Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I grandi spazi asiatici controllati dagli Imperi Moghul (India) e Qing (Cina) sono ancora nella seconda metà del Settecento caratterizzati da un notevole dinamismo e prosperità. Negli ultimi decenni del Settecento e nella prima metà dell’Ottocento, l’intervento politico e militare delle potenze occidentali, e in particolare della Gran Bretagna, porta però all’assoggettamento diretto o indiretto dei grandi imperi asiatici con conseguenze profonde per le loro economie e strutture sociali. L’apparato manifatturiero indiano viene sacrificato agli interessi industriali britannici e sostanzialmente smantellato mentre la Cina deve piegarsi alle ingiunzioni occidentali e aprire la sua economia alle importazioni esterne, soprattutto di oppio, con conseguenze sociali e finanziarie disastrose.
L’Asia nel mondo globale prima del colonialismo
Nel corso del XVII e XVIII secolo gli imperi commerciali delle Compagnie delle Indie orientali olandese e inglese estendono il loro raggio d’azione su tutta l’Asia meridionale. Sul modello olandese, anche gli Inglesi scelgono la strada della costruzione di rapporti informali e di un controllo indiretto fondato su rapporti di alleanza con i poteri locali e l’inserimento nelle reti di relazioni commerciali tradizionali che legano in un unico sistema i mercati e gli imperi del continente.
Ancora a metà del XVIII secolo l’Asia meridionale rappresenta un immenso mondo di relazioni commerciali, culturali e politiche, fortemente interconnesso sul piano economico grazie alle regole comuni rispettate dalle gilde e dalle comunità mercantili (persiane, banyan, parsi, cinesi, egiziane e armene), che estendono i propri interessi e la propria influenza dal Mar della Cina al Golfo Persico e al Mar Rosso. I pilastri su cui il sistema asiatico si regge sono rappresentati dall’Impero cinese ad est, dall’Impero Moghul nel subcontinente indiano e, fino ad un certo punto, dall’Impero ottomano ad ovest.
Agli occhi di un attento osservatore come Adam Smith, ma lo stesso si potrebbe dire di altri intellettuali europei suoi coevi (Raynal e Voltaire tra gli altri), l’Asia rappresenta il cuore pulsante dell’economia mondiale, i suoi imperi sono i veri centri della ricchezza su scala globale: quando Smith deve indicare degli esempi storici ed economici per illustrare la superiorità e l’efficacia di un modello di politica economica è all’Impero cinese che guarderà, così come i suoi discepoli indicheranno l’Impero ottomano come esempio efficace di un mercato di libero scambio. Ciò che è spesso implicito nella visione dell’Asia propria del secolo dei Lumi è l’assenza di una percezione di superiorità, anche (o soprattutto) economica, dell’Occidente verso i grandi imperi asiatici: cosa di cui si troverà ancora traccia nel pensiero di alcuni intellettuali fino agli anni Trenta e Quaranta del secolo successivo, come per esempio in Carlo Cattaneo.
L’idea di un Asia avvolta in un lungo Medioevo e caratterizzata da una lenta e inesorabile decadenza che può essere fermata solo con l’apertura alla modernità (occidentale), al libero mercato (britannico) e al cristianesimo, senza il quale non si potrebbero generare gli altri processi, è costruita dalla stampa anglo-sassone a partire dagli anni Venti-Trenta del XIX secolo: la pubblicistica missionaria protestante statunitense avrà una notevole influenza in questo processo. E trae la sua origine dalla trasformazione delle politiche imperiali britanniche a partire dalla fine dell’Impero Moghul in India, seguita alla battaglia di Plassey nel 1757, con la quale la East India Company elimina definitivamente la concorrenza francese nel subcontinente e sovverte il potere Moghul, inserendosi nelle lotte di potere interne.
L’India, la East India Company e l’impero
Dopo Plassey, per venti anni la Compagnia si dedicò a un vero e proprio saccheggio delle ricchezze dell’impero, oltre che alla completa disarticolazione di quella che era forse una delle più avanzate economie del mondo, tanto da sollevare l’indignazione della stessa opinione pubblica inglese per la corruzione dei suoi funzionari e i loro eccessi.
