Imperialismo
di Wolfgang J. Mommsen
Imperialismo
sommario: 1. Definizione dell'imperialismo. a) L'evoluzione semantica del concetto di imperialismo . b) La formazione del concetto moderno di imperialismo nell'epoca dell'imperialismo maturo. 2. L'imperialismo come fenomeno della storia universale. 3. L'imperialismo come formazione storica. a) Imperialismo formale e imperialismo informale . b) L'epoca del primo imperialismo (1815-1881) . c) L'epoca dell'imperialismo maturo (1881-1918) . d) Le forze motrici dell'espansione imperialistica; e) riflusso dell'imperialismo tra le due guerre mondiali. 4. Teorie dell'imperialismo. a) Le prime teorie borghesi dell'imperialismo b) Le teorie marxiste classiche dell'imperialismo . c) Recenti teorie politiche dell'imperialismo d) teorie ‛oggettivistiche' dell'imperialismo . e) Teorie sociologiche e sociopolitiche dell'imperialismo . f) Teorie periferiche dell'imperialismo. g) Teorie del neocolonialismo e del sottosviluppo . h) L'imperialismo come potere strutturale. □ Bibliografia.
1. Definizione dell'imperialismo
a) L'evoluzione semantica del concetto di imperialismo
Nella sua accezione originaria, ‛imperialismo' indica il dominio più o meno illimitato di un monarca o di una potenza cesarea su un vasto impero, il quale oltrepassi largamente i confini territoriali di uno Stato etnicamente e nazionalmente unitario. Già nel Medioevo incontriamo la concezione secondo la quale ad un sovrano spetta il rango di imperatore soltanto se il suo dominio si estende su più d'un regno (v. Stengel, 1965, pp. 243 ss.). Sebbene i concetti di sovranità imperiale e di imperialismo si orientassero sempre sul modello storico dell'Impero romano, originariamente s'intendeva con ‛imperialismo' in primo luogo la sovranità - più o meno illimitata - di un singolo su un vasto impero, di norma costituito di elementi disparati. In questo senso si è talvolta parlato, ad esempio, di un imperialismo di Napoleone I. Dopo che ebbe assoggettato mezza Europa, Napoleone fondò un impero che, sebbene qualificato come Impero dei Francesi, non a caso si riallacciava, nel simbolismo e nella titolatura, alle antiche tradizioni romane. Nel 1851 l'impero fu ricostituito da Napoleone III, il quale usava designarlo come système impérial (v. Koebner e Schmidt, 1963, pp. 3 ss.). E fu in Francia che gli avversari di Napoleone III fecero, per la prima volta, largo uso del concetto di ‛imperialismo' per indicare appunto il suo sistema di potere. Con quest'uso si prendeva di mira soprattutto la politica interna di questo sistema autoritario, mentre il momento dell'espansione territoriale aveva ancora scarsa importanza. In una prospettiva analoga, osservatori inglesi definirono imperialismo la fondazione (1871) dell'Impero germanico. Il concetto acquisì il suo significato moderno soltanto in connessione con la politica estera perseguita da B. Disraeli negli anni settanta dello scorso secolo. Già nel discorso tenuto a Londra al Crystal Palace (24 giugno 1872), Disraeli si professò enfaticamente sostenitore di una conseguente politica di consolidamento dell'Impero britannico, in opposizione alla politica - condotta sin allora dai liberali - di liquidazione dell'Impero. Nel contempo egli designava questo nuovo corso imperialistico come una ‟politica conservatrice" nel vero senso del termine. Questo discorso di Disraeli è comunemente considerato come il segnale di avvio del ‛nuovo imperialismo' dell'epoca 1870-1918. La politica disraeliana di consolidamento e di ampliamento dell'Impero britannico, quale si esprimeva nell'acquisto delle azioni della Compagnia del Canale di Suez (1876) e nell'annessione di Cipro (1878), stava ancora interamente, tuttavia, sotto il segno della politica interna. La proclamazione della regina Vittoria quale imperatrice delle Indie - la limitazione del titolo alle Indie non era affatto, inizialmente, nelle intenzioni di Disraeli, il quale vi si era indotto soltanto sotto la pressione dell'opinione pubblica - illumina la tendenza di questa politica più chiaramente di qualsiasi altra cosa: il nuovo imperialismo doveva da una parte stabilizzare le istituzioni politiche esistenti, e dall'altra, sotto la bandiera del nazionalismo, legare le grandi masse alla corona che con la promozione alla dignità imperiale, godeva di un'accresciuta autorità. Già nel summenzionato discorso al Crystal Palace si diceva che i ceti lavoratori d'Inghilterra sono orgogliosi di appartenere a un grande paese e vogliono custodire la sua grandezza; che sono orgogliosi di appartenere a un impero e sono decisi - se possibile - a conservarlo; e che sono in generale convinti che la grandezza dell'Inghilterra e il suo Impero sono da attribuire alle sue antiche e venerabili istituzioni. Anche in Disraeli non mancavano riferimenti al modello storico dell'Impero romano, come si rivelava ad esempio nel motto ‟imperium et libertas", ch'egli adoperava spesso a scopo propagandistico. L'imperialismo di Disraeli costituisce il punto di sutura tra l'uso più antico e quello più recente del concetto; talvolta troviamo ancora, tuttavia, testimonianze dell'uso più antico: ad esempio nell'idea - di Friedrich Naumann - di Guglielmo II come imperatore democratico alla testa di un imperialismo tedesco.
Contro la politica di Disraeli che, sfruttando il prestigio derivante dalla politica estera, cercava di raggiungere obiettivi di politica interna, i liberali inglesi polemizzarono sin dall'inizio con estrema asprezza; essi la qualificarono appunto come ‛imperialistica', cioè inconciliabile con le tradizioni politiche britanniche. Fu così che il concetto di imperialismo entrò per la prima volta nell'usuale linguaggio politico inglese, nel quale fu per il momento destinato a indicare le caratteristiche autoritarie e cesaree del dominio imperiale all'interno. Ad esempio R. Lowe così si esprimeva nel 1878 sulla ‟Fortnightly review": ‟Che cosa si intende con imperialismo? Si intende la rivendicazione di un potere assoluto sugli altri" (v. Koebner e Schmidt, 1963, p. 149). E in modo analogo J. Chamberlain - che doveva diventare poco dopo un esponente eminente dell'imperialismo britannico - nel 1879 bollava, da posizioni radicali, come autoritario e regressivo il ‟new imperialism of the government". Agli occhi dei liberali, l'imperialismo appariva come un sistema politico che si serviva abusivamente dell'espansione territoriale e della politica di potenza oltremare come di strumenti per una politica reazionaria all'interno; a questo proposito, l'esempio di Napoleone III rimaneva in larga misura determinante.
b) La formazione del concetto moderno di imperialismo nell'epoca dell'imperialismo maturo
Fu soltanto nella scia del mutamento radicale subito dal clima politico all'inizio degli anni ottanta - quando in tutti i paesi europei si assisté a un risveglio delle tendenze espansionistiche - che il concetto di imperialismo acquisì a poco a poco un più concreto contenuto e quindi il suo significato moderno. Anche se per i liberali rimaneva in larga misura associato a pratiche governative autoritarie, al jingoism e alla manipolazione dell'opinione pubblica, il termine veniva ormai sempre più usato come una denominazione complessiva di quei processi di espansione imperialistica che in quegli anni riprendevano con rinnovata intensità. L'imperialismo divenne infine, almeno in certi settori dell'opinione pubblica, un concetto affatto positivo, tanto che, alla lunga, neppure i liberali britannici poterono più sottrarsi alla sua forza di suggestione. Nel 1895 lord Rosebery così propagandava i principî di un imperialismo razionale e liberale: ‟L'imperialismo liberale implica, in primo luogo, la conservazione dell'Impero; in secondo luogo, l'apertura di nuove aree del globo alla nostra popolazione eccedente; in terzo luogo, la soppressione della tratta degli schiavi; in quarto luogo, lo sviluppo delle iniziative missionarie; e in quinto luogo, l'incremento del nostro commercio" (v. Coates, 1900, vol. II, p. 778). E un lord Curzon non esitava più, all'inizio del secolo, a dichiararsi un ‟convinced and unconquerable imperialist". Il concetto di imperialismo aveva ormai perduto il suo contenuto polemico, per diventare definitivamente un elemento positivo del linguaggio politico usuale. Il modello inglese doveva irradiarsi sul continente; fu soprattutto il possesso dell'India - il gioiello della corona britannica, come allora si amava dire - a spronare l'imperialismo continentale. In misura crescente l'opinione pubblica di tutti i grandi Stati europei si trovava d'accordo sul fatto che il futuro sarebbe appartenuto soltanto a quelle potenze che si fossero date dimensioni mondiali. Ad esempio J. Chamberlain scriveva nel 1897: ‟La tendenza del nostro tempo è la concentrazione di tutto il potere nelle mani dei grandi imperi, mentre i regni minori - quelli che non si espandono - sembrano destinati a un ruolo secondario e subordinato". E Max Weber, nella sua prolusione tenuta a Friburgo nel 1895, esprimeva idee analoghe: ‟Dobbiamo renderci conto che l'unificazione della Germania è stato un gesto giovanile che la nazione ha compiuto nella sua maturità e che sarebbe stato meglio non compiere, a causa del suo prezzo elevato, se esso doveva restare il punto di arrivo anzichè il punto di partenza di una politica tedesca di potenza mondiale" (v. Weber, 19583; tr. it., pp. 107-108). E quasi allo stesso modo argomentava J. Ferry già nel 1884: ‟Oggi la grandezza delle nazioni poggia unicamente sul loro spirito di intraprendenza, e non sull'irradiazione pacifica delle loro istituzioni"; la rinuncia all'espansione sarebbe perciò per ‟una grande nazione sinonimo di abdicazione" e ne deriverebbe ‟la sua decadenza a nazione di terzo o quart'ordine" (v. Robiquet, 1897, p. 218). Ai contemporanei la politica imperialistica appariva interamente come la logica continuazione della politica nazionale di potenza; l'imperialismo era per essi, per dirla con le parole di lord Rosebery del 1899: ‟null'altro che [...] un più vasto patriottismo" (discorso al City of London Liberal Club, del 5 maggio 1899, Liberal League Publications, n. 5). Naturalmente, dietro il pathos nazionalistico, che si sforzava di giustificare con ogni mezzo l'espansione imperialistica, si celava un complesso di tendenze, rappresentazioni e concezioni ideologiche assai diverse nei singoli casi. L'analisi semantica del concetto di imperialismo e della terminologia ‛imperialistica' dei contemporanei può servire quindi unicamente come indicazione per una determinazione sistematica della natura dell'imperialismo. A questo fine, ci stanno aperte dinanzi, in linea di principio, due strade, le quali sono state entrambe battute, sebbene in misura diversa e con diversa intensità, dalla ricerca storica e politica che si è occupata dei problemi dell'imperialismo: 1) quella basata sulla possibilità di una definizione dell'imperialismo in termini di storia universale, definizione che consenta l'applicazione comparata del concetto alle varie epoche storiche e formazioni sociali; 2) quella mirante alla definizione dell'imperialismo come formazione storica concreta che ha condotto alla ripartizione delle regioni sottosviluppate del globo tra gli Stati industriali; e, in ultima analisi, come forma strutturale della dipendenza delle regioni relativamente meno sviluppate dalle metropoli industriali.
2. L'imperialismo come fenomeno della storia universale
Sul piano della storia universale, parlare di imperialismo significa più o meno parlare della formazione di grandi imperi - o anche di imperi mondiali - che vengono governati e amministrati da un nucleo, spesso assai piccolo ed etnicamente omogeneo: si pensi ad esempio all'Impero romano, che all'epoca della sua maggiore estensione aveva portato l'intero mondo mediterraneo sotto la sovranità della res publica romana e del successivo Impero dei Cesari. Diversissimi possono essere le forme e i metodi del dominio esercitato sui popoli e territori dipendenti; storicamente, si conoscono sia il dominio diretto, esercitato prevalentemente con mezzi militari, sia la formazione di sistemi di satelliti, basati su forme assai differenti di dominio indiretto, che vanno dalla subordinazione formale, garantita da trattati, al pagamento di tributi, talvolta meramente simbolico. Un buon esempio dell'ultima forma di dominio imperialistico è costituito dall'Impero ottomano, che sin dal sec. XIV assoggettò il Vicino Oriente, il Nordafrica e l'intera penisola balcanica ed è sopravvissuto fino al sec. XX. Accanto ai vincoli religiosi rappresentati dall'Islām, i sultani ricorrevano di norma all'istituzione di satrapie, affidate a uno strato dominante esiguo e oltremodo privilegiato. Storicamente ancora più frequente, e associato in numerose forme di transizione al primo tipo, è un dominio imperialistico nella forma della supremazia di uno strato di conquistatori - per lo più etnicamente omogeneo - che, grazie alla superiorità della propria cultura o della propria tecnica militare, ha saputo imporsi alle popolazioni preesistenti. Già il breve regno di Alessandro Magno, dal quale doveva derivare l'irradiazione della cultura ellenistica, dev'essere attribuito a questo tipo. Ciò vale anche per numerose formazioni imperialistiche derivanti da migrazioni di popoli, e in particolare per l'impero carolingio, che ebbe i suoi presupposti nella colonizzazione franca e nell'instaurarsi del predominio di uno strato dominante franco sulle popolazioni indigene. O. Hintze ha richiamato l'attenzione sul fatto che il feudalesimo, come forma specifica - in un economia agraria - di amministrazione decentrata retta da uno strato dominante aristocratico, dev'essere visto come un tipico fenomeno concomitante di questo tipo d'imperialismo, che ha la sua origine nella colonizzazione forzata (v. Hintze, Wesen..., 19622, p. 105). Un tale imperialismo è caratterizzato dal ruolo di una nobiltà di spada, la quale è separata dalla massa della popolazione sia da uno specifico codice d'onore che da diversità etniche e culturali, e vede la propria vocazione nell'esercizio e nell'affermazione del dominio. Fu questo il punto di partenza scelto da Schumpeter nella sua Soziologie der Imperialismen del 1918, la quale, sebbene possa oggi sembrare contestabile in punti importanti, conserva però un'insuperata ampiezza di visione. Schumpeter descrisse l'imperialismo come il prodotto tipico degli istinti agonistici propri degli strati dominanti aristocratici, che ricevono il loro slancio tanto dalla loro posizione sociale, quanto dalla loro disposizione psichica ‟all'espansione violenta e intollerante di confini". Così inteso, l'imperialismo è dunque un fenomeno specifico di società aristocratiche, nelle quali le funzioni di direzione e di dominio siano monopolizzate da ristrette élites; in situazioni siffatte, la guerra e l'aggressione sono un fattore necessario per la conservazione delle strutture feudali (v. Schumpeter, 1953, specialmente pp. 145 ss.).
Una forma particolare d'imperialismo è costituita dagli imperi marittimi, la cui forza era basata soprattutto sulla flotta (uno strumento particolarmente importante in un economia prevalentemente agraria). Appartengono già in certo modo a questa categoria le città-stato greche con le loro colonie nell'Egeo e al di là dell'Egeo, e in seguito specialmente Venezia, che dalla condizione di piccola città-stato nel sec. XVII assurse al rango di padrona assoluta del Mediterraneo orientale. Ma debbono essere annoverati in questa categoria anzitutto gli imperi coloniali (in via di formazione dal sec. XVI) del Portogallo, della Spagna, dell'Inghilterra e dell'Olanda, il cui dominio territoriale si limitava spesso alle regioni costiere, ma che, grazie alla loro potenza navale, erano sempre in grado di domare eventuali ribellioni locali.
