FEDERICO II, Imperatore
F., della casata degli Hohenstaufen duchi di Svevia, nacque il 26 dicembre 1194 a Jesi e morì il 13 dicembre 1250 a Fiorentino, nel territorio dell'od. comune di Torremaggiore in Puglia. Nel 1197 rimase orfano del padre Enrico VI, dal quale ereditava la pretesa all'impero. La madre, Costanza d'Altavilla moriva nel 1198, pochi mesi dopo aver fatto porre sul capo del bimbo la corona di Sicilia a lei pervenuta per la morte senza figli di Guglielmo II (v. Altavilla).Innocenzo III, nominato tutore del giovane F., ne osteggiò l'accesso all'eredità paterna fino a che l'imperatore Ottone IV di Brunswick, di cui aveva favorito l'ascesa, non mostrò di voler riprendere, tentando la conquista della Sicilia, il disegno svevo di isolamento dello Stato della Chiesa che il pontefice aveva inteso sventare. Opposto a sua volta al sassone, F. nel 1212 veniva richiamato in Germania per essere eletto e successivamente incoronato re ad Aquisgrana (1215). In quella occasione prese solennemente la croce e giurò di liberare il Santo Sepolcro. Sulla via del ritorno in Italia, il 22 novembre 1220 fu incoronato imperatore a Roma da papa Onorio III. Al cadere dello stesso anno F. promulgava a Capua le Assise, che furono il primo, fondamentale atto legislativo per la riorganizzazione del regno meridionale, caduto in grave stato di disordine nel lungo periodo di virtuale anarchia succeduto alla morte (1189) di Guglielmo II. Principio ispiratore di quella legislazione era l'accentramento dei poteri nelle mani del monarca attraverso un apparato burocratico rigidamente organizzato che doveva sostituire la mediazione feudale nell'amministrazione della giustizia, dell'economia e della potenza militare. Atto a ciò conseguente fu la fondazione nel 1224 dell'Università di Napoli per la formazione dei funzionari.
L'architettura era investita direttamente dalle costituzioni capuane per le norme che stabilivano il ritorno al demanio reale di città, fortificazioni, castelli, villaggi, casali alienati dopo la morte di Guglielmo II e la requisizione e demolizione di ogni struttura militare di pertinenza non regia innalzata in quello stesso periodo. L'intensità dei lavori di riattamento e ricostruzione che seguì è testimoniata da fonti indirette, come il passo della Chronica dell'abbazia cistercense di S. Maria di Ferrara che registra per il 1224 il permesso concesso dal pontefice a F. di impiegare conversi delle abbazie cistercensi di Sicilia, Puglia (il toponimo designa probabilmente tutte le regioni meridionali della penisola) e Terra di Lavoro in mansioni diverse, tra le quali la costruzione di castra e domicilia ovunque ne avesse la necessità e le tassazioni straordinarie allo scopo istituite. Ricorrenti esazioni e insopportabili prestazioni d'opera per costruzioni militari sono oggetto in quegli anni (1223-1225) di rimproveri epistolari all'imperatore del giustiziere Tommaso da Gaeta (Kehr, 1905). Così come vengono caratterizzate in quelle lettere, "erigere in altum arces [...] in ascensum arduos colles munire [...] latera montium abscidere multiplicibus muris et turribus sepire", le attività allora in corso sembrano concentrarsi su fortificazioni di altura a controllo del territorio e dei confini, costituendo perciò soprattutto riattamento e integrazione del sistema difensivo ereditato dai Normanni. Una traccia nello specifico architettonico di questo processo è offerta dai castelli che si ritrovano a date più tarde come parte integrante dell'assetto federiciano e le cui difese fanno capo a massicce strutture turriformi che declinano in un certo numero di varianti la tipologia del mastio. In diversi casi l'edificazione normanna appare poco dubbia, in altri i restauri e le ricostruzioni federiciane mantennero l'impostazione preesistente e comportarono il trasferimento della tipologia del mastio all'architettura imperiale. È quanto l'analisi architettonica sta rivelando, per es. per numerosi dei dodici tra castelli e rocche di Terra di Lavoro che nel 1230 F. affidava temporaneamente a Hermann von Salza, Maestro dei Cavalieri Teutonici, all'arcivescovo di Reggio Calabria e al vescovo di Reggio Emilia come garanzia della pace di San Germano; erano Castrocielo, Rocca Guglielma, Rocca Bantra, Presenzano, Raviscanina, Mondragone, Atina, Pietra di Tocco presso Benevento, Sessa, Caiazzo, Maddaloni e il Castrum Lapidum di Capua, in pratica quasi tutta la linea più avanzata delle fortificazioni del munitissimo confine con lo Stato della Chiesa (Pistilli, in corso di stampa). Verifiche analoghe sono state fatte per i castelli della Capitanata, come la torre dei Giganti a Monte Sant'Angelo e Deliceto (Leistikow, 1971), e persino per alcuni castra exempta siciliani (Agnello, 1961), principalmente il castello di Scaletta Zanclea, ove un mastio a pianta trapezoidale, che un muro di spina divide in due serie di ambienti sovrapposti separati da impalcati lignei e chiusi da volte a botte alla sommità, occupa l'angolo meridionale di un sistema di cortine digradanti su un erto sperone. Un mastio simile dalla più regolare pianta quadrata, risalente all'età normanna, sarebbe divenuto il riferimento di partenza, ancora nel decennio successivo, per l'impostazione del castello di Milazzo. Esempi in cui la tipologia del mastio isolato normanno, attraverso la mediazione federiciana, si trasmette addirittura all'architettura militare successiva sono Rocca Janula presso Montecassino, riparata nel 1231, 1235, 1239, ma la cui costruzione attuale, più che federiciana, come è stato ipotizzato (Natella, Peduto, 1972), appare angioina, e la torre di Giuliana in Sicilia, molto simile nella forma pentagonale a sperone con grande profondità di fiancheggiamento rispetto a una schiera di edifici retrostanti.È invece impossibile indicare per il decennio 1220-1230 costruzioni documentatamente realizzate da F. che siano conservate in forme anche solo a grandi linee corrispondenti a quell'età. Non sono più verificabili gli interventi ai castelli di Aversa, Napoli e Gaeta, che secondo la Chronica del notaio Riccardo da San Germano venivano restaurati o potenziati (firmantur) nel 1223. È perduta la domus di Apricena (prov. Foggia), risalente al 1225, ed è discusso per la datazione e la pertinenza sveva delle strutture il castello di Oria (prov. Brindisi), impianto approssimativamente triangolare di cortine abbarbicato su uno sperone che domina la città da N-E, munito di torri quadrangole e rotonde. Resta dunque irrisolta la questione se già in questa prima fase l'architettura federiciana abbia ammesso l'innovazione tipologica dello schema di castello quadrilatero ad ali, munito da torri agli angoli e al centro dei lati. Datazioni entro gli anni venti, non confortate peraltro da documentazione diretta, sono state proposte per il castello di Barletta, ove rarissimi resti risalenti al sec. 13° entro la quasi totale ricostruzione del 16° (Grisotti, 1985) sembrano indicare una soluzione del genere, e per il castello di Brindisi, dove un nucleo quadrilatero munito da torri circolari, quadrangole e anche da una pentagonale a sperone, secondo il modello caratteristico dei castelli federiciani della costa pugliese, sembra sussistere all'interno di bastionature che lo hanno circondato tra la fine del sec. 15° e la metà del successivo. La destinazione militare che ancora grava sul castello impedisce analisi delle strutture, che, secondo la testimonianza di Riccardo da San Germano, venivano quanto meno potenziate nel 1231 (o 1232), come quelle dei castelli di Bari, Trani e Napoli. Cronologia sfuggente e ardua decifrabilità delle strutture ostacolano l'inquadramento storico di altri castelli quadrilateri ad ali: in Puglia Copertino e Gioia del Colle, quest'ultimo ridotto a falso storico da ricostruzioni e restauri succedutisi dalla seconda metà del secolo scorso agli anni Sessanta di questo.Scomparsa e non documentabile nelle forme è anche la fondazione più significativa di questo periodo, il palazzo di Foggia. Ne restano, fortunosamente scampati a distruzioni e spostamenti e oggi murati all'esterno dell'edificio sede del Mus. Civ. foggiano, il ciglio di un arco scolpito ad acanti spinosi su mensole a forma di aquila e la solenne epigrafe di fondazione con la data, 11 giugno 1223, il nome del possibile architetto - P'TO, sciolto in p(ro)to(magister) ma anche in p(raecep)to - Bartolomeo e una insolita insistenza nel proclamare come non solo l'atto della costruzione, ma anche la sua forma corrispondessero alla volontà imperiale. L'affermazione, infine, che la costruzione del palazzo doveva rendere la città di Foggia "(...) regalis sedes inclita imperialis" dà la misura della connotazione anche politica che il programma architettonico federiciano assumeva sin da principio. Lo spostamento della capitale del regno dalla Palermo normanna, certo ben fortificata e già ricca di palazzi, parchi, chiese, a quello che era stato sino allora un centro scarsamente significativo della Capitanata trova riscontro nella netta preferenza che anche in seguito F. mostrò nei suoi soggiorni per quella propaggine settentrionale del regno più direttamente comunicante con i territori dell'impero e si manifestò in una serie di altri insediamenti a carattere residenziale, venatorio, economico (Marino Guidoni, 1980; Licinio, 1994) oltre che fortificatorio, per lo più scomparsi, come il parco di San Lorenzo, la domus e la masseria di Apricena, o ridotti a resti, come a Fiorentino e Ordona, che solo lo scavo archeologico è in grado di ricomporre. Foggia veniva elevata a nuova capitale in una prospettiva che non riguardava più soltanto il regno meridionale, ma l'impero, e il palazzo era manifestazione del progetto di integrazione organica tra le due entità economico-amministrative e politiche che, malgrado reiterate e solenni promesse in contrario al papa, F. proprio in quegli anni andava riprendendo. Fu una delle cause della rinnovata tensione tra papato e impero che ebbe la prima crisi violenta nel 1227, allorché, assumendo a pretesto la mancata partenza per la crociata, già troppe volte rimandata, Gregorio IX scomunicò l'imperatore.Tra il 1228 e il 1229 F. condusse finalmente la spedizione oltremare, sviluppandola come azione diplomatica che procurò la restituzione per dieci anni di Gerusalemme mediante un trattato con il sultano d'Egitto; forte del diritto acquisito sposando nel 1225 in seconde nozze Isabella di Brienne, F. si fece incoronare nel Santo Sepolcro re di Gerusalemme. La crescente tensione con il papa, che in sua assenza aveva tentato l'invasione del regno, molto precariamente sopita dalla pace di San Germano (1230), l'ostilità verso i Comuni lombardi, che nel 1235 sfociava in guerra aperta, ma anche fatti interni come la ribellione nel 1232 di numerose città siciliane disegnano il quadro politico e sociale in cui si inscrive un rinnovamento istituzionale in senso sempre più accentuatamente laico, ma anche rigidamente accentrato dal sistema burocratico, avviato con le Costituzioni di Melfi (1231), significativamente intitolate Liber Augustalis, che, a proposito degli edifici, riprendevano e inasprivano la legislazione di Capua. Dovette costituire applicazione dei deliberati melfitani l'istituzione dei provisores castrorum o, quanto meno, la definitiva formalizzazione delle loro funzioni e competenze, che consistevano nella sorveglianza dei castelli mediante ispezioni periodiche, nella determinazione delle riparazioni da apportare a ciascuno, nella nomina e controllo di castellani e guarnigione (servientes), salvo che per un numero limitato di castelli di particolare valore strategico (castra exempta), per i quali la curia regia si riservava tali nomine. In funzione della nuova magistratura le circoscrizioni amministrative del regno furono accorpate in cinque distretti rispettivamente comprendenti: Abruzzo; Terra di Lavoro, Molise, Principato e Terra beneventana; Capitanata, Basilicata, Terra di Bari e Terra d'Otranto; Sicilia fino al fiume Salso e Calabria fino a Roseto; Sicilia oltre il Salso. Sempre nel 1231 dovette essere avviato un censimento generale di rocche, castelli e residenze regie con l'indicazione di comunità ed enti tenuti a curarne la manutenzione che rifletteva consuetudini in gran parte risalenti all'età normanna. Il risultato di quel censimento, pervenuto in redazioni protoangioine come Statutum de reparatione castrorum, pur con dati molto frammentari per i distretti siculo-calabresi e pur riflettendo retrospettivamente dinamiche fortificatorie che travalicano l'età federiciana, resta il documento più articolato e ricco per lo studio dell'architettura di Federico II. Si aggiunge a esso un gruppo di lettere di alcuni mesi tra il 1239 e il 1240, conservato in un registro che poté essere trascritto e fotografato prima di andare distrutto nel 1943 in un incendio all'Arch. di Stato di Napoli. Inviate da F. ai suoi amministratori, esse contengono istruzioni per numerose costruzioni, alcune delle quali in fase di completamento, o per le quali difficoltà economiche indotte dalla guerra imponevano la sospensione, come la porta di Capua e i castelli siciliani di Augusta, Siracusa, Milazzo, oppure che venivano allora avviate, come castello Ursino a Catania e Castel del Monte (v.). Insieme con documentazione protoangioina, notizie riportate da fonti narrative e testi di iscrizioni tramandati dalla letteratura antiquaria ed erudita, esse consentono di abbozzare una cronologia sommaria per la fase matura e tarda dell'architettura federiciana, con particolare riferimento all'impiego della tipologia quadrilatera ad ali.Anche se, soprattutto nelle varianti che più rigorosamente osservano la regolarità geometrica del tracciato di base, essa appare l'innovazione più caratteristica nel panorama della contemporanea architettura militare e residenziale europea, nel corpo stesso dell'architettura federiciana non portò all'eliminazione di altri tipi fortificatori, né può essere considerata l'approdo finale di una evoluzione tipologica che la sottenda. Altri schemi castrali vennero contemporaneamente praticati ove la configurazione del terreno, specifiche esigenze funzionali, o ragioni di rappresentatività e d'immagine ne richiedevano l'applicazione.Il caso meglio documentato e indagato di castello a semplice cinta turrita dall'andamento disegnato secondo i profili altimetrici del terreno è quello di Milazzo, il cui tracciato compatto, quasi a quadrangolo distorto in poligono di sette lati, sfrutta la potenzialità naturale di una balza rocciosa per due lati strapiombante sul mare. A metà della cortina nordoccidentale venne inglobato nella cinta e fasciato da un'alta scarpa murariamente coerente con essa un poderoso mastio a pianta quadrata di presumibile età normanna, mentre otto torri quadrangole di dimensioni molto minori furono poste a coprire ogni cambiamento di direzione delle cortine e gli ingressi nei lati settentrionale e sudoccidentale. Delle numerose costruzioni addossate alle cortine che circondano l'ampia corte interna, risale alla sistemazione federiciana solo il blocco residenziale inserito all'angolo