IMPERATORE e IMPERO
Antichità romana. - Epoca repubblicana. - La parola imperator in origine significa genericamente colui il quale imperat, chiunque, cioè, sia investito di una suprema autorità di comando. Onde è che imperator equivale a rex in Ennio, e in tal senso l'attributo si riferisce anche a divinità. Ma, col procedere del tempo il significato della parola si restringe ai detentori di comandi militari, del che si hanno moltissimi esempî letterarî, ed uno anche nel linguaggio ufficiale della lex Iulia municipalis. Ma un terzo è il significato più importante, ed è quello più limitato ancora che la parola ha nel diritto pubblico, ove la qualifica di imperator designa il detentore di imperium che dopo una battaglia vittoriosa sia stato acclamato con questo titolo dai soldati. Il termine tecnico che si adopera per simile acclamazione è appellare, né tutte le vittorie possono aspirare ad essa, ma soltanto quelle in cui sia caduto un gran numero di nemici (1000 o 2000).
Le origini dell'acclamazione imperatoria non sono chiare, e molto si discute su esse e, conseguentemente, sull'essenza giuridica dell'acclamazione e sui suoi ulteriori sviluppi. Secondo alcuni, tutti i magistrati forniti di imperium sarebbero implicitamente imperatores, ma ciò è molto dubbio, e, caso mai, lo si potrebbe ammettere soltanto in senso lato, e non in senso tecnico e giuridico. Sotto il particolare aspetto tecnico e giuridico è di grande interesse la questione se i magistrati forniti di imperium, e acclamati imperatores, potessero insignirsi di questa qualifica durante la carica. Il che è stato recentemente negato da alcuni e riaffermato da altri, ma l'esame dei materiali letterarî ed epigrafici che sono a nostra disposizione consigliano di rimanere nei limiti della formulazione proposta già parecchi anni or sono dal Rosenberg: il magistrato ordinario, console e dittatore, pur dopo l'acclamazione imperatoria, non si fregia del titolo di imperator, ma se ne fregia soltanto quando la sua carica è scaduta; e di fatto L. Mummio, il disiruttore di Corinto, che aveva avuto il titolo di imperator nel 146 a. C., nelle sue dediche immediatamente posteriori alla vittoria si attribuisce quasi sempre soltanto il titolo di console, e analoga osservazione si può fare a riguardo di M. Fulvio Nobiliore, il vincitore degli Etoli, di M. Claudio Marcello, il vincitore di Siracusa, e di M. Minucio, il dittatore del 218 a. C. Invece il governatore provinciale e il proconsole preferiscono, dopo l'acclamazione, il titolo di imperator, mentre ancora sono in carica (infatti L. Emilio Paolo, pretore nella Spagna ulteriore nel 189 a. C., nel suo noto decreto Corp. Inscr. Lat., II, 5041 tralascia il titolo di praetor per quello di imperator). "Per tal guisa" scrive il Rosenberg ("il titolo imperator col tempo venne ad acquistare un colorito tutto speciale, tanto più decisamente quanto più frequentemente le guerre di Roma furon condotte da proconsoli e più raramente da consoli. Praticamente si concepisce l'imperator come un comandante, che non è contemporaneamente magistrato ordinario, fatto questo, dal quale potrebbero derivarsi le più importanti conseguenze".
Il più antico personaggio per il quale è attestato il titolo di imperator è P. Cornelio Scipione l'Africano maggiore, che l'avrebbe avuto sino da quando gli fu conferito l'imperium straordinario per la guerra di Spagna, se vogliamo credere a Livio (XXVII, 19,4). Qualcuno dubita dell'autenticità di questa notizia, e crede che essa sia il risultato di un'interpretazione personale e arbitraria di Livio altri invece la ritengono autentica, e tra questi alcuni credono che il titolo di imperator fosse stato conferito a Scipione col mezzo divenuto poi consuetudinario dell'acclamazione da parte dei soldati. Tale opinione è effettivamente assai probabile, ed è certo interessante che la prima appellatio a imperator sia stata fatta proprio quando appare per la prima volta nella storia di Roma un privatus cum imperio, e quando cominciano ad affermarsi le grandi personalità; ma non si deve tuttavia credere che in quella appellatio si debba vedere un'influenza dell'infatuazione mistica di Scipione, e che quel titolo si debba intendere nel senso che nell'Africano si manifestasse in particolar modo la facoltà di imperium di Iuppiter imperator, come recentemente è stato sostenuto. Comunque, applicata o no a Scipione per la prima volta, la appellatio a imperator divenne consuetudinaria dal principio dal sec. II a. C., e il titolo acquistò quel particolare colorito, cui abbiamo già accennato, di "comandante che non è contemporaneamente magistrato ordinario". Silla, che negli anni della guerra mitridatica e della guerra civile si fregiò senz'altro di quella denominazione, l'abbandonò da quando adottò il titolo di dictator. Pompeo invece al titolo di imperator tenne fermo in modo particolare, e Cesare fece l'ultimo passo della trasformazione in titolo permanente, in quanto che tolse alla qualifica il numero d'ordine corrispondente alle singole acclamazioni, e l'usò con la significazione nuova di generale supremo permanentemente vincitore, di guisa che con lui imperator acquista figura di elemento onomastico (peraltro, pur negli ultimi tempi della repubblica, questa qualifica continuò a essere attribuita, e anzi con prodigalità, a legati di Cesare, di Antonio e di Ottaviano in corrispondenza di acclamazioni loro concesse).
Epoca imperiale. - Ottaviano, tra il 43 e il 40 a. C. è designato così: C. Iulius Caesar imperator triumvir r(ei) p(ublicae) c(onstituendae), ove imperator può intendersi o come titolo di vittoria (la prima acclamazione imperiale di Ottaviano è del 16 aprile del 43 a. C.) o come cognome (secondo Dione Cassio, Ottaviano considerava il nome di imperator come ereditato dal padre adottivo), ma nel 40 a. C. egli abbandonò il prenome di Gaius e lo sostituì con quello di Imperator e, in un primo tempo, aggiunse appresso la cifra delle acclamazioni, ma poi preferì adoperare nella sua titolatura due volte la qualifica di Imperator, in principio come prenome e appresso come titolo di vittoria col numero d'ordine delle acclamazioni.
Secondo il Mommsen l'assunzione del prenome di Imperator da parte d'Augusto sarebbe in rapporto con la sua assunzione permanente della potestà proconsolare, e in quel prenome avrebbe trovato espressione la durata vitalizia del principato, ma questa significazione è negata dal Kromayer e dal Rosenberg, e pare piuttosto che l'espressione della potestà proconsolare si debba vedere nell'imperator come titolo col numero d'ordine delle acclamazioni. Certo è che quando Augusto elevò l'uno o l'altro personaggio alla cooperazione al trono, mercé il conferimento della potestà proconsolare, riconobbe loro il diritto all'acclamazione imperatoria, e così Druso e Tiberio ebbero le loro acclamazioni subito dopo l'assunzione della potestà proconsolare, l'uno nel 10 e l'altro nel 9 a. C., e il figlio adottivo d'Augusto, Gaio Cesare, l'ebbe nel 3 d. C. E quando Augusto morì nel 14 d. C., Tiberio non assunse il prenome di imperatore, ma il suo imperium si proseguì ininterrottamente, e le sue successive acclamazioni accrebbero il numero d'ordine delle precedenti.