Queste molteplici forme della potenza imperialistica, quali le incontriamo, sebbene in condizioni assai diverse, nel corso della storia, hanno senza dubbio una grande importanza per un'interpretazione moderna dell'imperialismo; però, ove si voglia adoperarle come paradigmi per l'interpretazione dei fenomeni dell'imperialismo moderno, risultano relativamente generiche e aspecifiche. Già O. Hintze ha tracciato la distinzione tra gli ‛imperialismi antichi', che nutrivano l'aspirazione al dominio mondiale e s'identificavano - o almeno in gran parte coincidevano - con una determinata area culturale, e gli imperialismi moderni, i quali, all'interno di un sistema di Stati precostituito, lottano per accrescere il proprio prestigio o la propria potenza. Secondo Hintze, si deve ‟considerare come tratto caratteristico dell'imperialismo antico il fatto di dare espressione politica agli interessi generali di una vasta ma determinata area culturale, il cui orizzonte, nell'essenziale, non andava al di là di se stessa" (v. Hintze, Imperialismus..., 19622, pp. 461 ss.). Nel caso dell'imperialismo moderno si tratta invece ‟non del dominio mondiale di un popolo (come nell'antichità), ma di un'élite di nazioni, che assumono una posizione guida nel mondo" (ibid., p. 469). Hintze sottolinea inoltre che gli imperialismi moderni non si fondano più su una base prevalentemente feudale, bensì, all'opposto, su una base burocratica. H. Lüthy ha invece interpretato, non senza qualche ragione, l'imperialismo moderno come lo stadio finale di un processo mondiale di civilizzazione, il quale ha di necessità condotto al crollo dei sistemi sociali premoderni e in massima parte arcaici del Terzo Mondo (crollo a volte desiderato dagli stessi interessati). Sotto questo aspetto, svanirebbero le differenze tra l'imperialismo moderno - caratterizzato dalla lotta dei paesi europei industrializzati e degli Stati Uniti per i territori tuttora ‛non civilizzati' dell'Asia e dell'Africa - e gli imperialismi antichi; si tratterebbe piuttosto di un processo di acculturazione forzata affine a molti altri della storia universale, i quali sono sempre terminati con il trionfo - conseguito, o almeno accelerato, con strumenti politici violenti - di una cultura più forte (o forse si dovrebbe dire ‛superiore') sulle culture più deboli.
3. L'imperialismo come formazione storica
a) Imperialismo formale e imperialismo informale
Affidandosi all'ovvia comprensione dei contemporanei, H. Friedjung coniò nel 1919, per il periodo dal 1880 al 1914, la nozione di ‛età dell'imperialismo': un'epoca nella quale ‟i popoli e i loro governanti" avevano ‟recato chiaramente alla coscienza, facendone il criterio della loro azione", la ‟spinta" verso i possedimenti oltremare e verso una ‟partecipazione crescente al dominio mondiale" (v. Friedjung, 1919, vol. I, pp. 2 ss.). La ricerca moderna si è di gran lunga discostata da una tale determinazione storicistica del proprio oggetto; in particolare, la nozione di imperialismo ha subito una straordinaria dilatazione, tanto sotto il profilo cronologico che sotto quello dei contenuti. L'età dal 1880 al 1914 è oggi comunemente considerata come il periodo dell'imperialismo ‛classico' (v. Mommsen, 1971, p. 14), ovvero dell'imperialismo ‛maturo' (Hochimperialismus; v. Ziebura, 1974, p. 495); essa è la fase culminante di un processo che ha i suoi inizi nel cosiddetto ‛imperialismo del libero scambio' del primo Ottocento e giunge quasi fino ai nostri giorni (se non si voglia, come fanno molti autori neomarxisti e naturalmente anche il marxismo-leninismo ufficiale, nonché - seppure con diversa accentuazione - il maoismo, designare i rapporti oggi esistenti tra i paesi industrializzati e i paesi del Terzo Mondo con il termine di ‛neocolonialismo'). Di importanza decisiva è il fatto che non soltanto la concezione marxista-leninista dell'imperialismo, che ha sempre interpretato i fenomeni imperialistici anzitutto come prodotti del capitalismo in un determinato stadio del suo sviluppo, ma anche gli studi occidentali hanno svincolato la nozione di imperialismo da quella di controllo territoriale. Secondo il pionieristico, ma anche criticato lavoro The imperialism of free trade di Robinson e Gallagher (v., 1953), il dominio coloniale formale è da considerare soltanto come una delle molte possibili forme dei rapporti imperialistici di dipendenza. Accanto al dominio imperialistico più o meno formale c'è tutta una gamma di tipi di ‛imperialismo informale', tra i quali la dipendenza economica è il più importante, sia essa dovuta all'instaurazione di relazioni commerciali che favoriscano unilateralmente le metropoli, ovvero a investimenti di capitali di tale entità da creare nel paese in questione una dipendenza economica più o meno totale nei confronti del paese creditore. S'incontrano inoltre diverse forme di dipendenza imperialistica dovuta a una superiorità tecnologica o anche soltanto militare o persino a una maggiore energia spirituale o religiosa.
b) L'epoca del primo imperialismo (1815-1881)
Sinora, gli studi sull'imperialismo hanno tracciato una distinzione relativamente netta tra il colonialismo più antico, quale si andò sviluppando a partire dal Cinquecento nel corso di un processo talora estremamente complicato, e i fenomeni imperialistici quali hanno preso l'avvio verso la metà dell'Ottocento per poi subire una più rapida accelerazione negli anni ottanta. In realtà, dopo che il distacco delle colonie americane dalla Gran Bretagna rese evidente la problematicità di una politica coloniale che favorisse unilateralmente gli interessi commerciali della madre patria, si cominciò in Inghilterra e altrove a nutrire dubbi sul valore delle colonie. Nell'epoca dell'incipiente libero scambio, la politica coloniale mercantilistica sin allora seguita sembrò aver perduto gran parte del suo significato. Già Adam Smith, nella sua celebre opera The wealth of nations (1776) rivolse un aspro attacco alle colonie, che non recano alcun frutto alla madrepatria mentre la coinvolgono in guerre e armamenti dispendiosi : ‟I governanti della Gran Bretagna hanno dilettato la popolazione, per più di un secolo, con la fantastica idea che essa possedesse un grande impero sulla riva occidentale dell'Atlantico. Tuttavia questo impero, fino a oggi, è esistito solo nell'immaginazione; finora non è stato un impero, ma solo il progetto di un impero; non è stato una miniera d'oro, ma solo il progetto di una miniera d'oro, un progetto che è costato, che continua a costare e che, proseguendo nello stesso modo in cui è proseguito fino a oggi, è probabile che continuerà a costare una spesa immensa, senza che ci siano possibilità che dia qualche profitto, dato che gli effetti del monopolio del commercio con le colonie, come è già stato dimostrato, sono, per la grande massa della popolazione, pure perdite, invece che profitti" (Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano 1973, p. 945).
In realtà i vecchi imperi coloniali della Spagna e del Portogallo, e in parte anche quello britannico, edificati in una prospettiva prevalentemente politica e mercantilistica, andavano tramontando sin dalla fine del sec. XVIII; si pervenne infatti all'emancipazione di quasi tutte le colonie europee sul continente americano, mentre l'interesse degli uomini politici alla conservazione e al consolidamento dei possedimenti coloniali si attenuò considerevolmente. Parecchie delle stazioni fondate in Africa e nel Pacifico nel sec. XVII e agli inizi del XVIII ristagnavano o conducevano una misera esistenza. Un numero crescente di uomini politici e di teorici, sotto l'influsso della dottrina liberoscambista, si mostrava propenso a rinunciare ai possedimenti coloniali esistenti, o almeno sosteneva doversi garantire alle colonie la massima autonomia possibile, anziché come si era fatto sin allora legarle alla madrepatria e alla sua economia con ogni sorta di imposizioni e di restrizioni commerciali ; e ciò anche a costo di rischiare la separazione dalla madrepatria. Già nel 1793 J. Bentham pubblicava il suo scritto Emancipate your colonies, nel quale queste concezioni ricevevano una formulazione magistrale. La critica del sistema coloniale raggiunse infine il vertice nel movimento di Godwin, Smith e Cobden per un sistema universale di libero scambio. ‟Data l'abbagliante attrazione che esercita sulle passioni della gente, il sistema coloniale non potrà essere liquidato se non per il tramite indiretto del libero scambio che, gradualmente e impercettibilmente, allenterà i vincoli che, sulla base di un malinteso interesse egoistico, ci uniscono alle nostre colonie" (v. Schuyler, 1945, p. 132).
Comunque, l'abbandono dei sistemi coloniali mercantilistici non ebbe un grande significato per gli interessati, se si prescinde da quei pochi territori cui era stato concesso già nella prima metà dell'Ottocento un limitato grado di autonomia. Il legame strettissimo fra le economie coloniali e la madrepatria non fu affatto soppresso, neppure dopo l'abbandono del vecchio sistema commerciale basato su pratiche monopolistiche e su restrizioni. Bisogna notare innanzitutto che il processo di espansione territoriale specialmente nel caso dell'Impero britannico, ma anche di altri imperi coloniali, in particolare di quello francese proseguì anche in quel periodo allo stesso ritmo, sebbene ciò accadesse, come scrisse più tardi lo storico inglese J. Seeley, ‟per distrazione" (v. Seeley, 1883, p. 10). A questo proposito, gli studi più recenti parlano, con una brusca inversione rispetto alla vecchia interpretazione di Myths of the ‛Little England' era (v. Galbraith, 1961). In verità è stato mostrato che anche nel pensiero degli economisti e ideologi liberali, che i vecchi studiosi qualificavano comunemente come antimperialisti, sopravvivevano forti elementi mercantilistici, e d'altro 14t0 che costoro rifiutavano non le colonie in sé, ma soltanto quelle del vecchio tipo monopolistico, che riproducevano il tradizionale sistema aristocratico della madrepatria (v. Semmel, 1970, pp. 103 55. ; v. Winch, 1965).
Non è più possibile, pertanto, designare il primo Otto- cento come un'epoca di antimperialismo. Bisogna invece parlare di questo periodo come dell'epoca del ‛primo imperialismo', nella quale, se da un lato si abbandonavano le posizioni colonialistiche tradizionali, dall'altro si sviluppavano forme nuove di espansione, di specie prevalentemente informale. Per citare un solo esempio, i Colonial reformers, un gruppo di teorici britannici delle colonie, negli anni trenta e quaranta si entusiasmarono (e con loro l'opinione pubblica britannica) per un nuovo tipo di colonie bianche di insediamento, le quali dovevano sì rimanere associate alla madrepatria, ma dovevano nel contempo godere di una larga autonomia nelle questioni economiche e in gran parte anche in quelle politiche. Spuntarono nuove società, le quali si accinsero alla colonizzazione di vaste aree della Nuova Zelanda e delle regioni sin allora inesplorate dell'Australia. Anche gli economisti orientati verso i principi liberali salutarono con favore questi sviluppi.
Nel contempo si sosteneva in generale la necessità di e- stendere i commerci britannici verso sempre nuovi territori del globo, e a questo scopo apparivano utili anche i progetti colonialistici, specialmente se dovuti all'iniziativa privata. E. Gibbon Wakefield così formulava il programma di un tale espansionismo informale ‟Il mondo intero è dinanzi a voi [...]. Aprite nuove vie per un impiego il più possibile redditizio del capitale inglese. Lasciate che gli Inglesi comprino pane da chiunque abbia pane da vendere a buon mercato. Fate dell'Inghilterra, per tutto ciò che si produce col vapore, l'opificio del mondo. E se poi rimangono ancora capitali ed energie umane, imitate gli antichi Greci; prendete lezioni dagli Americani che, non appena i loro capitali o la loro popolazione aumentano, trovano nuovi spazi mediante la colonizzazione" (v. Semmel, 1960, p. 91). Il programma dell'espansione economica sulla base del libero scambio, cioè il programma di un accesso il più possibile libero a tutti i mercati del mondo, si accordava ottimamente sia con la fondazione di nuove colonie di insediamento, che a loro volta avrebbero potuto contribuire a un'intensificazione degli scambi commerciali e quindi all'accrescimento della ricchezza generale, sia con la sistematica apertura delle regioni sin allora ‛non civilizzate' del globo al commercio e alla cultura dell'Occidente. E un programma siffatto era infine rafforzato anche dal ricorso a ragioni di ordine religioso o umanitario, come per esempio la lotta contro la tratta degli schiavi. La verità è che già nel primo Ottocento si cominciò a perfezionare il sistema degli avamposti coloniali (alcuni dei quali esistevano già da lungo tempo) e a fondare nuove basi coloniali nelle regioni costiere dell'Africa e dell'Asia. In alcuni casi, per esempio in Sudafrica e specialmente in India e nelle regioni confinanti, si assisté a un processo di espansione addirittura clamoroso. E vero che si può considerare come caratteristico di questa fase il fatto che solo in casi eccezionali si procedette a conquiste territoriali nel senso stretto del termine; ci si accontentava di norma di conseguire il controllo di regioni costiere strategicamente ed economicamente importanti, mentre si trascurava quasi completamente l'entroterra, nel quale le popolazioni indigene potevano mantenere pressoché immutati sia i loro metodi produttivi che le loro forme di organizzazione politica. In altre parole, alla fondazione di costose amministrazioni coloniali (statali o private) si preferiva il controllo estensivo, accompagnato dall'intensificazione degli scambi con gli indigeni. Tutto quello che si richiedeva era la sicurezza dei commerci e, talvolta, la soppressione della tratta degli schiavi. Persino la britannica East India Company, che nella prima metà dell'Ottocento estese enormemente la propria sfera di controllo, preferiva, sempre che fosse possibile, forme indirette di controllo, compatibili con la conservazione dei sistemi politici locali, all'edificazione di una propria diretta amministrazione coloniale.
I metodi imperialistici della prima età vittoriana sono stati caratterizzati in modo calzante da Robinson e Gallagher con la formula ‟Commercio con controllo informale, se possibile; commercio con dominio esplicito, se necessario" (v. Robinson e Gallagher, 1953, p. 13). In effetti il periodo del primo imperialismo è caratterizzato dal fatto che di norma si dava la precedenza alle iniziative e alle società private rispetto all'azione statale: si faceva ricorso all'intervento diretto dello Stato solo quando i metodi del controllo estensivo, sotto la protezione della madrepatria, diventavano impraticabili, come nel caso, per esempio, che gruppi rivali di società coloniali invocassero ciascuno l'appoggio della madrepatria. La forma normale dell'organizzazione colonialistica fu rappresentata in quel periodo dalla chartered company, che in linea di principio promuoveva l'espansione imperialistica a proprio rischio e pericolo e svolgeva nelle regioni controllate funzioni statali, nel cui esercizio sottostava solo in misura assai limitata e indirettamente al controllo della madrepatria. Questo modo di procedere era naturalmente motivato anche da ragioni di politica interna. In quel periodo i governi, e con essi l'opinione pubblica, guardavano con avversione piuttosto che con entusiasmo all'instaurazione di un controllo formale e diretto nelle regioni oltremare, anzitutto a causa dei costi considerevoli associati a un'iniziativa del genere. Essi cercavano quindi, in molti casi, di perseguire una politica di ‟limited responsibility", la quale spostasse verso la periferia, cioè sui governi coloniali o sulle chartered companies, la responsabilità dell'ordine pubblico nei territori di confine o dei conflitti militari di qualsiasi genere.
Nonostante il riserbo delle metropoli, o piuttosto assai spesso appunto per questo, si assisté, specialmente nel continente africano, a un irresistibile processo di colonizzazione, sebbene talvolta interrotto per breve tempo da un temporaneo arretramento dell'avanzata coloniale imposto dalle metropoli. Ciò è vero anzitutto della Gran Bretagna, ma in misura minore anche della Francia, che già nel 1830 procedette all'annessione dell'Algeria, con l'intento prevalente di farne una colonia di insediamento francese. In questo stesso contesto bisogna inoltre menzionare le conquiste coloniali degli Stati Uniti e della Russia zarista, conquiste cui è unicamente dovuta quella formidabile estensione territoriale che conferisce alle due potenze un peso cosi grande nella politica mondiale dei nostri giorni. In particolare, la graduale annessione dei territori asiatici da parte della Russia assomigliava anche formalmente alle forme abituali dell'espansione coloniale: uno strato superiore russo si imponeva su una moltitudine di popoli culturalmente ed etnicamente affatto eterogenei e, relativamente, assai più arretrati. Soltanto a poco a poco questi popoli furono in larga misura assimilati attraverso la pressione amministrativa e fu consolidato il predominio dell'elemento russo-bianco.