nordoccidentale e raccordato all'antico mastio mediante scale esterne e un percorso di guardia che lo rendeva difensivamente autonomo; si compone di due sale coperte con il sistema degli archidiaframma e terrazzate, dotate di camino e servizi. Dalle succitate lettere risulta che il castello di Milazzo era tra quelli di cui si sospendevano i lavori nel 1239 "ambitu murorum ubique completo ut defensionem decentem videantur habere". La sua importanza militare è testimoniata dalla inclusione nel 1240 tra i castra exempta, ma le implicazioni residenziali ed economiche sono testimoniate da un'altra lettera che nel 1239 disponeva la disinfestazione da volpi e lupi e il ripopolamento con piccola selvaggina del parco attiguo; una tonnara demaniale è documentata a Milazzo al principio del sec. 13°, mentre ancora nel 1240 il porto era tra i pochi autorizzati al commercio di derrate alimentari fuori del regno.Scarsissimi resti attualmente in fase di recupero e rilevazione sembrano indicare una struttura simile per il castello (castrum novum) di Lentini (prov. Siracusa), allora oggetto di provvedimenti analoghi. Elencato nello Statutum angioino del 1274 come Castrum S. Filippi, dall'intitolazione dell'abbazia salita alla ribalta internazionale dopo la caduta di Gerusalemme, quando vi si trasferirono i Benedettini di S. Maria Latina, il castello di Agira (prov. Enna) occupa la sommità di un vertiginoso colle quasi conico, che ha reso necessarie fortificazioni consistenti solo in corrispondenza del pendio relativamente più dolce a O, dove s'inarca la sella su cui sorge la città. Si tratta di uno sbarramento rettilineo di ingresso formato, a guisa di propugnacolo, da due cortine parallele a una distanza corrispondente alla profondità di tre torri che vi si inseriscono. La cortina esterna pare il resto di una fortificazione prefedericiana reimpiegata come sorta di antemurale; sulla più arretrata, conservata solo come tracciato a terra, aggettano le torri: rettangolari le due alle estremità, ottagonale la centrale, conservata solo nel basamento corrispondente a un ambiente semi-ipogeo e nel frammento saliente di uno spigolo. Scarsissimi e intermittenti sono i resti di leggere fortificazioni lungo il resto del perimetro, e di costruzioni interne, tranne elaborati impianti idrici e una spaziosa sala ipogea quasi al centro dell'area recinta, coperta da volta a botte acuta con una cinghia a conci dentati, che doveva fungere da cisterna o deposito refrigerato per derrate alimentari. Non è confortata da risultanze archeologiche adeguate l'ipotesi di una seconda cinta interna, mentre appare coerente all'impianto federiciano una piccola torre quadrangola impostata su uno sperone emergente dal fianco settentrionale del colle, presso i resti di una cappella.Documentati in età federiciana solo in quanto presenti tra i castra exempta sono i castelli di Rometta ed Enna. Il primo, sistema di mura zigzaganti che cingono la sommità assai estesa di un lungo e stretto acrocoro, con resti di due nuclei di costruzioni interne, dopo la ricognizione di Agnello (1961) attende indagini adeguate. Il castello di Lombardia a Enna, più verosimilmente della c.d. torre di Federico della stessa città, identificabile con il Castrum Iohannis dell'elenco dei castra exempta della Sicilia al di qua del Salso, è un imponente impianto a tre cinte munite da sette torri, superstiti, per lo più in resti, delle venti indicate da descrizioni del Cinquecento e Settecento. Le cinte non sono concentriche, ma delimitano tre unità che si integrano reciprocamente, distinte e separate in progressione difensiva dal cortile più basso al più alto, il più piccolo e munito. Questo è dominato dalla c.d. torre Pisana, la più robusta e meglio conservata tra quelle federiciane; a pianta quadrangola, divisa in due livelli da un impalcato ligneo e chiusa da una pseudo-crociera, è inserita, con funzione di mastio, in modo da controllare il cortile d'ingresso e il fianco occidentale. Lo sperone roccioso del castello, in cui evidenti segni di rimodellazione artificiale si completavano con un fossato oggi colmato che lo isolava dalla città, è l'unico testimone di fortificazioni precedenti sul sito.Con il già ricordato castello di Oria, i castelli siciliani ora descritti sono le esemplificazioni principali dell'applicazione, per tutto l'arco cronologico dell'architettura federiciana, di principi fortificatori radicalmente diversi dall'impianto quadrilatero ad ali, ma nettamente predominanti nell'architettura militare europea e medio-orientale contemporanea. La loro funzione eminentemente militare di basi logistiche per operazioni in grande scala è determinata dalle vaste aree aperte, dove potevano all'occorrenza concentrarsi contingenti cospicui con i loro attendamenti, con animali, salmerie, macchine belliche, mentre gli spazi chiusi, esigui al paragone, ricavati nelle difese stesse, potevano comodamente alloggiare le guarnigioni ordinarie con gli equipaggiamenti e le scorte.Prospettante sul cortile d'ingresso del castello di Lombardia a Enna, ma interno al ridotto più elevato e difeso, e coordinato alla torre Pisana in una sistemazione che ricalca quella del castello di Milazzo, si svolgeva un allungato edificio residenziale che resti scarsi e mal ridotti bastano a indicare a un solo livello articolato da archi-diaframma e coperto probabilmente a terrazza. È un tipo di struttura ricorrente nelle domus federiciane, verificato da scavi recenti in quelle di Fiorentino (Fiorentino, 1987) e Ordona (Mertens, 1974), ma le cui testimonianze architettonicamente cospicue si trovano a Gravina in Puglia, in Terra di Bari, e presso Gela, in Sicilia. Nel primo caso, ove lo Statutum registra contemporaneamente un castrum e una domus, la struttura ampiamente diroccata che si conserva è tutta subordinata a un alto e lungo blocco residenziale a due piani, di cui il superiore aperto da ampie porte-finestre affacciate sull'esterno, ove un ballatoio aggirante, probabilmente in legno, è testimoniato da numerose mensole in pietra rimaste in situ. Esso forma il lato breve occidentale di un impianto marcatamente rettangolare, cinto sugli altri lati da costruzioni basse e di minore consistenza costruttiva - salvo il robusto muro di recinzione esterna, di cui restano solo i tracciati a terra - ove una dettagliata descrizione del 1307 localizza stalle e impianti accessori, ma anche una cappella (non conservata) sopra il massiccio blocco con l'androne d'ingresso al centro del lato breve orientale.Il complesso di Gravina sembra invece già accogliere l'ipotesi del tracciato quadrangolo retto che lo fa assomigliare ai castelli quadrilateri ad ali, non corrisponde a essi per effettiva analogia strutturale e funzionale. La sua natura eminentemente residenziale è ribadita dall'assenza dei normali complementi fortificatori, anzitutto le torri d'angolo; resti di tre strutture quadrangole poco profonde innestate a distanza ravvicinata lungo il muro meridionale e di una sul lato settentrionale non possono riconoscersi come torri; erano probabilmente annessi per la conservazione dell'acqua, di derrate alimentari e forse contenenti servizi. Non vi sono riferimenti per datare il complesso, tali non potendosi considerare soggiorni documentati di F. a Gravina nel 1227 e 1237, tanto meno la citazione di Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 60), che lo attribuisce a un architetto e scultore fiorentino a nome Fuccio, che per l'imperatore avrebbe costruito anche la porta di Capua e, almeno in parte, castel Capuano e castel dell'Ovo a Napoli e il castello di Melfi: una delle improbabili figure di artisti immaginate in chiave, per lo più, negativa dal biografo aretino per dare consistenza alla condanna del Medioevo artistico implicata dal suo disegno storiografico. Il tipo edilizio del blocco quadrangolo compatto e allungato, strutturato ad archi-diaframma che, quando non è inserito in strutture militari, sembra rappresentare il genere di residenza privata all'interno di tenute venatorie che i documenti federiciani indicano come solacium, si affranca in totale autonomia architettonica e funzionale con il Castelluccio di Gela, che sorge sopra un affioramento di rocce gessose nella piana retrostante la città. Il volume prismatico con torricelle per servizi innestate sui lati brevi venne probabilmente costruito in connessione con la fondazione urbana di Terranova; in mancanza di documenti che lo attestino, è l'evidenza delle forme a certificarlo, in particolare la coincidenza nel disegno generale, in diversi dettagli, persino nelle dimensioni con il blocco occidentale della domus di Gravina.Semplici sistemi di cortine erano già stati impiegati in Europa, segnatamente nei castelli di Filippo II Augusto (v.) nell'Ile-de-France, anche per comporre impianti quadrati, regolarmente segnati da torri agli angoli e al centro dei lati. La novità, almeno in ambito medievale europeo, dei castelli federiciani di questa categoria è data dal fatto che i lati non sono costituiti da tratti di cortine, ma da ali di edifici che sono parte integrante del progetto originario e si assimilano al sistema delle difese. È necessario riconoscere in partenza che ciò non è avvenuto per l'applicazione ripetitiva di un modello compiuto, ma sperimentando uno schema di base e variandolo in uno spettro di applicazioni che si muovono tra la residenzialità più o meno connotata in senso ufficiale e di rappresentanza, l'impianto difeso a carattere economico e commerciale, il presidio militare, ma sempre con ampie disponibilità di spazi chiusi a fini residenziali, di casermaggio e magazzino logistico.Come nei già ricordati esempi di Brindisi e Barletta, è caratteristica soprattutto della fortificazione della costa pugliese la variante il cui tracciato di pianta è svincolato dalla regolarità geometrica; estensioni disuguali dei lati, numero, forme e dimensioni variabili delle torri e loro inserimento spesso asimmetrico sembrano corrispondere alle caratteristiche dei suoli e al dosaggio del potenziale difensivo in rapporto alle peculiari collocazioni sul limitare tra terra e mare. Tale variante è rappresentata principalmente dai castelli di Bari e Trani, talora riferiti anch'essi al terzo decennio del secolo. Ma la prima notizia che li riguardi è il citato passo della Chronica di Riccardo da San Germano. L'epigrafe di fondazione del castello di Trani, recentemente reperita sopra l'ingresso principale a S-E, rettifica in 1233 la data e precisa nel senso di costruzione ex novo l'ambigua dizione del notaio imperiale. Anche in seguito i due castelli sembrano seguire una vicenda parallela di restauri e potenziamenti successivi al 1240. Caratteristiche di entrambi erano coperture a impalcati lignei, presumibilmente su archi-diaframma, ancora rintracciabili o ipotizzabili in alcune torri e nei lati occidentale e meridionale del castello di Bari. Scavi recenti hanno recuperato a metà di questi lati le basi di torri poligonali, che dovevano aggiungersi alle torri quadrangole degli angoli a segnare la massa compatta, resa greve dall'apparecchiatura bugnata in pietra tufacea, aperta sull'esterno da rade finestre, spesso a oculo. Resta, sia pure parzialmente frutto di ripristini, il percorso originario d'ingresso, con un portale dall'archivolto decorato a motivi vegetali e figurati che immette in un atrio trapezio coperto da botti e crociere nervate ricadenti su pilastri circolari e quindi, ma non per via diretta, in una loggia di due campate interna al cortile cui si collegava la scala a giorno per salire al piano superiore. Realizzato su tracciato nettamente più regolare e in chiara pietra calcarea esternamente trattata in bugnati di piccolo modulo e scarso aggetto, quasi vibrazioni luminose del muro, il castello di Trani offre invece l'immagine di nitida massa parallelepipeda chiusa solo agli angoli da torri disposte secondo i punti cardinali in dimensioni e aggetti che variano a seconda delle esigenze difensive, ma replicano tutte il disegno approssimativamente quadrato di pianta. È necessario attendere il completamento dei lavori di restauro in corso da quando il castello è stato liberato dalla destinazione a carcere per avere un'idea precisa della struttura interna, peraltro, secondo ogni evidenza, assai ben conservata, con un cortile circondato da tre ali di edifici a due piani collegati da una scala a giorno nell'angolo settentrionale (lo scalone attuale sostituisce certamente una struttura simile preesistente, testimoniata da peducci scolpiti) e da un braccio di portico ad altissime arcate acute su pilastri quadrangoli sul lato sudorientale. Sopra l'ingresso, oggi murato e con segni di rimaneggiamento, che si apre al centro di una cortina avanzata del lato sudoccidentale, il castello di Trani conserva un'altra iscrizione proclamante che quella difesa esterna - "circa castrum munitio talis et ante" - fu ideata da un certo Filippo Cinardo e realizzata nel 1249 da uno Stefano da Trani e un Romualdo di Bari. È possibile che altre parti di essa siano conservate entro le bastionature più tarde che circondano il quadrilatero federiciano sugli altri due lati a terra. È ragionevole identificare l'ideatore con il franco-cipriota Phelippe Chenart, esponente del partito filoimperiale e difensore di fortezze nella lotta con gli Ibelin a Cipro degli anni 1230-1233, passato poi al servizio di F. e di Manfredi in Italia (Bertaux, 1904). Nel 1237 era castellano a Bari, dove è attualmente in fase di scoprimento un tratto di fortificazione esterna verosimilmente risalente al sec. 13° sul lato a mare del castello.Sono questi i soli casi sino a oggi noti dell'impiego, peraltro molto tardo, nell'architettura federiciana, della fortificazione concentrica, che nell'Oltremare crociato trovò larghissima applicazione fin dal sec. 12° e raggiunse nel successivo livelli insuperati di perfezione. Sembra assimilarsi a questo genere di impianto quadrilatero il castello di Salemi (prov. Trapani), del quale si conservano un'ala meridionale, fiancheggiata da due poderose torri quadrate, e una non meno poderosa torre circolare, con due alti vani interni ottagonali coperti da ombrelle costolonate, all'angolo nordorientale, legata alla torre sudorientale da un tratto di cortina nel quale si apre un ingresso a doppia arcata acuta in decrescendo con canale di scorrimento per la saracinesca. Ma l'attribuzione all'età federiciana sostenuta in genere dagli studiosi siciliani è resa difficile dal fatto che il castello non è documentato prima dell'inizio del sec. 14° e bisognerebbe in ogni caso ammettere radicali rifacimenti interni di tutta l'ala meridionale, ove la ripresa di forme e strutture caratteristiche dell'architettura imperiale non nasconde l'età più tarda. Una forma analoga sembra indicata anche dal blocco edilizio quadrangolo con risalti angolari racchiuso dalla cinta bastionata del castello di Melfi, ma radicali rifacimenti che su di esso si sono concentrati in età postmedievale fino al secolo scorso impediscono la verifica dell'eventuale assetto federiciano.Questo schema arriva ad assestarsi in regolarità geometrica di