Un momento nuovo segnò l'assunzione al trono di Caligola in quanto che, per legittimarne la posizione, il senato gli conferì, il 18 marzo del 37 d. C., l'acclamazione imperatoria, fingendo in certo qual modo una sua vittoria, e da questo momento in poi valse la norma che il principe assumesse il titolo di imperator contemporaneamente con l'entrata in carica, onde, alla prima effettiva acclamazione imperatoria da parte dell'esercito, egli diveniva imp. II. Ma Caligola non usò nemmeno lui Imperator come prenome, e nemmeno l'usarono in tal senso nelle iscrizioni Claudio, Nerone, Galba e Vitellio. Lo adottò invece l'imperatore intermedio agli ultimi due Ottone, e l'usarono in seguito costantemente tutti gl'imperatori da Vespasiano in poi, accompagnandolo col cognome Caesar della gente Giulia, trasformato in titolo, e collocato al secondo posto dopo Imp. (questa collocazione fu costante a cominciare da Antonino Pio, mentre prima aveva subito qualche variante: v. cesare). E questa denominazione. di Imp. Caes. non patì eccezioni fino al sec. III, quando cominciò a farsi strada l'attributo Dominus Noster, che divenne in seguito sempre più frequente da Costantino in giù, senza che peraltro scomparisse mai del tutto la precedente denominazione, della quale non mancano esempî per tutta la durata dell'Impero, specialmente in epigrafi della città di Roma.
I Greci non afferrarono mai la funzione nominale del termine di Imperator, e lo tradussero indistintamente con αὐτοκράτωρ, così nel significato di prenome come in quello d'acclamazione imperatoria.
Il termine di imperator, oltre alle accezioni tecniche e giuridiche che abbiamo esposto, divenne designazione sintetica del capo dell'Impero Romano, prima nella lingua popolare, poi, a cominciare dal tempo di Traiano, nella liugua letteraria e specialmente in quella dei giuristi; acquistò, cioè, il significato che scrittori più rigorosi del sec. I avevano affidato al termine princeps.
E dell'imperatore come capo dello stato romano nell'epoca che da lui ebbe il nome d'imperiale conviene qui fissare, nei tratti salienti, poteri, prerogative e titoli dopo qualche cenno sulla:
Origine e carattere della potestà imperiale. - Ottaviano iniziò la sua opera di riordinamento generale dello stato quando nel 29 a. C. tornò in Roma, dopo la battaglia d'Azio e l'annessione dello Egitto, e la continuò negli anni immediatamente successivi, finché credette possibile deporre la potestà triumvirale, che aveva tenuto per quindici anni, e il 16 gennaio del 27 a. C. ebbe dal senato il nome di Augustus. Chiuso così il periodo di transizione e d'arbitrio del triumvirato, la potestà imperiale si venne a costituire come istituzione permanente accanto agli antichi organi repubblicani, poiché la costituzione augustea non fu che un compromesso tra il principio monarchico e gli antichi ordinamenti; ed ebbe inizio l'Impero Romano, e più precisamente quella che è stata chiamata l'epoca della diarchia. Augusto, differenziandosi in ciò nettamente da Cesare, rifiutò costantemente dittatura e consolato perpetuo e potestà legislativa illimitata, e inserì la propria carica personale e i diritti ad essa inerenti nel quadro della costituzione antica.
E invero carica e diritti gli furono prima conferiti per decreto del senato e per legge, soltanto a tempo determinato, ed è per ciò che qualcuno pensa che Augusto avesse avuto realmente l'intenzione di restaurare l'antica costituzione repubblicana; ma il fatto è che egli allargò di continuo il proprio potere, ne determinò il contenuto e lo trasformò in istituzione stabile; lo concepì, cioè, come vitalizio, e si propose di renderlo ereditario. E in ciò è l'essenza del principato, affatto discorde dallo spirito e dalle forme della costituzione repubblicana, la quale tuttavia si prosegue nei suoi organi: popolo, senato e magistrature, e l'imperatore è capo dello stato, ma non ne governa che una parte, mentre il resto è governato, sotto la sua tutela, dal popolo e dal senato.
Senza potere qui né approfondire la divisione dei poteri tra principe e senato, né lumeggiare l'estenuazione progressiva degli antichi organi della costituzione repubblicana di fronte all'incalzante sviluppo dei poteri del principe, sino alla trasformazione del principato in monarchia assoluta orientalizzante all'epoca di Diocleziano e di Costantino, basterà dire che il principato, nel tutto insieme, può considerarsi come la potestà proconsolare straordinaria degli ultimi tempi della repubblica congiunta con la potestà suprema nell'interno della città, e che, se dapprima Augusto aveva pensato di poggiare il suo potere sull'assunzione reiterata del consolato, nel 23 a. C. rinunciò a coprire permanentemente questa carica, e d'allora in poi il fulcro del potere imperiale, per quanto si attenesse all'interno della città e alla cittadinanza, fu nella potestà tribunizia assunta in perpetuo, ma annualmente rinnovata, la quale assicurava al principe l'inviolabilità, il diritto di protezione (tuitio), quello di intercessiorie contro i senatoconsulti e le leggi, e tutti gli altri diritti e prerogative dei tribuni, senza che egli facesse effettivamente parte del loro collegio, e senza alcuna limitazione né di tempo né di luogo. E rimase consuetudine costante che ogni nuovo imperatore dovesse essere riconosciuto prima dal senato, che gli decretava i titoli e i poteri costituenti l'essenza del principato, e poi dal popolo, che, su proposta di uno dei consoli in carica, doveva confermare le decisioni del senato per mezzo di un'unica legge, secondo alcuni, di due leggi diverse de imperio e de tribunicia potestate, secondo altri. Soltanto nel sec. III al riconoscimento per legge fu sostituito il procedimento più semplice dell'acclamatio. E quando l'imperatore moriva, teoricamente il potere ricadeva nelle mani dei consoli e del senato, che lo conferivano con gli stessi modi al nuovo imperatore, il quale però era stato in genere designato dal suo predecessore nella persona, per lo più, di un figlio o legittimo o naturale o adottivo. Nel sec. I la designazione fu fatta per mezzo dell'istituzione di questo figlio come erede del patrimonio; da Adriano in poi, invece, mercé il conferimento al designato del titolo di Caesar; e qualche volta la successione fu preparata facendo conferire al futuro successore l'imperium proconsolare e la potestà tribunizia secondaria, col che il giovane principe diveniva consors o particeps imperii. Questa concezione condusse, quando morì Antonino Pio, alla divisione del potere tra due sovrani, a quell'istituto cioè della correggenza, che finì per annullare definitivamente l'influenza del senato nella scelta degl'imperatori, perché, alla morte di uno dei correggenti, l'altro naturalmente continuava a esercitare il potere e preparava tosto la sua successione, senza intervento del senato; e per tal guisa si giunse alla tetrarchia di Diocleziano, nella quale si combinarono e si fusero i due procedimenti della designazione e della correggenza.
