GIULIANO (Flavius Iulianus Augustus) l'Apostata (ἀποστάτης; anche ταραβάτης "trasgressore"), imperatore
Figlio di Giulio Costanzo (nato dal matrimonio di Costanzo Cloro con Teodora) e di Basilina (figlia di Giulio Giuliano, prefetto del pretorio sotto Licinio e probabilmente console sotto Costantino nel 325), nacque a Costantinopoli verso la metà del 331. Vi passò l'infanzia, avendo perduto presto la madre, accanto al fratello Gallo, nato dal primo matrimonio del padre con Galla; essi soli furono risparmiati quando, dopo la morte di Costantino, furono trucidati tutti i discendenti maschi di Costanzo Cloro, tra cui appunto Giulio Costanzo e un suo figlio primogenito. Il bambino G., condotto per ordine di Costanzo II (v.) a Nicomedia presso la nonna e lo zio materni, fu educato sotto l'alta vigilanza dell'arianeggiante vescovo Eusebio (v.). Ma tracce ben più profonde lasciò nel suo animo il pedagogo, l'eunuco scita Mardonio, già maestro di Basilina. Pagano o cristiano che fosse, il vecchio schiavo, che avvezzò il discepolo a tenere modestamente lo sguardo volto a terra e lo condusse fino alle soglie della filosofia, era fervidamente innamorato della cultura classica: G. fu da lui educato nella lettura di Omero ed Esiodo, poi di Pindaro, Bacchilide, Isocrate; e a preferire gli spettacoli e le gare descritti nei poemi epici a quelli della realtà. È dubbio che seguisse poi Eusebio a Costantinopoli.
Morto costui, e quando i contrasti col fratello Costante, le minacce persiane e l'età dei cugini - sopra tutto Gallo - ebbero reso Costanzo II sensibile al pericolo che costoro potevano rappresentare per lui, un ordine dell'Augusto trasportò G. nella villa imperiale di Macellum (Μακέλλον, in Cappadocia); separato (secondo alcuni) dal pedagogo severo ma amato, G. fu ricongiunto al fratello, diverso da lui nel carattere, e poco amante degli studî. Furono - dice G. - sei anni d'internamento e di segregazione, lontano da ogni studio serio, avendo come soli compagni di giuochi e di esercizî ginnastici degli schiavi. Sottoposti a stretta vigilanza, sentivano spesso giustificare la condotta di Costanzo, sorpreso dalla violenza delle soldatesche che gli avevano forzato la mano. G. si rifugiò tra i libri, fornitigli dal vescovo ariano Giorgio, intruso in Alessandria al posto di S. Atanasio; alcuni ne copiò egli stesso. Nel frattempo compiva la propria istruzione religiosa e trovava nei riti e nelle cerimonie della Chiesa l'appagamento dei suoi impulsi mistici. Ricevette il battesimo più presto che non fosse uso in quei tempi e fu lettore; la conoscenza ch'egli dimostra degli usi ecclesiastici e soprattutto dell'organizzazione della beneficenza lascia supporre che non fosse lungi dal conseguire il diaconato, e che si pensasse allora d'avviarlo alla carriera ecclesiastica. Certo, di questa educazione religiosa l'opera e gli scritti di G. conservano tracce evidenti.
L'esilio finì quando, probabilmente nel 347 (altri crede nel 350-51 e quindi sposta l'inizio della segregazione a Macellum al 344-45), Gallo venne richiamato alla corte, in parte per prepararlo a raccogliere la successione (Costanzo era sempre in contrasto col fratello Costante, e non aveva eredi), in parte per poterlo vigilare più strettamente, giunto a un'età in cui ogni educazione era da considerare finita. G. tornò a Costantinopoli, ove ritrovò Mardonio (secondo altri, ne fu seguito) e frequentò le lezioni del grammatico pagano Nicocle e del retore cristiano (poi apostata e in seguito penitente) Ecebolio (secondo altri, ciò sarebbe da riferire a un soggiorno precedente, circa il 342). Poco dopo venne trasferito di nuovo a Nicomedia, dove avrebbe ripreso (o assunto) le funzioni di lettore. Ma già a Costantinopoli l'"ellenismo" esercitava su G. la sua suggestione; a Nicomedia questa attrazione fu anche più forte, attraverso gli appunti presi da studenti alle lezioni di Libanio, cui gli era vietato di assistere. A leggere e meditare era avvezzo da tempo; poteva giudicare, senza riguardi, la condotta dell'imperiale cugino. Il quale, preoccupato delle ribellioni in Occidente e di diffondervi l'arianesimo, affidava il governo dell'Oriente a Gallo, che il 15 marzo 351 era nominato Cesare e sposava Costanza, sorella dell'imperatore. G. rivide il fratello e ottenne la licenza di poter viaggiare per studio a proprio agio; riebbe anche intera l'eredità materna. Una breve peregrinazione presso i discepoli di Giamblico più noti, Edesio, Eusebio e Crisante, lo trasse ben presto a Efeso, da Massimo. Qui, presso il commentatore delle categorie aristoteliche, ma, come tutti i "filosofi" della sua scuola e forse in misura anche maggiore, soprattutto teurgo, fu consumata l'apostasia di G. ventenne: sotto forma di un'iniziazione ai misteri, culto visibile annunziatore delle realtà intelligibili, interpretazione e spiegazione dei miti indissolubilmente associati con la grandezza della Grecia nella poesia, nell'arte, nella politica; immedesimazione, infine, con un dio salvatore e datore d'immortalità, mentre solo alla pura contemplazione del filosofo iniziato si rivela la vera essenza del divino trascendente.