C'è ancora un punto cui bisogna accennare in questo contesto, e cioè le strategie alle qua i gli Stati europei e gli Stati Uniti ricorsero per costringere quei paesi e Stati delle regioni sottosviluppate del globo che si chiudevano più o meno completamente all'influsso dell'Occidente, ad aprire i loro mercati e ad esporsi all'influsso della civiltà occidentale. Furono in particolare due imperi di antica origine, che potevano vantare uno sviluppo culturale e religioso di importanza universale, a opporsi per ragioni di principio a influssi occidentali di qualsiasi natura: la Cina e l'Impero ottomano. Ma anche in altre regioni (specialmente in quelle di religione islamica) si ebbero opposizioni di principio a un'apertura nei confronti della civiltà e del commercio europei.
Nell'Impero ottomano la politica di penetrazione economica, adottata con crescente intensità sin dagli inizi dell'Ottocento, poté richiamarsi al regime delle capitolazioni, che si basava su numerosi accordi, risalenti sino al sec. XV, tra la Porta e le potenze europee e che garantiva agli Europei lo status di extraterritorialità. Fu nondimeno necessaria una massiccia pressione politica per conseguire un'estensione di questo regime tale da rendere possibile agli Europei, e quindi ai loro protégés (cioè agli indigeni posti sotto la loro protezione), di fondare degli avamposti economici e culturali sotto la protezione dell'extraterritorialità, cui si accompagnavano di norma l'esenzione fiscale e il diritto di essere portati in giudizio soltanto dinanzi ai propri consoli. Per esempio il Marocco fu costretto nel 1856 dalla Gran Bretagna, sotto la minaccia dell'uso della forza, a stipulare un trattato commerciale e a garantire ai cittadini britannici e ai loro protégés l'illimitato godimento del regime delle capitolazioni; e dovette persino impegnarsi a sopprimere i monopoli statali che non fossero compatibili con i principi del libero scambio. Ancora più drastico fu il comportamento della Gran Bretagna, che faceva da battistrada delle altre potenze occidentali, nei confronti della Cina. Con la guerra dell'oppio la Cina fu costretta ad aprire cinque porti al commercio britannico e all'oppio indiano, a concedere agli Inglesi il diritto di extraterritorialità e a cedere Singapore, avamposto della penetrazione economica britannica. A questo primo passo seguì l'apertura forzata dell'intero paese attraverso una serie di trattati commerciali con le potenze europee. Il Giappone fu costretto nel 1854 dall'ammiraglio americano Perry a concessioni analoghe, sebbene di portata minore, e soltanto due decenni più tardi la Corea, che era allora, formalmente, ancora uno Stato dipendente dalla Cina, fu costretta dallo stesso Giappone alle medesime concessioni. Questi processi sono suscettibili di generalizzazione. Se è vero che, nell'epoca dell' ‛impenalismo del libero scambio', si dava sistematicamente la preferenza ai metodi informali di espansione economica e culturale rispetto all'espansione territoriale diretta (secondo il motto ‟la bandiera segue il commercio"), è però anche vero che non si esitava a costringere, mediante la pressione diplomatica e militare, le culture non europee ad aprire le porte al commercio e ai capitali europei e, ancor più, a concedere agli Europei e ai loro protégés privilegi di straordinaria estensione, che conducevano spesso a una qualche specie di dipendenza economica informale (per esempio dalla finanza imperialistica). Tanto la Cina che l'Impero ottomano si trovarono subito dopo la metà del secolo nella situazione di non poter più stabilire liberamente le proprie tariffe doganali; in modo fu loro in larga misura sottratta la possibilità di porre un freno anche solo parziale all'afflusso, necessariamente disastroso per le industrie locali, della tecnologia e delle merci europee. Indiscutibilmente, questa politica fu considerata dai contemporanei non già come imperialistica ma piuttosto, sebbene favorisse unilateralmente gli interessi occidentali, come un fattore di civilizzazione che rese possibile la modernizzazidne di quelle società e di quelle culture. Non si deve però trascurare il fatto che su questa base si costituirono in molti luoghi dei ‛sub-sistemi', controllati dall'imperialismo finanziario, che condussero spesso al crollo degli ordinamenti politici tradizionali e quindi all'instaurazione di un dominio coloniale formale.
Quando si prenda in considerazione: la penetrazione economica nei territori sottosviluppati del globo (ove fosse possibile, con un minimo di controllo formale, ma tuttavia accompagnata abbastanza spesso dall'instaurazione di un dominio coloniale diretto); la nascita, o l'ampliamento, di colonie di insediamento di nuovo tipo in numerose regioni oltremare; le gigantesche dimensioni della colonizzazione nel golden West degli Stati Uniti e nella Russia asiatica; la fondazione di avamposti del commercio coloniale nelle regioni costiere dell'Asia e dell'Africa (una politica che, a causa della ‟turbulent frontier" o dell'ambizione dei militari o della fame di terra dei ‟men on the spot", degenerò talvolta in una massiccia espansione territoriale verso l'interno); e infine l'apertura più o meno forzata di paesi formalmente autonomi al commercio e ai capitali europei, talora seguita da investimenti di capitali a tassi d'interesse esorbitanti e a condizioni privilegiate (in particolare la costituzione in pegno, in favore di società di capitale straniere, di fonti d'entrata statali); quando si prendano in considerazione tutti questi elementi, non si potrà più considerare questo periodo come antimperialistico, ma si dovrà invece qualificarlo come l'epoca del primo imperialismo. E vero che i contemporanei rendevano omaggio in linea di principio a una economia di mercato cosmopoliticamente orientata e davano perciò di gran lunga la preferenza a tipi informali e indiretti di dominio o di controllo imperialistico rispetto agli interventi statali diretti; nondimeno il secolare processo di espansione della civiltà europea fu portato avanti su un vasto fronte e con pertinacia degna di nota, sebbene non sempre con eguale costanza. E se per lo più ci si limitava a forme di dominio indiretto e in molti casi ci si accontentava, in luogo della costruzione di apparati amministrativi autonomi, dell'egemonia sui regimi indigeni o addirittura ci si preoccupava di cooperare con essi, ciò era in relazione da un lato con lo Zeitgeist, che voleva l'attività dello Stato ridotta al minimo possibile, e dall'altro con gli scarsi profitti materiali che si ricavano dai possedimenti coloniali, ancora sottosviluppati e non soggetti a uno sfruttamento intensivo.
c) L'epoca dell'imperialismo maturo (1881-1918)
Questa situazione subì modificazioni radicali a partire dai primi anni ottanta, quando le questioni imperialistiche emersero bruscamente alla coscienza generale dell'opinione pubblica, in parte perché la neonata stampa di massa si volse con energia verso questi temi e, attraverso la promozione di un nazionalismo di massa, seppe nel contempo guadagnarsi più vaste schiere di lettori. Si sviluppò una mentalità imperialistica, che assunse presto tratti espressamente sciovinistici o, come si diceva in Inghilterra con un termine tratto da una canzonetta allora popolare nei music halls londinesi, jingoistic. Si trasformò allora anche il comportamento dei governi. Sino a quel momento essi si erano adoperati prevalentemente per circoscrivere gli impegni territoriali nelle regioni oltremare, e questo già soltanto a causa degli oneri finanziari che ne derivano; non si era stati perciò alieni, talvolta, dal lasciare la precedenza, in materia di iniziative coloniali, alle altre potenze e dall'affidare loro il ruolo di battistrada della civiltà occidentale. Anche in seguito gli uomini di Stato, a parte poche, cospicue eccezioni, rimasero ‟reluctant imperialists" (v. Lowe, 1967); ma sotto la pressione dell'opinione pubblica e in considerazione dei vantaggi sia economici sia politici l'astensione dalle iniziative coloniali divenne sempre meno praticabile. All'opposto, si produsse tra le grandi potenze un'esplicita concorrenza per l'acquisizione di territori coloniali e di sfere d'influenza imperialistica. Tale concorrenza assunse presto la natura di un processo autonomo, che trovava in se stesso il proprio nutrimento e andava prendendo forme sempre più nette. Se sino a quel momento era rimasto in vigore il principio ‟la bandiera segue il commercio", ormai la situazione si era capovolta; ora ci si aspettava dallo Stato che ‟anticipasse le rivendicazioni future" (Rosebery l'1/3/1893), cioè ci si aspettava che lo Stato conquistasse territori per così dire a guisa di scorte, in previsione di uno sfruttamento economico futuro (v. Mommsen, 1968, pp. 624 ss.). L'intervento della Gran Bretagna in Egitto nel luglio 1882 e la conseguente occupazione del paese possono essere considerati come l'innesco di questo processo; accadde infatti, in quell'occasione, che una zona particolarmente importante per l'imperialismo informale europeo fu assegnata unilateralmente alla sfera di controllo di una potenza imperialistica. Non è privo d'importanza il fatto che il governo britannico sotto Gladstone non si proponesse originariamente questo risultato, ma avesse piuttosto in mente un intervento comune con la Francia per ‟la restaurazione del diritto europeo", piano che era però fallito dinanzi all'opposizione interna esistente in Francia contro un intervento imperialistico. Il sistema franco-britannico di controllo finanziario, instaurato in Egitto nel 1876, era stato nel 1881 messo in pericolo dalla ribellione del movimento nazionale egiziano guidato dal colonnello ‛Orabī contro il regime collaborazionista del chedivè Tawfīq, e l'intervento britannico era destinato fondamentalmente a rimettere in sella il regime fantoccio di Tawfīq, il quale aveva svolto il ruolo di uomo di paglia favorendo la partecipazione di uomini politici europei a un governo formalmente egiziano. Sennonché lo sgombero del paese, che Gladstone si proponeva seriamente dopo aver conseguito la restaurazione di un regime collaborazionista di obbedienza britannica e il ristabilimento del controllo finanziario europeo, non ebbe mai luogo: da un lato, perché le assicurazioni che il governo britannico esigeva dal sultano di Costantinopoli e dalle altre grandi potenze non furono mai ottenute e, dall'altro, perché, dopo la morte del generale Gordon a Khartūm nel 1885, l'opinione pubblica britannica era caduta in un tale stato di eccitazione nazionalistica che non si poteva più pensare a una ritirata britannica dall'Egitto senza l'assicurazione di un formale diritto d'intervento nel caso di pericolo per il canale di Suez. L'occupazione temporanea dell'Egitto, priva di qualsiasi avallo sul piano del diritto internazionale e per la cui legittimazione all'interno come all'esterno ci si basava sulla restaurazione del chedivè, si trasformò così, con l'esercizio di fatto del potere da parte dell'Alto Commissario britannico lord Cromer e di uno staff di funzionari britannici al servizio egiziano, in un'occupazione permanente. L'occupazione inglese costituì il punto di partenza per le iniziative imperialistiche rivali della Francia e dell'Italia, e produsse indirettamente una situazione politica complessiva che consentì a Bismarck, ad onta dell'opposizione inglese, di annettere Angra Requeña, l'Africa Orientale Tedesca, il Togo e il Camerun.
In tre grandi avanzate fu portato a compimento nei decenni successivi un formidabile processo di espansione territoriale, che assoggettò al controllo imperialistico quasi tutti i territori oltremare ancora liberi. Nella prima fase (1881-1888), ancora relativamente priva di conflitti, si assisté a una strenua gara tra le potenze per fondare le loro pretese territoriali; la seconda fase, che comincia, dopo una breve pausa, nel 1893, e giunge sino alla fine della guerra boera nel 1902, fu segnata in misura crescente da gravi conflitti internazionali. L'ultima fase fu caratterizzata da un lato dagli sforzi per considerare e ‛arrotondare' i possedimenti coloniali e dall'altro dai tentativi febbrili delle potenze ri aste sen bottino di accaparrarsi all'ultimo minuto una congrua fetta della torta. Questa terza fase ebbe inizio con la seconda crisi marocchina del 1911 e raggiunse l'acme negli sterminati elenchi di obiettivi di guerra imperialistici e di redistribuzioni territoriali della prima guerra mondiale. A questo proposito violentissimi furono i contrasti per la suddivisione del continente africano, cui si è dato il nome calzante di ‟scramble for Africa". In modo comparativamente più circospetto si comportavano le grandi potenze in Estremo Oriente, soprattutto in considerazione del fatto che gli Stati Uniti si erano opposti a partire dal 1900 alle conquiste territoriali dirette in Cina e avevano ostacolato in modo massiccio i tentativi europei di assicurarsi in quell'area interessi economici da sfruttare monopolisticamente. Anche nel Vicino Oriente le brame territoriali furono frenate da particolari costellazioni politiche: il comune interesse delle grandi potenze alla conservazione dell'equilibrio esigeva per il momento il mantenimento del venerabile ma da lungo tempo decrepito Impero ottomano, cosicché le cupidigie imperialistiche dovettero rivolgersi in prevalenza verso la dipendenza economica informale. Come conseguenza della prima guerra mondiale si ebbe finalmente il crollo dell'Impero ottomano, ma allora i desideri lungamente covati dalle potenze imperialistiche poterono realizzarsi soltanto nella forma del sistema mandatario.
In questo periodo fu instaurato anche un effettivo dominio nei vasti territori che o erano posseduti in forza di titoli giuridici tradizionali o potevano essere conquistati ex novo. E giacché la colonizzazione europea si era sin allora esclusivamente servita del problematico istituto giuridico rappresentato dalla stipulazione di contratti con i capi locali, i quali in maggioranza non sapevano scrivere né si rendevano chiaramente conto, salvo che per sommi capi, dei documenti che sottoscrivevano, al Congresso di Berlino, riunitosi alla fine del 1884 in occasione della fondazione dello Stato Internazionale del Congo di Leopoldo II, si raggiunse un accordo secondo il quale si doveva garantire il principio della ‟effettività dell'occupazione", e alla presa di possesso dei territori coloniali si doveva riconoscere validità sul piano del diritto internazionale, mentre non potevano invece bastare i meri pezzi di carta dei trattati. I tentativi del Congresso di Berlino di sottoporre a norme di diritto internazionale la concorrenza per la conquista di territori oltremare, e nel contempo di accordarsi su certe esigenze umane minime in materia di trattamento delle popolazioni indigene (cfr. le deliberazioni sul Congo del 26 febbraio 1885), non conseguirono in verità che un limitato successo. Per quanto riguarda lo Stato del Congo e il bacino del Congo, gli sforzi per un'estesa internazionalizzazione di quell'area subirono uno scacco completo. È vero che a Leopoldo II, come anche alle potenze egemoni sui regimi confinanti col Congo (specialmente la Francia, il Portogallo e la Gran Bretagna) fu imposto di praticare in quell'area il principio della ‟porta aperta" e di garantire al commercio di tutte le potenze interessate un eguale accesso alla regione del Congo; cionondimeno questa disposizione fu in realtà presto elusa soprattutto dalle società di sfruttamento create da Leopoldo II, e cadde poi completamente nel vuoto la garanzia dei principî umanitari elementari. Nuove norme giuridiche erano tuttavia stabilite; l'instaurazione del dominio coloniale abbisognava ormai del riconoscimento internazionale, il quale era legato all'effettività dell'esercizio del potere nella regione interessata.
Questa circostanza accelerò il processo di penetrazione dell'‛entroterra' dei vari territori coloniali, che sinallora era stato in massima parte assoggettato solo a uno sfruttamento di natura oltremodo estensiva ed era spesso rimasto pressoché inaccessibile agli Europei. In questo sviluppo la forma giuridica della chartered company - di cui le grandi potenze si erano servite nonostante i ripetuti fallimenti di queste società coloniali, spesso edificate su basi esclusivamente speculative - non si dimostrò più idonea alla nuova situazione, essendo incapace, per ragioni sia di personale sia di natura finanziaria, di esercitare un dominio coloniale intensivo. La British South African Company di C. Rhodes rappresenta sotto questo aspetto un'eccezione degna di nota. Già verso la fine degli anni ottanta Bismarck si vide costretto, molto di malavoglia, a liquidare la politica di controllo indiretto e a porre i protettorati sotto la diretta amministrazione del Reich. Similmente si comportò la Gran Bretagna quando nel 1894, con una combattutissima decisione, raccolse l'eredità della fallita British East African Company e trasformò l'Uganda in una colonia della corona.