Poteri principali dell'imperatore. - L'imperatore era anzitutto capo supremo dell'esercito, e come tale in Roma aveva il suo praetorium permanente, mentre nelle provincie era rappresentato dai suoi legati. Egli ordinava le leve (dilectus), facendole fare nelle provincie imperiali dai suoi legati e in quelle senatorie da commissarî speciali, missi ad dilectum; distribuiva il soldo per mezzo dei suoi procuratori, nominava gli ufficiali di ogni ordine e grado, accordava le decorazioni, concedeva i congedi coi relativi privilegi. A lui spettava la direzione suprema della guerra, la dislocazione delle truppe, il giudizio nei processi contro militari, la punizione dei renitenti. Tutti i soldati pronunciavano il giuramento (sacramentum) di vita e di morte in suo nome, e le legioni e gli altri reparti (ali, coorti) portarono spesso, dal tempo di Caracalla, nomi derivati da quelli del principe regnante.
L'imperatore era insieme l'arbitro dei rapporti con l'estero, da lui esclusivamente dipendendo le dichiarazioni di pace e di guerra, i trattati d'alleanza, la soluzione di ogni questione diplomatica.
Il potere legislativo rimase teoricamente ai comizî e al senato, ma effettivamente l'imperatore s'intromise anche in questa sfera, riservandosi la fondazione di città, il regolamento della loro condizione giuridica e la concessione di privilegi speciali a città e a particolari (diritto di cittadinanza, di connubium, di ingenuitas, ecc.). Questi atti di carattere legislativo erano emanati per mezzo di constitutiones, di cui si distinguono diversi tipi: edicta, mandata, decreta, rescripta, ecc.
L'imperatore ebbe anche sino dal principio dell'impero una giurisdizione propria e superiore, così nella sfera dei iudicia publica come in quella dei iudicia privata: infatti ogni cittadino e ogni suddito poteva essere deferito per delitti al suo tribunale, ed egli o sentenziava direttamente, aiutato da assessori (a cognitionibus) e dal suo consilium, o delegava la decisione a un giudice, per lo più il prefetto del pretorio, della città o dei vigili, per Roma e l'Italia, e i governatori per le provincie; in pari guisa ogni contestazione privata poteva essergli sottoposta, ed egli o giudicava direttamente nel forum e più tardi nell'auditorium del palazzo, o deferiva la questione, sia a magistrati e funzionarî, sia a giurati scelti dalle liste formate da lui stesso.
Notevole fu sin da principio e sempre maggiore divenne l'ingerenza dell'imperatore nell'amministrazione di Roma, dell'Italia e delle provincie. In Roma molti servizî cittadini furono posti sotto la sua direzione o sotto il suo controllo, che egli esercitò per mezzo di funzionarî di propria nomina. Così avvenne per la polizia delle vie, degli edifici, del commercio, affidata in buona parte alla prefettura della città e a quella dei vigili; per i lavori pubblici, diretti dai curatores operum publicorum, dai curatores aquarum, dai curatores riparum et alvei Tiberis; per l'approvigionamento granario della città e per le distribuzioni gratuite di frumento alla plebs romana, cui provvedevano il praefectus annonae e i curatores frumenti dandi. In Italia l'imperatore istituì posti di sorveglianza militare, fece guardare le coste dalle flotte permanenti di Ravenna e del Capo Miseno, provvide alla sorveglianza delle vie per mezzo dei curatores delle grandi strade della penisola, e s'ingerì, a cominciare dalla fine del sec. I a. C., dell'amministrazione interna delle città, per mezzo dei curatores civitatis, fino a che nel sec. III d. C. l'istituzione dei correttori preparò la degradazione dell'Italia a provincia (v. italia). Buona parte delle provincie stettero sotto il governo diretto dell'imperatore, che le fece amministrare per mezzo di suoi rappresentanti (legati, praesides, consulares) e devolse il reddito dei loro tributi a una cassa unica, il fiscus, alla quale però afluirono anche alcuni cespiti delle provincie senatorie. I poteri firianziarî del sovrano, specialmente per le sue provincie, non avevano limiti, potendo egli indire tutte le imposte che credesse, concedere riduzioni, abbuoni di arretrati ed esenzioni. La sua iniziativa si fece sentire specialmente nella riforma graduale del sistema di percezione delle imposte, cioè nell'abolizione progressiva dell'appalto ai pubblicani, che furono via via sostituiti da procuratori imperiali. Continue furono l'invadenza del fisco e le sue usurpazioni di fronte all'aerarium populi romani, amministrato dal senato, di guisa che già prima di Diocleziano quella cassa scomparve, e tutte le entrate e tutte le spese si concentrarono nel fisco. La misura delle competenze finanziarie dell'imperatore trova adeguata espressione nel suo diritto esclusivo di emettere monete d'oro e d'argento e di controllare la monetazione in bronzo, l'unica lasciata al senato. Oltre che come capo militare e civile, l'imperatore ci si presenta come capo religioso in quanto che egli, appena sale al trono, riveste la carica di pontifex maximus, che lo pone alla testa del culto, ma la sua autorità oltrepassa di gran lunga i limiti di questa carica. Infatti egli fu in pari tempo membro di tutti i più alti sacerdozî di Roma, gli auguri, i quindecemviri, gli arvali, ecc., e non solo ebbe il diritto di nomina dei pontefici minori, dei salî, dei tre Flamini maggiori e delle Vestali, ma poté influire decisamente sulla nomina dei membri di tutti gli altri collegi sacerdotali, raccomandando i proprî candidati ai comizî, se a questi ne spettava l'elezione, o ai collegi stessi, se la nomina era fatta per cooptazione. È inutile insistere sul grande prestigio che derivò all'imperatore da questa sua supremazia religiosa. Gli stessi primi imperatori cristiani non osarono spogliarsi della carica di pontefice massimo fino all'avvento al trono di Graziano nel 375 d. C.
Culto imperiale. - Il culto della persona del capo dello stato cominciò con Giulio Cesare, certamente sotto l'influenza delle consuetudini orientali e del culto dinastico delle monarchie ellenistiche: il dittatore ebbe un tempio, un flamine fu incaricato del suo culto, e un mese dell'anno fu nominato da lui. Dopo la vittoria d'Azio anche Ottaviano fu tenuto in conto di divinità, nonostante la sua riluttanza. Anche di lui il nome fu dato a un mese e per lui sorsero templi, specialmente nelle provincie orientali, ma egli non li accettò se non alla condizione che il suo nome fosse associato a quello della dea Roma, affinché uguale fosse il rispetto religioso per lo stato e per il suo capo. È così che il culto imperiale acquistò nelle provincie un carattere più politico che religioso. Ogni provincia ebbe un tempio e un altare, Romae et Augusti, centro delle assemblee provinciali, presiedute da un flamen o sacerdos Romae et Augusti, il cui compito principale era appunto occuparsi del culto imperiale, del compimento di sacrifici e della celebrazione di ludi sacri.