Gallo, che s'era dimostrato cattivo governante e aveva per di più provocato i sospetti di Costanzo, veniva chiamato a corte e messo a morte, verso la fine del 354, a Pola. Ma ora anche G., che s'era venuto acquistando negli ambienti colti una certa popolarità e sul quale cominciavano forse ad appuntarsi segrete speranze di vagheggiatori d'un ritorno al passato, fu chiamato presso l'imperatore. Questi, sospettoso e forse anche eccitato da cortigiani, tenne G. per mesi a Milano senza concedergli udienza. Quando gli fu accordata, in seguito all'intervento dell'imperatrice Eusebia, G. poté ottenere di ritornare in patria; ma nuove trame di delatori, facendo temere a Costanzo due nuove o congiure o tentate ribellioni, ravvivarono anche i sospetti su G.; al quale, in seguito ad una nuova intercessione dell'Augusta, fu ingiunto di fermarsi in Grecia, ad Atene, città politicamente di scarsa importanza.
Giunto in Atene verso la metà del 355, G., lieto d'avere ritrovato la tranquillità, si dedicò tutto alla filosofia, senza però manifestare apertamente la sua fede. Se contrasse amicizia col teurgo neoplatonico Prisco, assistette a lezioni del retore armeno e cristiano Proeresio; se conobbe, tra i compagni di studio, i due futuri vescovi Basilio di Cesarea e Gregorio di Nazianzo, nel visitare che fece la città e altri luoghi insigni della Grecia non trascurò certo altri filosofi, quali Ierio e Diogene, né i templi più celebri e i santuarî dei misteri. Ma improvvisamente G. si vide richiamato alla corte. L'Occidente resisteva alla politica religiosa di Costanzo, nelle Gallie l'infedeltà delle truppe e le sempre più audaci invasioni dei Germani erano una perpetua minaccia; ma anche l'Oriente richiamava l'attenzione dell'imperatore, anche il problema della successione al trono era rimasto insoluto. Inviare presso le legioni un principe incapace, ma rivestito d'una porpora che sarebbe bastata a frenare le velleità di qualche generale abile ma infido, era una soluzione. A eliminare i dubbî che nell'animo di Costanzo il ricordo di Gallo suscitò certamente, dovettero contribuire il pensiero di accordare al principe poteri solo nominali, ma sufficienti ad attribuirgli la responsabilità d'un insuccesso, e le esortazioni di Eusebia. Questa fece più volte giungere al cugino, prove della sua affettuosa simpatia. Ma G., sospettato, diventava sospettoso; il ricordo del fratello dovette più volte farlo fremere di terrore, d'orrore e d'indignazione. Comunque, filosofo e fatalista, forse in parte rassicurato dal ricordo del precedente soggiorno a corte e fidente nella cautela che le sue condizioni gli avevano appreso a esercitare, accettò. Giunto al palazzo, gli fu rasa la barba del filosofo, rivestì la clamide del soldato: goffo e impacciato, oggetto di scherno per tutta la corte. Il 6 novembre 355 Costanzo lo presentò solennemente alle truppe, lo rivestì della porpora di Cesare, lo ricondusse alla reggia sul proprio cocchio. G. mormorava fra sé "lo colse la morte purpurea e l'onnipotente Destino" (Iliade, V, 83): vedeva l'ombra del fratello, ma sentiva anche presenti gl'invisibili guardiani mandatigli da Pallade Atena, dal Sole e dalla Luna. Sposava poco dopo la sorella dell'imperatore, Elena (v. elena augusta, XIII, p. 634), di lui più anziana: ma quale l'unico figlio, nato morto (si disse, per manovre d'una levatrice istigata da Eusebia) tale fu il legame fra i coniugi. Quindi, con i libri donatigli da Eusebia, privo delle precise istruzioni scritte da lui richieste, accompagnato da funzionarî incaricati soprattutto di vigilarlo, e ignorando le reali condizioni del paese, partiva alla volta della Gallia. Qui, il 10 gennaio 356, riceveva le insegne del consolato.