pianta, riflessa nella distribuzione simmetrica e speculare degli spazi interni delle ali, e raggiunge la maturazione più caratteristica con l'introduzione della copertura sistematica in volte a pseudo-crociera costolonata su campata quadrata, attuata a partire da un gruppo di castelli siciliani realizzati o avviati entro il decennio 1230-1240. Come stanno verificando indagini connesse con i restauri in corso (Federico II e la Sicilia, 1994), modificando in aspetti anche sostanziali l'idea che si aveva dei singoli edifici, quel modello viene interpretato con grande libertà di adattamento a situazioni ed esigenze diverse, con arricchimenti o sottrazioni, come la presenza di portici intorno al cortile e del cortile stesso, il variare del disegno delle torri, dell'estensione e combinazione degli spazi interni.Il rapporto della costruzione del castello di Augusta con la fondazione nel 1231 della nuova città, ove l'anno successivo venivano trasferiti gli abitanti delle ribelli Centuripe e Montalbano, era proclamato da un'iscrizione già sopra il portale settentrionale (Vita, 1653). Un'altra iscrizione sopra il portale meridionale (Salomone, 1905) ne commemorava il compimento nel 1242. Diverse lettere imperiali degli anni 1239-1240 documentano lo stato avanzato dei lavori, insieme con l'inizio del funzionamento del porto della città, riparazioni di granai demaniali e persino l'avvio di scavi archeologici in partibus Auguste, con ogni probabilità sul sito dell'antica Megara. Il tracciato del castello descrive un quadrato perfetto di m. 62 di lato, con torri quadrate uguali agli angoli (è perduta quella dell'angolo nordorientale) e torri rettangolari di scarso aggetto a metà dei lati orientale e occidentale, e una poderosa torre pentagonale in greve bugnato rustico a larghi bordi al centro del lato meridionale. Del monumento, severamente danneggiato da esplosioni e terremoti e profondamente alterato dalla destinazione a carcere tra Ottocento e Novecento, è stata sino a oggi recuperata nelle linee originarie, limitatamente al piano terreno, l'ala occidentale, costituita da una sequenza unitaria di sette campate quadrate a crociera comunicanti con i vani delle torri. Porte alle estremità escono sul portico antistante, analogamente articolato in dieci campate più piccole, delimitate da una fronte di solenni arcate a sesto acuto su pilastri quadrangoli con una membratura sull'esterno che doveva proseguire al piano superiore. È stata verificata la sostanziale conservazione del piano terreno dei lati settentrionale e orientale, che presenta articolazione sostanzialmente analoga, salvo le modificazioni indotte dall'androne d'ingresso che attraversa l'estremità orientale dell'ala settentrionale e dalla rampa di scale che si inserisce nel portico all'estremità opposta dello stesso lato. Non sono stati rintracciati invece resti di costruzioni interne a S, ove è possibile che il cortile fosse delimitato direttamente dalla cortina, assumendo perciò sviluppo marcatamente rettangolare, e restano da chiarire natura e funzione della torre pentagonale di quel lato, internamente inesplorata, ma priva di qualsiasi tipo di apertura sull'esterno. Non si sono sinora reperiti elementi utili a indicare la configurazione dei piani superiori, radicalmente sconvolta e probabilmente cancellata dalla sistemazione carceraria. Con ciò il castello di Augusta rappresenta l'elaborazione più articolata e differenziata, oltre che dimensionalmente più estesa, dell'ipotetico modello, ma all'accuratezza degli apparecchi murari, all'eleganza del disegno nell'insieme e nei dettagli, che lo pone alla pari delle più raffinate espressioni dell'architettura federiciana, accompagna un netto diradamento della decorazione e una riduzione drastica delle componenti residenziali. Un solo tipo di membratura quadrangola a spigoli smussati viene replicato in semipilastri e archi di volta in combinazione con un solo disegno di liscia imposta piramidale con appendice a sferula, di rado arricchita da motivi di foglie o chevrons. A riscontro dell'ampia disponibilità di spazi chiusi e coperti sono rari i servizi, mancano i camini e le aperture, che compaiono solo sul lato del cortile, sono strette fessure rettangolari, adatte ad aerare, ma non a illuminare le lunghe corsie. L'impressione complessiva è che almeno il piano inferiore del castello di Augusta fosse allestito come una sorta di fondaco fortificato in funzione del traffico merci del porto della città e dell'agricoltura particolarmente cerealicola documentata per il suo circondario.Le stesse lettere indicano in fase di costruzione avanzata il castello di Siracusa; ma l'ordine contestualmente impartito di sospendere i lavori in tutte le costruzioni imperiali offre forse una spiegazione alla strana situazione per cui mentre il piano inferiore esistente del castello, nelle scale allogate in tre delle torri d'angolo, nell'impianto idrico che fa capo alla cisterna detta 'bagno della regina' sotto la torre occidentale, in basamenti di pilastri entro le reni delle volte, appare sistematicamente predisposto in vista di almeno un altro piano, non sussistono elementi utili a indicare che questo sia mai stato costruito. Chiamato tradizionalmente Maniace per una fortificazione che lo avrebbe preceduto innalzata nel sec. 11° dal capitano bizantino Giorgio Maniakes, il castello sorge sulla punta estrema della penisola di Ortigia, artificialmente isolata da un taglio che poteva essere allagato dal mare. Il semplice cubo esterno segnato da torri rotonde agli angoli viene reso prezioso dal superbo taglio del liscio apparecchio di grande modulo in luminoso calcare biondo, da elaborazioni plastico-geometriche sul tema della stella a otto punte che mediano il passaggio dalle scarpe alle canne delle torri e soprattutto dal portale archiacuto ricco di marmi policromi, intagli e sculture e fiancheggiato un tempo dalla coppia di arieti bronzei ellenistici - uno solo è conservato al Mus. Archeologico Regionale di Palermo - al centro del lato nordorientale e da una polifora di analoga fattura nel lato sudorientale. La torre settentrionale, priva di scala interna, è una ricostruzione successiva allo scoppio nel 1704 della polveriera che era stata allogata nel castello, principale responsabile dello stato ruinoso e di molte alterazioni dell'interno. Ben più fastoso esso doveva apparire per il contributo della decorazione a una struttura semplice quanto magistralmente calibrata: pilastri e semipilastri circolari articolavano il grande vano in cinque per cinque campate quadrate uguali e voluminosi capitelli che complicavano con frequenti inserti figurati il disegno base a ordini sovrapposti di crochets e foglie variamente modulate mediavano con slargati abachi ottagoni il passaggio agli archi delle pseudo-crociere. Resto cospicuo di tutto ciò sono le due navate, sia pure in parte reintegrate, che ancora sussistono lungo il lato sudoccidentale. Con profusione decorativa di peducci di volta scolpiti a teste e figure umane e di animali sono allestiti anche i vani delle torri e i servizi che vi si coordinano. Saggi praticati nello spessore dei muri di quello che si riteneva un cortile corrispondente alla campata centrale hanno rivelato (Paolini, 1985) una coppia di pilastri composti da tre fusti che anticipano i sostegni delle sale superiori di Castel del Monte, ma più ricchi ancora di questi nella scultura dei capitelli e nell'accesa policromia di brecce e marmi diversi. Attacchi di costoloni che ne dipartono indicano che anche la campata centrale era coperta da una volta simile alle altre. Nella riduzione del tema del castello quadrilatero a grande sala unitaria su colonne, nella profusione decorativa e qualità della litotomia, nel comfort dei grandi camini e dei servizi annessi alle torri scalari, nell'amenità del finestrone affacciato sul mare, castel Maniace sviluppa soprattutto la dimensione della residenza signorile di grande rappresentanza, trovando nel corpus dell'architettura federiciana conservata il solo analogo di Castel del Monte.La regolarità geometrica della pianta formata da ali a due piani disposte a quadrato intorno al cortile si ripropone invece con castello Ursino a Catania, per il quale può essere accreditata, a livello di progetto originario, la perfetta simmetria negli spazi interni, coperti da crociere quadrate su semipilastri e quarti di pilastri cilindrici, e nella forma e distribuzione delle torri della ricostruzione proposta da Agnello (1935). Scavi recenti hanno infatti rivelato le fondamenta delle torri intermedie anche per i lati orientale (dove è confermata anche la scala) e meridionale, eliminate da rifacimenti posteriori che hanno alterato l'intera ala orientale, quasi tutti i piani superiori e le facciate sul cortile. La configurazione originaria è dunque conservata, oltre che nelle torri superstiti, nell'intero lato settentrionale fino all'imposta delle volte del primo piano, nel vano angolare sudoccidentale e nella sala terrena meridionale fino all'imposta delle volte. La mancanza, qui come nella sala superiore del lato settentrionale, dei capitelli, mentre sono conservati basi e fusti dei pilastri, fa pensare non a rimaneggiamenti, ma a una interruzione dei lavori che potrebbe spiegare come completamento ritardato e probabilmente non più in età sveva la sala a botte cinghiata al piano terreno dell'ala occidentale. Lo stato di incompletezza in cui castello Ursino pare restare in età sveva risulta in accordo con le circostanze della sua fondazione, che F. disponeva con una serie di lettere tra il novembre 1239 e il marzo 1240, in parte le stesse con cui ordinava la sospensione della costruzione dei castelli siciliani, fatto salvo il completamento delle cinte murarie e di tetti per edifici già innalzati. Significativa delle ristrettezze di cui soffrivano le casse imperiali è la prescrizione esplicita per il castello di Catania di murature non apparecchiate (apparatum de lapidibus fractis) in materiale probabilmente vulcanico reperibile sul posto. Ciò è riflesso nelle modalità costruttive reali, nella rapida corsività della scultura architettonica, che traduce peraltro gli stessi modelli dei castelli di Siracusa e Augusta e che in questo caso, a differenza del contemporaneo Castel del Monte, poteva essere tollerata in quanto castello Ursino pare qualificarsi non come piazzaforte in senso stretto, né come residenza ufficiale, ma come presidio militare urbano, casermaggio e magazzino logistico, con appartamenti separati e dotati di servizi autonomi, corrispondenti ai vani d'angolo con le torri annesse, per uffici e comandi.Una regolare disposizione di vani calibrati secondo la campata quadrata a crociera doveva caratterizzare anche il palazzo costruito, verosimilmente tra il 1235 e il 1240 ca., a Lucera, dove F. aveva concentrato la popolazione musulmana deportata dalla Sicilia, facendone non solo una comunità pacifica e libera di vivere secondo la propria religione e le proprie usanze, ma anche un prezioso bacino di reclutamento militare e un centro di attività artigiane e tecniche specializzate, dalla fabbricazione di armi e lavorazione del cuoio, alla tessitura, all'allevamento e addestramento degli animali. Già abbandonato prima del 1550 e ridotto a cava di pietre, il palazzo veniva fatto saltare con mine nel 1790. Gli scarsissimi resti che si conservano all'angolo orientale della grande cinta angioina, vedute e disegni di dettagli presi prima della distruzione hanno permesso di ricostruire (Haseloff, 1920; Körte, 1937) un poderoso e compatto blocco a tre piani includente un cortile centrale quadrato che si rastremava a ottagono per arcate acute che tagliavano gli angoli creando sorta di pennacchi all'ultimo piano. Le testimonianze figurative e i frammenti plastici conservati al Mus. Civ. di Lucera fanno intravedere una qualità costruttiva e un tenore decorativo da dimora ufficiale, al pari di quelle di Siracusa e Castel del Monte. Lo confermano il fatto che in esso era conservata parte del tesoro e dell'archivio regio e le notizie per cui F. vi fece trasportare nel 1240 statue di ignota provenienza arrivate per mare a Napoli e nel 1242 una figura umana e una bovina in bronzo, verosimilmente antiche, prelevate a Grottaferrata, presso Roma. Indagini recenti (Willemsen, 1968) riferiscono alla ristrutturazione di Carlo I d'Angiò l'ambulacro di difesa a scarpa che cingeva il piano inferiore, unica parte del palazzo della quale sia conservato qualche resto in elevato.Chiude questa serie di edifici il castello di Prato, la costruzione meglio conservata e più evidentemente federiciana di quelle innalzate al di fuori del regno. Doveva collegarsi con l'amministrazione della vicaria imperiale in Toscana e sottolineare la fede ghibellina della città. Alla sua origine fu probabilmente il testamento di Panfollia Dagomari, che nel 1233 lasciava suo erede l'impero a condizione che nella sua città fosse costruita una fortezza, ma ragioni storiche e stilistiche hanno indotto (Agnello, 1954) a ritardare l'inizio della costruzione almeno al 1237, quando pare F. sia stato a Prato, o più probabilmente all'interno del decennio successivo, mentre era vicario in Toscana Federico d'Antiochia, figlio illegittimo dell'imperatore. La mole quadrilatera doveva ergersi ancora più imponente, malgrado le dimensioni relativamente modeste, quando al posto del terrapieno che oggi la circonda si svolgeva il fossato che la isolava nella piana alluvionale. Agli angoli orientati sui punti cardinali è munita di torri quadrate di dimensioni leggermente diverse, la maggiore e più massiccia essendo quella meridionale. Al centro dei lati sudest e sudovest sporgono torri pentagonali a sperone, mentre in posizioni più o meno marcatamente eccentriche gli altri due lati presentano piccole torri quadrate che, a differenza delle altre allineate alle cortine, fino alla metà del Settecento dovevano alzarsi per un'altezza all'incirca doppia. Quella a N-O recava una campana fusa nel 1254 da Bartolomeo e Lotario da Pisa, ivi posta "pro negotiis et consiliis Communis Prati". Malgrado l'opinione di Agnello (1954), persiste il dubbio che queste due torri possano essere preesistenze recuperate alla costruzione federiciana. Lo spazio più breve tra le torri del lato nordorientale è fregiato da un portale che replica nel disegno quello di Castel del Monte, ma in proporzioni più slanciate e, come in altre aperture esterne del castello, in combinazioni tra alberese e verde di Prato che rimeditano cromie murarie caratteristiche del Romanico locale. Seguono invece modelli svevi meridionali, permettendo accostamenti soprattutto con i capitelli della torre di Federico a Enna e ribadendo perciò la cronologia tarda, i gruppi di mensole sporgenti dalle cortine che sono l'unico resto delle costruzioni interne. Esse indicano un solo piano costituito da serie di sei campate quadrate coperte da crociere, ritagliate in vani d'angolo e coppie di sale di due campate per ogni lato. Si delinea così un organismo interno perfettamente simmetrico, simile a quello di castello Ursino, al quale doveva probabilmente