Alla morte d'Augusto la credenza nella divinità imperiale era diventata un dogma universale, e tutti i suoi successori ne accettarono l'omaggio, talora con discrezione, come fu di Tiberio, talora con ardente pretesa, come fu di Caligola, Domiziano e Commodo: si giurava per il genio dell'imperatore, oggetto di particolare venerazione per tutto il mondo romano; nomi d'imperatori continuarono a darsi a mesi del calendario; la testa del sovrano apparve sulle monete, circondata dalla corona a raggi, simbolo del sole, e più tardi da un nimbo; si moltiplicarono a dismisura le statue d'imperatori e d'imperatrici con gli attributi della divinità, e le si consacrarono come quelle degli dei, si collocarono nei templi e nelle cappelle private, e la loro profanazione fu considerata come un sacrilegio. Tuttavia l'appellativo di deus non fu adottato dagl'imperatori prima del sec. III, fatta eccezione per il tentativo rimasto isolato di Domiziano, e la vera adoratio del sovrano, omaggio tutto orientale, divenne consuetudinaria soltanto a partire da Alessandro Severo.
Accanto al culto di stato e a quello provinciale, fiori in particolar modo quello municipale. Ogni città ebbe templi e sacerdoti e cerimonie per tale culto, sia che lo si associasse a quello di altre divinità locali, sia che lo si tributasse direttamente al sovrano o al suo genio. Ministri ne erano flammes o sacerdotes o pontifices, ma accanto a questi vi erano gli appositi collegi dei Seviri o dei Seviri Augustales, e nomi d'imperatori furono dati a tribù e a curie e a mesi di calendarî locali, e in loro onore furono istituiti numerosissimi ludi.
Alla morte del sovrano il suo culto poteva prendere un nuovo sviluppo, se il senato ne decretava l'apoteosi, come fece per Giulio Cesare e per molti dei suoi successori. Assunto tra i divi, egli era onorato e venerato da speciali sacerdoti, flamines, e da sodales, che dal nome dell'imperatore defunto eran chiamati Augustales, Claudiales, Flaviales, Titiales, Hadrianales, Antoniniani, ecc.
Titoli. - Gl'imperatori romani vengono indicati, specialmente nelle iscrizioni, con una quantità di nomi e di titoli, dei quali alcuni sono puramente onorifici, altri esprimono i loro poteri effettivi o le cariche da loro rivestite. I principali di questi titoli sono:1. Imperator (v. sopra); 2. Caesar (v.); 3. Augustus (v.); 4. Tribunicia potestate; 5. Pontifex maximus; 6. Consul; 7. Pater patriae (titolo che fu conferito a Cesare poco prima della morte, e che ebbero quasi tutti gl'imperatori, tranne pochi che lo rifiutarono); 8. Proconsul (titolo che appare soltanto a cominciare da Traiano e dapprima solo in documenti redatti durante l'assenza dell'imperatore da Roma, perché il ius proconsulare era sì parte essenziale del potere imperiale, ma in principio non poteva essere esercitato che fuori d'Italia; poi, col proceder del tempo, il titolo fu accolto normalmente tra gli altri); 9. Censor (titolo che troviamo portato soltanto da Claudio, da Vespasiano, da Tito e da Domiziano, il quale ultimo ebbe anzi la potestà censoria a vita, onde si proclamò censor perpetuus; e la censura restò assorbita dal potere imperiale, sicché dopo questo imperatore non ve ne fu più menzione nemmeno nella titolatura imperiale). Denominazioni puramente onorifiche furono quelle assunte dagl'imperatori in rapporto a vittorie riportate da loro o da loro luogotenenti, quali Germanicus, Dacicus, Parthicus, ecc., ed altre, che cominciarono a essere usate soltanto a partire dalla fine del sec. II, quali Pius, Felix, Invictus, ecc.
Insegne e privilegi. - Insegne dell'imperatore, che in parte si ricollegano con quelle della magistratura repubblicana, in parte con quelle trionfali, furono le seguenti: la sella curulis, e, in alcune circostanze, la sella aurea (specie di trono, alto e dorato); la toga orlata di porpora e, nelle solennità, la toga trionfale (di porpora, ricamata in oro); il paludamentum purpureo, che designava il sovrano come generale in capo; la corona d'alloro e, più tardi, il diadema; la corazza metallica aderente al corpo, adorna di figure cesellate; la spada corta (pugio); lo scettro (scipio); prima dodici, e poi, a partire da Domiziano, ventiquattro persone di scorta, fra littori, araldi e viatores. I principali privilegi furono la guardia imperiale (cohortes praetoriae e poi i corpi speciali dei Germani, equites singulares, ecc.), il diritto d'effigie sulle monete; il diritto di raccomandazione (commendatio) di candidati alle magistrature, la cui elezione spettava ai comizî e, a partire da Tiberio, al senato; il diritto di aggregare (adlectio, v.) i proprî protetti o all'ordine senatorio o alle diverse categorie, nelle quali il senato era diviso (quaestorii, praetorii, ecc.), sì da aprire ad essi l'ulteriore carriera. Augusto pose la propria dimora sul Palatino, e per tutta la durata dell'impero questo colle continuò ad essere la residenza imperiale, oggetto di continui ingrandimenti e abbellimenti, specialmente ad opera di Tiberio, Nerone, Domiziano.
Casa e corte imperiale. - Al principio dell'impero e per gran parte del sec. I, per il tempo, cioè, nel quale prevalse la concezione del princeps come primo cittadino, la sua casa era composta di schiavi e di liberti ai quali era affidata la contabilità, la corrispondenza, la cancelleria, ma a mano a mano che prevalse la coscienza della superiorità del sovrano, gli uffici della corte acquistarono il carattere di alte funzioni pubbliche, e maturò, nell'epoca che stette fra Vitellio ed Adriano, la riforma per la quale gli uffici più importanti, che avevano qualche rapporto con l'amministrazione generale dell'impero, furono affidati all'ordine equestre (così i posti di cancelleria, a libellis, ab epistulis, a cognitionibus, ecc.; i posti di tesoreria, a rationibus, e i posti di procuratori, d'ogni genere), e i meno importanti rimasero ai liberti imperiali (camerieri, a cubiculo, guardarobieri, a veste, medici, precettori, ecc.). A partire da Diocleziano e da Costantino gli uffici della corte divennero tutti funzioni dello stato, e furono affidati a personaggi elevati e gerarchizzati, alla testa dei quali stette un gran ciambellano, col titolo di illustris.
