsen, S. Di Marzo, P. Krüger, P. Jors, C. Longo, P. de Francisci, i cui studî posero in luce come della distribuzione delle opere in masse (sia pure con qualche emendazione delle schede bluhmiane) non si possa dubitare. Tuttavia il Hofmann ha avuto il merito d'avere richiamato l'attenzione sul fatto che il lavoro dei commissarî doveva essere stato largamente preparato dalle scuole precedenti, sia attraverso compilazioni. sia col segnare negli antichi scritti le omissioni da fare notando le divergenze dal diritto nuovo. Ciò costituì il punto di partenza di K. Ehrenzweig e di H. Peters, i quali, sostennero che l'ordine dei frammenti e la divisione delle masse non derivano dai commissarî di Giustiniano, ma da una compilazione anteriore al Digesto e che a questo servì di modello. La dimostrazione di questa tesi fu tentata con copia di argomenti soprattutto dal Peters, secondo il quale i compilatori di G. non avreubero fatto altro che completare e integrare una compilazione precedente sorta nella scuola e precipuamente per la scuola per opera dei grandi maestri della scuola di Berito tra la fine del sec. V e gl'inizî del VI. Ma anche questa tesi non ha resistito alle critiche cui l'hanno sottoposta indipendentemente l'uno dall'altro G. Rotondi, O. Lenel e P. de Francisci, critiche che inducono ad escludere l'esistenza di quella compilazione unica, modello del Digesto, che il Rotondi indicò appunto col termine di Predigesto. Tuttavia, pur esclusa l'esistenza di questo, le indagini più recenti sono volte a stabilire - anche in relazione con l'ordinamento degli studî precedente a G. e da questo riformato con la costituzione Omnem rei publicae del 16 dicembre 533 - l'indole delle compilazioni che potevano costituire per i compilatori un valido sussidio alla loro opera.
Institutiones. - In quattro libri; indicate colla sigla I (nell'Enciclopedia It., Inst.), cui segue il numero del libro, quello del titolo e quindi quello del paragrafo. Anche le Istituzioni sono state composte con passi ricavati dalle opere di giuristi classici, ma con la differenza, in confronto al Digesto, che i passi non portano l'indicazione della fonte. Le fonti principali furono le Institutiones e le Res cottidianae di Gaio; ma appaiono usate anche le Istituzioni di Fiorentino, di Ulpiano e di Marciano. I testi classici sono stati rimaneggiati come nella compilazione del Digesto, dal quale sono pure ricavati parecchi passi inseriti nelle Istituzioni: in queste i compilatori hanno poi dovuto tener conto anche delle norme contenute nelle costituzioni, riportate ora nel testo originale ora in brevi estratti. L'ordine è quello stesso delle Istituzioni Gaiane dalle quali è pure derivata la partizione in quattro libri; ma poiché la maggior parte delle materie trattate da Gaio nel quarto libro era ormai antiquata, nelle Istituzioni giustinianee il quarto libro s'inizia già con le obbligazioni da delitto; in fine sono due titoli ignoti a Gaio: de publicis iudiciis e de officio iudicis. La compilazione delle Istituzioni fu affidata a Triboniano, assistito da due maestri di diritto, Doroteo della scuola di Berito e Teofilo della scuola di Costantinopoli. Secondo il Huschke, Triboniano si sarebbe tenuta la presidenza, Teofilo e Doroteo avrebbero compiuto il lavoro compilando ciascuno due libri. Ragioni sostanziali e normali suffragano validamente questa ipotesi, accolta dal Grupe e dal Ferrini, che si rese benemerito stabilendo con acute indagini le fonti delle Istituzioni giustinianee. Molto minore importanza e basi più deboli ha l'attribuzione dell'una o dell'altra parte a Teofilo o a Doroteo: secondo il Huschke i primi due libri sarebbero opera di Doroteo, gli ultimi due di Teofilo: l'opinione opposta fu sostenuta dal Ferrini.
Codice. - S'indica con la sigla C (nell'Encicl. It., Cod.), per le indicazioni del titolo e della legge e, eventualmente, del paragrafo vale quanto si disse per il Dig.
Il Codex repetitae praelectionis del 534, nel quale erano state inserite le costituzioni emanate da G. fra il 529 e il 534 che erano state escluse dal Digesto per volontà dell'imperatore, aveva naturalmente messo fuori uso il primo codice. Il secondo è diviso in dodici libri e la materia è stata ricavata dai codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano (si arrivava cosi sino alle costituzioni del 438) nonché dalle costituzioni post-teodosiane. L'ordine è stato determinato combinando soprattutto quello del codice Gregoriano con quello del Teodosiano. Il libro I è dedicato al diritto ecclesiastico, alle fonti del diritto, al diritto pubblico: i libri II-VIII al diritto privato; il libro IX al diritto penale; i libri X-XII al diritto amministrativo. Soprattutto i libri I e X-XII sono modellati sul codice Teodosiano: sennonché G., a dimostrare la sua devozione alla Chiesa, dà nel suo codice il primo posto al diritto ecclesiastico. Entro i singoli titoli le costituzioni sono disposte in ordine cronologico: le inscriptiones e le subscriptiones di esse sono ricavate dalle raccolte precedenti, e, di solito, senza modificazioni; quando di una costituzione non era − nelle collezioni precedenti - conservata la data, i compilatori la contrassegnarono con l'indicazione sine die et consule. I compilatori si sono naturalmente valsi anche per il Codice delle facoltà di spezzare, modificare, adattare le costituzioni (v. interpolazione). Un confronto col codice Teodosiano ci rivela il largo uso che di quelle facoltà hanno fatto i commissarî: dove il confronto non è possibile, come per le costituzioni anteriori a Costantino, soccorrono i soliti criterî sostanziali e formali di critica. Non mancano, anche nel Codice, malgrado le due edizioni, ripetizioni e contraddizioni.