Nelle politiche della East India Company la distruzione dell’economia tradizionale, con i suoi contrappesi sociali, e gli interventi volti a limitare e frenare lo sviluppo dell’industria indigena, con lo smantellamento di gran parte delle manifatture esistenti impegnate nella produzione delle cotonate, si associano all’introduzione dell’economia di piantagione, a partire da Ceylon, ex possedimento olandese, occupato dai Britannici durante le guerre napoleoniche, ma soprattutto dal Bengala. Quest’ultima è la regione economica chiave dei possedimenti della Compagnia, ed è qui che inizia a svilupparsi su vasta scala la coltivazione del papavero da oppio, importata dagli Inglesi dalla Persia e gestita sulla base del monopolio della Compagnia stessa, sostituito dopo il 1858 da quello dell’amministrazione centrale britannica. Insieme alla coltivazione del tè, l’oppio sarà all’origine di un vero e proprio rivolgimento delle strutture economiche asiatiche.
Il governo britannico, sollecitato dal parlamento, dal 1793 impone crescenti limiti all’azione della Compagnia e un controllo politico diretto sempre più ampio, fino alla grande rivolta dei sepoys, la milizia indigena al servizio dei britannici (The Great Mutiny), nel 1857, che dimostra l’inadeguatezza dell’amministrazione e della difesa dei possedimenti indiani, facendo temere la cacciata dal Paese degli Europei. Nel 1858, la East India Company viene sciolta e le aree sotto il suo controllo divengono possedimento della Corona: ha inizio il vero e proprio British Rule. Nel 1876, per impulso del primo ministro Benjamin Disraeli, la regina Vittoria viene proclamata imperatrice dell’India. Il controllo sul subcontinente indiano e l’idea stessa di “impero britannico” coincideranno fino al punto che l’indipendenza dell’India e del Pakistan nel 1947 sarà percepita come la fine dell’Impero britannico.
L’amministrazione britannica subentrata dal 1858 si dimostra capace di venire a capo della diffusa corruzione e arbitrarietà dell’azione degli agenti della Compagnia: crea un corpo di funzionari selezionati e preparati con cura, il Civil Service, per garantire l’efficienza nella gestione coloniale; coltiva e rafforza una élite indigena il cui scopo è quello di affiancare i Britannici, pur in posizione subordinata dal punto di vista politico ed economico.
L’impatto economico della dominazione britannica
Se i funzionari britannici dimostrano la loro abilità ed efficienza cionondimeno questa è volta a garantire i prevalenti interessi della madrepatria: la costruzione di infrastrutture è legata alle esigenze militari ed economiche dell’amministrazione coloniale più che a un razionale ed equilibrato sviluppo del Paese; la scelta delle colture da sviluppare sulla base del sistema di piantagione non tiene a sufficienza conto delle esigenze di approvvigionamento alimentare della popolazione indigena e saranno milioni gli Indiani che moriranno di fame nelle periodiche carestie. Inoltre l’India consente all’impero di arruolare qui la maggior parte delle truppe che combattono nelle guerre coloniali ed europee, senza dover gravare sui bilanci di Londra. Infatti, i monopoli che fanno capo all’amministrazione britannica, primo fra questi quello dell’oppio, e la forte pressione fiscale sulla popolazione indigena sono le fonti che permettono, con il surplus della bilancia commerciale, di finanziare il controllo della colonia senza che questa debba dipendere da aiuti esterni. Dopo il 1858, l’India vede crescere costantemente le proprie esportazioni sia all’interno che all’esterno dell’impero, garantendo un costante surplus commerciale: si esporta juta, cotone, indaco e tè in Europa; oppio, riso e argento in Asia