Bibl.: Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, I, 3ª ed., Lipsia 1887, p. 103 segg.; II, pp. 206 e 745-1172; III, pp. 849, 933, 971 segg., 1108, 1221 segg., 1250 segg.; id., Gesammelte Schriften, II, Berlino, p. 155 segg.; IV, p. 92 segg.; id., Disegno del diritto pubblico romano (trad. di P. Bonfante), Milano 1904, p. 219 segg.; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, I, Lipsia 1885, pp. 130 segg., 161 sgg., 498 segg., 507 segg.; E. Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung, I, Lipsia 1884, p. 704 segg.; II, 1887, pp. 126 segg., 608 segg., 703 segg.; P. Willems, Le droit public romain, 5ª ed., 1911, p. 410 segg.; K. J. Neumann, in Einleitung in die Altertumswissenschaft, III, 2ª ed., Lipsia 1914, pp. 457 segg., 468; Ed. Meyer, Cäsars Monarchie und das Principat des Pompieus, 2ª ed., Stoccarda 1919; M. A. Levi, in Rivista storica italiana, n. s., II (1924), p. 253 segg.; id., Augusto, in Encicl. Ital., V, pp. 346-354; A. Rosenberg, in Pauly-Wissowa, Real-Encykl., IX, col. 1939 segg.; R. Cagnat, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des Antiq., III, p. 423 segg.; C. Lécrivain, ibid., IV, p. 648 segg.; E. De Ruggiero, in Dizionario Epigrafico, IV, p. 41 seg. - Per il titolo si vedano in particolar modo i recenti studî di Donald Mc. Fayden, The history of the title imperator under the Roman Empire, Chicago 1920; O. Th. Schulz, Die Rechtstitel und Regierungsprogramme auf römischen Kaisermünzen, in Studien zur Geschichte und Kultur des Altertums, XIII, Paderborn 1925; A. Momigliano, in Bollettino della Commissione Archeologica comunale, LVIII (1930), p. 42 segg.; M. A. Levi, in Rivista di Filologia classica, LX (1932), p. 207 segg.; G. Vinay, ibid., p. 219 segg.; G. De Sanctis, Imperator, in Studi in onore di S. Riccobono, II, Palermo 1932, p. 57 segg.
IL Sacro Romano Impero. - Secondo la comune designazione, è l'Impero Germanico, fondato da Ottone I di Sassonia nel 962 e tramandato sino al 1806 da dinastie tedesche. Ma sostanzialmente l'inizio del Sacro Romano Impero può farsi risalire all'anno 800, quando per opera di Carlomagno, coronato imperatore dal papa Leone III, fu restaurato l'Impero Romano d'occidente. Ottone il Grande rinnovò infatti la tradizione cesarea, spinto da quelle medesime necessità, che avevano portato all'impero il franco re Carlo, del quale egli intendeva essere l'erede e il continuatore. Al rinnovarsi nel 962 della cerimonia dell'800 influirono e operarono ancora l'idea dell'Impero sempre viva negli spiriti e nelle menti del Medioevo; il bisogno, universalmente sentito, di vedere assicurata la pace e la giustizia da un capo solo e unico; il desiderio dei pontefici di avere un protettore della Chiesa romana e della religione cristiana, unito alle necessità della politica ecclesiastica del monarca germanico, e infine l'ormai avvenuto distacco dell'Italia e del Papato dall'Oriente. Ma il nuovo Impero differiva alquanto da quello scomparso più di mezzo secolo prima. Da un lato l'estinzione della dinastia carolingia, corollario di cento anni di decadenza, e la più lunga vacanza della corona avevano chiuso l'Impero in più angusti confini geografici e avevano reso meno autocratico l'erede dei Cesari; dall'altro, sotto gli Ottoni, l'ufficio imperiale conseguiva finalmente un carattere definito e compiti precisi e veniva a legarsi strettamente con il regno tedesco, acquistando così un carattere che diverrà sempre più germanico.
Il mondo cristiano aveva di nuovo un capo temporale, l'imperatore, e un capo spirituale, il papa. Era infatti concetto tradizionale nel Medioevo che l'Impero fosse, né più né meno, che la Chiesa vivente veduta dal suo aspetto secolare, la società cattolica organizzata sotto la forma politica; che Impero e Papato dovessero procedere con concorde armonia e reciproca coordinazione. Proprio in virtù di questo significato l'Impero è detto sacro (il termine sacrum imperium fu usato per la prima volta da Federico Barbarossa, forse per affermare, reagendo alla teoria d'Ildebrando, l'istituzione divina e i doveri di quell'ufficio). E quel vagheggiato e quasi mai raggiunto ideale trovò solo durante i secoli X e XI temporaneo e parziale riconoscimento teorico e pratico, perché, subito dopo, gl'intemperanti propositi di universale dominio e le legittime, ma spesso eccessive reazioni di papi e d'imperatori gettarono l'umanità in quella lotta che divise i sudditi imperiali in due partiti opposti e avversi (guelfi e ghibellini) e che ridusse a esaurimento la forza e l'autorità dell'Impero.
Per più di un secolo i pontefici furono creature degl'imperatori: Ottone I e i suoi successori dominarono la Chiesa, nominarono e deposero papi, vescovi, abbati, e convocarono concilî ecumenici. Ma verso la fine del sec. XI i pontefici, tutte persone d'incorrotti costumi e di mente eletta, guidati dal consiglio d'Ildebrando, intendevano a lor volta d'essere i capi supremi del mondo cristiano, al disopra degl'imperatori. E la lotta tra il Papato e l'Impero divenne violenta, dopo che fu eletto pontefice lo stesso Ildebrando (v. investiture). Il programma di Gregorio VII di liberare la Chiesa dall'ingerenza laica e d'impedire ogni intromissione dei laici nelle investiture ecclesiastiche, con i decreti del concilio lateranense del 1075, s'incontrò con la resistenza di Enrico IV: al conciliabolo di Worms (1076) e alla deposizione del papa si contrapposero un nuovo concilio lateranense e la scomunica dell'imperatore; all'umiliazione a Canossa (1077) la discesa vittoriosa di Enrico IV in Italia contro Gregorio vII e i feudatarî ribelli. La lotta, troncata con il concordato di Worms (1122), concluso tra Callisto II ed Enrico v, non tardò a riaccendersi e ridiventò aspra con Alessandro III e Federico I, con Gregorio IX e Federico II: cessò infine, non lasciando né vincitori né vinti.
Gl'imperatori, oltre alla pretesa di dominare sul Papato, rivendicarono l'autorità suprema anche in Germania, in Italia, in Ungheria, in Inghilterra, in Francia e in Spagna; ma non poterono mai realizzare questa loro idea per il carattere feudale della costituzione politica del tempo e per l'opposizione aperta dei varî sovrani. L'imperatore rivestiva due dignità distinte, che, in sé considerate, si contraddicevano, avendo caratteri proprî e diversi; ma che, fondendosi in una sola persona, esercitavano reciproca influenza. Gli elettori (il sistema d'elezione, impreciso dapprima, fu definitivamente fissato e regolato dalla Bolla d'oro di Carlo IV), infatti, eleggevano il re di Germania (e di Borgogna) e il re d'Italia, cioè il re dei Romani, e come tale designato all'Impero, che diveniva però imperatore solo dopo l'incoronazione a Roma per mano del papa: unione personale di due corone distinte sotto un solo sovrano, l'Imperatore. Sicché due opposti sistemi politici si trovavano in modo strano raccostati nella stessa persona dell'imperatore. Il suo illimitato potere trovava limiti nella sua qualità di re feudale; e, viceversa, i limiti che il sistema feudale imponeva al re parevano annullati e superati dalla sua qualità d'imperatore. Ne veniva quindi che gli ordini, che egli impartiva ai sudditi italiani e tedeschi, li impartiva nella doppia qualità di re e d'imperatore, mentre a tutti gli altri sudditi non poteva ordinare che come imperatore. Ma, per quanto questa dignità fosse superiore alla prima, e sembrasse, in apparenza, assorbirla, egli non poteva essere in fatto ubbidito che come re; appunto perché soltanto come re egli poteva disporre di quei mezzi di coazione, di cui, come imperatore, malgrado la sua asserita onnipotenza, era privo, e di cui disponevano invece i re a lui teoricamente soggetti.