Novellae. - Indicate con la sigla Nov. seguita dal numero della Novella, numero che varia a seconda delle raccolte di cui diremo fra poco. Queste costituzioni, peraltro, si riferiscono in gran parte al diritto pubblico, al diritto ecclesiastico o a problemi sociali. Quelle di diritto privato hanno per lo più carattere interpretativo; ma non mancano Novelle che innovano profondamente il diritto privato come le Novelle 1 18 e 127 per le successioni e la Novella 22 per la materia del matrimonio. Nella costituzione con la quale G. pubblicava la seconda edizione del Codice, egli aveva preveduto la possibilità di pubblicare una raccolta delle nuove leggi col titolo di Novellae constitutiones. Un tale disegno non poté essere attuato e non abbiamo notizia di una raccolta ufficiale di tali costituzioni fatta vivente G. Delle Novellae noi possediamo tre raccolte, due delle quali, l'Epitome Iuliani e la collezione di 168 Novelle hanno certo carattere privato, mentre la terza, l'Authenticum o liber Authenticorum, ha carattere incerto.
L'Epitome Iuliani prende il nome da colui che ne è il probabile autore: Giuliano, antecessor a Costantinopoli; la raccolta contiene 124 Novelle, delle quali due geminate (25-120, 68-97), disposte in ordine cronologico: la più antica è del 535, la più recente del 555. La collezione nella quale le Novelle appaiono in un sunto latino fu pubblicata sotto G. ed era probabilmente destinata ad essere usata in Italia. La collezione più ricca è quella greca di 168 Novelle, condotta a termine sotto Tiberio II (578-582); delle 168 costituzioni, le tre o quattro ultime sono formae del prefetto del pretorio, quattro (140, 144, 148, 149) sono di Giustino II, tre (161, 163, 164) di Tiberio II, due geminate (75-104, 143-150), un'altra (32-34) è riprodotta in greco e in latino. L'ordine è cronologico fino alla Novella 120; le altre costituzioni sono disposte in disordine, quasi costituissero un'appendice, e talune sono anteriori al secondo codice.
L'Autentico contiene 134 Novelle dall'anno 535 all'anno 556: le greche sono tradotte in latino. Sino alla novella 127 è seguito l'ordine cronologico: il resto si direbbe qui pure aggiunto quale appendice. Secondo la tradizione più antica questa raccolta solo nel sec. XI si sarebbe sostituita in Italia nell'uso all'Epitome Iuliani per opera di Irnerio che ne avrebbe riconosciuto la genuinità (donde il nome) dopo averne dubitato. Secondo opinioni più vicine a noi (Zachariae) si tratterebbe di una traduzione e raccolta ufficiale ordinata dall'imperatore, secondo altri (Tamassia) di una raccolta ufficiale nel senso che le traduzioni sarebbero derivate via via da pubblici ufficiali. Certo è che i Longobardi la ritennero una collezione ufficiale: fatta, secondo il Gaudenzi e il Biener, nella prefettura dell'Illiria; secondo lo Zachariae, il Heimbach e il Tamassia, a Ravenna.
Manoscritti. - Istituzioni. - Sono conservate in numerosi manoscritti: nessuno però di quelli che contengono il testo integro (come i Bambergensi, D. II. 3. D. II, 4, il Walraffianus X. 8, il Parigino 4421) è anteriore al sec. IX. Possediamo però frammenti più antichi nei fogli palinsesti del Codice della Capitolare Veronese XXXVIII (36) e in un manoscritto berlinese. Importante è pure un manoscritto torinese che contiene scolî dell'epoca di Giustiniano.
Digesto. − Anche il Digesto ci fu conservato in numerosi codici. Il più notevole fra questi è un manoscritto della seconda metà del sec. VI o al più tardi del principio del sec. VII trascritto da dodici amanuensi greci, secondo il Mommsen, da dodici amanuensi latini e un greco, secondo il Kantorowicz: è la littera Pisana o Florentina (F), così detta da Pisa, dove il manoscritto si trovava fino al 1406, donde poi fu portato a Firenze e ivi conservato nel Palazzo Vecchio e dal 1786 nella Biblioteca Laurenziana. Esso, che presenta solo pochissime lacune, contiene correzioni dello stesso amanuense o di correttori antichi, ma è stato poi emendato di proposito sulla base, pare, di un archetipo diverso da un correttore bizantino. Questo manoscritto, malgrado le mende, presenta un testo abbastanza buono e costituì la base delle ed. moderne, fra cui quella del Mommsen (Berlino 1866-1870) e della nuova ed. it. curata dal Bonfante, dal Fadda, dal Ferrari, dal Riccobono e dallo Scialoja (Milano 1931).