Orientale. Formalmente il suo commercio estero segue i principi del Free Trade, ma un pervasivo sistema di preferenze condiziona le sue importazioni che, fino alla fine dell’Ottocento, provengono all’85 percento dal Regno Unito (rappresentando il 13 percento delle complessive esportazioni britanniche) e ancora al 60 percento nel 1914. Se prendiamo in considerazione i tessuti di cotone del Lancashire esportati in India si passa dal 18 percento del valore complessivo delle esportazioni della regione nel 1850, al 27 percento nel 1896: l’India diventa così un fondamentale mercato di esportazione per l’industria cotoniera di Manchester, e un simile rapporto si sviluppa anche con l’industria della juta di Dundee e con la produzione delle acciaierie di Sheffield. Quando dal 1894 il governo coloniale reintrodurrà un sistema di dazi doganali, le principali importazioni britanniche ne saranno esentate (Cain, Hopkins, 2002)
La Cina, l’oppio e l’imperialismo europeo
Dal 1644 l’Impero cinese è governato da una dinastia straniera, i Qing, di etnia Manciù. Se a lungo si è considerato che il periodo Qing fosse caratterizzato da un processo di decadenza del Paese, la storiografia contemporanea ha ampiamente mostrato come attorno alla metà del XVIII secolo la Cina imperiale abbia probabilmente raggiunto il più alto livello di sviluppo economico della sua storia millenaria, così come nello stesso periodo si sono raggiunti i più alti livelli in termini di reddito pro capite, disponibilità alimentari, abitative e di condizioni sanitarie. Alla fine del secolo, l’Impero Qing è in piena fase espansiva: tra il 1790 e il 1812 raggiunge la sua massima estensione territoriale e Pechino, la capitale, mantiene ancora saldamente il controllo del sistema tributario che lega a essa buona parte dei Paesi dell’Asia meridionale e orientale. Dunque quello con cui entrano in contatto gli occidentali è un impero ricco e in fase di espansione. Quando nel 1793, Lord Macartney, inviato da Londra, incontra il rifiuto cinese all’apertura del proprio mercato al commercio britannico, non comprende che tale rifiuto non è determinato da una xenofoba volontà di isolamento, ma piuttosto da un consapevole senso di superiorità nei confronti dell’interlocutore e da un razionale calcolo dei costi e dei benefici di tale apertura.
Qualcosa però ha cominciato ad incrinarsi. La East India Company ha relazioni commerciali con i mercanti cinesi già dall’inizio del secolo, ma è con il diffondersi del consumo di tè in Europa che avviene il passaggio verso un sistema di scambi su larga scala. Fino alla fine del XVIII secolo chi vuole importare tè deve necessariamente andare a procurarselo in Cina, l’unico Paese in grado di fornire una produzione di qualità e dimensioni sufficienti. Poiché il mercato cinese non trova alcun interesse nei prodotti occidentali, il tè destinato ai mercati europei non può essere scambiato con altri prodotti ma deve essere pagato in moneta contante o nel suo equivalente in metalli preziosi. In particolare, la Cina richiede il pagamento in argento poiché è il metallo di riferimento del suo sistema monetario. La Compagnia delle Indie deve dunque procurarsi e trasportare ingenti quantità di argento dall’India alla Cina con i costi e rischi che questo comporta, senza riuscire a trovare prodotti sostitutivi che rendano più vantaggioso il proprio commercio, se non l’oppio, esportato inizialmente dalla Persia e successivamente importato dalla Compagnia nel Bengala. Dopo il 1757 la sua coltivazione è rapidamente estesa e la sua esportazione cresce di anno in anno in maniera esponenziale pur non essendo ancora sufficiente a coprire il valore complessivo delle importazioni di tè.