Quindi deriva che l'effettiva autorità dell'imperatore non usciva oltre i confini dei paesi, sui quali egli regnava come sovrano diretto. I regni di Francia, di Spagna, d' Inghilterra, di Napoli, la repubblica di Venezia tributarono sì, talvolta, omaggi di platonica reverenza ai titolari del Sacro Romano Impero, ma erano nel fatto pienamente indipendenti da lui. Così il Sacro Romano Impero, abbracciante in teoria tutta la cristianità, tendeva necessariamente a restringere sempre più la sua sfera d'effettiva influenza politica e giuridica a una ben piccola parte d'Europa: a quei soli paesi, cioè, cui propriamente spettava il nome di terre dell'Impero: vale a dire la Germania e l'Italia. Comunque l'autorità regia cercò e trovò in parte nella maestà del nome imperiale il principal mezzo di lotta e di vittoria contro il feudalesimo e l'anarchia, che fino al sec. XII turbarono l'Impero, in Germania e in Italia, con disordini, rivolte e guerre civili. E ciò, più facilmente che altrove, le poté riuscire in Italia, in quanto ivi un validissimo sussidio le era offerto dalla tradizione giuridica romanistica, intenta a risuscitare, intorno alla nuova persona dell'imperatore germanico, tutte le dignità e tutti i poteri degli antichi Cesari.
L'impero nel sec. XII si trovò di fronte al movimento comunale: ma questo parve più che altro, sul principio, venire in aiuto all'autorità regia nella sua lotta contro l'autorità feudale. Contro questa, infatti, più che contro l'autorita regia, eran dirette le usurpazioni cittadine e comunali, e ben mostrò di approfittarne a proprio vantaggio Federico Barbarossa, quando, mosso in guerra contro i Comuni, non cercò di ridare ai conti e ai marchesi le antiche prerogative giurisdizionali e amministrative dai Comuni usurpate, ma cercò di avocarle a sé. Proclamate a Roncaglia (1158) la perpetuità e la inalienabilità delle regalie imperiali, impose ai Comuni ubbidienza a ufficiali da lui nominati, rappresentanti, nelle singole provincie e nelle singole città, la potesta imperiale e regia. La vittoriosa riscossa delle libertà comunali costrinse, è vero, il Barbarossa alla pace di Costanza (1183), ma, anche in questa, egli volle che i magistrati del Comune fossero in qualche modo considerati come magistrati dell'Impero. La pace di Costanza rimase, formalmente, per secoli la legge fondamentale regolante i rapporti fra i Comuni e l'Impero, e intorno ad essa e per essa si svolse, per quasi due secoli, una lotta grandiosa, le cui fasi furono spesso tragiche: favorevoli alla potestà imperiale talora, quando la persona dell'imperatore era presente in Italia: favorevoli, più spesso, durante le lunghe assenze degl'imperatori, alle autonomie locali. Federico II, fedele al suo ideale di restaurazione imperiale, tentò in ogni modo - e parve, per un istante, che vi fosse riuscito - di restringere le autonomie comunali alle particolari prerogative giurisdizionali, amministrative e finanziarie riconosciute dalla pace di Costanza, e di assoggettare i Comuni, perpetuamente ribelli, a mezzo di una complessa gerarchia di funzionarî imperiali (vicarii, legati, nuntii, missi, capitana), facente capo al potere centrale, unitario, assoluto dell'imperatore.
Ma fu quello di Federico II un breve, per quanto glorioso periodo. L'interregno e la politica degli Asburgo, come avvilirono l'Impero di fronte al Papato, così rialzarono le sorti delle autonomie comunali. Gl'imperatori svevi furono costretti dalle lotte contro i Comuni e il Papato ad acquistare con continue concessioni l'indispensabile appoggio dei feudatarî tedeschi sempre turbolenti e ribelli, per le loro lunghe e frequenti assenze dalla Germania. Le due prammatiche sanzioni di Federico II del 1220 e 1232 conferirono diritti che rendevano quasi del tutto indipendente l'aristocrazia feudale, la quale rafforzò e accrebbe il suo potere a danno di quello della corona durante il "grande interregno".
Soltanto cinquant'anni erano trascorsi, da quando la morte aveva troncato il grandioso tentativo dello svevo Federico II, quando nel 1302, all'inizio del sec. XIV, papa Bonifacio VIII proclamava solennemente da Roma, nella bolla Unam Sanctam, la soggezione dell'impero cristiano al potere centrale, unitario, assoluto del pontefice romano, instaurando così ufficialmente un concetto del potere ecclesiastico che, già timidamente affermato da Onorio di Autun, da Giovanni di Salisbury, da Rufino nel sec. XII, già elaborato da Innocenzo III, appariva ora come dottrina ufficiale della Chiesa. Il primo imperatore cristiano - afferma Bonifacio VIII - ha donato a Silvestro la supremazia sull'Occidente: un successore di Silvestro, coronando in Roma Carlomagno, ha trasferito nei Franchi, e da questi nei novelli Germani, l'Impero decrepito e antipontificio dei Greci: l'ha trasferito per assoggettarlo (teoria della translatio). E dal papa, non da Dio, deriva all'imperatore il potere: dal papa che può concederlo e ritoglierlo a suo arbitrio. E cosi, in applicazione di tale principio, Alberto Tedesco non fu riconosciuto imperatore, se non quando compì atto di piena sudditanza al pontefice e di completa adesione alle pretese papali.
L'Impero era dunque soggetto, nella teoria e nel fatto al Papato. Alla quale soggezione avevano condotto i lunghi anni d'interregno imperiale, le lotte e le rivalità fra candidati all'impero, e soprattutto la politica prettamente tedesca degli Asburgo o, comunque, degl'imperatori di quel periodo (Rodolfo, Adolfo di Nassau, Alberto e, in un primo tempo, anche Enrico VII), che, nella pace col papato - pace che non poteva essere che dedizione - avevano cercato il mezzo per ottenere la pacificazione interna del regno al di là delle Alpi. Ma al trionfo era prossima la rovina. Proprio quando Bonifacio VIII, con parole che né Ildebrando né Innocenzo avrebbero osato, si proclamava solo imperatore, si facevano sentire minacciosi i segni della reazione. La reazione partì dalla Francia: dal paese, cioè, che prima d'altri aveva saputo assurgere e affermarsi a forte e compatto stato nazionale. E fu reazione, non soltanto di atti, ma anche di pensiero: una vigorosa schiera di scrittori si strinse intorno a Filippo il Bello, e sostenne con fiero impeto polemico le ragioni dello stato contro quelle della Chiesa. Le conseguenze della lotta furono fatali per questa. Lo schiaffo d'Anagni segnava il crollo del gran sogno di Gregorio, d'Innocenzo, di Bonifacio: la Chiesa diveniva mancipia di un re ribelle; e la Francia traeva in ostaggio il Papato in Avignone.