G. capì d'essere stato inviato meno per comandare che per ubbidire, meno per governare che per presentare alle truppe le immagini dell'imperatore. Ma la profonda serietà del carattere e la fede nel destino gli ingiungevano d'esercitare di fatto quel potere di cui sentiva la responsabilità; convinto com'era, che anche degli errori altrui egli avrebbe pagato il fio. Due amici fedeli aveva condotto seco, l'africano Evemero, suo compagno nei sacrifici agli dei, e il medico Oribasio; un terzo lo trovò nel questore Secondo Saturnino Sallustio (o Saluzio), Gallo d'origine, ma "degno d'essere annoverato fra i più insigni dei Greci", che divenne il suo Mentore. Subito nell'estate diede prova di coraggio, raggiungendo rapidamente le truppe attraverso un territorio infestato da nemici. Ma la condotta effettiva della campagna spettò nella Rezia a Costanzo e sul medio Reno al generalissimo Marcello; ripresa Colonia, si tornò a svernare a Sens. Successo precario, ché nell'inverno ricominciarono le invasioni; e G. stesso, con scarse truppe, dovette sostenere un assedio d'un mese. Marcello, che non lo aveva soccorso, fu richiamato; si vendicò accusando G., che spedì alla corte, testimonî della sua fedeltà, l'eunuco Euterio e due panegirici, da lui composti, di Costanzo e di Eusebia. Sincere le espressioni di gratitudine per l'imperatrice; gli elogi - che il genere e le circostanze imponevano - di Costanzo, sono rivolti soprattutto alle virtù di lui: tra queste, la moderazione e la dolcezza. G. giunge a scusarlo (forse ironicamente? "costretto dalle circostanze e contro voglia, non potesti impedire che altri peccassero") per l'uccisione del padre e del fratello. Ma tra proteste di fedeltà e lodi, non una parola quale non potesse proferire un pagano filosofo; già manifeste alcune idee fondamentali per G. (p. es., i Romani sono coloro "che hanno ripreso quanto restava dell'Impero macedone" e l'avversione al culto imperiale); non meno palese, la richiesta d'una partecipazione reale al potere.
I generali furono sostituiti e G. ebbe il comando effettivo; ma a capo dell'esercito operante in Rezia fu posto uno di coloro che avevano rovinato Gallo: il conte Barbazione, la cui inattività o cattiva volontà impedì l'esecuzione del piano che, come l'anno precedente, mirava a prendere i nemici in una morsa, dall'ovest e dal sud-est. Lasciato solo contro gli avversarî, il filosofo G. - ma attento lettore di Cesare - attingeva dal culto di Mitra il coraggio e dalle stesse difficoltà insospettate doti militari, specie nella vittoria riportata sugli Alamanni presso Strasburgo. Passato il Reno e raggiunta una fortezza eretta da Traiano, G. nel ritorno punì predoni franchi presso la Mosa, fino al gennaio; lasciati nel maggio i quartieri invernali di Lutezia (Parigi), e passato nuovamente il Reno, riprendeva i prigionieri fatti dai Germani in Gallia, e riapriva il fiume alla navigazione. La campagna dell'anno successivo (359) consolidò la riconquista. Negl'inverni passati a Parigi - scelta senza dubbio per i vantaggi che la sua situazione offriva sia dal punto di vista militare sia per l'amministrazione, ma anche perché, a differenza di Treviri o Arles, non era mai stata residenza imperiale - si occupava del governo civile. Scrupoloso e amante della precisione, al prefetto Fiorente, che pretendeva stabilire un'imposta addizionale, dimostrò che, con equi sistemi di riscossione, si sarebbe raccolta la somma prestabilita, pur operando uno sgravio; come difatti avvenne. Ma quel suo intervenire negli affari irritava i funzionarî; nuove macchinazioni di Fiorente provocarono il richiamo di Sallustio, all'inizio del 359. Il dolore per la partenza dell'amico ispirò a G. una "Consolazione", in cui è già parola dei "miti incredibili" dei barbari (cristiani). Insieme, riprendeva, nell'inverno 358-359 il Panegirico a Costanzo, riscrivendolo, con l'evidente preoccupazione d'impedire che delle sue vittorie l'imperatore si adombrasse. Ma il panegirico convenzionale si trasforma in un elogio del principe ideale e in un trattato sulle qualità e i doveri dell'ottimo principe (Περὶ βασιλείας) ch'è un vero e proprio programma politico, in cui appaiono chiare anche la teologia e la filosofia neoplatoniche di G. (compresa la distinzione tra dei visibili e invisibili e la dottrina dell'anima).