Verso la fine dell'Ottocento, dunque, si procedette quasi ovunque alla costituzione di amministrazioni coloniali nonché alla determinazione dei confini dei singoli territori mediante un gran numero di accordi bilaterali, i quali però conseguirono non di rado validità generale soltanto dopo considerevoli coniplicazioni internazionali. Per esempio, contro l'accordo britannico sui confini con lo Stato internazionale del Congo (12 maggio 1894), accordo con cui lord Rosebery sperava di realizzare il piano preesistente di un collegamento Capo-Cairo, sia il governo tedesco che quello francese elevarono vivacissime proteste, soprattutto in considerazione del fatto che la prevista cessione alla Gran Bretagna di una striscia del confine orientale dello Stato del Congo avrebbe tagliato fuori l'Africa Orientale Tedesca dall'accesso diretto a quella regione (v. Robinson e altri, 19683); si dovette pertanto procedere a una revisione della materia. Soprattutto a proposito della delimitazione dei territori dell'Africa occidentale e dell'avvenire politico del Sudan si produssero - in seguito agli sforzi per una fissazione definitiva dei singoli possedimenti coloniali (inclusi i rispettivi entroterra) - aspri contrasti che raggiunsero l'acme con il conflitto di Fascioda nel 1898.
Verso la fine del secolo la maggior parte dell'Africa veniva ripartita tra le potenze in modo definitivo, e soltanto il Marocco e Tripoli, in quanto tributari della Porta, conservavano temporaneamente la propria indipendenza politica (il primo grazie alla garanzia internazionale contenuta nel Trattato di Madrid del 1880, il quale, naturalmente, poneva nel contempo anche le basi per una politica di ‛penetrazione pacifica' con mezzi economici specialmente da parte della Francia e della Spagna); il processo di colonizzazione territoriale nell'Estremo Oriente, invece, si arrestava a mezza strada. È vero che la Francia s'impadroniva a poco a poco di tutta l'Indocina e che la Gran Bretagna estendeva incessantemente il suo controllo sul subcontinente indiano, ma la ripartizione territoriale dell'immenso Impero cinese, che i contemporanei vedevano già a portata di mano, non ebbe luogo. Gli Stati Uniti occuparono nel 1898 - con una rottura degna di nota della loro tradizione in materia di politica estera - le Filippine, considerate come un trampolino verso la Cina, e nel contempo la Russia, la Gran Bretagna e il Reich tedesco si procurarono sulla costa cinese posizioni che dovevano fungere da basi per la penetrazione economica nell'entroterra, mentre il Giappone si assicurò il predominio indiretto sulla Corea, di cui fece nel 1905 un protettorato. E tuttavia la politica di delimitazione delle zone d'interesse conseguì risultati relativamente scarsi. Gli Stati Uniti propugnavano, in luogo della delimitazione, il principio della ‛porta aperta', e ciò obbligava le potenze imperialistiche a fare ricorso esclusivo ai metodi informali, tra i quali c'erano, accanto all'acquisto di concessioni ferroviarie e portuali, anzitutto le strategie della finanza imperialistica, basate sulle colonie straniere sorte, sotto la protezione dell'extraterritorialità, nei ‛porti cinesi dei trattati'. Anche nel Vicino Oriente la politica delle grandi potenze faceva di norma ricorso, per assicurarsi zone di interesse preferenziale, a strategie indirette, diplomatiche o economiche, mentre soltanto in casi eccezionali si procedette all'annessione diretta. Per esempio, la Gran Bretagna pose sotto la propria protezione gli sceiccati del Kuwait e di Bahrein, che formalmente appartenevano ancora all'Impero ottomano, senza curarsi più che tanto dell'anomalia di un simile comportamento dal punto di vista del diritto internazionale. Anche la Persia, pur rimanendo secondo il diritto internazionale uno Stato sovrano, fu coinvolta nel gioco degli interessi imperialistici russi e britannici; il conflitto fu infine risolto dalla delimitazione delle rispettive sfere d'interesse nel Trattato russo-britannico del 1907. Bisogna ora aggiungere che, qui come altrove, gli sforzi dei beati possidentes per assicurare e ‛arrotondare' i loro possedimenti coloniali mediante una serie di accordi bilaterali (come per esempio l'entente cordiale del 1904) furono ostacolati dai tumultuosi tentativi delle potenze inseritesi relativamente tardi nella competizione di procacciarsi una congrua quota del bottino coloniale. Il Reich tedesco sperava di porre, con un massiccio intervento nella seconda crisi marocchina (1911), la prima pietra d'un'‛Africa Centrale Tedesca', progetto che naturalmente falli nell'essenziale, in quanto la Gran Bretagna intervenne decisamente a fianco della Francia. Solo un anno più tardi l'Italia, in un'ondata di entusiasmo nazionalistico, procedette all'annessione della Libia e occupò le isole del Dodecanneso; uno sviluppo, questo, che doveva incoraggiare gli Stati balcanici a liberarsi finalmente dai residui del dominio ottomano.
Questi avvenimenti fecero tremare sin dalle fondamenta l'equilibrio del potere in Europa e condussero - in parte direttamente e in parte indirettamente - allo scatenamento della prima guerra mondiale.
d) Le forze motrici dell'espansione imperialistica
Le cause di tale secolare processo di ripartizione del mondo, che raggiunse il massimo sviluppo nell'imperialismo maturo, non si lasciano ricondurre facilmente sotto un'etichetta conclusiva. Sino a tempi recentissimi, violente controversie - non da ultimo a causa delle implicazioni politiche di questi problemi - hanno agitato gli studi sull'imperialismo. Tradizionalmente, le cause del processo di espansione imperialistica sono state ricercate con assoluta prevalenza sul versante delle potenze imperialistiche, cioè delle metropoli. La più antica storiografia tedesca neorankiana, per esempio, interpretava l'imperialismo come una consegnenza di un'aspirazione al potere insita nella natura delle grandi potenze, le quali sogliono ‟ascriversi e usurpare un interessamento ai processi economici e politici di una vasta area [...] un'area anzi che abbracci l'intera superficie del pianeta" (v. Weber, 19583). Recentemente i processi dell'imperialismo maturo sono stati fatti risalire alle condizioni economiche e sociali esistenti negli Stati industriali dell'Occidente - in cui la modernizzazione procede con grande rapidità -, e in particolare sono stati posti in connessione con le oscillazioni della crescita economica come anche con gli sfasamenti dello sviluppo dell'economia (v. sotto). Ancor più recentemente è stato messo l'accento - specialmente da Gallagher, Robinson e Fieldhouse - sui fattori ‛periferici', cioè sui processi sviluppatisi negli stessi Stati e territori oggetto dell'espansione europea.
Effettivamente, la direzione, i tempi e il ritmo dei processi di espansione territoriale nelle regioni oltremare, e in particolare l'instaurazione del dominio coloniale formale furono determinati in misura essenziale dagli eventi che si verificarono nelle regioni e nei territori stessi e non già da specifici sviluppi delle metropoli imperialistiche. Il processo di abbandono delle vecchie forme di dominio più o meno informale - ovvero di dominio formale con una misura minima di effettivo esercizio del potere (come si verificava tipicamente quasi ovunque all'epoca del primo imperialismo) - a favore di moderne amministrazioni coloniali territoriali, è stato innescato quasi sempre dal crollo parziale o completo delle strutture di potere indigene disposte a collaborare, sia che fossero strutture politiche con un grado di sviluppo abbastanza alto, come nel caso della Tunisia e dell'Egitto, oppure semplici strutture tribali. I movimenti nazionalistici di protesta, o le ribellioni di settori della popolazione indigena contro il governo collaborazionista, o l'influsso indiretto della civiltà europea - per esempio l'acquisto di armi occidentali, o anche la corruzione morale, aggravata dall'abuso di alcolici, in precedenza ignoti agli indigeni - furono i fattori che produssero il crollo delle strutture di potere indigene. Si verificò quindi un relativo vuoto di potere, che gli invasori furono spinti a riempire, per così dire automaticamente.
Si aggiunga il fattore rappresentato dalla cosiddetta ‟turbulent frontier", cioè dai continui conflitti con le popolazioni indigene ai confini, conflitti che hanno spesso offerto lo spunto ad ‛azioni punitive' non di rado sfociate nell'ampliamento del territorio. Con sincerità degna di nota il ministro degli Esteri russo Gorčakov già nel 1864 attirò l'attenzione sul fatto che il meccanismo, che si nutriva per così dire di se stesso, dell'espansione territoriale, era incessantemente innescato da tali conflitti di confine. Egli osservava infatti in relazione alla colonizzazione russa nell'Asia centrale: ‟All'inizio bisogna reprimere aggressioni e atti di saccheggio. Per sventare realmente azioni del genere, di solito si è costretti ad assoggettare in modo più o meno completo le popolazioni responsabili..." (v. Kazemzadeh, 1968, p. 8). Questo vale anche per i processi di espansione territoriale in Africa e in Asia.
La necessità, che andava di pari passo con il crescente ampliamento dei territori coloniali, di passare a forme di dominio diretto anziché limitarsi, come nel passato, all'esercizio di un potere estensivo magari con la collaborazione delle autorità indigene, non era accompagnata necessariamente da vantaggi economici. All'opposto, l'instaurazione di un dominio coloniale formale fu spesso presa in considerazione malvolentieri dai diretti interessati, o addirittura combattuta, come per esempio in Africa occidentale. Quando nel 1885 la Royal Niger Company si accinse, con l'appoggio del protettorato britannico, a sottoporre la Nigeria a un'amministrazione diretta che escludesse i capi tribali, ci fu a Liverpool un coro di proteste da parte degli interessati, i quali vedevano l'iniziativa come una minaccia per le loro relazioni commerciali, che si basavano sulla partecipazione di middle men africani.
Un ruolo di particolare rilievo fu svolto dai fattori periferici negli Stati dell'Impero ottomano. Qui, come anche in altri casi, i sovrani locali si erano sforzati di consolidare la loro posizione di potere con una modernizzazione del paese, e in particolare dell'esercito; a questo scopo facevano ricorso a capitali europei, sebbene la maggior parte del denaro venisse poi dissipata per le necessità quotidiane. Ciò vale particolarmente per l'Egitto, per la Tunisia e per il paese che costituiva il nucleo dell'Impero ottomano, cioè la Turchia. Il chedivè Ismail aveva dato mano, sin dagli anni venti dell'Ottocento, a grandi iniziative, con l'aiuto di capitali europei, per estendere il sistema di trasporti egiziano e per gettare le basi, con la costruzione di fabbriche e il rilascio di concessioni agli europei, di uno sviluppo industriale del paese: un tentativo destinato a fallire a causa della grave situazione finanziaria provocata dalla costruzione del canale di Suez, che ingoiava somme enormi. In Egitto, come anche in Tunisia e nella stessa Turchia, i tentativi dei regimi ancora in gran parte feudali di avviare un processo di modernizzazione in collaborazione con il capitale finanziario europeo, si conclusero con un immane indebitamento, che non desta meraviglia se si pensa alle rovinose condizioni imposte dalle banche internazionali. I concession hunters trovavano qui, soprattutto grazie alla posizione privilegiata degli Europei, un campo d'azione estremamente redditizio. In tutti e tre i paesi menzionati i castelli di debiti infine crollarono, e si poté evitare la totale bancarotta dello Stato solo mediante l'instaurazione di un controllo finanziario da parte di rappresentanti dei creditori europei. Questi ultimi costituirono una sorta di ‛secondo governo', dato che presero nelle loro mani l'amministrazione di vasti settori del gettito fiscale degli Stati interessati, esercitando un largo controllo indiretto sulle finanze dello Stato. In alcuni casi le amministrazioni dei debiti, e in particolare l'Administration de la Dette Publique Ottomane, creata in seguito alla pressione discreta ma ferma del Congresso di Berlino, promossero persino politiche di sviluppo miranti ad accrescere il gettito fiscale (in verità solo nell'interesse dei creditori). Le opposizioni locali a un simile sistema di imperialismo finanziario informale costrinsero non di rado le potenze europee a provvedere all'instaurazione (o alla conservazione) di regimi collaborazionistici guidati dagli Europei; il che produsse però turbamenti gravissimi nelle strutture politiche tradizionali (v. Schölch, 1973, pp. 53 ss.). Tanto in Tunisia che in Egitto il crollo delle strutture politiche minate dall'imperialismo informale europeo condusse all'inizio degli anni ottanta all'intervento e all'instaurazione di un dominio imperialistico più o meno formale. Soltanto la Turchia sfuggì a questo destino. Qui la Caisse de la Dette Publique Ottomane diventò il ‟perno delle relazioni finanziarie europeo-ottomane" (v. Schölch, 1975, p. 436) e il sostegno decisivo della penetrazione imperialistica informale nell'Impero ottomano. Anche il Marocco riuscì in un primo tempo a mantenere l'indipendenza statale dinanzi ai tentativi dell'imperialismo europeo, ma soltanto a condizione di rilasciare concessioni e privilegi essenziali agli Europei o ai loro incaricati. Ma quando nel 1910 il regime fantoccio del sultano del Marocco cominciò a vacillare a causa di un movimento insurrezionale interno, l'intervento militare francese mirante a conservare il potere di questo sovrano - da cui dipendevano tanti privilegi e concessioni - fu in realtà il primo passo verso la perdita dell'indipendenza del paese.
Sebbene tutti questi imperialismi informali od operanti con metodi estensivi si limitassero per lo più a sgombrare la via all'attività economica dei propri cittadini e a ottenere garanzie contro l'intervento di potenze concorrenti, le conseguenze a lunga scadenza per le popolazioni indigene si dimostrarono assai inquietanti; tornava infatti ad esclusivo vantaggio delle potenze e dei rappresentanti degli interessi europei la conservazione di strutture sociali spesso estremamente arcaiche e in genere feudali, essendo ad esse legato tutto un complesso di prerogative, concessioni e privilegi.
Per contro, il passaggio al dominio coloniale diretto fu in taluni casi addirittura fonte di vantaggi per le popolazioni indigene, giacché le amministrazioni coloniali avevano spesso interesse, al fine di conservare il proprio potere, a eliminare almeno gli abusi più gravi e a procurarsi per tale via una sia pur minima disponibilità della popolazione a collaborare. In ogni modo, è stato il pericolo gravante sui regimi collaborazionistici indigeni, ovvero il loro crollo in seguito a ribellioni interne o a influssi disgreganti di terzi, a costituire molto spesso l'occasione che ha messo in moto il processo dell'instaurazione o dell'espansione del dominio coloniale territoriale. Questo fattore, insieme con quello della turbulent frontier, ha contrassegnato tipicamente la transizione all'imperialismo maturo, sebbene non siano naturalmente mancati, neppure in questo periodo, vari tipi di imperialismi informali, specialmente di natura commerciale e finanziaria. Anche per questo è inopportuno - come fanno molti teorici dell'imperialismo - presupporre una correlazione tra i processi di espansione territoriale e i processi di crescita economica operanti nelle società industriali (con le loro periodiche oscillazioni).
È nondimeno incontestabile che l'industrializzazione - dato che all'epoca dell'imperialismo maturo la grande maggioranza degli Stati industriali aveva oltrepassato (la Gran Bretagna l'aveva già fatto verso il 1850) la soglia dello stadio della maturità (nel senso di W. W. Rostow) - impresse una fortissima accelerazione al secolare processo dell'espansione imperialistica. Anzitutto, il vantaggio tecnologico nei confronti delle società sottosviluppate si accrebbe in misura tale che forze militari anche esigue erano in grado di annientare le strutture politiche indigene e di annettere territori immensi. In secondo luogo, la superiorità economica dell'Occidente rispetto alle società tradizionali del mondo sottosviluppato era tanto grande che, anche quando veniva mantenuta l'autonomia politica formale, diventava ormai impossibile sottrarsi a una penetrazione economica con mezzi informali, né era necessario che tale penetrazione fosse accompagnata da misure politiche di sostegno. D'altro canto, bisogna partire dalla considerazione che l'espansione del sistema occidentale nel globo, a prescindere dalla natura - formale o informale - dei suoi metodi, ha facilitato in modo decisivo il processo di sviluppo di un sistema economico multinazionale (v. Saul, 1960, pp. 122 s., 221), e ha quindi, almeno indirettamente, accelerato in modo considerevole il ritmo della crescita economica, ad onta del fatto che la diretta rilevanza economica dei territori coloniali - a parte poche eccezioni, come l'India - fosse in un primo tempo marginale.