Della stessa epoca di F sono i frammenti papiracei di Pommersfeld, un papiro di Heidelberg, il palinsesto di Napoli, un frammento di Berlino. Tutti gli altri manoscritti sono posteriori al sec. XI e cioè alla fondazione della scuola di Bologna per opera di Irnerio, e il testo viene perciò designato come littera Bononiensis o littera vulgata. Tutti questi manoscritti (circa 500) risalgono a un archetipo, costituito da una copia del manoscritto fiorentino corretta sulla scorta di un altro manoscritto (S, cioè secundi ordinis) diverso dal fiorentino: si sono così ottenute delle letture importanti e talora migliori di quelle di F. La singolarità di questi manoscritti è che essi presentano il Digesto diviso in tre parti: Digestum vetus, dal I al XXIV, 3, 1; Digestum infortiatum, sino alla fine del libro XXXVIII; Digestum novum, il resto. Va notato però che l'ultima parte del Dig. infortiatum, e precisamente dalle parole tres partes di D. XXXV, 2, 2 sino a tutto il libro XXXVIII, era indicata col nome di Tres partes e che secondo una notizia di Piacentino avrebbe prima appartenuto al Dig. novum e solo più tardi sarebbe stata unita all'infortiatum. Quanto ai nomi, la vecchia opinione, che si riattacca alla tradizione bolognese, li attribuirebbe al fatto che Irnerio avrebbe posseduto in origine soltanto il Digestum vetus, solo più tardi il novum e infine l'infortiatum, cosi chiamato perché rinforzato con le tres partes che già facevano parte del novum. Ma una recente opinione sostenuta dal Kantorowicz e accolta dallo Schulz non vede in quella tripartizione che il capriccio di un amanuense.
Codice. - La tradizione manoscritta di questa parte della compilazione è molto infelice. Un palinsesto della biblioteca capitolare di Verona (N. LXII) contiene parte del Codice (frammenti dei libri IV-VIII, 11, 12) in un'onciale del VI o VII secolo, sulla quale è stata nell'VIII o X secolo sovrascritta la Concordia Canonum di Cresconio: è questo il solo manoscritto che contenga le costituzioni greche. Nei manoscritti più tardi il Codice giustinianeo si presenta sempre diviso in due parti, in quanto i primi nove libri sono distinti dagli altri. Nei manoscritti dei primi nove libri sono tralasciate tutte le costituzioni greche, nonché le costituzioni latine abrogate dalle Novelle, o quelle il cui contenuto era riferito nelle Istituzioni: inoltre le inscriptiones e le subscriptiones sono spesso corrotte o soppresse. A cominciare dal sec. IX appare però la tendenza a colmare le lacune; e nel sec. XI riappaiono manoscritti quasi integri. Importanti per la ricostruzione del testo sono: la Summa Perusina, compilata nel sec. VII e conservata in un manoscritto perugino del sec. X, la Lex romana Canonice compta compilata dopo l'825 e la Collectio Anselmo dicata anteriore al 1026. Gli ultimi tre libri sono di solito riuniti con le Istituzioni, con la collezione di Novelle che va sotto il nome di Authenticum e con i Libri-feudorum in un volume che è indicato appunto come il Volumen o Volumen parvum. V'ha però qualche manoscritto che contiene soltanto i tres libri. Nessuno di questi manoscritti è anteriore al sec. XII.
Novelle. - Dell'Epitome Iuliani possediamo varî manoscritti dei secoli VIII-IX: dell'Authenticum numerosi codici del sec. XI, della collez. greca di 168 Novelle due codici particolarmente importanti, il Marciano greco 179 del sec. XIII e il Laurenziano plut. LXXX, 4 del sec. XIV.
Per la storia della legislazione giustinianea in Occidente, v. glossa e glossatori; irnerio; per la storia del diritto giustinianeo in Oriente, v. bizantina, civiltà: Diritto.
Bibl.: La bibliografia intorno alla legislazione giustinianea è vastissima. Si ritiene sufficiente indicare qui le opere nelle quali si potranno trovare maggiori indicazioni bibliografiche: O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, I, Lipsia 1885, p. 1003 segg.; P. Krüger, Geschichte der Quellen u. Litteratur des Römischen Rechts, 2ª ed., II, Lipsia 1912, pp. 365-439; P. Bonfante, Storia del diritto romano, 3ª ed., Milano 1923, pp. 45 segg., 93 segg., 118 segg.; 171 segg.; B. Kübler, Geschichte des römischen Rechts, Lipsia 1925, p. 399 segg.; V. Arangio-Ruiz, Corso di storia del dir. rom., Napoli 1931, p. 295 segg.; per il Digesto v. Conf. per il XIV Cent. delle Pandette, Milano 1931.