G. chiamava intanto dalla Grecia "filosofi" e l'ierofante d'Eleusi per interpellarlo; a Oribasio confidava sogni prodigiosi. La rottura si veniva preparando: Costanzo ormai temeva G. o ne era geloso; questi era risoluto a non subire la sorte di Gallo. Unico parente in linea maschile dell'Augusto, e comportatosi sempre irreprensibilmente, disponeva d'un esercito, che sapeva comandare, né meno che con le armi sapeva difendersi con la penna; forte nell'Occidente, in prevalenza pagano, poteva contare sull'avversione dei cattolici per l'ariano Costanzo; aveva un partito in Oriente. Ma soprattutto, si sentiva in cuore la certezza del successo, più ancora, aveva fede nella propria missione di restauratore dell'Impero: missione affidatagli dallo stesso Sole protettore della dinastia. Comunque, G. sa che il suo fato è segnato dal corso immutabile degli astri; suo dovere, rassegnarsi alla volontà degli dei; così facendo, la sua sorte, la salvezza dell'anima, è certa. Tanto è il più forte, da potersi permettere di ammonire gl'inviati di Costanzo, presentatisi all'inizio del 360, ch'è un errore il concentrare in Parigi le truppe destinate, contro i patti di arruolamento, a combattere in Oriente. Quando i soldati malcontenti si ribellano, la notte, da una finestra del palazzo, mentre fuori le truppe lo salutano Augusto, G. contempla Giove, l'astro che concede ai sovrani il potere; nel sonno, il Genio dell'Impero gli appare a confortarlo. Così, al mattino, dopo che per esplorare nuovamente l'animo dei soldati e quasi per mostrarsi forzato, egli ha cercato ancora di dissuaderli, può cingersi il capo con il collare d'un centurione, invece di corona. Ma prima - e per la prima volta nella storia - il nuovo Augusto è stato levato sugli scudi, secondo il costume germanico.
G. si sarebbe forse accontentato, allora, d'una spartizione dell'Impero la quale, se Costanzo se ne fosse assunta formalmente l'iniziativa, avrebbe salvato e l'onore di lui e le apparenze della legalità. Le trattative continuarono, perché anche a Costanzo conveniva guadagnar tempo, per circa un anno. Nella primavera, morte anche Elena ed Eusebia, respinti nuovi assalti dei barbari, G. faceva avanzare tre eserciti, destinati a ricongiungersi nella Penisola balcanica: uno attraverso l'Italia, il secondo attraverso la Rezia e il Norico, il terzo, sotto il suo comando, attraverso la Foresta Nera e lungo il Danubio. A marce forzate, poi servendosi della flotta danubiana, giungeva in Pannonia, prendeva di sorpresa Sirmium (Mitrovica) e quindi svernava a Naisso (Niš). Di qui, proclamato ormai ribelle, tentava di conciliarsi l'opinione pubblica, con lettere inviate a varî personaggi e a importanti città dell'Impero, quali Roma, Corinto, Sparta, Atene. Nel messaggio agli Ateniesi leggiamo una serie di violente accuse contro Costanzo; il quale, mentre G. si veniva così consolidando, moriva, il 2 novembre 361. G. entrava poco dopo in Costantinopoli e rendeva al cugino solenni onori funebri, seguiti dall'apoteosi. Si sentiva l'eletto degli dei, ai quali ora sacrificava apertamente. Una lettera-trattato a Temistio espone di nuovo le sue teorie politiche fondamentali, ch'egli, pur con propositi di moderazione, si accinge a tradurre in atto, per riformare e salvare l'Impero.
Erede, ormai, di Costanzo (che si diceva lo avesse in fine designato), G. si guardò dall'offuscarne la memoria; si volse invece contro i suoi cortigiani, ai quali imputò i delitti commessi e la cattiva amministrazione. Li deferì a uno speciale tribunale supremo, al quale la partecipazione di due generali di Costanzo e l'adunarsi - sotto la presidenza di Sallustio - in Calcedonia, lungi dall'influenza della corte, diede garanzie d'imparzialità: sicché, se le condanne non ebbero carattere di vendetta politica, l'assoluzione di Pentadio, che G. aveva pubblicamente denunciato nel Messaggio agli Ateniesi, non giovò al prestigio dell'imperatore, costretto più tardi a colpire qualche altro, sfuggito al tribunale speciale. Intanto, diminuiva il personale della corte e degli uffici, semplificava il cerimoniale e chiamava alle cariche uomini di alta cultura e moralità. L'imperatore filosofo sa d'essere uomo, non paragonabile agli dei; cerca l'unione col divino attraverso la purificazione graduale dell'anima, procurata dalla filosofia stessa e dalle cerimonie del culto e ottenuta staccandosi al massimo dalle cose del mondo sensibile. Si modella su Marco Aurelio, anche nel mostrare deferenza ai consoli e al Senato e rispetto alla legge: già aveva proclamato dovere il re obbedire alle leggi, non signoreggiarle.