È possibile percepire approssimativamente le dimensioni di questo processo nella crescita del commercio estero degli Stati industriali a partire dal 1870 (è però impossibile determinare con precisione la parte spettante al commercio con i territori dipendenti, giacché i dati a nostra disposizione riguardano sempre e soltanto il commercio dei singoli Stati con le proprie colonie e non il commercio con i territori sottosviluppati in generale). Tra il 1880 e il 1910 il commercio estero britannico sali da 634,2 milioni di sterline a 1.108,7 milioni; quello francese (calcolando in sterline) da 356,8 milioni a 560,9 milioni; quello tedesco da 280,8 milioni a 802,8 milioni; quello americano da 306,4 milioni a 671 milioni. Da questi dati risulta, considerando insieme i quattro paesi, un aumento del 100%. Si dovrebbe inoltre prendere in considerazione la forte tendenza alla caduta dei prezzi che accompagnò la cosiddetta Great Depression (1873-1894), dalla quale deriva che il volume delle merci scambiate dovrebbe essere aumentato, secondo una stima grossolana, di un altro 20%. Si tratta di cifre imponenti, anche se solo una frazione relativamente modesta di esse può essere attribuita al commercio con i territori dipendenti in senso stretto.
Affermazioni relativamente più concrete è possibile fare circa lo sviluppo degli investimenti esteri dei principali Stati industriali (nel periodo dell'imperialismo maturo erano soprattutto Francia e Gran Bretagna i banchieri del mondo), sebbene in questo campo siano disponibili soltanto stime scarsamente fidate se si scende ai particolari. Perno della finanza internazionale e intermediarie dei prestiti internazionali erano anzitutto le cosiddette banche internazionali, e in particolare una serie di banche private specializzate negli affari internazionali capeggiate dalla banca Rothschild, ma anche banche di deposito di recente fondazione, come il Crédit Lyonnais e più tardi le banche universali come la Deutsche Bank (per un'impressionante descrizione del sistema delle banche private francesi, che si occupavano in modo particolare di affari oltremare, v. Landes, 19692). Gli investimenti esteri della Gran Bretagna, della Francia, del Reich tedesco e degli Stati Uniti (i quali, naturalmente, erano anche nel contempo, sino al 1914, creditori nei confronti dell'Europa per un ammontare di 6.800 milioni di sterline) crebbero, come mostra la seguente tabella, con un ritmo straordinario.
I proventi degli investimenti esteri britannici costituivano quasi il 10% del reddito nazionale, quelli degli investimenti francesi nel 1911 circa il 5-6%: essi contribuivano quindi in misura significativa al benessere dei due paesi. Già i contemporanei misero in relazione il clamoroso aumento degli investimenti esteri (specialmente a partire dal 1898) con l'espansione imperialistica: il primo fu C. A. Conant (v. Mommsen, 1968, p. 631), seguito da J. H. Hobson nella fondamentale opera Imperialism. A study. In verità, un'analisi della distribuzione geografica mostra come solo una frazione degli investimenti esteri andasse ai territori sottosviluppati, con quote minime alle colonie tropicali (diversamente dalle più sviluppate colonie di insediamento, come il Canada e l'Australia). Degli investimenti britannici andava quasi sempre ai territori dell'Impero (con oscillazioni insignificanti) soltanto un ammontare compreso tra un terzo e la metà, e comparativamente modesta era la quota destinata ai territori acquisiti durante l'epoca del capitalismo maturo (v. Simon, 1968, pp. 28 ss.). Ancora più netto è il caso della Francia. Le aree principali in cui affluivano i capitali francesi erano situate nell'Europa orientale (in particolare in Russia), nel continente americano e nel Vicino Oriente (v. Cameron, 1961, p. 486; v. Ducruet, 1964, pp. 13 s.), mentre gli investimenti nelle colonie francesi ammontarono in media (con tendenza a calare) per l'intero periodo 1882-1914 all'11%, gran parte del quale andava all'Algeria in quanto colonia di insediamento. Anche il Reich, nel 1914, aveva destinato alle sue colonie una frazione minima dei suoi investimenti esteri, il grosso dei quali era collocato in Europa (37,8%), Nordamerica (15,7%) e America Latina (16,2%). Soltanto nell'Impero ottomano si riscontra una certa concentrazione di capitali tedeschi, ma anche qui solo a partire dagli anni novanta. Nel complesso, nè le statistiche sul commercio nè quelle sulle esportazioni di capitali suggeriscono l'esistenza di una correlazione diretta tra l'espansione economica e l'espansione territoriale. All'opposto, le due forme dell'imperialismo - l'imperialismo finanziario e l'imperialismo politico-territoriale - sono bensì tra loro intrecciate, ma rimangono nondimeno, nell'essenziale, autonome, con obiettivi tendenzialmente differenti (v. Mommsen, Europäischer..., 1975). Le esportazioni di capitali preferirono gli Stati industrialmente sviluppati dell'Europa e del Nordamerica, e inoltre regioni dotate di una relativa autonomia politica, come il Sudamerica in primo luogo e poi i paesi del Vicino Oriente, e infine le colonie di insediamento economicamente prospere, mentre l'interesse a un impegno finanziario nei paesi coloniali sottosviluppati era scarso, e talora persino scarsissimo. La politica tedesca in Africa centrale mirava, secondo l'industria pesante, a creare ‟imperi coloniali, che stanno sulla luna" (v. Fischer, 1969, p. 379); e le grandi banche tedesche erano disposte a impegnarsi su vasta scala in queste aree solo dietro pressione politica, e anche allora solo dietro adeguate garanzie dello Stato. Gli enormi investimenti francesi nella Russia zarista rappresentavano un interessante caso particolare, che pone il problema se si sia trattato di una variante dell'imperialismo informale ovvero semplicemente di lucrosi ‛aiuti per lo sviluppo'. La capacità d'azione politica della Russia e la sua sovranità non sembrano infatti essere state intaccate, e anzi la Russia fu messa proprio dai capitali francesi in condizione di promuovere una politica di imperialismo informale, e talvolta anche formale, nell'Estremo Oriente (v. Girault, 1973, pp. 371 ss.; v. Romanov, 1952, pp. 323 ss.).
Neppure la struttura degli investimenti esteri degli Stati industriali conforta l'ipotesi di un'abituale correlazione tra l'espansione territoriale e la necessità di aprire all'economia delle metropoli nuovi sbocchi commerciali o nuovi campi d'investimenti produttivi. La parte di gran lunga maggiore degli investimenti esteri fu erogata nella forma di prestiti statali o di obbligazioni municipali; svolsero un ruolo assai importante anche le obbligazioni ferroviarie, mentre la quota destinata a investimenti produttivi nelle miniere e nell'industria fu comparativamente modesta, specialmente nei territori dipendenti in senso stretto. Nell'insieme, non si può dunque parlare di un legame abituale tra capitale finanziario e capitale industriale, come è stato ipotizzato, sulla scia di R. Hilferding, da molti autori marxisti. L'assenza di un tale legame giocò d'altronde a sfavore delle regioni sottosviluppate; il capitale investito nelle regioni oltremare era infatti in massima parte di natura speculativa, e soltanto una sua frazione fu impiegata in investimenti produttivi: era quindi, per la sua natura parassitaria, incapace di promuovere lo sviluppo. Le esportazioni di capitali furono inoltre usate, in particolare dopo la svolta del secolo, come veicolo d'influenza politica e perciò avviate spesso in direzioni prive di rilevanza per un'effettiva modernizzazione dei paesi interessati, come per esempio il finanziamento di armamenti o di strade ferrate di importanza strategica. L'imperialismo americano, in fatti, fece nuovamente ricorso, dopo il 1900, ai metodi informali, e la cosiddetta ‛diplomazia del dollaro' doveva, soprattutto in Sudamerica, creare per gli Stati Uniti un'alea d'influenza privilegiata in campo sia economico che politico.
Rimane tuttavia il fatto che l'imperialismo finanziario, come abbiamo già mostrato, ha in molti casi aperto la strada all'instaurazione del dominio politico, e già solo per questo esso rappresenta un fattore di straordinaria importanza all'interno del fenomeno globale dell'imperialismo. Non si può però affermare senz'altro che gli investimenti di capitali nelle regioni oltremare siano stati indispensabili per lo sviluppo del capitalismo negli Stati industriali, come la grande maggioranza degli autori marxisti è ancor oggi incline a supporre, appellandosi alla ‛legge della caduta tendenziale del saggio del profitto'. Difficilmente si può vedere nella sovrabbondanza di capitali, contrariamente a un'opinione avanzata recentemente da Bouvier, un impulso decisivo all'espansione imperialistica, sebbene possa aver svolto un ruolo in certe fasi (per esempio il capitale reso libero dalla fine del boom ferroviario in Europa e negli Stati Uniti nel 1873 si spostò in grandi quantità verso progetti per la costruzione di ferrovie nelle regioni sottosviluppate). Bisogna piuttosto partire dalla considerazione che, nell'insieme, si trattò di capitali speculativi: nei territori oltremare gli utili erano, o sembravano essere, assai più alti che nei mercati interni degli Stati industriali, cosicché non soltanto i detentori di grossi capitali ma anche, e in particolar modo, i piccoli investitori furono spinti a effettuare investimenti in questo settore, con il risultato che alla fine spesso non riuscirono, diversamente dalle banche che emettevano i titoli, a remunerare il proprio denaro. Per esempio, Feis ritiene che nel caso della Francia ‟fino alla metà degli anni novanta i proventi del prestito estero furono ingoiati dalle perdite" (v. Feis, 19652; tr. it., p. 47).
Data la loro capacità di avviare, nel medio periodo, un volume adeguato di scambi commerciali, gli investimenti esteri hanno invece contribuito ad attenuare le crisi di crescita del sistema capitalistico occidentale, sebbene le cose non siano affatto andate sempre in questo modo. Nel complesso, la domanda ‟È stato l'imperialismo remunerativo?" non consente una risposta senz'altro affermativa: da un lato l'imperialismo formale, in una prospettiva economica globale, non fu mai remunerativo, dall'altro l'imperialismo informale, nonostante rischi incomparabilmente maggiori, si dimostrò nell'insieme redditizio, sebbene quantità notevoli dei capitali investiti andassero perdute. Se si considerano invece i primi e diretti beneficiari, per esempio le banche e i cacciatori di concessioni, o anche certi rami dell'industria (come in Inghilterra l'industria tessile e taluni settori dell'industria del ferro e dell'acciaio), come pure certi interessi commerciali, soprattutto nei casi in cui era possibile sfruttare concessioni monopolistiche, l'imperialismo risultò indiscutibilmente vantaggioso. Tuttavia, la questione se il processo imperialistico sia stato innescato primariamente dagli interessi dei gruppi capitalistici per essere poi condotto a termine dagli apparati del potere politico, o non sia invece accaduto il contrario, è una questione che, stando alle ricerche più recenti, deve rimanere aperta. In ogni modo, si dovrà partire dalla considerazione che di norma le aspettative di un futuro miglioramento economico, quali erano coltivate in vaste cerchie specialmente dei ceti borghesi, svolsero un ruolo assai maggiore di tutti gli interessi economici riscontrabili concretamente, sebbene questi non siano certamente mancati. La convinzione generale che il capitalismo abbisognasse, per la sua ulteriore crescita, di nuove terre vergini in cui investire e di nuovi sbocchi commerciali, preparò il terreno, in seno a settori sempre più vasti della popolazione, alla mentalità nazionalistica del territorial grab.
I processi di espansione territoriale sono sempre da ricondurre al concorso di fattori endogeni e di fattori esogeni. Specialmente nell'imperialismo britannico, l'‟official mind" era volto al consolidamento e alla difesa dell'impero piuttosto che alla sua ulteriore espansione, magari suggerita da ragioni economiche (v. Robinson e altri, 19683, pp. 464 ss.); e anche nella grande maggioranza degli Stati industriali non si trovano che pochi uomini di Stato che aderissero senza restrizioni alle teorie imperialistiche del giorno. Un'importanza decisiva spetta invece all'azione combinata delle ‛cricche strategiche' nelle metropoli - il cui interesse all'espansione territoriale aveva motivazioni particolari (è indifferente se di indole economica, o di conservazione sociale) - e del sub-imperialismo (v. Fieldhouse, 1973) dei coloni, militari e diplomatici bianchi della periferia. Ne è un esempio caratteristico la pluridecennale tenace avanzata (incessantemente ma vanamente contrastata dal governo di Londra) della colonia del Capo e della South African Company di C. Rhodes, che provocò a sua volta il cosiddetto esodo dei Boeri nel Transvaal. Non di rado l'espansione territoriale era anzitutto il risultato di un ‛imperialismo militare', specialmente nel caso della Francia (v. Kanya-Forstner, 1969, pp. 263 ss.). Non senza fondamento l'Indocina era considerata dai contemporanei una colonia des admiraux; in questo caso era infatti la marina il fattore propriamente aggressivo, in collegamento con alcuni gruppi d'interesse - che non mancano mai - i quali attiravano l'attenzione generale sulle grandi possibilità economiche del paese, tra l'altro sui grandi giacimenti carboniferi (v. Brötel, 1971, pp. 263 ss.). La magica speranza di aprire in tal modo una via al commercio europeo verso una Cina rimasta ancora in gran parte inaccessibile ebbe anch'essa un ruolo di sprone. Anche il Sudan occidentale fu conquistato, e poi gradualmente assoggettato, in seguito alle iniziative, per lo più arbitrarie, del militarismo coloniale francese.
Naturalmente, ciò era possibile perché soprattutto nei ceti dirigenti, ma poi in misura crescente anche nelle classi medie delle potenze europee, andava diffondendosi una mentalità esplicitamente imperialistica. In ciò svolgeva un ruolo, oltre agli interessi e alle aspettative in campo economico, il nazionalismo tradizionale come anche le allora nascenti concezioni razziste e social-darwiniste, che reinterpretavano la storia come una lotta dei popoli per la sopravvivenza e manifestavano inoltre la ferma convinzione della essenziale superiorità della ‛razza bianca' (v. Semmel, 1960, pp. 23 ss.; v. Koch, 1973, pp. 87 ss.). La disponibilità dell'opinione pubblica nei confronti di teorie del genere - quali si manifestavano in una versione relativamente blanda in Seeley e Dilke, in una variante quasi prefascista in K. Peters, in una forma religiosa, come coscienza della propria missione, in americani come J. Strong e J. Fiske, diventando infine, in una forma naturalmente smussata, un elemento costitutivo della coscienza politica delle classi dirigenti - sta in relazione con gli effetti che il secolare processo di modernizzazione produceva sulla compagine sociale delle società industriali: i valori e i modelli di comportamento erano scossi, e si creava pertanto una disposizione alla ricerca di modelli ideologici sussidiari di autoidentificazione. La crescente mobilità sociale veniva pagata con l'insicurezza economica e sociale, e anche ideologica, di vasti strati. La prontezza impressionante della piccola borghesia e di una parte degli intellettuali ad aderire ai nuovi ideali (particolarmente vistosa era la partecipazione della classe media inferiore e degli intellettuali alle associazioni imperialistiche, sebbene i posti di comando fossero in genere occupati dalle élites) deve essere spiegata tenendo presente questa situazione (v. anche Wehler, 1973, pp. 179 ss.).