La guerra dell’oppio e i “trattati ineguali”
La svolta la si ha nel momento in cui i Britannici sviluppano le prime piantagioni di tè a Ceylon e nel sud dell’India. Dai primi dell’Ottocento, il tè indiano inizia a sostituire quello cinese sui mercati europei. A questo punto però l’importazione di oppio in Cina ha raggiunto un livello tale da far sì che il tè non sia più sufficiente a garantire lo scambio, e il suo valore cresce costantemente. La Compagnia, quando inizia a crearsi un surplus commerciale, richiede che l’oppio venga pagato non in argento, di cui i Cinesi hanno sufficienti riserve, ma in oro. Questo aspetto diviene più rilevante nel momento in cui, tra il 1818 ed il 1821, il Regno Unito adotta il gold standard provocando una progressiva svalutazione dell’argento rispetto all’oro. La crescita del consumo di oppio nel Paese e la sempre più rilevante fuoriuscita di metallo prezioso in un momento di difficoltà finanziarie dell’impero, spingono il governo a reagire incaricando come commissario responsabile della lotta contro il traffico dello stupefacente Lin Zexu, che adotta una serie di misure per reprimere il consumo di oppio e fermarne il contrabbando, che a sua volta spinge la Compagnia e altri contrabbandieri (tra questi Jardine e Matheson fondatori di una delle più importanti imprese britanniche operanti in Asia) a fare pressioni su Londra.
Il risultato è l’intervento militare che prende il nome di prima guerra dell’oppio, 1839-1842 (una seconda guerra dell’oppio, nel 1858-1860, vedrà la Francia affiancare il Regno Unito). Significativamente, tra le motivazioni che vengono addotte per giustificare l’intervento non si fa alcuna menzione della questione dell’oppio: la guerra scoppia per aprire la Cina al “libero mercato” e, per conseguenza, alla “civiltà” e al cristianesimo per farla uscire dal suo millenario “torpore” (nel 1839, uno degli slogan utilizzati dalla propaganda liberoscambista della Anti Corn Law League, favorevole alla guerra con la Cina, sarà “Il libero commercio è Gesù Cristo”).
Il bombardamento delle città costiere da parte dei Britannici e i timori di instabilità interna spingono il governo imperiale a destituire Lin e ad accettare il trattato di Nanchino del 1842, il primo dei “trattati ineguali”, concedendo l’apertura al commercio occidentale di alcuni porti e la cessione in affitto dei territori su cui sorgerà Hong Kong. I cosiddetti porti aperti, dove gli occidentali godono di vantaggi commerciali (e talvolta di extraterritorialità, come a Shanghai) arrivano nel corso dell’Ottocento a essere 27, ma a ciò non corrisponde un proporzionale incremento delle esportazioni. Coloro che vedono la Cina come un potenziale enorme mercato di sbocco per i loro prodotti (gli old China hand) continuano a chiedere un’ulteriore estensione dei privilegi e l’apertura di nuove città al commercio europeo ma di fatto l’oppio resta la prima voce di importazione nel Paese, raggiungendo il suo picco massimo negli anni Novanta.
La crisi dell’impero e la rivolta dei Boxer
Nonostante le guerre dell’oppio e le rivolte interne (quella dei Taiping sarà la più rilevante, a cui seguiranno le grandi rivolte islamiche degli anni Sessanta e Settanta), dopo un ventennio di crisi l’Impero cinese riuscirà ad avviare un tentativo di riforma delle proprie strutture amministrative ed economiche promosso da alcuni brillanti funzionari, tra i quali va ricordato Li Hongzhang per il ruolo avuto sul piano diplomatico e come promotore dell’industrializzazione del Paese. Tra il 1875 ed il 1894, la bilancia commerciale è costantemente in attivo anche se il sistema doganale è vincolato dai trattati ineguali che impongono alla Cina di non eccedere un livello massimo del 5 percento nei dazi sulle importazioni (ma senza reciprocità), divenendo, suo malgrado, uno dei pochi Paesi a mantenere per gran parte dell’Ottocento un regime liberoscambista per il proprio commercio estero.