corrispondere anche nelle funzioni.La genealogia di edifici improntati a geometrica regolarità della pianta quadrata che sembra avere inizio in Sicilia, ma che presto si espande al continente, insieme con il principio ordinatore costituito dalla campata quadrata, assume un sistema selezionato e coerente di elementi strutturali e formali: prima tra essi è la volta a crociera che, sia essa costolonata o nervata, tecnicamente e strutturalmente corrisponde all'intersezione di volte a botte acuta (Cadei, 1992); vi è poi il pilastro circolare a cui corrisponde l'ottagono nei plinti e negli abachi di capitelli e peducci, adorni di ordini di foglie e crochets nelle varianti che rimandano alla temperie gotica della Borgogna dei primi decenni del sec. 13°; non meno specifiche appaiono le profilature di abachi, cornici marcapiano e d'imposta, le aperture a monofora o a oculo, spesso strombate a imbuto, le bifore e trifore, in cui i trafori sono ottenuti non con la tecnica a giunti di pietra, ma con quella dell'intaglio e talora dell'intarsio policromo in spesse lastre di pietra o marmo; gli archi di volta, le membrature a muro e anche i pilastri, quando non sono rotondi, assumono la vigorosa sezione rettangola a spigoli smussati. È un lessico che, a livello di singoli tipi strutturali e formali e particolarmente nelle strutture di volta, conosce una diffusione molto larga nell'architettura federiciana, ma solo nei castelli a quadrato perfetto e poi nella porta di Capua (Chierici, 1933) e in Castel del Monte si sistematizza in idioma esclusivo e caratterizzante, in vero e proprio stile architettonico.Nella ricerca delle fonti di questa architettura, la letteratura critica ha affrontato separatamente l'aspetto che attiene all'impiego della geometria di poligoni regolari per i tracciati e quello relativo alla configurazione tecnica e stilistica di strutture e forme. Per quest'ultimo è consolidato (Romanini, 1980) il riferimento all'ambito cistercense protoduecentesco, rappresentato in Italia da una ben nota serie di abbaziali e complessi monastici che si collocano tutti nel territorio del regno meridionale (v. Cistercensi). Il reperto stilistico e strutturale è confortato da documenti e fatti storici: dal ricordato passo della Chronica dell'abbazia di S. Maria di Ferrara, ai rapporti personali di F. con l'abbazia di Casamari e il suo abate Giovanni VII, che avrebbero lasciato memoria figurata in alcuni capitelli del chiostro (Cadei, 1982), al monaco cistercense Bisancio documentato come direttore dei lavori del castello di Capua, alla sanzione disciplinare erogata nel Capitolo generale cistercense del 1236 all'abate di Casanova in Abruzzo, "qui non solum imperatori sed etiam principibus et iusticiariis multos conversos et monachos accomodavit" (Haseloff, 1920). Nel quarto decennio del sec. 13° la cooperazione cistercense all'edilizia imperiale interessò numerose abbazie dell'Ordine, come mostrano biunivoche trasmigrazioni di forme tra Fossanova e Castel del Monte (Cadei, 1980), oppure i molteplici riscontri indicati in ambito pugliese (Haseloff, 1920; Calò Mariani, 1984).Ma l'atto d'inizio dell'esclusivo generalizzarsi del nuovo linguaggio va localizzato in Sicilia, in coincidenza con l'adozione dei modelli castellani geometricamente regolari, e fa capo alla c.d. basilica del Murgo, frammento architettonico di una chiesa palesemente mai portata a termine, in una propaggine della piana etnea presso Lentini. Solo una tradizione storico-erudita che non risale oltre il sec. 16° indica in esso l'inizio, intorno al 1225, di una chiesa ove, con il sostegno di F., avrebbe dovuto trasferirsi la comunità cistercense di S. Maria di Roccadia. Nei limiti posti dal brano architettonico, costituito dal tracciato esterno della chiesa per un'altezza che si muove poco sopra o sotto m. 3, con la sola cappella centrale del coro e un braccio di transetto arrivati sino alla copertura, è possibile verificare sotto il profilo sia tecnico sia stilistico l'orditura architettonica impiegata nei castelli in questione, in particolare il plesso costituito dal pilastro circolare che la slargata base a doppio toro e scozia fortemente incavata raccorda a un plinto ottagono in pietra apparecchiata con funzione di fondazione, quale si ritrova in castel Maniace, castello Ursino e nelle sale inferiori di Castel del Monte.Sebbene l'architettura cistercense sia basata sin dall'origine e per tutto il suo decorso su sistemi modulari di tracciamento che costruiscono griglie quadrangole in cui assestare i complessi monastici, e il quadrato, in particolare, vi trovi espressione con il chiostro (v.) intorno al quale sono ordinati tutti gli altri edifici, il riferimento a essa, che pure è stato fatto, per spiegare l'origine dei castelli federiciani a piante geometricamente regolari è palesemente inadeguato. Gli studiosi hanno generalmente preferito allargare l'orizzonte dei possibili riferimenti alla Tarda Antichità, ove tipologie castellane a carattere strettamente militare sembrano costituire la concretizzazione architettonica del metodo di tracciamento del castrum romano, oppure al Vicino Oriente, che pare essere stato l'erede più diretto della tradizione così costituita, e hanno individuato nella crociata del 1228-1229 la congiuntura storica che ne avrebbe sollecitato il recupero federiciano. A partire da studi di Krönig (1950) e di Bottari (1950), quell'ipotesi si è fissata nell'indicazione di modelli specifici, costituiti dai palazzi omayyadi (v. Omayyadi) che sorgono nella regione oggi desertica tra la Siria, la Palestina e la Giordania e dai ribāṭ (v.), presidi di frontiera che segnarono l'avanzare della conquista islamica nella prima età abbaside, rimandando, per solito, all'esemplare di Sousse in Tunisia, in quanto relativamente ben conservato (anche se pesantemente restaurato) e con un tracciato di pianta che trova corrispondenze stringenti in quella che, sulla scorta della ricostruzione di Agnello (1935), si riteneva la pianta del castello di Augusta. Pur recisamente respinta da qualcuno, tale teoria è diventata luogo comune mai seriamente sottoposto a revisione (Cadei, 1989) della storiografia architettonica federiciana, nettamente predominante sull'ipotesi che propone la filiazione dei castelli geometricamente regolari dalla tradizione occidentale del mastio nelle varianti analogamente informate a regolarità geometrica di pianta (Meckseper, 1970).Scoperte e scavi effettuati in Siria, Palestina e a Cipro dal 1960 ca. a oggi offrono ormai tutti i dati per ricostruire una genealogia di castelli quadrilateri crociati che, talora occupando o ricostruendo preesistenti castelli e caravanserragli islamici o bizantini, parte verosimilmente da premesse simili a quelle che si volevano applicare direttamente ai castelli federiciani, ma le elabora in impianti quadrilateri sempre molto prossimi alla regolarità geometrica e i cui spazi interni, a differenza di tutti i casi islamici dei secc. 8° e 9°, si sviluppano parallelamente e non perpendicolarmente ai lati. Al termine di quella evoluzione si pongono castelli innalzati nei decenni finali del sec. 12° e al principio del successivo come Belvoir in Galilea o il castello detto delle Quaranta colonne a Pafo, nell'isola di Cipro, ove le ali, disposte a quadrato intorno al cortile, sono strutturate come lunghi, indifferenziati vani coperti a botte acuta, rappresentando non già archetipi pedissequamente ripetuti, ma una sorta di modello teorico (Cadei, in corso di stampa, a) che anche in ambito federiciano venne elaborato e portato a perfezione formale con l'introduzione del modulo ordinatore costituito dalla campata quadrata a pseudo-crociera.Accanto alla migliore verosimiglianza storica e costruttiva, rispetto all'ipotesi bizantina o islamica, confermata anche dalla coincidenza tra le forme di torre praticate da quella seriazione di castelli crociati e dai castelli federiciani a pianta regolare, sembrano ribadire questa filiazione altre comparse in Europa di modelli castellani quadrati a opera di committenti legati alla Terra Santa e all'impresa crociata, come il castello di Druyes-les-Belles-Fontaines (dip. Yonne), costruito dai conti di Nevers nella seconda metà del sec. 12°, i castelli di Filippo II Augusto di Francia al principio del sec. 13° o, poco più tardi, le fortezze dei Cavalieri Teutonici (v. Teutonici) in Prussia. Un simile parallelismo si verifica nel più stretto ambito federiciano con il castello di San Felice a Cancello, tra Maddaloni e Nola, costruito con l'evocativo nome di Matinale da Tommaso II conte di Acerra, nipote dell'omonimo inviato e rappresentante imperiale in Terra Santa, in occasione delle nozze, nel 1247, con una delle figlie illegittime di F., Margherita 'di Suevia' (Scandone, 1906). Allo stesso modello teorico e in una redazione insolitamente rigorosa e semplificata, che ricorda castello Ursino, ma anche a tecniche e forme che rimandano contemporaneamente all'architettura crociata e a quella federiciana, si adeguano il tracciamento, le strutture e gli scarsi dettagli decorativi ancora verificabili sul rudere isolato e abbandonato a se stesso all'imbocco della valle Caudina, su un dorso collinare che domina l'agro nolano con vista fino al Vesuvio. Il corpo disegna un quadrato perfetto, chiuso agli angoli da torri che distorcono leggermente profili quadrangoli e allineamenti assiali per adeguarsi alle asperità del falsopiano su cui il castello sorge e trovare i fiancheggiamenti ottimali per ciascuno dei lati. Una quinta torre si innesta in posizione eccentrica nel lato nordovest, coprendo con la vicina torre settentrionale una postierla che vi sta in mezzo. Riportano all'ambito crociato e ai suoi riflessi federiciani i cantonali in bugnato a largo bordo liscio che profilano masse edilizie in muratura incerta, o il portale principale che si apre nel lato sudoccidentale, a ridosso della torre meridionale, a doppio archivolto in calcare bianco con canale di scorrimento per la saracinesca e la mostra esterna in largo bugnato liscio che accentua la saetta dell'estradosso nel profilo a punta di lancia caratteristico di porte e archi di castelli pugliesi come Bari e Gioia del Colle. All'interno si è parzialmente conservata solo l'ala sudorientale, ma le tracce murarie consentono di ricostruire le volumetrie originarie secondo lo schema di quattro ali equivalenti a due piani intorno al cortile, con coperture che alternavano segmenti di volta a botte acuta, campate a crociera e tratti di impalcati su archi-diaframma.A questo aulico e caratterizzante e, nello stesso tempo, razionale linguaggio vennero informate anche residenze a carattere più privato se come domus si deve interpretare il castello di Belvedere a Marano di Napoli, per il quale la documentazione di un radicale restauro angioino tra il 1274 e il 1277 accerta l'origine federiciana, probabilmente più tarda di quella ipotizzata al 1227, quando F. si recò a Pozzuoli per curare la malattia che lo aveva colto in partenza per la Terra Santa (De Blasiis, 1915). Sorgente su un'altura allora al centro di una defensa regia a N di Napoli, l'edificio a quadrilatero rettangolo, attualmente abitato da numerosi nuclei familiari, consente verifiche per tre dei quattro lati esterni, in muratura apparecchiata di scura pietra tufacea, con il piano terreno aperto da oculi e un elegante portale ad arco non estradossato a tutto sesto in grandi conci a martello al centro del lato breve orientale. Una bifora a trafori entro cornice rettangolare in pietra bianca al primo piano dello stesso lato e le torricelle che muniscono irregolarmene la costruzione paiono dovute al restauro angioino. Lo stesso schema informava la domus di Palazzo San Gervasio (prov. Potenza), a giudicare non tanto dall'ormai quasi indecifrabile complesso che si conserva, ma dalla descrizione e da appunti grafici di Bertaux (1903; Aggiornamento, 1978, V).Con il gruppo dei castelli a quadrilatero regolare non solo la risoluzione formale dei tracciati di pianta, ma l'impaginazione delle strutture e il dettaglio decorativo arrivano a costituire un sistema uniforme e coerente, uno stile che, in quanto tale, può essere definito svevo e che, soprattutto nelle elaborazioni più fastosamente residenziali, assume valenze di rappresentatività del potere, regale e imperiale. In due costruzioni tipologicamente difformi, ma linguisticamente omogenee al gruppo, la porta di Capua e Castel del Monte, tali valenze si fanno a tal punto esplicite da costituire, secondo ogni apparenza, la ragione prima della loro costruzione. Per la struttura, le forme, il contenuto simbolico del castello presso Andria è d'uopo rimandare alla voce a esso riservata, aggiungendo solo che non è difficile leggere nell'impianto di Castel del Monte l'adattamento all'eccezionalità del caso, espressa dalla peculiare forma ottagona, dello stesso modello teorico che sta alla base dei castelli quadrati. Alle sculture che animavano la fronte fra le torri della porta di Capua e alle iscrizioni che le accompagnavano era demandato in prima istanza di proclamare, sul limitare di ingresso al regno meridionale, la natura laica di quel regno e della giustizia che vi si amministrava; suo garante era l'imperatore (Cesar), legittimo e unico erede dell'impero antico, che nel 1234 aveva ordinato la costruzione della porta siglando per approvazione o, secondo alcuni, formulando personalmente il progetto: manu propria consignavit suona la testimonianza di Riccardo da San Germano. Ma l'architettura per prima costituiva uno stereotipo semanticamente intonato al tenore di quel messaggio. Lettere del 1239-1240 indicano l'opera in via di compimento. Distruzioni motivate nel 1557 dall'inserimento della struttura in una nuova fortificazione hanno risparmiato monconi di due torri poderose che fiancheggiavano il varco d'ingresso all'inizio della carreggiata del ponte sul Volturno. Ad alti basamenti poligonali in bugnato liscio di grande modulo in bianco travertino fa seguito l'attacco delle canne curvilinee in parati lisci di pietra tufacea scura. Disegni e descrizioni precedenti alle demolizioni hanno permesso ricostruzioni (Shearer, 1935; Willemsen, 1953) complessivamente attendibili, anche se problematiche nei dettagli per quanto riguarda l'altezza e la precisa collocazione di alcune delle sculture superstiti e di altre ipotizzabili sulla parete tra le torri rivolta verso chi si accingeva a transitare sul ponte per entrare in città. È da preferire, sulla scorta dei ruderi e delle descrizioni, la soluzione che prevede tra le torri un castelletto d'ingresso a volta, sormontato da un ambiente chiuso, rispetto a quella che prudentemente inserisce la sola parete figurata, nell'ipotesi di un propugnacolo a cielo. I migliori tra i disegni che ritraggono la porta prima della distruzione, attribuiti a Francesco di Giorgio (Toesca, 1924), indicano che verso la città si innestava tra le torri un'altra parete con un portale il cui disegno anticipava quelli di Castel del Monte e del castello di Prato. È palese l'allusione a un tipo di porta urbica formulato nell'Antichità romana e ancora