Nelle classi dirigenti, inoltre, si fece strada la tentazione di sfruttare la politica imperialistica come una sorta di strategia per il consolidamento dell'ordinamento sociale esistente e quindi del loro tradizionale primato nello Stato e nella società. Soprattutto Wehler e Berghahn hanno attirato l'attenzione sull'importanza di queste strategie ‛social-imperialistiche' per la formazione di un ‛consenso ideologico' sulla necessità dell'espansione imperialistica (sulle tesi di Wehler e Berghahn cfr. Mommsen, in ‟Central European History", 1969, II, pp. 366 ss.). Elaborato sull'esempio dell'imperialismo bismarckiano, questo modello interpretativo sembra, naturalmente, adattarsi assai meglio alla ‛politica mondiale' tedesca dei tempi di Bulow che a quella degli anni ottanta. Non c'è dubbio che simili strategie manipolatorie, messe in opera per consolidare il primato delle élites tradizionali e per difendersi dalle tendenze democratiche e specialmente socialdemocratiche, abbiano svolto un ruolo straordinariamente importante anche in altri casi. Per esempio, il new imperialism britannico dopo la metà degli anni ottanta potrà, con qualche limitazione (v. Rohe, 1971, pp. 71. ss.), essere interpretato come una strategia politica intesa a mantenere il potere nelle mani del partito conservatore e dei suoi partners unionisti. La cosa si fece evidentissima nella febbrile agitazione contro i liberali, malfidi nelle questioni riguardanti l'impero, durante il decennio precedente la guerra boera, agitazione che conseguì inizialmente pieno successo.
Non si potrà d'altro canto trascurare che l'imperialismo poteva essere adoperato altrettanto bene sia come una strategia per l'emancipazione delle classi medie nei confronti dell'anacronistico primato dell'aristocrazia, sia per tracciare nel contempo una distinzione nei confronti della classe operaia, quando questa non si facesse aggiogare anch'essa al carro imperialistico. Tanto gli ‛imperialisti liberali' tedeschi (v. Dehio, 19613, pp. 72 s.; v. Mommsen, Wandlungen..., 1975) quanto uomini come lord Rosebery nutrivano pensieri del genere; e anche l'imperialismo del partito dei cadetti in Russia, che in politica interna si opponeva frontalmente all'autocrazia zarista, si muoveva in questa direzione. Una posizione in certo modo speciale è quella dell'‛imperialismo proletario', quale si sviluppò dopo la fine del secolo particolarmente in Italia, dove fornì la giustificazione ideologica per l'annessione della Libia: veniva cioè avanzata l'idea di dare, con la fondazione di colonie di insediamento, una soluzione alla scottante questione sociale (cioè alla pressione sulla società italiana delle masse proletarie in soprannumero), come anche al problema di arrestare la continua emorragia di forze popolari dovuta all'emigrazione verso gli Stati Uniti. Quest'idea ricevette, specialmente nelle cerchie del nazionalismo estremista, una colorazione esplicitamente aggressiva e nel contempo specificamente irrazionalistica. Così M. Morasso, per esempio, annunciava il programma imperialistico di un rinnovato nazionalismo eroico: ‟E d'altro canto la vastità, la violenza, la furia con cui all'interno della società le classi lavoratrici vengono organizzate in correnti di forza ed eccitate ad aspirare al dominio, obbligano a una difesa altrettanto energica, rinnovando così tutte le fierezze e le violenze delle lotte antiche, restituendo al coraggio, alla forza, alla valentia individuale quel primato che i filosofi e i politici della democrazia avevano [...] tentato di abolire, mentre il premere presso alcuni popoli, chiusi e immobili nei loro confini, sempre più minaccioso e intollerabile della questione così detta sociale [...] ne ha fatto cercare la sola soluzione all'estero, divergendo le masse fuori dei confini [...] e apprestando loro sfoghi opportuni all'azione e nuovi domini a cui aspirano le loro nuove energie" (v. Morasso, 1905, p. 250). Questo programma fu elevato da E. Corradini al rango di messaggio di un nuovo imperialismo collettivistico di impronta nazionalistica, che prometteva di congiungere la solidarietà sociale con la grandezza nazionale; né egli esitava, già nel 1909, a parlare apertamente della necessità della guerra: ‟la lotta internazionale che in tempi ordinari si chiama concorrenza, in tempi straordinari si chiama guerra. Non può una nazione partecipare con risolutezza alla lotta internazionale senza, presto o tardi, dovere scegliere tra la pace e la guerra" (v. Corradini, 19252, p. 117). Già nel 1909, quindi, si ponevano le basi ideologiche dell'ondata di nazionalismo irrazionale, associato alle cupidigie imperialistiche, che doveva trascinare l'Italia nella prima guerra mondiale.
Quanto abbiamo detto vale anche, sebbene non s'incontri sempre l'accentuazione protofascista data alla dottrina imperialistica dal nazionalismo estremista italiano, per la grande maggioranza dell'opinione pubblica in Europa. Dovunque c'imbattiamo nell'idea che, per il conseguimento dei propri obiettivi imperialistici non si deve, se necessario, indietreggiare neppure dinanzi a una guerra, la quale era del resto concepita come una sorta di bagno rigeneratore per i popoli d'Europa, imprigionati nel materialismo borghese e nelle utopie socialiste. Mediante processi di manipolazione ideologica dell'opinione pubblica, i popoli d'Europa furono quindi condotti a prepararsi alla possibilità di una guerra generale, a considerarla come una necessità, anzi a salutarla con entusiasmo come una liberazione da decenni di pace imbelle. Ciò rese facile ai governi oltrepassare nel luglio 1914 la soglia fatale e scatenare il conflitto mondiale, che doveva costituire nel contempo il punto culminante e il punto terminale del periodo dell'imperialismo aperto.
e) Riflusso dell'imperialismo tra le due guerre mondiali
La prima guerra mondiale diede libero sfogo alle immense energie imperialistiche che erano ristagnate, negli ultimi decenni prima del 1914, nel grembo delle potenze europee. Appena dopo l'inizio della guerra un'ondata di cupidigie imperialistiche travolse tutte le dighe della razionalità politica, come testimoniano - specialmente in Germania ma anche nelle altre potenze - i promemoria sugli obiettivi e sui programmi di guerra (v. Fischer, 19643). Sotto la pressione della mutata situazione, la spinta dell'imperialismo tedesco si spostò verso il continente europeo; la creazione di una ‛unione economica mitteleuropea', accompagnata dall'aperta egemonia su tutta l'Europa continentale e sudorientale (inclusa la Turchia) divenne il nucleo di uno smisurato programma imperialistico, che doveva condurre alla definitiva affermazione della Germania come potenza mondiale (v. Fischer, 19643, pp. 19 s., e 1969, pp. 639 ss.). Dal canto suo la Russia nel 1915, dopo l'ingresso della Turchia in guerra a fianco delle potenze centrali, vide arrivata l'ora della realizzazione di un suo grande obiettivo storico: la conquista di Costantinopoli e degli Stretti. Le aspirazioni della Gran Bretagna e della Francia erano volte alla spartizione dell'Impero ottomano in zone d'interesse politico (la Turchia doveva bensì sopravvivere, ma nei confini della sola Anatolia). Questi ultimi obiettivi presero forma concreta nell'accordo Sykes-Picot del 16 maggio 1916. Tra le potenze di secondo piano, fu soprattutto l'Italia a ottenere considerevoli concessioni imperialistiche in cambio dell'ingresso in guerra a fianco degli Alleati. Nell'Estremo Oriente entrava pesantemente sulla scena il Giappone, il quale sfruttò l'occupazione delle colonie tedesche nel Pacifico e nella Cina continentale come trampolino di lancio di una risoluta politica espansionistica, rivolta soprattutto al controllo della Manciuria meridionale e quindi al dominio esclusivo dei mercati cinesi. Naturalmente, la Gran Bretagna e la Francia aspiravano a un nuovo assetto politico che avrebbe escluso per sempre il Reich tedesco dall'arena politica mondiale; il loro unico contrasto riguardava solo le modalità della spartizione dei possedimenti coloniali tedeschi in Africa: disputa, questa, in cui si inserirono per la prima volta anche i dominions, soprattutto il Sudafrica e la Nuova Zelanda.
Da un lato, la prima guerra mondiale suscitò aspirazioni e programmi imperialistici di portata immane, che talvolta, come nel caso del Comando supremo tedesco nel 1918, si avvicinavano ai piani napoleonici di dominio mondiale. D'altro canto, però, produsse sviluppi che dovevano a lunga scadenza causare la fine di quell'imperialismo, che infuriava sui campi di battaglia e ancor più sui tavoli dei giornalisti. Tanto la Francia che la Gran Bretagna si videro costrette dalle esigenze della guerra a ricorrere alle risorse, umane e materiali, dei loro imperi coloniali. Ora, ciò era possibile soltanto a prezzo di concessioni politiche ovvero, parlando più concretamente, della disponibilità a concedere ai rispettivi dominions, territori o colonie, un grado maggiore o minore di autodeterminazione. I grandi piani tedeschi di sconvolgere l'impero britannico mediante lo scatenamento di processi rivoluzionari rimasero semplice utopia; e tuttavia con la prima guerra mondiale furono poste indirettamente le basi del processo di emancipazione dei popoli del Terzo Mondo, processo che si è concluso vittoriosamente ai nostri giorni. I grandi dominions bianchi del Sudafrica, del Canada e della Nuova Zelanda inviarono per la prima volta alla Conferenza di Parigi proprie delegazioni, presentandosi così in pratica come nazioni autonome, e ciò sebbene esse allora, in teoria, non contestassero alla Gran Bretagna il diritto di rappresentare nei rapporti con l'estero tutti i paesi dell'Impero britannico.
Di importanza storica decisiva fu il fatto che, in seguito alla prima guerra mondiale, l'idea dell'imperialismo cadde in discredito e l'Europa dovette cedere agli Stati Uniti e, seppure con un certo ritardo, alla neonata Unione Sovietica, la sua sin allora incontestata posizione di guida nella politica mondiale. Sia gli Stati Uniti che l'Unione Sovietica si dichiararono, nonostante l'estrema diversità dei loro orientamenti politici, antimperialistiche. W. Wilson non aveva neppure voluto prendere atto dei trattati degli Alleati sugli obiettivi di guerra, data la loro inconciliabilità con il principio del diritto di autodeterminazione. Nei ‛14 Punti', che devono essere intesi in certo modo come una reazione al celebre ‛decreto sulla pace' di Lenin, Wilson sviluppava un ampio programma di un futuro ordinamento pacifico, basato sul diritto democratico di autodeterminazione e sul principio della ‛libertà dei mari' e della ‛porta aperta', che erano per loro natura inconciliabili con la conservazione del dominio coloniale. Wilson però non escludeva una temporanea sopravvivenza dei sistemi coloniali, ed era anzi disposto a prendere in considerazione, nel quadro di un trattato generale di pace, ‟una sistemazione libera, aperta, assolutamente imparziale di tutte le rivendicazioni coloniali" (v. Gierig, 1930, p. 85). Si può dire invero che una tale politica era idonea ad aprire la via a un nuovo imperialismo informale, che avesse come obiettivi il predominio economico americano nel mondo, conseguito con mezzi esclusivamente economici, e la diffusione del sistema sociale americano. Rimane però il fatto che quella politica non aveva più nulla in comune con l'imperialismo nell'accezione tradizionale, sia nella forma di dominio territoriale sia in quella dello sfruttamento, sostenuto da misure politiche, di mercati e di fonti di materie prime.
In modo assai più radicale Lenin, nel ‛decreto sulla pace', aveva propugnato la fine dell'imperialismo e aveva indicato la liberazione dei popoli coloniali e semicoloniali dal giogo imperialistico come un elemento costitutivo ed essenziale di un futuro ordinamento socialista del mondo. La vittoria del socialismo, dichiarava Lenin, poteva essere conseguita soltanto con l'alleanza dei popoli coloniali del mondo. Egli poneva in tal modo le basi di una strategia politica mondiale che l'Unione Sovietica ha attuato per cinquant'anni e che ha trovato un'eco formidabile, sebbene non sempre positiva, nel Terzo Mondo. Non è impossibile trovare argomenti a sostegno della tesi che il comunismo sovietico, con la sua proclamazione senza riserve del ‛diritto di autodeterminazione' all'interno come all'esterno dell'Europa (diritto che in seguito, ogniqualvolta la cosa gli sembrasse imposta dalle circostanze, non doveva però mai farsi scrupolo di violare), abbia gettato le fondamenta di un nuovo imperialismo di specie più indiretta: un imperialismo che gode di una legittimazione ideologica assai più efficace di quella dell'imperialismo classico, del quale tuttavia condivide in larga misura i metodi.
Comunque, è innegabile che la presa di posizione degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica - dovuta anche a una certa concorrenza ideologica - contro i sistemi imperialistici tradizionali, ha reso impossibile l'imperialismo nell'accezione tradizionale e ha costretto le potenze occidentali, se non a una liquidazione del dominio imperialistico, almeno ad una sua attenuazione. Da allora in poi i processi di espansione imperialistica hanno perduto slancio; improvvisamente, i vari imperialismi nazionalistici si sono visti costretti alla difensiva. Soltanto le potenze fasciste e il protofascista Giappone hanno cercato ancora una volta, negli anni trenta, di ostacolare la ruota della storia, tentando, con sforzi immensi e con un'estrema brutalità, di edificare nuovi imperi: un'impresa che non per caso era anche diretta contro il cosiddetto ‛sistema di Versailles', e le cui anacronistiche finalità erano riconoscibili come tali, già dai contemporanei.
‟Imperialism is dead": questa era l'opinione del Foreign Office britannico nel luglio 1919, quando il governo italiano avanzò la proposta di un accordo circa l'acquisizione di colonie portoghesi da parte dell'Italia: ‟Una simile intesa, nelle attuali mutate condizioni del mondo, sarebbe assolutamente impensabile" (v. Louis, 1967, p. 153). E in realtà manovre del genere, che trascurassero la volontà delle popolazioni interessate, non erano più possibili. Cionondimeno, le grandi potenze trovarono gli strumenti e le strade per giustificare e mascherare politicamente la sopravvivenza, e persino l'ampliamento, degli imperi coloniali (v. Mommsen, 1971, p. 23).
La conferenza della pace di Parigi, sulla scia di iniziative che risalivano originariamente al generale Smuts, creò con il cosiddetto sistema mandatario uno strumento giuridico di nuovo tipo che permetteva di conciliare le aspirazioni alleate all'annessione e al controllo dei territori coloniali del Reich tedesco e della Turchia con il principio del diritto di autodeterminazione. Questi territori furono suddivisi, a seconda del grado di sviluppo di ciascuno, in tre classi di mandati, la cui amministrazione fu affidata, in nome della Società delle Nazioni, alle diverse potenze, a condizione di promuovere l'autonomia e con la riserva di un controllo della Società stessa a salvaguardia dei principi umanitari. In questo modo le colonie ex-tedesche furono assegnate agli Alleati, e i territori dell'ex-Impero ottomano furono trasformati in mandati sotto l'amministrazione della Francia e della Gran Bretagna, con l'impegno però di tener conto della partecipazione delle popolazioni indigene.