Ma G. persegue anche uno scopo finanziario. Come in Gallia, egli mira ad alleggerire l'onere tributario dei provinciali, senza danno per l'erario, mediante una ripartizione più equa, accompagnata da economie. Si sforza di ricostituire le curie, facendovi rientrare gli evasi e chiamandovi tutti coloro che abbiano mezzi, abolendo privilegi, tra cui quelli del clero cristiano, e insieme eliminando qualche misura più vessatoria; limita a 70 stateri il peso delle corone d'oro offertegli, ricordando insieme che si tratta d'un dono del tutto spontaneo in occasione della sua ascesa al trono; riorganizza le poste, riducendo i permessi di servirsi del cursus publicus, diminuendo le distanze fra le tappe, alleggerendo così le finanze cittadine. E anche nell'amministrazione della giustizia, nelle cure date all'addestramento dell'esercito e alla difesa del confine danubiano si manifesta il suo concetto dell'Impero e delle sue condizioni.
G. ha coscienza della crisi e tenta appunto di rimediare. Ma contrario - per le sue dottrine filosofiche - alla successione ereditaria (con poca speranza Libanio gli augura un figlio), concepisce ancora la dignità imperiale come una specie di magistratura più alta; buon conoscitore della storia romana, ha dei suoi predecessori una nozione tutta fondata sulla storiografia tradizionale (molto su Svetonio), di cui ripete i giudizî. Debole in lui, nonostante il desiderio di mantenersi fedele alle tradizioni della sua dinastia, l'attaccamento alle memorie tipicamente romane; Alessandro è superiore a tutti i Cesari, escluso il solo Marco Aurelio, e del resto i Romani non sono che i successori dei Greci. G. si sente greco e, proclamato imperatore, chiede al fido Euterio di sacrificare "non a pro d'un solo uomo, ma per la comunità degli Elleni" (ὑπὲρ τοῦ κοινοῦ τῶν ‛Ελλήων, ep. 69; Bidez, Lettres, p. 55). E questo suo modo di pensare spiega anche la sua politica finanziaria, rivolta più a migliorare le condizioni delle singole città, che dell'Impero nel suo complesso: quasi che questo fosse stato una confederazione di città-stati; e quasi che la crisi dell'Impero non fosse dipesa in massima parte da ragioni morali, forza di volontà e fede degli uomini, senza di cui leggi e riforme restano inefficaci.
Così possiamo comprendere l'aspetto più generalmente noto dell'opera di G.: la sua politica religiosa. La quale, incominciata con la tolleranza, da lui bandita già in Gallia prima di muovere contro Costanzo, finì con la persecuzione. Momenti culminanti, i tre celebri editti, sul ritorno in patria dei vescovi esiliati da Costanzo, sui maestri, sui funerali. Il primo mirò forse realmente alla pacificazione, e la riposta intenzione di far riaccendere le discussioni tra cristiani potrebbe non essere che una delle sottili insinuazioni anticristiane di Ammiano Marcellino. G. aveva infatti veduto in Occidente l'indignazione provocata dalla politica filoariana di Costanzo, sapeva dei disordini suscitati in Africa dalla politica repressiva contro i donatisti, cui concesse un rescritto favorevole: dapprima egli dovette credere veramente che bastasse ritornare alle condizioni stabilite dall'editto di Milano, perché il culto degli dei rifiorisse dovunque. Ma tornare a quel regime di semplice tolleranza per il cristianesimo significava annullare molti privilegi, mutare in vari luoghi rapporti giuridici che si ritenevano stabili, imporre restituzioni che parevano, ormai, spogliazioni ingiuste e, d'altra parte, autorizzare vendette. In molti luoghi, la reazione dell'elemento pagano contro gli spogliatori dei templi fu così violenta, da trascendere le intenzioni dell'imperatore. Il quale non agiva per motivi politici, né, per il paganesimo, si contentava d'una semplice tolleranza, sola cosa che la situazione ormai consentisse; ma, uomo di una fede, non sa passare dai rimproveri ai fatti e punire gli Alessandrini per l'uccisione di quel vescovo Giorgio, la cui biblioteca, a lui ben nota, cercò poi di assicurarsi.
Sicché non è affatto necessario cercare nell'influenza di Massimo d'Efeso o degli altri teurgi, di cui G. si circondò, le ragioni dell'inasprirsi della sua politica anticristiana, cui si accompagnò l'organizzazione del culto pagano. Anzi, in certo qual modo, è il cristianesimo che l'ispira. L'editto sui maestri dichiara che Omero ed Esiodo, Eschilo e Pindaro non possono essere letti e commentati - se non con ipocrisia, che rende indegni di esercitare l'insegnamento - da coloro che non credono negli dei. Il celebre provvedimento, che equivaleva a chiudere ai cristiani le scuole, e provocò le dimissioni di maestri illustri, ci dice che l'imperatore, ben lungi dall'esercitare la tolleranza, dal professare la neutralità dello stato di fronte alle diverse credenze, ha una sua teologia, e questa impone che sia insegnata; lo stato ha una sua eticità, sanzionata da una sua religione. I miti della Grecia - che G. interpreta allegoricamente, ma difende anche contro le accuse dei cinici, non tollerati neppur essi, del pari che gli epicurei - non sono semplici adornamenti poetici, ma espressioni d'una verità in cui G. crede, e che egli vuol far trionfare: verità ch'è d'origine divina, verità rivelata. Ma il cristianesimo si prendeva anche un'altra significativa rivincita contro G.: tutta la sua organizzazione del sacerdozio e del culto - in senso sincretistico, con un sacerdozio unico per le varie divinità e gerarchicamente ordinato sotto la direzione suprema dell'imperatore, pontefice massimo - riprendeva sì il tentativo di Massimino Daia, ma, più ancora di questo, era un'imitazione degli usi cristiani: non solo nella disciplina e nell'austerità di vita, che G. impone in vere e proprie "lettere pastorali", ma nel regolamento del culto, nello stabilire una predicazione, nell'organizzare la beneficenza e la vita ascetica, nel disporre una serie di cerimonie d'iniziazione e una specie di penitenza canonica. Il preteso razionalista, che deride il Cristo perché rimette i peccati, esalta per bocca di Alessandro Magno "il pentimento, spirito veramente divino che redime il peccatore"; impone a un funzionario una specie di scomunica per tre mesi.