La reazione di Filippo il Bello era stata diretta così contro la Chiesa come contro l'Impero: una delle sue prime conseguenze era stata la proclamazione dell'indipendenza del regno francese dall'autorità imperiale. Ma la questione era lasciata impregiudicata e insoluta per le terre dell'Impero. E allora sorge in Italia un'altra reazione, più larga e più profonda, che le pretese papali combatte nel nome stesso della monarchia universale; che, riallacciandosi alla stessa più genuina tradizione cattolica dei primi secoli medievali, alla monarchia universale ecclesiastica contrappone la monarchia civile, universale, generale, assoluta come quella. E la risposta, così al libello di Egidio Romano e alla bolla di papa Bonifacio, come alle teorie nazionalistiche francesi, negatrici dell'impero universale, fu il De Monarchia di Dante Alighieri. Il Poeta vuole che, come al disopra di tutti i gruppi dei fedeli esiste una volontà unica, direttrice e suprema, che, in nome di Dio, la regge e guida alla felicità eterna, così, al disopra dei regni, delle repubbliche, dei principati, dei feudi, esista un'altra volontà, unica e suprema, emanante come la prima direttamente da Dio, che le diverse membra della società civile regga e guidi alla felicità terrena, cioè al raggiungimento e al mantenimento della pace.
Enrico VII riprese, dalle mani di Dante e della scuola giuridica bolognese, il vessillo imperiale, che di nuovo sventolò sui Comuni d'Italia e su Roma papale. E, se la bolla di Bonifacio era stata il vangelo, onde si era bandita al mondo la padronanza del papa su tutte le anime e su tutti i corpi, le due costituzioni imperiali di Enrico VII De crimine lesae maiestatis e la sua celebre "Quaestio an Romanus Pontifex potuerit indicere treguam principi Romanonorum..." furono il vangelo della risorta dottrina imperialista. L'eterna lotta tra Papato e Impero pareva ricominciata. Non importa, se male arrise la fortuna al tentativo, e la morte troncò tragicamente l'impresa: l'Impero non morì in Italia, a Buonconvento, come piacque ad alcuno di affermare (così il Bryce e il Gregorovius: è questo, del resto, quasi un luogo comune fra gli storici). Un altro imperatore, non molti anni dopo, riprese il tentativo di Enrico VII, malgrado gli anatemi papali: e intorno alla contesa fra Ludovico il Bavaro e Giovanni XXII si riaccese più vivida e fiera la disputa dottrinale sui reciproci diritti della Chiesa e dello Stato. Né importa, se anche il secondo tentativo ebbe fine forse più misera del primo. Dalla lotta l'idea imperiale uscì trasformata, ma non distrutta: il diritto pubblico italiano rimase, per secoli ancora, idealmente imperniato intonno al concetto del Sacro Romano Impero. E prima di tutto, sotto la pressione delle circostanze mutate e delle nuove contingenze politiche, l'eterna questione tra Impero e Papato - non quella tra Chiesa e Stato che continuò sotto altre forme - perdette intensita e importanza. Non più lotta era possibile fra le due potestà, indebolite e minate da interni dissidî, ma reciproca indipendenza, la quale doveva, per forza di cose, tradursi in accordo. E l'efficace azione esercitata da Sigismondo imperatore al concilio di Costanza (1409-1414) è la più caratteristica ed eloquente manifestazione del nuovo atteggiamento assunto dalla Chiesa e dall'Impero nei loro reciproci rapporti.
Intanto la posizione stessa dei partiti tradizionali italiani di fronte all'Impero s'andò, durante il sec. XIV, modificando. Non v'era più ragione di dissidio tra guelfi e ghibellini. Poiché, da una parte, la fine della, lotta fra Impero e Papato e l'intervenuto accordo fra essi toglievano di mezzo il più spinoso motivo di divario: e, d'altro lato, il sentimento nazionale era ormai abbastanza diffuso da non esser più motivo di dissenso fra i partiti. La distinzione tra guelfi e ghibellini era ormai un ricordo storico: e le parole si usavano ora a indicare dissensioni interne di partiti e di classi, che nulla di comune avevano con le antiche. Ma, di fronte all'Impero, tutti si sentivano press'a poco nell'identica posizione: lo riconoscevano; ma erano, di fronte ad esso, ostili per sentimento di nazionalità e per amore di autonomia. Poiché, intanto, sin dagl'inizî del sec. XIV una tendenza andava delineandosi e affermandosi nello spirito pubblico italiano, che conduceva a intaccare profondamente l'autorità imperiale e che finiva quasi, anche presso i più fedeli alla concezione ghibellina o imperialistica della monarchia universale, con l'infirmarne, o meglio con lo spostarne la base giuridica. Proprio in Italia, il principio della sovranità popolare, non mai completamente sepolto nell'età medievale, balenante negli scritti dei pensatori più alti, da S. Tommaso a Dante, ma fasciato e costretto da concetti teocratici e scolastici, e adombrato poi dalla tradizione giuridica bolognese nel ricordo dell'antica lex de imperio, assurse, per la prima volta, con Marsilio da Padova, a dignità e a compiutezza di sistema politico o filosofico, in cui il diritto del popolo è concepito come qualcosa di vivo e attivo, preesistente e coesistente al diritto imperiale, e in cui la volontà popolare è affermata come unica causa elficiente dello Stato, in cui anzi, lo Stato è, non l'Impero, ma l'universitas civium. Ma così il concetto della sovranità popolare assumeva tale ampia estensione e larghezza di termini e di contenuto, da renderne del tutto impossibile la pratica applicazione all'elezione dell'imperatore universale. Per rendere l'Impero popolarmente elettivo e ricostituirlo su base veramente democratica, sarebbe stato necessario restringerne l'ambito, per aumentanne la forza: trasformarlo da universale in nazionale. E ciò fu invano tentato da Cola di Rienzo, il cui grandioso tentativo fu men fondato nel vuoto di quel che ad altri parve, e fu piuttosto la pratica e suprema estrinsecazione di tutta una tendenza dello spirito pubblico italiano, durante il sec. XIV, democratica e nazionale insieme, della quale, come Cola di Rienzo fu l'uomo d'azione e il soldato, così Francesco Petrarca fu il sognatore e il poeta. Ora, il principio della sovranità popolare, il quale non poteva trovare applicazione e riconoscimento pratico nell'impero universale, per la vastità e la complessità di esso, venne invece a trionfare praticamente in ciascuno di quegli stati-città, di quegli stati autarchici, signorie e principati, in cui era diviso il regno d ' Italia.