In ultima analisi, almeno i mandati del terzo tipo non si distinguevano in nulla dalle colonie ordinarie. Il Giappone, che con il Trattato di Versailles aveva ottenuto Tsingtao, le isole Caroline, le isole Marianne e le isole Marshall, nonché le concessioni economiche fatte un tempo dalla Cina al Reich tedesco nello Shantung, seppe in seguito sfruttare la sua posizione in vista di un'espansione imperialistica ai danni della Cina. In ogni modo, con il sistema mandatario fu posto un nuovo principio, e cioè che il sistema coloniale era ammissibile soltanto se inteso come ‛amministrazione fiduciaria' per conto delle popolazioni indigene, e che l'amministrazione doveva avere come obiettivo finale la concessione dell'autonomia. Anche se tutto ciò nella maggioranza dei casi fu per forza di cose pura ideologia - perché c'era ovviamente una grandissima diversità di opinioni sul tempo necessario alla concessione dell'autonomia - costituì tuttavia un decisivo punto di partenza per i movimenti di emancipazione nazionale nel Terzo Mondo, e fu imposto nel contempo alle potenze imperialistiche l'obbligo di giustificare il proprio dominio - sul piano ideale come sul piano materiale - anche dinanzi ai popoli coloniali. L'imperialismo degli anni venti e trenta mostra pertanto una chiara tendenza al riflusso; non fu più questione, per lo più, di un'ulteriore espansione degli imperi coloniali, ma soltanto della loro conservazione. Contemporaneamente fu avviato un processo di graduale concessione dei diritti di partecipazione politica ai ceti dirigenti dei popoli coloniali, processo che - sebbene nel periodo tra le due guerre non abbia fatto in generale molti progressi - era per sua natura irreversibile e doveva dare origine a situazioni nuove. La Gran Bretagna fu all'avanguardia. Essa trasformò l'Impero britannico nel Commonwealth britannico e concesse ai grandi dominions bianchi e all'Irlanda e, nei gradi iniziali, anche all'India, l'autonomia politica: un processo che trovò per la prima volta con lo Statute of Westminster (1931) una definitiva sistemazione giuridica.
Per il resto, nella sfera d'influenza britannica si affermò senza contrasti la teoria dell'‟indirect rule", quale lord Lugard aveva tentato di praticarla in Uganda sin dagli anni novanta. Lugard definiva la dominazione coloniale come un'amministrazione fiduciaria per conto della popolazione indigena. Le amministrazioni coloniali dovevano per un verso preoccuparsi di introdurre anche nei territori da esse governati i principî della civiltà e del diritto; d'altro canto dovevano però sforzarsi di conservare il più possibile le strutture culturali, economiche e politiche indigene, e di governare insieme con - e non contro - i capi o sovrani indigeni, nel pieno rispetto delle strutture di potere locali. Ciò equivaleva, nella pratica, a un parziale ritorno ai vecchi metodi di dominio del periodo del primo imperialismo, ma questa volta con l'esplicito intento di ottenere la collaborazione responsabile dei ceti dirigenti indigeni, ampliandone prudentemente le competenze a seconda del loro grado di sviluppo civile. Una simile strategia, paternalistica nella sua essenza e decentratrice nella sua azione pratica non era, naturalmente, priva di elementi romantici, e tendeva a conservare le strutture sociali tradizionali anche là dove queste erano manifestamente superate. Inoltre, la formazione di un'élite europeizzata, in grado di assumere un giorno il potere effettivo, ne risultò in molti casi rallentata. Sebbene fosse interamente dettato, sotto l'influsso della Oxford School (v. Perham, 1961), da principi umanitari, il sistema dell'indirect rule ha sortito piuttosto l'effetto di contrastare una radicale modernizzazione delle società africane; circa i suoi vantaggi dal punto di vista dei popoli del Terzo Mondo, varie sono state le opinioni (v. Austen, 1971; v. Louis, 1967, pp. 129 ss.), come già indicava l'esempio, continuamente addotto da Lugard, del destino della Nigeria (v. Lugard, 19652).
La Francia ha percorso invece un'altra strada, quella dell'‛associazione'. Ciò significava in pratica che bisognava rinunciare alla vecchia concezione dell'‛assimilazione', - in base alla quale i territori dovevano gradualmente riunirsi con parità di diritti in una ‛Grande Francia' (in realtà la cittadinanza francese era stata concessa solo a pochissimi appartenenti agli strati superiori indigeni) - in favore dello sviluppo autonomo dei singoli territori. L'‛associazione' prometteva la cooperazione delle popolazioni indigene nell'amministrazione delle colonie e dei protettorati; nella pratica, ciò non aveva che uno scarso significato. L'amministrazione fu anzi sempre esercitata, in modo autoritario e paternalistico, da una burocrazia coloniale, che seppe in pratica sottrarsi ad ogni controllo politico da parte del Parlamento francese e fece spesso causa comune con i colons. Soltanto in Siria e nel Libano, in obbedienza alle direttive della Società delle Nazioni, furono, rispettivamente nel 1924 e nel 1930, emanate costituzioni che concedevano alla popolazione il diritto di autoamministrarsi sotto la sovranità francese. Anche l'Olanda, il Belgio e il Portogallo amministravano le loro colonie secondo i principî di un benevolent patriarchalism, inteso ad assicurare un modesto benessere agli strati superiori indigeni, senza peraltro prendere serie iniziative che avviassero concretamente i vari territori verso l'autonomia.
Per il resto le potenze coloniali si sforzarono di modernizzare nei limiti del possibile le proprie colonie e anzitutto di promuovere lo sviluppo economico, e ciò tra l'altro per superare la spiacevole situazione che vedeva i contribuenti delle metropoli considerevolmente salassati per l'amministrazione dei territori oltremare mentre i proventi economici, nel caso in cui affiuissero in quantità rilevanti, finivano nelle casse di poche grandi società monopolistiche. Questa politica di sviluppo fu a tratti oltremodo fruttuosa. Giocò a favore il fatto che, con il generale riflusso del commercio mondiale dopo la crisi e la diffusa svolta verso una politica economica il più possibile autarchica, la rilevanza economica dei territori coloniali aumentò nuovamente.
L'evoluzione degli anni venti è inoltre caratterizzata dallo scarso interesse dell'opinione pubblica nelle metropoli per i territori coloniali, salvo che in caso di gravi crisi o di complicazioni militari. Gli amministratori coloniali, collegati con le ‛cricche strategiche', prime beneficiarie dello sfruttamento economico delle colonie, avevano una notevole libertà d'azione.
Anche le classiche strutture dell'imperialismo informale sopravvissero pressoché intatte. La Cina si sforzò invano, alla Conferenza di Parigi per la pace di ottenere il pieno riconoscimento della propria autonomia nazionale anche nelle questioni economiche. È vero che la Conferenza di Washington del 1921-1922 stabilì che in Cina non si potesse concedere ad alcuna potenza privilegi, sfere d'influenza o monopoli di qualsiasi specie (si continuava così la politica americana della porta aperta), e deliberò la restituzione di Tsingtao; ma è anche vero che i diritti di extraterritorialità per gli Europei non furono revocati né fu restituita al paese la sovranità doganale. Lo stesso vale anche per il Vicino Oriente. La Turchia riuscì bensì nel 1923 a scuotersi di dosso l'umiliante trattato di pace di Sèvres e quindi a sbarazzarsi del regime delle capitolazioni, ma la Caisse de la Dette e i debiti esteri sopravvissero. In Egitto, soltanto nel 1936 la Gran Bretagna si dimostrò disposta a cedere al movimento di liberazione egiziano e a restituire formalmente al paese l'autonomia, e soltanto dietro l'assicurazione che il proprio predominio di fatto sarebbe continuato sotto la forma di un trattato di alleanza. Solo nel 1937, nella Conferenza di Montreux, l'Egitto poté finalmente sbarazzarsi del regime delle capitolazioni e del sistema delle ‛Corti internazionali di giustizia', che per quasi un secolo avevano dato ai capitali e agli uomini d'affari europei un'invidiabile posizione di privilegio nel paese.
Estremamente lento - e fitto di gravi conflitti con le autorità coloniali - fu il cammino del Terzo Mondo verso l'ancora lontano obiettivo dell'indipendenza, mentre d'altro canto i meccanismi dell'imperialismo informale rimanevano in larga misura intatti. Soltanto quando all'orizzonte si profilava ormai il tramonto del dominio imperialistico, le colonie e i territori dipendenti cominciarono a diventare economicamente redditizi per le metropoli.
Questa evoluzione fu bruscamente interrotta nel 1932 dai tentativi del Giappone e dell'Italia di conquistarsi, a qualsiasi costo e contro lo spirito dei tempi, un impero coloniale. Con l'instaurazione di un regime ombra nella Manciuria - il cosiddetto Manciukuo - l'1 marzo 1932 il Giappone batteva nuovamente la strada di un imperialismo nazionalistico-militare, che aveva caratteristiche chiaramente protofasciste. Le radici e le motivazioni dell'imperialismo giapponese affondavano, anzitutto, nel terreno della politica interna: il suo obiettivo era la conservazione di un ordine sociale elitario e antimoderno, di impronta pseudoaristocratica, e non per caso esso si trovava in contrasto con gli strati borghesi che promuovevano lo sviluppo economico, anche se copriva le sue iniziative con le consuete argomentazioni economiche a favore dell'espansione imperialistica. Solo tre anni più tardi l'Italia, nello sconsiderato tentativo di fondare un grande impero fascista annetteva l'Etiopia. Aspirazioni analoghe del nazionalsocialismo tedesco non ebbero attuazione pratica, giacché nei piani hitleriani di dominio mondiale il recupero delle colonie tedesche e l'edificazione di un sub-impero africano stavano relativamente in secondo piano rispetto all'idea di una spartizione del mondo tra il Reich tedesco e l'Impero britannico (non era certo la disponibilità ideologica alla restaurazione del dominio imperialistico - nel senso dell'imperialismo maturo - che faceva difetto al nazionalsocialismo; v. Hildebrandt, 1969).
Solo le conseguenze della seconda guerra mondiale, che costrinse le potenze occidentali a ricorrere in misura straordinariamente massiccia alle risorse dei propri imperi coloniali e dei propri dominions, resero definitivamente impossibile l'ulteriore conservazione del dominio coloniale, soprattutto perché era entrato sulla scena, con l'Unione Sovietica, un avversario ideologico che, ormai nella pienezza della sua potenza, minacciava di esercitare una grande forza d'attrazione sui popoli del Terzo Mondo. Nel giro di pochi anni si procedette allo smantellamento definitivo - pur se attenuato dai tentativi di conservare i vecchi imperi coloniali sotto la forma di federazioni di Stati - del dominio imperialistico. Nasceva allora, oltre al britannico Commonwealth of Nations, che assunse la forma di una famiglia di popoli sotto la sovranità puramente formale della corona britannica, la Union Française, che nel 1958 fu trasformata in una federazione di Stati nella quale la Francia non godeva più di privilegi politici: la Communauté Française. I tentativi di mantenere qualche resto dell'antica comunanza mediante la concessione di costituzioni ispirate a quelle metropolitane si rivelarono in genere caduchi.
In realtà, senza che si potesse indicare una data precisa, il mondo era entrato in una nuova fase, quella della ‛decolonizzazione', anche se i nuovi principi dovevano imporsi solo a poco a poco e gradualmente, e soltanto di rado il distacco avveniva senza gravi conflitti. Il processo di decolonizzazione, se si prescinde da qualche rara sopravvivenza del vecchio dominio coloniale, ha raggiunto la sua conclusione ai nostri giorni con la fine del Portogallo in quanto potenza coloniale. In quale misura, con la fine dell'imperialismo formale degli Stati industriali occidentali, siano state liquidate, o siano crollate, nelle regioni oltremare anche le strutture dell'imperialismo informale, è una questione sulla quale, fra i diretti interessati come fra gli studiosi, regna una scarsa concordia. Non c'è dubbio che anche nella nuova situazione sopravvivano molteplici forme di dipendenza economica e culturale, le quali si sono sviluppate nei lunghi anni del dominio imperialistico, traendo da ciò il loro carattere specifico.
Come conseguenza della costellazione politica generale creatasi dopo il 1945, gli Stati industriali non hanno più, oggi, il potere di difendere, nè di creare ex novo, tali strutture di dipendenza informale nè con la pressione politica nè con la forza. Oggi non è più possibile imporre con mezzi politici ai paesi del Terzo Mondo discipline commerciali che favoriscano o privilegino unilateralmente le metropoli. L'intervento della Gran Bretagna e della Francia nel 1956 contro la statizzazione del canale di Suez fu l'ultima azione politica di forza che si proponesse come obiettivo la conservazione di una dipendenza imperialistica informale; con il suo esito disastroso dimostrò che l'età dell'imperialismo era trascorsa.
In qual misura i rapporti di dipendenza tutt'oggi esistenti tra paesi del Terzo Mondo e Stati industriali possano essere definiti come ‛neocolonialismo' - secondo Nkrumah la peggior forma di imperialismo (v. Nkrumah, 19682, p. XI) - è una questione cui si possono dare risposte diverse a seconda dei presupposti da cui si parte. Non c'è dubbio che, per la forma come per il contenuto, tali rapporti abbiano ricevuto la loro impronta dall'imperialismo, anche se non è stato l'imperialismo a crearli. Non bisogna d'altro canto trascurare il fatto che il mondo si trova oggi a fronteggiare dovunque - nel Vicino Oriente, in Sudafrica, in Vietnam e nelle stesse società occidentali - le conseguenze postume del dominio imperialistico. Ciò dimostra ancora una volta come formazioni storiche che noi ci figuriamo definitivamente alle nostre spalle, e che effettivamente io sono se guardiamo alla realtà concreta, possano tuttavia esercitare il loro immutato potere anche sul nostro presente.
4. Teorie dell'imperialismo
a) Le prime teorie borghesi dell'imperialismo
La grande importanza che i fenomeni imperialistici hanno rivestito, e in fondo tuttora rivestono, per le società dell'Occidente come per quelle del Terzo Mondo, ha stimolato a ricercarne le forze motrici e a raggiungere una comprensione concettuale delle strutture e della dinamica del dominio imperialistico. Accenni in questa direzione si trovano già nella filosofia idealistica e nell'economia borghese classica. Hegel metteva il fenomeno dei colonialismo in relazione con la nascita della società industriale, nella quale si verifica ‟il decadere di una grande massa ai disotto della misura di un certo modo di sussistenza, il quale si regola da se stesso, come necessario per un componente della società [...]". Con il progresso dell'evoluzione emerge una polarizzazione della società, divisa nello strato dei ricchi e nella plebe, e si fa allora evidente che ‟nella sovrabbondanza della ricchezza, la società civile non è ricca abbastanza, cioè non possiede, nella ricchezza ad essa propria, abbastanza per ovviare all'esuberanza della povertà e alla formazione della plebe [...]. Mediante questa sua dialettica, la società civile, soprattutto questa determinata società, è spinta al di là di sé, per cercare fuori di essa, in altri popoli, che le restano addietro nei mezzi, dei quali essa ha esuberanza, o, in generale, nell'industria ecc., i consumatori e, quindi, i mezzi necessari di sussistenza" (Hegel, Rechtsphilosophie, ÈÈ 244, 245, 246; tr. it.: Lineamenti di filosofia del diritto, Bari 19714). Anche in J. B. Say e J. Stuart Mill troviamo l'idea che il colonialismo è importante sia come fonte di accumulazione aggiuntiva sia come fattore in grado di pstacolare la tendenza alla caduta del saggio del profitto e alla saturazione delle economie industriali. Il ruolo delle colonie rimaneva per loro - come dei resto anche per Marx - un ruolo marginale, cosicché non si addivenne mai a una formulazione sistematica di queste osservazioni.
Sebbene la scienza borghese non avesse mai perduto di vista l'importanza che i territori oltremare rivestivano, come sbocchi commerciali o come fornitori di materie prime, per le economie capitalistiche in rapido sviluppo, le teorie dell'imperialismo dominanti nella seconda metà dell'Ottocento erano di natura politica. L'imperialismo appariva come il precipitato concreto della spinta, per così dire ‛naturale', delle grandi potenze verso l'espansione. Questa teoria fu avanzata nel modo più sistematico dai neorankiani, specialmente da M. Lenz e E. Marcks (v. Dehio, 19613, pp. 33 ss.). Essi interpretavano l'imperialismo come l'espressione della transizione, concepita come necessaria, da un sistema di Stati europeo a un sistema di Stati mondiale. Anche in area anglosassone, per esempio in J. Seeley o J. Burgess, troviamo una siffatta teoria ‛statale' dell'imperialismo. Questa teoria, poi, era spesso strettamente associata a concezioni nazionalistiche, razzistiche e biologiche, che a loro volta risalivano in parte al darwinismo sociale.