Queste ultime misure per la restaurazione del paganesimo furono prese da G. in Antiochia, ov'egli giunse (dopo aver visitato nel viaggio il santuario di Cibele a Pessinunte) nel luglio del 362, per preparare la spedizione contro la Persia. In Antiochia egli ritrovò Libanio, ma la gioia gli fu amareggiata da una serie di delusioni. I provvedimenti finanziarî e annonarî, tra cui un nuovo editto sui prezzi, riuscirono solo ad accrescere la carestia e irritare la popolazione. Circolavano, contro il devoto, accigliato e barbuto filosofo regnante, le satire, che provocarono il Misopogon: sfogo troppo sincero d'un animo esacerbato e deluso, per giungere all'ironia che pure sferzando sorride, anziché all'invettiva. Ma le disillusioni di G. non ebbero per sola causa la resistenza dei cristiani.
In realtà, eccetto per alcuni fatti - come l'aperta sfida di Atanasio, ritornato senza autorizzazione in Alessandria, o la protesta di Tito di Bostra - l'opposizione cristiana si manifesta in episodî, che irritano, rendono anche ridicolo G., ma non hanno nulla di eroico. Celebre è tra questi l'incendio del tempio di Apollo a Dafne presso Antiochia, dove G. aveva fatto rimuovere il corpo di S. Babila, sepolto lì presso, perché secondo lui, contaminando l'aria, aveva ridotto al silenzio l'oracolo; onde poi, per ritorsione, e giustificato dagli stessi motivi di purità rituale, il vessatorio divieto di condurre funerali di giorno e il permesso accordato agli Ebrei di ricostruire il tempio di Gerusalemme, allo scopo di mostrare vana una presunta profezia di Gesù. Ché per G. il Dio degli Ebrei non è che uno di quegli dei inferiori, da cui dipendono le singole nazioni. E quando un terremoto fa abbandonare i lavori, G. si consola: i profeti hanno deriso gl'idoli di legno e di pietra, soggetti a corruzione, ma ora il tempio del loro Dio subisce la stessa sorte.
Ma cinnquant'anni di pace e privilegio avevano affievolito ormai nel cristianesimo l'afflato eroico primitivo come le accese speranze escatologiche; e sul lettore moderno l'effetto delle invettive di S. Gregorio di Nazianzo o dei carmi di S. Efrem siro è inevitabilmente diminuito - specie in confronto con scritti di S. Atanasio - dal fatto che furono redatti dopo la morte di G. Questi raccoglie contro i "galilei" (come li volle ufficialmente chiamati) le accuse di Celso e di Porfirio, affetta di prenderli in parola allorché, ricordando che Cristo vieta di portare la spada e di resistere al male, li esclude dai pubblici uffici; ma i cristiani ormai non chiedono di meglio che di servire lo stato. La reazione cristiana non fu mai così forte da costituire veramente un pericolo per la pace dell'impero. E G. stesso, che, imbevuto d'idee neoplatoniche, non accettava né il dualismo né l'escatologia dei misteri di Mitra, era assai più vicino che non credesse alla teologia cristiana dominante in Oriente. Dell'essere esclusi dalla cultura classica i cristiani si lagnarono acerbamente, e il tentativo assurdo degli Apollinari di Laodicea dimostra come premesse loro di non staccarsene, come avessero ormai assorbito il patrimonio culturale dell'antichità. Se non la risurrezione totale - cosa impossibile - di esso, certo la sua conservazione e trasmissione era ormai affidata, più che a G., proprio a quel cristianesimo ch'egli perseguitava.