Nei primi due secoli del Rinascimento, cioè dal principio del sec. XIV sino agl'inizî del sec. XVI, l'Impero non aveva, in Italia, conservato, per quanto si riferisce all'esercizio di un effettivo potere politico, nulla più del semplice diritto di sanzionare e consolidare col suo riconoscimento autorità e governi sorti e costituiti all'infuori di ogni suo diretto intervento. Il potere era completamente sfuggito all'Impero, e a questo non era rimasta che la pura sovranità. Il che non significa che esso avesse perduto ogni influenza sullo svolgersi delle istituzioni politiche di quella parte d'Italia, che era pur sempre terra dell'Impero. La sua influenza, anzi, fu, per certo lato, assai più grande di quel che molti forse credono, e di natura tutta particolare. L'Impero esercitò, nel turbinio dei fatti, mutamenti di rivoluzioni, di conquiste, di violenze, che caratterizza la storia italiana di quei due secoli, un'azione conservatrice e trasformatrice insieme: un'azione di equilibrio e di consolidamento. Alla tradizione imperiale in gran parte si deve, se, dal municipalismo, dal trionfo della violenza e dal cozzo delle passioni di parte non venne l'anarchia e la disgregazione, se la stessa violenza trovò una specie di alveo che la incanalò e la fissò entro limiti giuridici.
Durante la seconda metà del sec. XIV e tutto il sec. XV, l'Impero rimase in vita e concorse col suo necessario riconoscimemo al sorgere e al formarsi, su da schietta fonte popolare, del diritto pubblico del Rinascimento italiano, mirabilmente spontaneo e originale. Però, durante quei due secoli, gl'Italiani perdettero ogni rispetto e timore dell'autorità imperiale e videro definitivamente spegnersi in sé stessi ogni fede nella vecchia idea dell'Impero, assistendo alla vanità e alla misera fine di tutte le spedizioni degli imperatori, da Carlo IV a Massimiliano; all'inutilità d'ogni loro sforzo per esercitare una parte attiva nella politica italiana; alla venalità con cui fecero vergognoso commercio delle loro più alte prerogative. L'Italia del Rinascimento non fu più il centro dell'Impero: dopo la Bolla d'oro di Carlo IV la Germania divenne l'esclusiva signora dell'Impero; dopo il concilio di Costanza, nel quale per l'ultima volta apparve l'imperatore nell'esercizio delle sue funzioni internazionali, l'erede dei Cesari innanzi all'Europa non fu che un monarca tedesco; dopo Federico III (1452) nessun imperatore fu coronato a Roma.
La Germania era rimasta fedele sempre all'idea imperiale, cui si legava il ricordo delle antiche glorie e conquiste; però la politica egoista dei principi tedeschi, vigili custodi delle loro libertà, impedendo il formarsi di una monarchia unita e compatta, contribuì a togliere a quell'idea ogni prestigio e valore. La Bolla d'oro del 1356 aveva riconfermato e legalizzato tutti i privilegi e i diritti dell'aristocrazia germanica e aveva ridotto l'imperatore a semplice capo onorario di tanti piccoli stati, sottoposto al controllo del collegio degli elettori e alla mercé di una dieta gelosa.
La riforma religiosa, proclamando la libertà del pensiero, colpì alla radice l'idea imperiale, basata sul principio di autorità. Ma, proprio allora, in cui tutto il mondo cattolico, in Germania e altrove, rapidamente veniva disunito e intaccato dal moto luterano, ascese all'Impero uno dei più tenaci fautori della monarchia universale, Carlo V, che in brevissimo corso di tempo aveva per eredità conseguito il possesso della Spagna e dei suoi dominî italiani e d'oltre oceano, della Germania e della corona imperiale. Egli disponeva perciò di una formidabile potenza morale e politica e volle esercitare energicamente l'autorità cesarea. Ma i principi tedeschi sorsero in difesa delle proprie autonomie e fecero causa comune con il moto per la riforma, che forniva loro le forze per combattere l'imperatore. Così, quando Carlo V poté pensare alle cose di Germania, la sua azione ebbe insieme un aspetto politico e religioso: soffocare la riforma e reprimere le libertà nazionali dei varî stati. Ma la pace di Augusta (1555) segnò la scomparsa dell'unità politica e religiosa del Sacro Romano Impero e il crollo dei tentativi asburgici di restaurazione cattolica e di monarchia universale: ai principi ribelli fu riconosciuto il libero esercizio del culto protestante e furono ristretti i diritti dell'imperatore. Il potere imperiale in Germania fu ancor più ridotto dai trattati di Vestfalia, che suggellarono la fine della guerra dei Trent'anni, intimamente connessa, per i motivi religiosi che la promossero, alle lotte dei protestanti contro Carlo V. I principi ebbero riconosciuta la loro piena sovranità territoriale e il diritto di stringer leghe fra loro e anche con potenze straniere contro chiunque, tranne contro l'imperatore e il regno germanico; e la dieta dell'Impero ebbe affidato il compito di approvare le decisioni più importanti: così la guerra e la pace, le alleanze, le pubbliche imposte e le leve militari.
L'Impero non è più ormai una realtà politica, ma un aggregato di stati quasi del tutto indipendenti: non ha più una propria storia, ma la sua storia in verita è quella della confederazione dei principi tedeschi, laici ed ecclesiastici, sotto la presidenza formalmente elettiva, ma di fatto ereditaria, degli Asburgo; continua ad avere scarsissimi redditi finanziarî, a mancare di un proprio esercito e della forza per far eseguire i decreti delle diete e le sentenze dei suoi tribunali.
Dopo Carlo V sino alla Rivoluzione francese il nome dell'Impero è quasi ignorato in Italia. La venerabile istituzione aveva perduto nel suo "giardino" ogni autorità e influenza. È vero che, durante il Settecento, i principi italiani furono progressivamente assoggettati alla politica dominatrice dell'Impero, forte di numerose agguerrite milizie, stanziate in punti strategici della penisola; ma ciò non era dovuto al rivivere e al riaffermarsi del Sacro Romano Impero: era in realtà l'effetto della forza militare e politica della potente casa d'Asburgo.
Ma, pur essendo così depresso ed esautorato, l'Impero avrebbe di certo ancora a lungo continuato a sussistere, se la Rivoluzione francese non l'avesse travolto con la sua ondata di distruzione e di rinnovamento. In seguito al trattato di Presburgo (1805), la Baviera, il Württemberg, il Baden e vari altri stati minori si staccarono dall'Impero e costituirono una lega detta Confederazione Renana sotto la protezione francese (17 luglio 1806). Pochi giorni dopo, il 1 agosto, Napoleone fece annunziare alla dieta, convocata a Ratisbona, che non riconosceva più l'esistenza dell'Impero. Allora Francesco II, il quale, in parte presentendo gli eventi e in parte per affrontare l'assunzione imperiale di Napoleone (1804), già sin dal 1804 aveva cominciato a chiamarsi anche "imperatore ereditario d'Austria", rinunziò all'improvviso, il 6 agosto 1806, alla millenaria corona del Sacro Romano Impero.
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