rappresentato in Europa da una ricca serie di esempi di età imperiale, così come, nel Vicino Oriente, da derivazioni bizantine e protoislamiche, ma pare scontato che gli architetti di F. si ispirarono alle porte del genere che si aprono nelle mura aureliane di Roma. Giustamente è stata vista assommarsi a quel riferimento l'eco degli archi trionfali antichi per quanto attiene il corredo delle sculture. Altri aspetti della porta, come il collegamento con il ponte, la riportano nell'alveo di una tradizione caratteristica della giurisdizione feudale del Tardo Medioevo (Sauerländer, 1994), che riprende, peraltro, un modello di difesa avanzata già noto all'Antichità (Brenk, 1991); più specificamente, il linguaggio goticizzante che concretizza in forma lo stereotipo mostra che non si trattò di un recupero archeologizzante, spiegabile sul piano del gusto, ma dell'attualizzazione a fini politici e ideologici di un modello architettonico dell'impero antico. L'impatto immediato della porta di Capua, in quanto esponente imperiale, è dimostrato non solo dalla fortuna che ebbe nell'architettura federiciana il disegno del portale a fornice archiacuto inquadrato da travata e sormontato da timpano, ma anche dall'eco che il disegno di torre a base poligonale in pietra bianca e canna curva in scura muratura tufacea trovò nel grande mastio circolare inserito nel castello di Casertavecchia a opera di un altro dei grandi vassalli di F., il conte Riccardo di Lauro (D'Onofrio, 1969), che nel 1246 ne sposò la figlia Violante. Come Matinale, anche il castello di Casertavecchia occupava una posizione chiave nella difesa del confine più critico del regno.Del monumento più direttamente celebrativo della grandezza dell'impero, eretto nel 1248 a ridosso della torre mediana del Campidoglio a Roma per esporre trionfalmente la spoglia del carroccio presa ai Lombardi nella battaglia di Cortenuova, ancora visibile nel sec. 15°, riscoperto e smembrato nel 1727, è resto cospicuo la solenne iscrizione che si conserva in un'apposita sala del palazzo Senatorio; secondo antiche descrizioni doveva fungere da epistilio per una serie di colonne. Un'adesione a contesti formali e figurali prestabiliti, quando particolarmente significativi in ordine a questioni di natura politica, venne praticata da F. per allestire il sepolcreto dinastico nel transetto meridionale del duomo di Palermo, recuperando e destinando a sé e al padre i sarcofagi di porfido che Ruggero II aveva predisposto nella cattedrale di Cefalù e quello in cui il capostipite normanno era stato realmente sepolto a Palermo e facendone eseguire uno simile per la madre Costanza (Deér, 1959; 1974). Lo stesso atteggiamento, in relazione agli esiti più attardati dell'architettura romanica pugliese, si coglie nell'unica sicura committenza federiciana di architettura sacra: l'arcipreturale, oggi cattedrale, di Altamura (prov. Bari), avviata presumibilmente in coincidenza con il ripopolamento della località tra il 1232 e il 1243, ma consacrata solo tra il 1269 e il 1274 con l'intitolazione alla Vergine. Successivi rimaneggiamenti, a partire da un crollo nel 1316, l'aggiunta di un profondo coro a O dopo che nel 1485 la chiesa fu eretta a collegiata e un radicale restauro statico della seconda metà dell'Ottocento, che comportò il rifacimento dell'interno in forme neogotiche, hanno trasmesso un palinsesto architettonico di difficile e controversa interpretazione (Bonelli, Bozzoni, 1982; Belli D'Elia, 1991-1992; Kappel, Kemper, 1992), che pare essere stato impostato come sistema di tre navate separate da colonne cui si intercalavano due coppie di pilastri reggenti archi-diaframma in funzione di coperture a tetto nella navata centrale, con alzato tripartito, ove alle arcate aprentisi sulle navate laterali coperte da volte a crociera nervata succedevano un piano di trifore corrispondenti a gallerie sottotetto e un breve piano di finestre. Dettagli ancora individuabili della originaria partitura esterna fanno intravedere una plastica muraria ad arcate cieche poco profonde e gronde rette da archetti su colonnine pensili analoga a quella di altre cattedrali, come quelle di Termoli, Foggia, o Matera, che ancora nel Duecento elaboravano forme e strutture caratteristiche del Romanico pugliese. Qualora si potesse legare al progetto originario la serie di fornici (ben presto occlusi e trasformati in cappelle) sormontati da logge, che stringono all'esterno il blocco delle navate, risulterebbe pienamente provato il riferimento specifico della cattedrale di Altamura all'organismo della basilica di S. Nicola a Bari, che F. investì del ruolo di cappella palatina, come testimoniano le denominazioni di capella specialis e nostra capella in documenti del 1215 e 1243. L'acquiescenza a una caratteristica formula regionale di grande architettura sacra si specificherebbe, in tal modo, in adesione consapevole, con evidenti valenze di natura politica.A completare il quadro dei modelli castellani praticati dall'architettura federiciana vi sono casi attardati di ripresa della tipologia del mastio. Agli ultimi anni del regno di F., secondo un'iscrizione (perduta) che ne commemorava la costruzione nel 1247, dovrebbe risalire la torre di avvistamento inserita nel lato a mare della cinta di Termoli (prov. Campobasso), ma la struttura attuale rappresenta una ricostruzione molto più tarda dell'edificio federiciano, come indicano le murature (Bruhns, 1937), ma anche la configurazione complessiva che, se alla lontana può ricordare quella del palazzo di Lucera (peraltro comprensiva dell'aggiunta angioina), trova un riscontro ben più stringente, particolarmente nei caratteristici torricini circolari che risolvono gli angoli dell'alta base scarpata, nel mastio di Rocca Calascio (prov. L'Aquila), su uno sperone delle propaggini meridionali del massiccio del Gran Sasso, il cui assetto è riferibile alla metà del 15° secolo.Alla fase finale del regno di F., o, al più tardi, all'età di Manfredi (e non a quella di Federico II d'Aragona, come dal sec. 16° e per lungo tempo si è ritenuto), viene ormai concordemente riferita la torre di Federico che si erge isolata su un'altura quasi conica all'estremità dell'antico abitato di Enna opposta allo sperone sul quale sorge il castello di Lombardia. Essa rappresenta in ambito svevo l'edizione più solenne del mastio con preminenti caratteri residenziali. L'ottagono regolare di pianta, che si ripeteva nella cinta di protezione conservata nell'imbasamento e in esigui tratti di alzato, evoca immediatamente Castel del Monte; elementi tecnici, anzitutto la qualità dell'apparecchio in calcare bruno con cui sono rivestiti interni ed esterni; strutturali, come le volte ottagone a ombrella immorsate con archi di scarico alle pareti perimetrali che si conservano al piano terreno e al primo piano; stilistici, come i capitelli delle semicolonne del primo piano, passibili di confronti con la scultura architettonica di alcune delle più tarde abbaziali cistercensi in terra meridionale, come S. Maria Arabona (prov. Pescara) e S. Maria di Ripalta sul Gargano (prov. Foggia), ribadiscono la datazione tardosveva della torre. Essa si completava con un terzo livello, oggi cimato poco sopra l'imposta di volta e sistemato a terrazza. Una scala a chiocciola in spessore di muro (ricostruita) assicurava i collegamenti verticali. Il primo piano è connotato come luogo eminentemente residenziale non solo dalla decorazione più ricca, ma dalla presenza di camino, servizi e di tre ampie finestre esternamente incorniciate da rincassi quadrangoli, con colonnine reggenti un elemento ad andamento spezzato che traduce decorativamente il motivo dell'architrave, costituendo il dato di maggiore perplessità ai fini della datazione della torre. Il terzo esempio di mastio è inserito nella compagine del castello di Lagopesole (v.) e partecipa di alcune incertezze che ancora pesano sulla storia del complesso.Nella varietà e graduazione di funzioni, tipologie e forme, il sistema castellano di F. corrispondeva non solo a un piano strategico di difesa dei confini del regno meridionale, delle sue coste e strade, o di presidio delle sue città, ma si inscriveva in un non meno organico sistema di tutela e sfruttamento delle terre e delle acque. Una ricca documentazione, non ancora sistematicamente vagliata, salvo che per aree limitate (Martin, 1985; Castelli, 1991; Sciara, in corso di stampa), e ancor più di rado verificata sulle tracce che il territorio conserva, informa di colture diverse e allevamento di animali attuati con il sistema dei casali e delle masserie, della conduzione di tonnare e saline, di riserve boschive e di caccia, della creazione con canalizzazioni e dighe di laghi e stagni per il mantenimento in natura della fauna selvatica, dell'amministrazione dei porti attraverso incaricati regi. A esigenze plurime rispondevano anche il ripopolamento di centri abbandonati e la fondazione di nuove città frequentemente attestati (Dupré Theseider, 1973). Si trattò, a volte, di operazioni a carattere propagandistico, come la cerimonia di fondazione di Vittoria (1247-1248) nel corso dell'assedio di Parma, peraltro saccheggiata e distrutta subito dopo dai Parmigiani, o l'altrettanto effimera fondazione di Flagella (1241), sulla sponda sinistra del Liri, di fronte a Ceprano, che sulla sponda opposta era avamposto dello Stato pontificio. In altri casi prevalsero opportunità sociali e di ordine pubblico, per il concentramento di revocati ad Altamura nel 1231 o a Monteleone (od. Vibo Valentia) nel 1239, dove veniva innalzato anche un castello, o, tra il 1223 e il 1245, dei musulmani deportati dalla Sicilia a Lucera (Morlacco, 1987). La fondazione di altre città, principalmente di Augusta nel 1231 ed Eraclea o Terranova (od. Gela) nel 1233, doveva invece favorire coltivazioni principalmente cerealicole, o attivare porti (Nigrelli, 1953; Dufour, 1989). In diversi di quei casi il segno della fondazione duecentesca viene letto nell'impianto urbanistico a griglia ortogonale di assi viari principali che delimitano quartieri suddivisi in isolati quadrangoli (Guidoni, 1989), seguito ancora dall'Aquila (Clementi Piroddi, 1986), fondata da Corrado IV nel 1254, ma distrutta da Manfredi nel 1258, e particolarmente evidente nel tracciato di Manfredonia in Puglia (de Troia, 1985) ove nel 1263 lo stesso Manfredi intendeva trasferire l'antico centro portuale e diocesano di Siponto. È un principio urbanistico peraltro largamente condiviso dall'Europa contemporanea per operazioni di colonizzazione e popolamento (v. Anseatiche, Città; Bastide; Città nuove).La presenza della scultura architettonica, la sua entità e il suo tenore sono tra gli indicatori meno equivoci dell'incrociarsi di funzioni residenziali e livelli di rappresentatività delle costruzioni federiciane. Sono percentualmente pochi i castelli in cui i nessi costruttivi vengono risolti in trame decorative anche solo per alcune delle loro parti e pochissimi quelli in cui tale decorazione fa da contrappunto uniforme all'intero organismo. È significativo che residenze a carattere eminentemente privato come quelle di Gela, Gravina e, a giudicare dai reperti di scavo, di Ordona e Fiorentino, oppure i tratti residenziali dei castelli di Milazzo ed Enna non mostrino quasi scultura architettonica, abolendo persino il capitello all'imposta delle coperture, mentre del castello di Foggia si conservi, accanto all'epigrafe che ne esplicita le valenze di rappresentatività del potere, un frammento squisitamente decorativo. Più ardue da determinare, e perciò oggetto di valutazioni differenti, sono misura e modalità in cui tale generalissima costante del rapporto tra architettura e decorazione scolpita debba essere modulata o corretta in conseguenza di dinamiche cronologiche e stilistiche, in relazione all'educazione e provenienza degli artefici, a condizionamenti regionali e locali dei cantieri, oppure a riferimenti formali e ideali imposti dalla committenza.Posto che la frammentarietà delle testimonianze monumentali e le incertezze cronologiche pongono limiti difficilmente superabili alla nitidezza del disegno d'insieme, le tre aree in cui il rapporto tra architettura e scultura più chiaramente si definisce - il limitare nordoccidentale del regno (Terra di Lavoro), la Puglia centrosettentrionale (Capitanata, Terra di Bari) e la costa orientale della Sicilia - paiono attingere punti di equilibrio diversi tra le variabili sopra indicate, toccando probabilmente alla Sicilia, anche per questo aspetto, il merito di avere depurato al massimo grado, al principio degli anni trenta, un linguaggio propriamente e originalmente svevo (perciò presto rifluito al continente), ma alla Puglia il maggior dinamismo e capacità di sintesi di esperienze diverse su un arco cronologico che copre per intero l'età federiciana in senso stretto e quella di Manfredi. Con il ciglio d'arco di Foggia si verifica qui il primo declinarsi della scultura architettonica federiciana nell'adesione a valori stilistici locali e di continuità con l'età romanica, rinvigorita da apporti dell'ambito crociato siro-palestinese; resta solo aperto se il centro gravitazionale di questa fase protoduecentesca sia costituito, secondo le interpretazioni più tradizionali, da cantieri propriamente pugliesi, anzitutto quello della cattedrale (allora collegiata) di S. Maria Icona Vetere a Foggia, oppure, secondo più recenti proposte (Aceto, 1990), si debba spostare ai cantieri abruzzesi e molisani dell'abbaziale di San Giovanni in Venere e della cattedrale di Termoli. Si trattò, comunque, di una fase prolungata se il referto stlilistico del frammento foggiano appare confermato nella sostanza dai complessi plastici dei castelli di Bari e Trani, secondo ogni verosimiglianza drasticamente depauperati, ma altrettanto chiaramente distribuiti secondo logiche che hanno privilegiato tratti destinati a funzioni particolari. Le firme di Melis da Stigliano, Minervo da Canosa e Ismahel - che potrebbe essere un deportato dalla Sicilia, ma anche un emigrato o transfuga dalla Terra Santa - su capitelli della loggia nel cortile del castello di Bari offrono un riscontro documentario a quanto lo stile sembra indicare: acanti spinosi e motivi di palmette irrigiditi entro griglie ansate e curvilinee fasciano le campane, quasi azzerando in avvolgenti trame bidimensionali l'articolazione del corinzio antico, dal quale, alla lunga, i capitelli derivano. Elementi figurati, come aquile (forse non prive di allusioni araldiche) o sfingi, creano in alcuni di essi movimenti plastici più densi, secondo ritmiche propriamente romaniche, che caratterizzano anche la figurazione allegorica, sino a oggi indecifrata, dell'archivolto del portale principale, o il sorprendente inserto, di possibile derivazione germanica, della serie di teste incappucciate (forse di armati) che decora l'imposta di uno dei pilastri a muro dell'atrio.Se il complesso dei capitelli e rilievi conservati a Bari accompagna il percorso dell'ingresso principale al castello, nel castello di Trani fregi fogliati e trafori arricchiscono le aperture del piano superiore dell'ala