Ma, se pochi per Cristo, forse nessuno e forse neppure lo stesso G. era disposto ad affrontare la morte per gli dei. Accanto agli apostati dal cristianesimo, passati magari nel sacerdozio pagano, troviamo perfino tra gl'incaricati d'attuare la politica imperiale, tra i più vicini a G. stesso, i deboli e gli scettici; da troppo tempo avvezzi a lamentarsi passivamente e cercare il quieto vivere. Ove si escludano episodî di violenza, sporadici e probabilmente effetto di condizioni locali, non troviamo, nel paganesimo che G. voleva far risorgere e dominare, un vero spirito di proselitismo e di conquista. Di tutta la corte, forse il solo imperatore ha fede nella propria opera e nel proprio destino; e il suo stesso temperamento di mistico lo porta a negare gli ostacoli, a ostinarsi, e gli dà energia e prontezza nel momento dell'azione.
Con questa fede, e col desiderio d'emulare Alessandro e Traiano, e più ancora, forse, di accrescere il proprio prestigio, G., che aveva asserito confini naturali dell'impero il Danubio e l'Eufrate (Cesari, 326 c), mosse contro la Persia. Contava senza dubbio sulle sue qualità militari; ma s'illudeva certo anche sulle conseguenze d'una vittoria, che comunque non avrebbe annientato un nemico troppo potente, pur indebolendo l'impero. Tuttavia, sdegnando ogni tentativo di accomodamento, fidando solo nell'alleanza dell'Armenia e conducendo seco l'esule Ormisda, G. avanzò fino a Carre (Ḥarrān); lì, divise l'esercito in due parti, una delle quali avrebbe dovuto seguire il Tigri, ricongiungendosi con gli Armeni per poi dargli man forte in Mesopotamia; l'altro, guidato da lui, scese lungo l'Eufrate. L'avanzata procedeva bene; le fortezze d'Anatha, Pirisabora, Maiosamalca furono prese; un'altra vittoria non impedì ai nemici di chiudersi in Ctesifonte. Ed ecco G., disperando di prendere questa città con un assedio, risalire verso il Tigri alla ricerca dell'altro esercito, guidato da Procopio. Smarritosi in un territorio sconosciuto, inseguito ormai dai Persiani, G. dovette accettare, il 26 giugno, la battaglia impostagli; un giavellotto, lanciato non si sa da chi, lo colpì a morte. Portato nella sua tenda, confortato da Oribasio, Sallustio, Prisco e Massimo, fidente nel destino della sua anima, moriva poco dopo, a trentadue anni, dopo venti mesi di regno. Gioviano, poi Procopio, alla testa dell'esercito invitto, e pur costretto a una pace umiliante, ricondusse la salma di G. a Tarso, ove già, partendo da Antiochia, aveva divisato di ritornare. Quanto poco egli possedesse il senso della realtà, dimostra, forse più d'ogni altro suo atto, proprio l'ultima spedizione, paragonabile - come fu paragonata - alla napoleonica campagna di Russia. Il principe che sognava di restaurare l'impero ne indebolì le forze a un punto, che divenne palese più tardi, nell'infausta giornata di Adrianopoli.
Fonti e ediz.: In primo luogo, gli scritti superstiti dello stesso G.: Primo panegirico di Costanzo (‛Εγκώμιον εἰς τὸν αὐτοκράτορα Κονστάντιον, Orat., I); Panegirico di Eusebia (Εὐσεβίας τῆς βασιλίδος 'Εγκώμιον, Orat., III); Secondo panegirico di Costanzo (Περὶ τῶν τοῦ αὐτοκράτορος πράξεων, ἢ περὶ βασιλείας, Orat., II); Consolazione per la partenza di Sallustio ('Επί τῇ ἐξόϑῳ τοῦ ἀγαϑωτάτου Σαλουστίου παραμυϑητικὸς εἰς ἑαυτόν, Orat., VIII); Messaggio agli Ateniesi ('Αϑηναίων τῇ βουλῇ καὶ τῷ δήμῳ); Lettera al filosofo Temistio (Θεμισρίῳ ϕιλοσόϕῳ); Contro il cinieo Eraclio (Πρὸς ‛Ηράκλειον κυνικόν, Orat., VII); Alla madre degli dei (Εἰς τὴν μητέρα τῶν ϑεῶν, Orat., V); Contro i cinici ignoranti (Εἰς τοὺς ἀπαιδεύτους κύνας, Orat., VI); In onore del Re Sole (Εἰς τὸν βασιλέα "Ηλιον, Orat., IV); I Cesari o La festa dei saturnali o Il banchetto (καίσαρες, Κρόξια, Συμπόσιον); Misopogone (Μισοπώγων "nemico della barba", o 'Αντιοχικός "discorso antiocheno"); Contro i cristiani (Κατὰ Γαλιλαίων λόγοι). Quest'ultima ci è giunta in frammenti, quasi soltanto del primo dei tre libri di cui si componeva, attraverso citazioni soprattutto nella confutazione di Cirillo di Alessandria. Altri scritti, di carattere teologico, militare e politico sono perduti, o ne abbiamo frammenti insignificanti. L'enumerazione data sopra segue l'ordine cronologico che, col Bidez, riteniamo più probabile, e cioè: i primi quattro, scritti in Gallia; i due successivi, prima dell'ingresso a Costantinopoli; in questa città, i tre seguenti (l'Orat., VI nella primavera-estate del 362); gli ultimi in Antiochia (alcuni vorrebbero però I Cesari composto a Costantinopoli). Numerose poi le lettere; relativamente poche, e parecchio interpolate, le leggi. Le edizioni, di D. Petau, Iuliani imper. opera (Parigi 1630), Spanheim, Iuliani Imperatoris opera (Lipsia 1696) e F. C. Hertlein, Iuliani imperatoris quae supersunt (ivi 1875-76), sono o stanno per essere superate definitivamente da: Iuliani imperatoris epistulae leges poematia fragmenta, ed. J. Bidez e F. Cumont (Parigi 1922); L'Empereur Julien, I, 1: Discours de Julien César (ivi 1932); I, 11: Lettres (ivi 1924), ed., trad. e comm. di J. Bidez. Del Contra Christianos, ed. C. J. Neumann (Lipsia 1880). Traduzioni ital. di A. Rostagni (v. bibl.) e di R. Prati: Degli dei e degli uomini (Bari 1932: Al re Sole, Alla madre degli dei, Contro il cinico Eraclio, ecc.). Indice dei testi epigrafici, in De Ruggiero, Dizion. epigr., IV, s. v.