Il sistema imperiale entra in una crisi da cui non riuscirà a riprendersi con la guerra sino-giapponese del 1894-1895: un punto di svolta nella storia dell’Asia orientale e l’inizio del “lungo XX secolo” per entrambe le nazioni coinvolte. La guerra, scoppiata per il controllo sulla Corea, vede una rapida affermazione del Giappone che, con il trattato di Shimonoseki del 1895, impone la cessione di Formosa e il pagamento di una enorme somma come riparazione di guerra. L’Impero cinese, che non ha alcun debito estero, ha sottoscritto alcuni prestiti minori per finanziare le operazioni militari, e deve ricorrere a tre grandi prestiti internazionali finanziati da un consorzio bancario anglo-tedesco e da uno franco-russo. Tra il 1895 ed il 1913 la questione del debito cinese diverrà una delle principali questioni finanziarie internazionali. La sconfitta e la crisi interna all’Impero Celeste danno il via dal 1896 a una sempre più accesa competizione internazionale per ottenere concessioni nel Paese, o come garanzia dei prestiti, oppure in vista di una sua possibile dissoluzione come impero e per delimitare le sfere d’influenza al suo interno. Nell’anno 1900 la crisi precipita a seguito di una rivolta xenofoba, la rivolta dei Boxer, appoggiata dal governo imperiale che il 21 giugno dichiara guerra a tutte le potenze occidentali. Il quartiere dove risiedono gli Europei a Pechino viene assediato per quasi due mesi: gli stranieri che vi risiedono sono liberati in agosto da una spedizione internazionale. Nel 1901, i cosiddetti Protocolli dei Boxer pongono fine allo stato di guerra, imponendo alla Cina la definitiva apertura al commercio internazionale e il pagamento di nuove riparazioni alle potenze straniere, aggravando il suo indebitamento e la dipendenza dalle banche europee.
Asia orientale e Sud-Est asiatico
La vittoria sulla Cina nel 1895 vede il Giappone emergere come attore internazionale e come potenza coloniale in Corea (annessa nel 1910) e a Formosa, oltre che nelle isole Ryukyu annesse in precedenza. Anche il Giappone è costretto tra il 1854 e il 1866 ad accettare una serie di “trattati ineguali”, ma la “Restaurazione Meiji” avvia un profondo processo di modernizzazione nel tentativo di mettere il Paese in condizioni di poter resistere agli stranieri. Il Siam segue in certa misura le orme dei giapponesi e riesce a evitare di essere schiacciato dagli opposti interessi imperialistici degli occidentali grazie all’abile politica di bilanciamento nelle concessioni ai Britannici e ai Francesi. Le Filippine, colonia spagnola fino al 1898, sono caratterizzate dall’estensione del latifondo privato o ecclesiastico. Alla fine del XIX secolo, gli Spagnoli devono affrontare spinte indipendentiste sia dai ceti indigeni più avanzati sia dalla popolazione islamica maggioritaria nel sud del Paese. La guerra con gli Stati Uniti nel 1898 porta al subentrare di questi nel controllo dell’arcipelago ma anche nella repressione dei movimenti indipendentisti, la cui resistenza durerà fino al 1910. In Indonesia gli Olandesi consolidano il loro impero, estendendo il sistema di piantagione grazie al sistematico coinvolgimento delle élite locali e legandolo fortemente all’andamento dei mercati internazionali. L’Impero di Annam, riunificato nel 1802 sotto l’imperatore Gia-Long, con l’aiuto dei Francesi, vede una crescente pressione di questi ultimi che conduce nel 1859 alla conquista di Saigon, e alla successiva trasformazione delle province meridionali in colonia francese, la Cocincina. Lo scopo dei Francesi è assumere il controllo del Mekong, che si ritiene possa dare accesso diretto alla Cina occidentale, descritta all’epoca come una sorta di Eldorado. La delusione delle aspettative porta a estendere l’occupazione del Paese, con la conquista di Hanoi nel 1873, istituendo un protettorato sull’Impero di Annam, comprendente l’Annam stesso e il Tonchino. Nel 1885 l’occupazione del Tonchino provoca una guerra con la Cina e l’inizio di un vasto movimento di resistenza armata guidato dai mandarini annamiti che si protrae per circa un ventennio costringendo i Francesi a impiegare notevoli risorse per la sua repressione. Solo con il passaggio a una amministrazione civile e con la nomina a governatore di Paul Doumer nel 1896, il Vietnam viene pacificato. Questi avvia un esteso programma di riforme che in pochi anni trasforma il Paese in un’economia di mercato su basi capitalistiche, disgregando la struttura socio-economica preesistente.