settentrionale affacciata sul mare, ove due serie sovrapposte di mensole scolpite conservano la traccia dello scalone e della loggia, anche decorativamente sontuosa, che introduceva a quello che era palesemente il quartiere residenziale. Accanto a formulazioni di palmette di un rigoglio plastico nettamente più risentito, ma anche dai disegni più sinuosi e compatti, più islamizzanti di quanto non si osservi a Bari, non mancano mensole figurate: l'immancabile aquila sveva, un telamone inginocchiato e, in sequenza nell'ordine superiore, un angelo, una figura in cattedra e il gruppo del Peccato originale, per le quali è stata giustamente ipotizzata (Pasquale, 1989) una significazione allegorica. Più che come itinerario della salvezza, dalla caduta nel peccato all'incarnazione rappresentata dall'annunciazione, questa pare doversi leggere alla luce dei concetti di rigenerazione dell'umanità nella giustizia rappresentata dall'ordine dell'impero espressi nel proemio delle Costituzioni di Melfi; la figura centrale pare infatti qualificarsi come quella di un giudice o magistrato, né si può escludere che le tre mensole rappresentino il resto di un programma più vasto. I restauri attualmente in corso hanno portato al recupero di numerosi frammenti plastici della costruzione sveva reimpiegati come materiale di riempimento nelle trasformazioni successive (Di Paola, 1995); si tratta soprattutto di decorazioni della loggia, dunque coerenti con le mensole, e tra esse alcune sono figurate, come, in particolare, un blocco con funzione forse di plinto recante il rilievo di due teste di adolescenti dai tratti marcati, coronati di foglie e grappoli accostati sulla linea dei profili, alla maniera di elementi acroteriali antichi. Sono sempre figure sommarie, ma robuste, talora sbozzate quasi a tutto tondo sotto l'intavolatura degli abachi, tali da far presagire i telamoni di Castel del Monte, ma da collegarsi, soprattutto, con i gruppi plastici sporgenti dalla zona absidale del duomo di Trani, e ribadire il reclutamento primariamente locale delle forze attive nei cantieri imperiali della costa pugliese. Gli elementi di derivazione cistercense, che sulla scorta di Haseloff (1920) sono stati ripetutamente segnalati anche in essi, vi compaiono a livello di frammenti decontestualizzati entro compagini architettoniche schiettamente romaniche, come sono sempre le articolazioni di portali, finestre, pilastri e come è soprattutto la loggia del castello di Trani che, idealmente ricostruita, sembra prendere a modello quella, pure idealmente ricostruibile, della facciata del duomo di Trani.Un cambiamento deciso di registro stilistico si verifica invece nei castelli della costa orientale siciliana, ove il formulario decorativo cistercense non è solo adottato come sistema, espungendo quasi senza residui sopravvivenze romaniche e locali, ma si coordina a sequenze strutturali che aderiscono con uguale immediatezza a modelli costruttivi cistercensi e forma con essi una dimensione di fondo della progettazione. Ciò vale sia nella riduzione normalizzata ai minimi termini dell'apparato ornamentale osservata nel castello di Augusta sia nella sua dilatazione a qualificatore primario della natura dell'edificio che si verifica in castel Maniace. In connessione con l'inequivoca funzione di struttura residenziale di grande rappresentanza e quindi con il valore di esponente di dignità regale, il castello - ma sarebbe meglio dire palazzo fortificato - di Siracusa (come, più tardi, Castel del Monte) mostra però anche elaborazioni autonome, perciò federiciane, della norma decorativa cistercense protoduecentesca. Si verifica, anzitutto, una dilatazione in termini strettamente dimensionali dei momenti decorativi, per cui i giganteschi capitelli, le chiavi di volta che si espandono sui costoloni, i peducci retti da figurazioni a tutto tondo non sono più snodi, ma terminali di risoluzione figurativa degli orditi strutturali e spaziali, o intervengono con i loro volumi a tutto tondo negli angusti vani delle scale e dei servizi come ragioni formali determinanti, caricandoli di direttrici ottiche di sapore già prospettico (Romanini, 1982), secondo un rapporto tra decorazione e struttura che portali, finestroni, scarpe di torri preannunciano dall'esterno. Tra i motivi di foglie dei capitelli siracusani non pare trovare riscontro in precedenti cistercensi un tipo di acanto a lobi brevi e staccati, falcati quasi come riccioli, che, in marcata disposizione 'a farfalla', contrassegna le imposte del portale e del finestrone a mare e che anche in edifici successivi, dalla porta di Capua a Castel del Monte, pare riservato all'assetto decorativo di aperture e ingressi. Possibili modelli tardoantichi (Calò Mariani, 1973) e ricorrenze pugliesi anche al di fuori della stretta cerchia federiciana ne indicano la provenienza, ma, nello stesso tempo, il valore di esponente imperiale mutuato dall'Antichità che si connette con il recupero federiciano. L'inserto figurato nelle trame decorative vegetali dei capitelli, anche se connaturato alla scultura architettonica cistercense e da essa mutuato, in castel Maniace appare con una frequenza, un'importanza e in uno spettro semantico che travalicano di gran lunga l'esemplarità del precedente monastico; accanto a possibili significazioni moraleggianti della figurazione purtroppo frammentaria di un capitello in cui compaiono un braccio umano o zampa di arpia e le spire scagliose di un serpente o mostro, domina soprattutto il registro cortese in scenette venatorie, galanti o di gioco che decorano il labbro del calato di un altro capitello, nelle teste coronate o acconciate alla moda, in snelle figurine di giovani paggi che spuntano tra i crochets o fanno da mensola e sembrano raccordarsi alla ritrattistica imperiale; né manca la componente araldica, laddove appare significativa differenza rispetto ai castelli pugliesi, in ordine a quanto sembra indicare il sepolcreto dinastico di Palermo, quella per cui in castel Maniace compare non l'aquila, ma il leone normanno. Sul piano stilistico questi frammenti di immagine si inscrivono nelle problematiche sollevate dalla scultura figurativa monumentale.Il corredo figurativo della porta di Capua, conservato incompleto e mutilo al Mus. Prov. Campano della città, ma il cui rapporto topico e semantico con l'architettura della porta turrita è, in linea di massima, recuperabile, ribadisce come anche la scultura monumentale federiciana è inseparabile nella collocazione e nel significato da un supporto e un contesto architettonico. Costituisce perciò il passaggio obbligato per l'interpretazione dell'accezione specificamente federiciana di quel connubio generalmente caratteristico dell'epoca. Cinque elementi di raccordo tra le basi poligonali e le canne curve delle torri, quattro dei quali coronati da teste umane, uno dalla dilatazione monumentale del motivo del crochet vegetalizzato, una mensola decorata con un'aquila e una con una testa di adolescente, un leone del genere di quelli presenti nei portali di castel Maniace e Castel del Monte, una testa barbuta corrispondente al tipo di Zeus o Silvano (da taluno giudicata antica o comunque non pertinente al monumento federiciano) che decorava probabilmente una chiave d'arco e un laterale del trono imperiale in forma di grifo sono, insieme a capitelli e altri frammenti architettonici, resti del complemento più propriamente esornativo dell'architettura, che costruiva anche la scena gerarchicamente ordinata ove erano inserite le figurazioni principali e più rilevanti ai fini del significato. Se ne conservano una testa colossale femminile coronata di pampini, due busti maschili barbuti, laureati e ammantati all'antica, il torso acefalo, privo degli avambracci e con diverse altre mancanze e danneggiamenti, della statua che doveva rappresentare F. in trono (v. Antico). Mentre l'effigie imperiale, che i disegni sopra menzionati mostrano in posizione centrale nel registro mediano della figurazione aderente alla parete tra le torri, è identificata come tale da antiche descrizioni della porta, dallo stato di integrità sommariamente registrato da una incisione di Seroux d'Agincourt (1823) e dal suo disegno preparatorio (Claussen, 1990), dalla testa coronata di cui si conserva un calco, probabilmente non molto fedele, del sec. 17° (Langlotz, 1951), sono state varie le interpretazioni delle altre tre sculture, poste entro nicchie circolari che attorniavano l'arco d'ingresso, pur prevalendo quella che vede nella testa femminile la personificazione della Giustizia imperiale e nei busti maschili che la fiancheggiavano figure di giudici, secondo il tenore delle iscrizioni che le accompagnavano, tramandate con alcune varianti da fonti diverse. Degna d'attenzione è la recente proposta (Meredith, 1994) di riconoscere in statue mutile di Diana e Apollo del sec. 2° (Capua, Mus. Prov. Campano) le due figure che fiancheggiavano l'imperatore (restando peraltro da precisare la nuova identificazione che tale riuso avrebbe comportato) e in un contemporaneo rilievo di trofei di guerra (Capua, Mus. Prov. Campano) un altro reimpiego del monumento svevo. L'eventuale ricorso diretto a sculture imperiali antiche sancirebbe in via definitiva l'osservazione, largamente condivisa tra gli studiosi, di singolari scarti di stile delle sculture capuane, nelle quali la comune tonalità intensamente classicizzante costituirebbe una sorta di catalizzatore in qualche misura estrinseco o imposto di esperienze stilistiche diversificate. Assai discordi sono, invece, le valutazioni di queste ultime, talora privilegiando il momento della derivazione romanica ed eventualmente campana, peraltro innegabile nei busti di giudici o nella protome leonina, talora assumendo la figura di F., la personificazione della Giustizia, o la mensola con testa di adolescente a riferimenti per individuare a Capua l'inizio del rinnovamento della scultura meridionale sull'esempio del Gotico d'Oltralpe che corrisponde alla fase federiciana matura. Le diverse letture stilistiche, legandosi alle variazioni nella decifrazione del contenuto iconografico e della dimensione classicistica delle sculture, arrivano a contrapporre la decodificazione complessiva della porta come atto propagandistico strettamente strumentale alla politica di F. e celebrativo della sua stessa personalità, in un momento di forte tensione con il papato (Panofsky, 1960; Bologna, 1969), a interpretazioni che in sfumature diverse riequilibrano le stesse motivazioni ideologiche nell'ambito di un uso delle immagini più tradizionalmente e generalmente diffuso nel Medioevo.Il rapporto tra fini ideologici, mezzi stilistici e consapevolezza nell'usarli si arricchisce degli stimoli derivanti dallo studio della natura, coltivato nella cerchia federiciana, per la più ardua e nello stesso tempo cruciale problematica posta dallo studio della scultura federiciana, nel cui ambito è stata talvolta cercata la nascita del ritratto moderno. L'eventuale esistenza di ritratti dell'imperatore - e di suoi congiunti e familiari - è indotta da fenomeni come i busti che si trovavano nel timpano del portale di Castel del Monte, il torso di cavaliere che ancora si conserva nel suo cortile, cui corrispondeva una figura analoga ricordata sopra un portale della corte settentrionale del castello di Lagopesole, testimoniata anche da una protome equina ivi reperita, ma in seguito scomparsa (Righetti Tosti-Croce, 1980). Ma, tolto il caso della porta di Capua, nel quale la genericità fisionomica e inaffidabilità del calco conservato è di scarso valore testimoniale ai fini della ricostruzione dei tratti somatici di F., nessun altro presunto ritratto è stato reperito in un contesto adeguato per confermarlo inequivocabilmente come tale. Nella folla delle identificazioni, fisionomicamente difformi, che si susseguono ab antiquo e coinvolgono ampiamente, accanto alla scultura monumentale, miniatura, monetazione e cammei, una svolta alla questione è stata impressa dalla segnalazione simultanea di una testa colossale in marmo già in un edificio privato di Lanuvio (Roma, Deutsches Archäologisches Inst.; Kaschnitz-Weinberg, 1953-1954) e un busto in pietra calcarea fortemente danneggiato del Mus. Civ. di Barletta, ove era pervenuto da una masseria tra Canosa e Barletta, presso la quale si conservano resti di costruzioni del sec. 13° (Prandi, 1953). La testa da Lanuvio, sopra un collo poderoso, lungo e svasato, preparato per essere innestato su una statua o un busto, rappresenta le fattezze di un uomo maturo, eroicizzate nell'allusione alla ritrattistica imperiale antica, in particolare di Augusto e Costantino il Grande, ma che sembrano specificarsi fisionomicamente nel mento largo e squadrato, nella bocca piccola e sinuosa, negli occhi infossati e ravvicinati e corrispondono, così come le modalità del loro assorbimento nei moduli antichizzanti, ai profili di F. rappresentati sul dritto degli augustali (v.). La fermezza lineare con cui i tratti si disegnano sul volume saldo del capo e soprattutto la capigliatura distinta in ciocche regolarmente striate e terminanti a punta leggermente svirgolata sono conferma inequivoca della datazione al quarto decennio del Duecento, secondo quanto comporta l'età del personaggio rappresentato in rapporto alla data di nascita di F., e collegano il marmo lanuvino con pezzi della porta di Capua, come la testa femminile o la protome leonina. L'animazione psicologica ed emotiva che preme sotto la patina classicizzante e dettagli come i tendini affioranti dalla tornitura del collo o le increspature falcate che crea sulla fronte il leggero aggrottare delle sopracciglia hanno indotto ad accostare la testa anche alla statuaria di Reims e di Bamberga.Assai vicina alla testa da Lanuvio è una testa in marmo reperita alla fine del secolo scorso a Roma (Berlino, Staatl. Mus.), che rappresenta un giovane principe con diadema e corta barba, alla cui identificazione con F. osta peraltro la caratterizzazione fisionomica, mentre riconoscervi un ritratto di Manfredi, nato nel 1232, porterebbe a un attardamento cronologico inconciliabile con i dati dello stile. Rimanda all'ambito campano anche un possibile ritratto femminile coronato (New York, Metropolitan Mus. of Art), per il quale le ricerche più recenti prospettano una datazione protoangioina e l'incoerenza tra il busto e la testa, formante pezzo a sé con il collo preparato per l'incastro.Il busto di Barletta riflette il superamento dell'atteggiamento imitativo nei confronti della scultura antica. La presentazione del personaggio nelle vesti di imperatore romano è l'ipotesi evidente dal mantello fermato sulla spalla destra con una fibula recante la scritta SPQR e dal serto di alloro sul capo, il cui legaccio scende sulla nuca in lunghe infule svirgolate. Ma l'individuazione fisionomica, per quanto i pesanti danneggiamenti permettono ancora di vedere e integrare, tralasciando ogni allusione idealizzante alla ritrattistica imperiale romana, aderisce con immediata, naturalistica intenzione ai caratteristici tratti della forte mascella, della bocca piccola e sinuosa, degli