Altre fonti principali: Ammiano Marcellino e gli storici ecclesiastici: Socrate, Sozomeno, Teodoreto e Filostorgio; Libanio; Temistio; Gregorio di Nazianzo, Orat., IV e V; Eunapio; il Panegirico (Gratiarum actio Iuliano) di Mamertino.
Bibl.: J. Bidez e F. Cumont, Recherches sur la trad. manus. des lettres de l'emp. J., in Mém. de l'Acad. roy. de Belg., LVII (1898); W. Koch, Kaiser J. der Abtrünnige, Lipsia 1899 (Jahrb. f. Klass. Philol., suppl. XXV); id., in Rev. Belg. de Philol., VI (1927), pp. 123-148 e VII (1928), pp. 1363-1385; G. Negri, L'imp. G. l'A., Milano 1901; P. Allard, J. l'A., 3ª ed., Parigi 1906-1910, voll. 3; R. Asmus, Julians Galiläerschrift, Friburgo in B. 1904 (progr.); id., Die Invektiven des Gregorius v. Naz., in Zeitschr. f. Kirchengesch., XXXI (1910); id., Kaiser J.s Misopogon und seine Quelle, in Philologus, 1920-21; G. Mau, Die Religionsphilosphie Kaiser Julians, ecc., Berlino-Lipsia 1907; C. Barbagallo, G. l'A., Roma 1912; id., Iulianus, in De Ruggiero, Dizion., cit., IV (1930); J. Bidez, L'évolution de la politique de l'emp. J. en matière religieuse, in Bull. de l'Ac. roy. de Belg., Cl. de Lettres, 1914, n. 7, pp. 406-461; id., La tradition manus. et les éditions des discours de l'emp. J., Gand-Parigi 1929; id., La vie de l'emp. J., Parigi 1930; J. Geffcken, K. Julianus, Lipsia 1914 (Das Erbe der Alten, 8); id., Der Ausgang des gr.-röm. Heidentums, Heidelberg 1920, p. 115 segg.; E. v. Borries, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., X (1917), s. v.; A. Rostagni, G. l'A. (con le operette satiriche e politiche trad. e comm.; A Temistio, Agli Ateniesi, Cesari, Misopogon, C. Crist.), Torino 1920; W. Ensslin, K. Julians Gesetzgebungswerk und Reichsverwaltung, in Klio, XVIII (1922), p. 104 segg.; F. Boulenger, Essai crit. sur la syntaxe de l'emp. J., Parigi 1922; id., L'emp. J. et la rhétorique grecque, in Mélanges phil. et hist. Mém. Fac. cath. Lille, XXXII (1927), pp. 17-32; F. Schemmel, Die Schulzeit des K. J., in Philologus, 1927, pp. 455-466 (cfr. W. Koch, in Rev. Bel. de philol., 1928); G. Coppola, La politica religiosa di G. l'A., in Civiltà moderna, 1930; R. Andreotti, L'impresa di G. in Oriente, in Historia, IV (1930), pp. 236-273; id., L'opera legisl. e ammin. dell'imp. G., in Nuova riv. stor., XIV (1930), pp. 342-383. Sull'iconografia: E. Babelon, L'iconotraphie monétaire de J. l'A., in Revue numismat., s. 4ª, III (1903); R. Andreotti, in Boll. Comm. Arch. Com. Roma e Boll. mus. d. Imp., LIX (1931, ma Roma 1932), append., pp. 47-58 (favorevole al busto di Acerenza).