occhi ravvicinati e infossati, dandone la trasformazione avvenuta in un uomo nell'incipiente vecchiaia, con la pelle avvizzita, rigonfia di borse sotto gli occhi, ma tesa o segnata da rughe sulle tempie e le guance smagrite e cogliendo nel lampo dello sguardo sotto le pesanti palpebre e nel deciso scarto laterale della testa la forza del carattere e l'intensità dell'emozione. Il modello antico resta come parametro di risoluzione stilistica del dato naturale e individualizzante e concorre all'intenso classicismo (v.) del busto, ma lo stile è pienamente ed esclusivamente gotico e vi appare determinante, più di ogni riferimento locale o italiano, il nesso con i centri della statuaria monumentale sveva in Germania allora in pieno rigoglio: Bamberga e Magonza in primo luogo, poco più tardi Naumburg. Tutta la zona inferiore della scultura appare il frutto di una rilavoratura che ha trasformato in busto antichizzante una diversa tipologia statuaria; si è supposto potesse trattarsi del tronco di una figura equestre del genere dei cavalieri di Bamberga e Magdeburgo. Scarso valore ai fini dell'identificazione del personaggio assume perciò l'iscrizione in capitale umanistica "Divi [- - -] Cae.", in cui la seconda parola, cancellata - si direbbe quasi volutamente - da una larga rottura, è stata variamente integrata come "F. II", "Fr. II", "Fri" (da sciogliersi in Friderici II, o Friderici), ma anche come "Iuli". Ma la verosimiglianza che si tratti di F. è riproposta dal riconoscimento di un possibile ritratto dell'imperatore svevo in una testa in marmo grigio del Kunsthistorisches Mus. di Vienna (Buschhausen, 1974), che mostra una convincente corrispondenza fisionomica con il busto di Barletta, recando ancora più marcati i tratti della senescenza in una resa sommaria e sintetica che sigilla il pur intenso naturalismo in una fissità ieratica, nuovamente memore della ritrattistica imperiale tardoantica. Queste due opere rappresentano l'unico caso di reale corrispondenza somatica entro una piccola folla di teste e busti, oltre quelli già indicati, e di cammei in cui, con gradi di verosimiglianza assai vari, sono stati indicati ritratti di F., di principi della sua famiglia, o di suoi cortigiani (Kaschnitz-Weinberg, 1953-1954; Wessel, 1958; Die Zeit der Staufer, 1977-1979, I; Claussen, 1995), ma non esiste ancora una trattazione sistematica e rigorosa di tutto il complesso e non si può escludere che alcuni esemplari rappresentino lavori tardoantichi, o imitazioni di età moderna.Ammettere che il busto di Barletta rappresenta F. significa anche vincolarlo a una datazione agli ultimi anni della vita dell'imperatore. Esso si pone perciò, insieme con la scultura di Castel del Monte, come riferimento privilegiato per la definizione della fase finale della scultura federiciana; ciò che non equivale, peraltro, a vedervi germi di disgregazione o esaurimento al termine di una parabola che in stadi precedenti avrebbe raggiunto l'apice, ma, al contrario, il momento della conquista della piena maturità, nel quale vengono assimilate, senza più residui di passività o d'inerzia, le componenti e le ispirazioni stilistiche via via assunte: dagli esiti romanici campani e pugliesi - con i relativi collegamenti gerosolimitani e, forse, padani - alla partecipazione cistercense, agli stimoli arrivati, possibilmente anche per il tramite di artisti migranti, dal Nord gotico, alla programmatica ispirazione all'Antichità romana. Solo in questa fase la scultura si allinea al livello di modernità e innovazione dell'architettura federiciana e si colloca con precisa individualità e piena dignità di partecipazione nella costellazione gotica europea. A essa si devono cronologicamente riferire famosi pezzi erratici come i due capitelli con teste umane rappresentanti esponenti di etnie europee e mediterranee, uno dei quali al Mus. Diocesano e Tesoro della Cattedrale di Troia (Wentzel, 1954), l'altro al Metropolitan Mus. of Art di New York (Ostoia, 1964-1965), sulla cui autenticità sono stati recentemente espressi dubbi (Little, 1979); la testa laureata di una coll. privata di Bitonto (Belli D'Elia, 1972), stilisticamente assimilabile al c.d. frammento Molajoli pertinente a Castel del Monte e ora alla Pinacoteca Prov. di Bari (Molajoli, 1934); la mucca con villico dell'abbazia di Grottaferrata (Cellini, 1984); se ne potrebbero elencare diversi altri di volta in volta segnalati dagli studiosi nel contesto di prospettive critiche peraltro divergenti nelle valutazioni stilistiche, nella cronologia, nelle proposte di individuazione di singoli artisti (Bologna, 1969; Gnudi, 1980; Aceto, 1990; Mellini, 1991).Un coerente e organico decorso fu negato allo stile così configurato dal venir meno della committenza che ne aveva costituito non solo il supporto economico e istituzionale, ma anche e soprattutto il generatore in termini di idee e riferimenti culturali; la morte di F. segnò la fine di un mondo concettuale e formale la cui eredità è stata rintracciata nell'avvio dell'arte gotica di altre regioni italiane. Una sua prosecuzione si può intravedere in terra meridionale in rari e isolati fenomeni, tra i quali si impone il complesso delle sculture di Lagopesole.
Bibl.:
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F. è noto per la curiosità intellettuale che manifestò fin dalla più giovane età e per la passione per i manoscritti che segnò tutta la sua vita. Tuttavia, molti dei codici miniati commissionati da F. sono noti solo attraverso copie realizzate durante il regno di suo figlio Manfredi e talvolta anche in epoche successive. Così il Liber introductorius, che l'alchimista e astrologo Michele Scoto scrisse in risposta alle questioni poste dall'imperatore, è noto attraverso una copia patavina della metà del sec. 14° (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 10268), dalla quale peraltro si può dedurre l'apparato illustrativo dell'originale presentato all'imperatore nel 1228.Lo studio della miniatura federiciana deve dunque superare i limiti cronologici del regno di F. per comprendere anche l'attività dei miniatori operosi all'epoca di Manfredi. Tra i manoscritti, numerosi sono quelli di carattere scientifico. Il sovrano, appassionato di caccia, compose in prima persona il famoso trattato ornitologico De arte venandi cum avibus, noto attraverso l'esemplare commissionato da Manfredi intorno al 1258 (Roma, BAV, Pal. lat. 1071); quello di F. era stato perduto dallo stesso imperatore sul campo di battaglia di Vittoria nel 1248. Egli si interessò anche di astrologia, come attesta il Liber astrologiae (Parigi, BN, lat. 7330); il Liber de locis stellarum fixarum di al-Ṣūfī (Parigi, Ars., lat. 1036), in precedenza assegnato all'ambito culturale svevo, è stato invece recentemente ricondotto alla scuola bolognese (Gousset, 1984).F. commissionò trattati dedicati sia all'ippiatria, di cui non si conoscono esemplari illustrati, sia alla medicina e alla botanica (Vienna, Öst. Nat. Bibl., 93; Firenze, Laur., Plut. 73.16), sia all'idroterapia, come il De balneis Puteolanis, presentato da Pietro da Eboli intorno al 1211-1220 a F., conservato in una copia del terzo quarto del sec. 13° (Roma, Bibl. Angelica, 1474), sia alla chirurgia, come il De chirurgia di Rolando di Parma, di cui esiste un manoscritto originario dell'Italia meridionale attribuito all'ambito federiciano (Roma, Casanat., 1382; Orofino, 1994).L'ambiente di corte, eccezionalmente aperto alle diverse culture dell'area mediterranea, fu stimolato da uno spirito di curiosità 'scientifica' verso la natura espresso dall'imperatore stesso nel De arte venandi cum avibus; la sintesi tra i vari modelli e l'esperienza diretta portò a opere di grande originalità.L'impulso dato da F. fu molto fecondo, poiché si basava sulla brillante tradizione culturale dei re normanni, in particolare di Ruggero II; infatti fu a partire dal Liber astrologiae, redatto nella seconda metà del sec. 12° da Giorgio Zotoro Zaparo Fendulo, che fu eseguita nel secondo quarto del sec. 13° la magnifica copia (Parigi, BN, lat. 7330) che rappresenta finora il più antico esemplare conosciuto di questo testo, ove si fondono gli apporti della scienza antica e araba e del trattato di Abū Ma῾shar (m. nell'886), astrologo di Baghdad (Gousset, Verdet, 1989).A segnare i primi manoscritti miniati federiciani è anche l'eredità stilistica degli scriptoria normanni, che avevano accolto nello stesso tempo influssi romanici dell'Italia meridionale, bizantini e anglonormanni. Tra i codici appartenenti a tale temperie culturale sono il Liber ad honorem Augusti (Berna, Burgerbibl., 120 II) - dedicato da Pietro da Eboli a Enrico VI ed eseguito forse a Palermo nel 1195-1196, con disegni a inchiostro ravvivati da colori, in cui si colgono elementi occidentali, bizantini e arabi - e alcuni manoscritti liturgici conservati in Spagna nei fondi aragonesi (Madrid, Bibl. Nac., 6, 9, 10, 14; Buchtal, 1957), in particolare un sacramentario datato al primo ventennio del sec. 13° (Madrid, Bibl. Nac., 52; Die Zeit der Staufer, 1977, nr. 813).Gli influssi bizantini - ampiamente partecipi della cultura della Sicilia normanna e diffusi in particolare dai mosaici del duomo di Monreale - appaiono rinvigoriti da modelli diversi e più recenti, come testimonia il salterio commissionato da F. a uno scriptorium di Gerusalemme per la consorte Isabella d'Inghilterra (Firenze, Bibl. Riccardiana, 323; Buchtal, 1957). La medesima cultura artistica si ritrova nell'apparato illustrativo del Liber astrologiae, consistente in quarantatré miniature e trentasei disegni acquarellati che ornano le due prime parti del manoscritto, contrassegnate all'inizio rispettivamente dal ritratto di Zotoro (c. 1r) e da quello di Abū Ma῾shar (c. 41v). Benché eseguite in due tecniche differenti, le illustrazioni sono dovute alla stessa mano, attiva anche in un erbario di Vienna (Öst. Nat. Bibl., 93; Gousset, Verdet, 1989). Il salterio di Firenze è attribuibile a un'altra mano, vicina a quella dell'erbario, ma più corsiva.Tuttavia i manoscritti che sono al centro della produzione federiciana, il De arte venandi cum avibus e la Bibbia di Manfredi (Roma, BAV, Vat. lat. 36), marcano un'importante svolta stilistica e testimoniano dell'arrivo di modelli gotici provenienti soprattutto da Parigi e dalla Francia settentrionale. L'apparato illustrativo del De arte venandi cum avibus è riconosciuto come esempio precoce di naturalismo in cui si esprimerebbe l'esperienza personale dell'imperatore.La Bibbia di Manfredi è così denominata a partire dall'epoca della sua pubblicazione a opera di Erbach Fürstenau (1910), che dimostrò l'autenticità del colofone (c. 494v): "Princeps Mainfride regali styrpe create / accipe quod scripsit Iohensis scriptor et ipsum / digneris solita letificare manu" (Erbach Fürstenau, 1910; Pettinati, 1976). La Bibbia è dunque databile ante 1258, anno dell'incoronazione di Manfredi, ancora definito princeps; sontuosa e arricchita da levigati fondi d'oro nelle iniziali, questa Bibbia presenta lettere ornate o istoriate all'inizio di ciascun libro e di quasi tutti i prologhi, seguendo forme, colori e programma iconografico derivati dalle bibbie della Francia settentrionale, secondo modelli degli anni 1210-1230 (Erbach Fürstenau, 1910), ma assimilando le novità parigine degli anni 1240-1250 (Toubert, 1977; 1980) e mostrando l'interesse, proprio del mondo svevo, per gli animali e la natura. Va notato che il miniatore che eseguì l'intera decorazione è distinto dal Maestro della Dedica - autore della scena in cui sono rappresentati Manfredi, il copista Iohensis e probabilmente F. - identificato con il miniatore del De arte venandi cum avibus (Erbach Fürstenau, 1910).Intorno a questa sono state successivamente raggruppate altre bibbie di alta qualità, sia quella di Parigi (BN, lat. 40), eseguita dal medesimo scriba Iohensis (Daneu Lattanzi, 1964), sia quella di Londra (BL, Add. Ms 31830; Daneu Lattanzi, 1964), sia quella di Torino (Bibl. Naz., E.IV.14; Pettinati, 1976), sia infine un'altra di Parigi (BN, lat. 10428; Toubert, 1977), certamente contemporanea e della stessa mano della Bibbia di Manfredi, di evidente carattere aulico nonostante un formato e un programma iconografico ridotti. Si possono collegare a questo gruppo tre bibbie più modeste (Parigi, BN, lat. 217; Bourges, Bibl. mun., 5: Toubert, 1977; Oxford, Bodl. Lib., Canon bibl.lat. 77: Toubert, 1980).Il Maestro delle Bibbie di Manfredi e la sua bottega lavorarono per la corte sveva, come indicano le illustrazioni dei tre manoscritti firmati da Iohensis, il copista favorito dal sovrano, e l'intervento nella Bibbia vaticana del Maestro della Dedica che eseguì anche il De arte venandi cum avibus. Le analogie stilistiche con la Bibbia di Manfredi e l'intervento di Iohensis permettono anche di ricondurre a questa produzione aulica il sontuoso manoscritto De balneis Puteolanis, attribuito allo stesso Maestro delle Bibbie (Kauffmann, 1959) o a uno dei suoi discepoli (Bologna, 1969).Tuttavia, eccezion fatta per gli esemplari di più alta qualità tra quelli pertinenti al gruppo (Bibbia di Manfredi, di Torino e bibbie di Parigi), le altre bibbie possono essere definite 'da tasca' (mm. 150-165110), generalmente destinate a un pubblico di universitari e di studenti. Il Maestro delle Bibbie fu dunque il capo di una bottega assai attiva, che lavorava contemporaneamente per la corte e per un pubblico borghese, insediata in un centro come Salerno o piuttosto come Napoli, dove F. aveva fondato un'università nel 1224 (Toubert, 1977; 1980).Per quanto riguarda gli altri manoscritti, la localizzazione degli scriptoria oscilla tra l'Italia meridionale e la Sicilia. La Bibbia di Palermo (Bibl. Centrale della Regione Siciliana, I.C.13; Daneu Lattanzi, 1955), vicina alle bibbie di Manfredi, funge da cardine per collegare queste ultime al gruppo del Maestro della Bibbia di Corradino (Baltimora, Walters Art Gall., Walters 152). In alcuni elementi decorativi e iconografici sia quest'ultimo manoscritto sia alcuni altri che gli vengono associati rivelano punti di contatto con il gruppo delle bibbie di Manfredi e possono di conseguenza essere assegnati a uno scriptorium dell'Italia meridionale o della Sicilia (Daneu Lattanzi, 1964; 1966; 1978; Mütherich, 1974; Toubert, 1979; Corrie, 1994), benché altri ritengano che siano stati eseguiti in Italia settentrionale o in Umbria (Toesca, 1966; Bologna, 1969). Il problema della localizzazione della bottega deve tuttavia essere distinto da quello della formazione del maestro, che sembrerebbe un artista itinerante il cui stile molto originale risente di soste in Umbria e a Roma.Si può infine avvicinare all'ambiente culturale svevo la Historia de proeliis, della fine del sec. 13° (Lipsia, Universitätsbibl., Rep. II. 143), proveniente dall'Italia meridionale, le cui centossessantasette miniature - basate sul ciclo antico della leggenda di Alessandro Magno, trasmesso forse nella prima metà del sec. 13° tramite un manoscritto dello pseudo-Callistene importato dal mondo bizantino - esaltano attraverso l'eroe macedone l'immagine dell'imperatore svevo.
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Da una rigorosa limitazione di campo, capace di isolare per via documentaria e di evidenza fattuale la committenza federiciana dalle specifiche produzioni regionali dell'età sveva, dipende in gran parte la possibilità di seguire criticamente il corso delle arti suntuarie nell'Italia meridionale della prima metà del 13° secolo. Ostano in tal senso la dispersione e l'esiguità numerica delle opere rispetto alle quali la memoria testimoniale offre - nel quadro del programmatico ritorno all'Antico avviato e sostenuto da F. stesso - il medium di una personale attitudine al collezionismo, di un gusto antiquario, di una costante ricerca e promozione di manifatture eterogenee, dalle quali derivare, attraverso l'accumulo e l'originale sincretismo di categorie oggettuali, la nozione di qualità, di curiosità per i vari aspetti del fare artistico e, nel complesso, di bellezza.A un implemento in termini quantitativi delle artes mechanicae - nelle quali l'encomiastica imperiale aveva peraltro sin dalla giovane età consacrato F. peritus - rimanda, a posteriori, l'inventario del tesoro svevo dato in pegno ai Genovesi nel 1253 (Byrne, 1935), all'interno del quale la successione di novecentoottantasette voci permette di ricostruire dal punto di vista proporzionale e, in parte, venale la fisionomia del panorama suntuario determinato dalle scelte imperiali.Accanto alla tendenza a collezionare oggetti antichi fra cui recipienti in pietre dure, come per es. la magnam scutellam de onichio acquistata nel 1239 (Huillard Bréholles, 1852-1861, V, pp. 477-478) o il piccolo gruppo di vasi in onizilo e calzedono decorati d'oro, appaiono infatti, menzionati nell'elenco, cinquecentoundici lapide entaliate excluse, trentacinque intagli montati in oro, in argento e in bronzo, settantasette cammei privi di montatura e molte altre pietre preziose, indice di un interesse specifico per la glittica, supportato, nel caso particolare, da una presenza di incisori attivi già nell'epoca normanna, inclini a tradurre, entro stilemi formali codificati - come la forma oblunga dei pezzi o, nei cammei, la resa di prospetto dei busti (per es. cammeo con F. puer Apuliae; Monaco, Staatl. Münzsammlung) -, un classicismo di maniera, aperto a virtuosismi grafici oltreché teso a rielaborare scene o temi di natura allegorico-mitologica (per es. cammeo con Ercole e il leone nemeo, Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.; cammeo con aquila che tiene una lepre tra gli artigli, Stoccarda, Württembergisches Landesmus.), biblica o narrativa (Giuliano, 1980).Ordinativi imperiali appaiono inoltre riferiti all'esecuzione di selle, richieste per es. alle officine regie di Messina, di scudi e armi, queste ultime legate all'utilizzo di manodopera specializzata proveniente dai centri della Siria e della Spagna, o ancora di stoffe e tappeti, per la cui tessitura oltre al ṭīrāz di Palermo erano attivi ateliers a Messina, Otranto e, forse, a Lucera (Calò Mariani, 1980; 1993).All'interno di un simile e poco sistematizzabile contesto, sembrerebbe sottratto all'oreficeria - ed è segno di novità - il ruolo tradizionale e predominante di arte-guida: risolto a livello legislativo e urbano con un controllo delle forme produttive e delle vendite e con una sostanziale opposizione al formarsi di categorie artigianali autonome giuridicamente riconosciute, il rapporto del sovrano con la produzione suntuaria coeva, a livello di committenza personale, mostra infatti disporre della manodopera delle botteghe regie in maniera aperta alla compresenza di artisti di formazione diversa, ma sostanzialmente fedele alla tradizione locale di eredità normanna.A un'azione, documentata o almeno attestata, di F. come donatore di oreficerie è possibile, allo stato attuale, ricondurre solo pochissimi e fra loro distinti manufatti: per es. la stauroteca di Cosenza (Palazzo Arcivescovile), tradizionalmente ritenuta offerta dal sovrano nel 1222 in occasione della riconsacrazione del duomo (Di Dario Guida, 1984; Dolcini, 1987), opera di produzione palatina e desunzione normanna, nonché, con ogni evidenza, oggetto di 'appropriazione' simbolico-dinastica (Andaloro, in corso di stampa); tipologicamente assimilabile ad altre tre "cruces de auro cum ligno Domini" citate nell'inventario genovese (Byrne, 1935) e contenenti reliquie collegate alla crociata in Terra Santa, su di essa la presenza di inserti romboidali a smalto cloisonné viene ad agire da rimando e segno di continuità nei confronti di un motivo decorativo e, in parte, seriale dell'ergastérion palermitano della prima età sveva (Guastella, 1993), ricorrente anche nelle parti superstiti originarie dei prependúlia della corona di Costanza (Palermo, Mostra Permanente del Tesoro della Cattedrale), eseguita, quest'ultima, prima del 1220 e forse utilizzata dallo stesso F. per l'incoronazione imperiale a Roma. L'interpretazione di tale corona come kameláukion maschile (Deér, 1952; Schramm, 1955), già discussa in sede critica (Grabar, 1956; Wessel, 1960), offre semmai, alla luce di una recente revisione strutturale dell'oggetto, gravato da numerose interpolazioni, la possibilità di cogliere attraverso l'evidente contaminazione iconografica dell'insegna - tributaria, nell'incrocio degli archi o negli elementi gigliati, di tipologie occidentali - l'attività delle officine locali in una fase di transizione che ben si attaglia al clima culturale composito della corte.A un momento successivo appare viceversa riconducibile, sia pur problematicamente nell'ottica di una diretta committenza imperiale, il reliquiario con i resti di s. Elisabetta (Stoccolma, Statens historiska mus.) esumati a Marburgo nel 1236 alla presenza di F. stesso, ricordato esplicitamente dalle fonti nell'atto di donare come ricettacolo per il capo della santa un "cifum aureum in quo solitus erat bibere" (Schramm, 1955). Nel suo insieme l'opera appare oggi costituita, oltreché da una coppa di agata antica posta entro una montatura d'oro e pietre di epoca ottoniana, da una corona gigliata con archi incrociati alla sommità, già ipoteticamente identificata con quella offerta, nella medesima occasione, alla santa da parte del sovrano e proveniente "de suo thesauro sacro" (Schramm, 1955). Possibile risultato dell'assemblaggio di due pezzi distinti del sec. 13° e dunque più di recente accolta dubitativamente (Schramm, Mütherich, 19812; Sauerländer, 1994) come effettivo referente simbolico rituale della celebrazione di un evento dinastico (Abulafia, 1988), la corona è stata ricondotta ora a centri di produzione della Sassonia fra 1220 e 1230 (Goldschmidt, 1919), ora, più credibilmente, sotto il profilo esecutivo, a laboratori palermitani (Accascina, 1974), nel momento in cui questi risultano accogliere possibili elementi di gusto renano (Guastella, 1993).Al sussistere di un simile indirizzo nell'arte orafa di epoca federiciana rimandano sia la possibile importazione di lavori in bronzo, spesso di destinazione liturgica, sia l'accoglienza di opere di derivazione renano-mosana, forse anche eseguite localmente da orafi stranieri, quale potrebbe ritenersi la corona trafugata a F. dai Parmensi dopo la rotta di Vittoria (1248) e descritta nella Cronica di Salimbene de Adam ("Coronam imperii, que erat magni ponderis et valoris, et tota erat ex auro et lapidibus pretiosis intexta, multas habens ymagines fabrefactas et elevatas, ut celaturas putares"), forse assimilabile (Bologna, 1969) ai modi di Nicola di Verdun.Conferma dell'insistita attenzione del sovrano al possesso e al riutilizzo, in chiave ideologica, delle insegne del potere (Schramm, 1976; Elze, 1986), quale emerge dalle fonti nel caso per es. della lamentazione retorica attribuitagli - nella narrazione di Matthew Paris (Chronica maiora) - in concomitanza con la notizia della perdita della corona imperiale sancita dal concilio di Lione (1245), risulta, ancora, il ricordo di un faldistorio passato come bottino di guerra agli Angiò, da questi donato al papa e già smembrato nel 1311; quest'ultimo, elemento chiave di un'epifania cerimoniale ufficiale, spesso a carattere itinerante, "sedem imperialem aurea massa conflatam margaritis coruscantibus undique circumseptam" (Saba Malaspina, Rerum Sicularum libri VI), è forse identificabile con il faldasterium dato in pegno a Genova dai successori del sovrano a un gruppo della famiglia degli Spinola (Byrne, 1935).Per quanto concerne invece le categorie oggettuali documentate presenti fra le oreficerie federiciane, gli inventari fanno ancora riferimento a gemmae e camioli compresi in numero elevatissimo nel tesoro personale, cui si affiancavano le alias johyas, acquistate da mercanti provenzali (Huillard Bréholles, 1852-1861, V, pp. 477-478), gli anelli, le pietre guarnite d'oro e d'argento e, in aggiunta, pur se non in grandissima rilevanza, le suppellettili sacre, fra cui croci e reliquiari.Testimonianza di una circolazione di prodotti non imputabile alla sola attività delle camere regie di Lucera, Canosa, Melfi, Foggia o degli stessi palazzi di Palermo e Messina, bensì sostenuta da scambi, donativi diplomatici, prestiti forzosi di arredi liturgici e, non ultime, acquisizioni dotali, le tendenze di gusto della produzione suntuaria di afferenza federiciana sembrano in realtà definirsi ulteriormente nella ricerca di manifatture particolari ed eterogenee, in molti casi di provenienza orientale, al cui interno il possesso o l'elaborazione guidata di oggetti straordinari - fra tutti esemplificativo il congegno di uccellini meccanici alloggiati fra i rami di un albero in oro e argento forse utilizzato come parte ornamentale di un dispositivo ad acqua (Bausani, 1979) - fornisce il segno di un'eccezionalità e di una magnificenza regali.A un diretto rapporto con la committenza imperiale - fermi restando i limiti di una ancora irrisolta sistemazione storico-critica delle oreficerie sveve, gravate, sia pur nel segno di una innegabile continuità produttiva rispetto all'epoca normanna, da oscillazioni attributive di tipo tecnico e cronologico - è tuttavia possibile ricondurre sia la serie di piccole aquile gemmifere, dalla chiara simbologia araldica, in oro e pasta vitrea blu, proveniente dalle sepolture reali (Lipinsky, 1961; Federico II e la Sicilia, 1995) e confluita insieme ad altri smalti erratici sul paliotto tradizionalmente riferito all'arcivescovo Giovanni Carandolet (1520-1544) conservato a Palermo (Mostra Permanente del Tesoro del Duomo), sia verosimilmente alcuni degli elementi dell'apparato per l'investitura imperiale, come i guanti e la spada da cerimonia (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Schatzkammer). L'interpretazione di quest'ultima in termini di parziale rimaneggiamento di un'insegna più antica trova piuttosto, nella presenza sul fodero e sul bordo dell'elsa del caratteristico ornato romboidale a smalti di età sveva, ragioni di rimando a una formulazione di tipo imitativo, i cui scadimenti tecnici - resa poco funzionale della filigrana a vermicelli, confusione disegnativa e schematismo - hanno di recente favorito una possibile espunzione dell'opera dai prodotti dei laboratori palermitani (Pomarici, 1994).Come caute indicazioni d'ambito, inquadrabili piuttosto nell'ottica di una produzione di epoca sveva quando non addirittura sulla scia di un'eredità mediata e spesso di ardua definizione, debbono infine essere considerati: la croce di Veroli (Tesoro della Cattedrale), proveniente dall'abbazia di Casamari - uno dei cui abati, Giovanni V, era stato segretario dello stesso F. -, della quale si sono notate le assonanze con la plastica federiciana; la stauroteca di s. Clemente a Velletri (Mus. Capitolare), dono di Rainaldo dei Conti di Segni (1231-1254), legato pontificio alla corte imperiale, opera anch'essa caratterizzata dalla presenza di motivi tipici della produzione meridionale (filigrane, cestelli aurei per le perle, uso di grosse gemme); la testa-reliquiario di s. Demetrio (Veroli, Tesoro della Cattedrale), recentemente posta entro il raggio di influenza del Maestro della Porta di Capua (Mellini, 1978).
Bibl.:
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