L'elaborazione di teorie sistematiche dell'imperialismo è in primo luogo dovuta, com'è naturale, ai suoi avversari. Bisogna menzionare anzitutto J. A. Hobson il quale, sviluppando spunti di A. Conan, avanzò per la prima volta, nel suo Imperialism. A study (1902), una teoria coerente dell'imperialismo, il cui influsso si fa sentire ancora oggi. La teoria hobsoniana è essenzialmente una teoria del ‛sottoconsumo': a causa di una struttura sociale che nega ai lavoratori un'adeguata partecipazione al crescente prodotto sociale, si verificano fenomeni di ristagno nei mercati interni delle società industriali. Di conseguenza, il capitale non trova più nei mercati interni possibilità di impieghi redditizi, e viene quindi stimolato a ricercare investimenti più lucrosi nei territori oltremare. A questo scopo i gruppi capitalistici esercitano crescenti pressioni sul potere statale affinché proceda ad annessioni; nel contempo si adoperano mediante una sofisticata manipolazione dell'opinione pubblica - nella quale hanno la complicità della stampa popolare - per convertire le grandi masse, contro i loro veri interessi, a uno sciovinismo che diventa un ulteriore efficace fattore di espansione imperialistica. Caratteristico dell'imperialismo moderno è quindi, secondo Hobson, un flusso costantemente crescente di investimenti di capitali nei territori oltremare. Questo flusso viene preparato e accompagnato per un verso dalla colonizzazione imperialistica, e per un altro verso dall'intensificazione degli armamenti, da crescenti carichi fiscali e da un aggravarsi del ristagno nei mercati interni degli Stati industriali. A tutto ciò si aggiunge lo sviluppo di forme parassitarie di esistenza nella élite che è la diretta beneficiaria dei proventi imperialistici.
Questa teoria ha un'impronta liberal radicale e socialriformista; essa non si rivolge contro il capitalismo in quanto tale, ma soltanto contro le sproporzioni nella distribuzione del potere d'acquisto all'interno delle società capitalistiche, sproporzioni che nascono dal mantenimento di strutture politiche anacronistiche e dall'oppressione dei lavoratori. Una politica sociale attiva, unitamente alla demolizione delle strutture sociali gerarchiche, potrebbe eliminare tali sproporzioni, che sono all'origine dell'imperialismo. E una democrazia pienamente dispiegata, che nella sua politica desse un peso adeguato a tutti gli interessi economici, farebbe presto a meno di ogni forma di imperialismo (v. Hobson, 19382, p. 363).
Max Weber, nelle sue riflessioni teoriche sul fenomeno dell'imperialismo (le quali anticipavano in nuce le successive teorie sociologiche dell'imperialismo), pose l'accento sulle disfunzioni delle strutture sociali piuttosto che sui meccanismi immanenti di un sistema capitalistico non ostacolato nella sua azione. Weber attirava l'attenzione sul fatto che è sempre esistito un ‛capitalismo di rapina', che si è sforzato di sfruttare monopolisticamente quelle possibilità di mercato o quelle concessioni che si accompagnano di solito a una politica imperialistica di espansione. Sennonché, questa forma parassitaria di corsa capitalistica al profitto non è tipica del capitalismo moderno, il quale, al contrario, è orientato verso la produzione e lo scambio di merci all'interno di un mercato basato sul principio, formalmente senza restrizioni, della libera concorrenza. Non mancano mai, è vero, gruppi finanziari e imprenditori che hanno un interesse diretto alla politica imperialistica ma di gran lunga più decisivo è il fatto che gli strati dominanti hanno sempre un forte interesse all'espansione imperialistica perché l'ampliamento della sfera d'influenza del proprio sistema di dominio accresce il loro prestigio sociale e quindi consolida il loro primato politico e il loro status socialmente privilegiato: ‟ogni politica imperialistica di forza all'esterno, se coronata da successo, accresce anche all'interno, almeno immediatamente, il prestigio e quindi la potenza e l'influenza di quelle classi, di quei ceti e di quei partiti sotto la cui guida il successo è stato raggiunto" (v. Weber, 19725, p. 527; tr. it., vol. II, p. 223). Weber accenna anche a uno specifico interesse degli intellettuali all'espansione della sfera d'influenza della propria cultura nazionale, interesse che riveste una grande importanza come base sociologica di uno specifico imperialismo culturale (v. Weber, 19725, p. 528; v. Mommsen, 1961, pp. 43 s.).
b) Le teorie marxiste classiche dell'imperialismo
Diversa è stata la strada percorsa dalla teoria marxista la quale, riallacciandosi ai precedenti spunti offerti dalla vecchia economia politica borghese e da Marx stesso, ha interpretato l'imperialismo come un prodotto necessario dell'ordinamento sociale capitalistico in un determinato stadio del suo sviluppo. Marx procedette ancora in larga misura, a questo riguardo, sui binari dell'economia politica liberale: l'espansione del sistema capitalistico sull'intero globo attraverso il colonialismo gli sembrava una necessità ineluttabile che, sul piano della storia universale, aveva un obiettivo valore di progresso. Per quanto riguarda lo sviluppo delle contraddizioni del sistema capitalistico in quanto tale, questo problema gli sembrava naturalmente secondario. Solo in Engels incontriamo l'idea che la contraddizione tra capacità produttiva e possibilità di consumo spinge la società capitalistica a orientarsi verso i territori oltremare, per aprire colà nuovi sbocchi commerciali.
A questo spunto è stata data successivamente da Rosa Luxemburg, nel suo libro Die Akkumulation des Kapitals del 1913, un'elaborazione invero assai unilaterale e molto contestata nello stesso campo marxista. Attenendosi strettamente alla teoria marxiana della riproduzione del capitale e sulla base di una restrittiva variante della teoria del sottoconsumo, essa giunse a sostenere che la realizzazione della quota non consumata del ‛plusvalore' è ormai possibile solo nei territori coloniali precapitalistici del globo: ‟L'esistenza di acquirenti non capitalistici del plusvalore è dunque condizione diretta di vita per il capitale e per la sua accumulazione, e rappresenta perciò il punto decisivo del problema dell'accumulazione del capitale" (v. Luxemburg, 1913; tr. it., p. 361). Ne derivavano due conseguenze: da un lato, la febbrile concorrenza delle grandi potenze per il possesso dei territori oltremare, con i relativi fenomeni del militarismo e della corsa agli armamenti, si dimostrava assolutamente necessaria ai fini della conservazione del capitalismo; d'altro lato, quest'ultimo sarebbe potuto sopravvivere soltanto sino a che fossero esistite sul globo ‛formazioni sociali non capitalistiche': ‟Con quanta maggior potenza il capitale, grazie al militarismo, fa piazza pulita, in patria e all'estero, degli strati non-capitalistici e deprime il livello di vita di tutti i ceti che lavorano, tanto più la storia quotidiana dell'accumulazione del capitale sulla scena del mondo si tramuta in una catena continua di catastrofi e convulsioni politiche e sociali, che, insieme con le periodiche catastrofi economiche rappresentate dalle crisi, rendono impossibile la continuazione dell'accumulazione e necessaria la rivolta della classe operaia internazionale al dominio del capitale, prima ancora che, sul terreno economico, essa sia andata a urtare contro le barriere naturali elevate dal suo stesso sviluppo" (v. Luxemburg, 1913; tr. it., pp. 469-470). La ‛spinta del capitalismo all'espansione imperialistica' appariva pertanto a Rosa Luxemburg come l'espressione della sua massima maturità, del suo ultimo periodo di vita, e quindi anche, nel contempo, come il preludio immediato del suo definitivo tramonto.
Di gran lunga più importante per il suo significato e per l'influsso esercitato è l'opera di R. Hilferding Das Finanzkapital, apparsa nel 1910. Hilferding parte da un'ampia e penetrante analisi dello sviluppo monopolistico del capitalismo per giungere a una teoria che ravvisa l'autentico contrassegno dell'imperialismo nel dominio del ‟capitale finanziario", vale a dire nella forza del ‟capitalismo organizzato", accumulata nelle grandi banche, nei monopoli, nei trusts e cartelli di ogni genere. Diversamente dalle prime fasi dello sviluppo del sistema capitalistico, il capitale finanziario mira a perfezionare sempre di più il suo dominio economico con l'esclusione - ottenuta mediante le concentrazioni monopolistiche - di tutte le forme primarie di concorrenza: ‟Il capitale finanziario non chiede libertà, ma dominio [...] aborrisce l'anarchia della concorrenza e promuove l'organizzazione solo per condurre la concorrenza in ambiti sempre più vasti. Per riuscire in ciò, per poter conservare e aumentare il proprio prepotere, esso ha però bisogno dello Stato, il quale, con la sua politica doganale, deve garantirgli il mercato interno e facilitargli la conquista di quelli esterni. Il capitale finanziario ha bisogno di uno Stato politicamente forte, che nei suoi atti di politica commerciale, non sia costretto a usare alcun riguardo agli opposti interessi di altri Stati. È quindi necessario uno Stato forte, capace di far valere, i suoi interessi finanziari all'estero e di servirsi della propria potenza per estorcere agli Stati meno potenti vantaggiosi trattati di fornitura e favorevoli transazioni commerciali; uno Stato che possa spingersi in ogni parte del globo per fare del mondo intero zona di investimento del proprio capitale finanziario; uno Stato, infine, sufficientemente forte per condurre una politica espansionistica e per potersi incorporare nuove colonie" (v. Hilferding, 1910; tr. it., pp. 440-441).
Quella di Hilferding è una teoria quadrata e compatta, degna di nota sotto vari aspetti. Da un lato, gli investimenti di capitali nei territori oltremare, la protezione artificiale dei mercati interni a favore dell'industria nazionale, un'aggressiva politica di esportazione mirante a potenziare la propria presenza sul mercato sono tutte forme di imperialismo allo stesso titolo degli interventi politici o addirittura militari diretti a conseguire favorevoli posizioni di partenza in campo economico o speciali privilegi per l'economia, cioè per il ‟capitale finanziario", del proprio paese. L'espansione territoriale e le conquiste coloniali non sono altro che varianti estreme di un unico e medesimo fenomeno. La teoria hilferdinghiana è di un'ampiezza singolare: essa include tutto ciò che oggi si suole denominare imperialismo informale, e appunto per questo non distingue tra espansione imperialistica in senso stretto e politica di potenza tradizionale. D'altro canto, tutte le varianti di imperialismo sono ricondotte a un'unica radice, cioè alla struttura interna del capitalismo monopolistico il quale, diversamente dal capitalismo concorrenziale classico, dà origine a oligopoli sempre più potenti, miranti a dominare i mercati con l'esclusione - o con l'assorbimento - di tutti i concorrenti. A questo proposito si concede che il ‟capitalismo organizzato" è almeno provvisoriamente in grado di ridurre la predisposizione del sistema capitalistico alle crisi, producendo una sorta di autocorrezione del sistema. Cionondimeno, il crescente perfezionamento della ‟dittatura dei magnati del capitale" conduce inevitabilmente a sempre più aspre lotte per il potere tra le ‟oligarchie del capitale" dei singoli Stati industriali e al conseguente scatenamento di guerre imperialistiche: il risultato finale di questo processo è il capovolgimento della ‟dittatura dei magnati del capitale" nella ‟dittatura del proletariato" (v. Hilferding, 1910; tr. it., p. 491).
Qui è possibile solo accennare ai punti deboli di questa teoria. Da un lato Hilferding sopravvalutava il ruolo effettivo delle grandi banche nell'economia del capitalismo maturo e ipotizzava un'identità di capitale bancario e capitale industriale la quale, almeno in quella fase dello sviluppo del capitalismo, era bensì tipica dei paesi relativamente arretrati (nel senso di Gerschenkron) della seconda ondata dell'industrializzazione, ma non aveva assolutamente un valore paradigmatico generale. Dall'altro lato, la teoria si basava sull'assunto, non avvalorato da particolari considerazioni ma presentato semplicemente come assiomatico, che il potere statale è sempre disposto a porsi al servizio del capitale finanziario. Ad onta di tutto ciò, l'influsso della teoria di Hilferding si è mantenuto straordinariamente forte sino ai nostri giorni.
Sotto il profilo dell'influsso esercitato, riveste un'estrema importanza il libro di battaglia di Lenin, Imperialismo, fase suprema del capitalismo. Nonostante i suoi aspetti ‛datati', esso conserva tuttora, presso i marxisti-leninisti, un valore canonico. Sviluppando l'interpretazione di Hilferding, Lenin definivà l'imperialismo come lo stadio monopolistico del capitalismo, il quale è a sua volta caratterizzato, tra l'altro, da un grado elevato di concentrazione della produzione del capitale (i monopoli svolgono una ‟funzione decisiva nella vita economica"), dalla ‟fusione del capitale bancario col capitale industriale", e infine dal ‟sorgere di associazioni monopolistiche internazionali, che si ripartiscono il mondo" (v. Lenin, 1916; tr. it., p. 128). L'essenza dell'imperialismo, consiste, secondo Lenin, negli sforzi che il capitalismo compie per espandersi con tutti i mezzi, che possono andare dalle varie forme di penetrazione economica appoggiata da strumenti politici sino all'espansione violenta e alle guerre imperialistiche. A questo proposito, egli non faceva intenzionalmente alcuna distinzione tra le colonie formali e le cosiddette ‛semicolonie,' cioè i paesi che godevano formalmente dell'autonomia politica, ma erano di fatto assoggettati al dominio del capitale finanziario occidentale. Richiamandosi apertamente a Hobson, Lenin definiva l'esportazione di capitali come la forma di gran lunga più importante di espansione economica. La lotta condotta in tutto il mondo dalle oligarchie finanziarie per gli investimenti redditizi lotta che si era eccezionalmente inasprita proprio dopo la spartizione territoriale del mondo - è quindi da considerare come il contrassegno decisivo dell'imperialismo, il cui inizio, coerentemente, viene fatto risalire a non prima del 1900.
Lenin credette di poter anzitutto constatare tre tendenze, tra loro antagonistiche. In primo luogo c'era, come effetto della crescente caduta del saggio del profitto e della conseguente necessità di cercare investimenti redditizi fuori dei mercati interni, la sempre maggiore acutizzazione dei contrasti tra le stesse potenze capitalistiche, le quali si sarebbero alla fine dilaniate nelle guerre imperialistiche. In secondo luogo, si poteva ormai riscontrare la ‟putrefazione" proprio dei paesi finanziariamente più forti, putrefazione che si manifestava tra l'altro in fenomeni come il ‟taglio delle cedole" e la vita parassitaria degli strati superiori. In terzo luogo, infine, la ‟non contemporaneità" dello sviluppo dei paesi capitalistici conduceva inevitabilmente da un lato a una sempre maggiore polarizzazione del mondo in pochi paesi ricchi e in molti paesi poveri, dipendenti dai primi, e dall'altro a sempre più gravi conflitti tra gli stessi paesi industrialmente progrediti. In questa situazione Lenin vedeva il punto di partenza di un'alleanza del proletariato dei paesi industriali con i paesi del Terzo Mondo, alleanza che avrebbe inevitabilmente accelerato il crollo incombente del ‟capitalismo moribondo".
Quest'ultima idea di Lenin ha ricevuto una particolare accentuazione nell'interpretazione postleniniana dell'imperialismo, ed è stata sfruttata da Stalin a sostegno della sua strategia politica. Nonostante il fatto evidente che il crollo del capitalismo si faceva attendere, ci si atteneva rigidamente alla teoria del ‟capitalismo moribondo"; si ammetteva però che gli Stati capitalistici potessero temporaneamente riuscire, mediante interventi nell'economia, a ‟superare in un modo o nell'altro" (v. Varga, 19742, pp. 34 e 75 ss.) la contraddizione tra la produzione - che si andava socializzando - e l'appropriazione privata, contraddizione che pure, in linea di principio, veniva sempre di più acutizzata dalla ‛rivoluzione antimperialistica' dei popoli coloniali. La teoria del ‟capitalismo monopolistico di Stato" può essere considerata come la continuazione della teoria leniniana dell'imperialismo in una situazione di riflusso dell'imperialismo e di decolonizzazione. L'espansione dell'azione dello Stato nella sfera economica e la destinazione di una parte della produzione capitalistica a spese improduttive per gli armamenti sono gli elementi di spicco della teoria, data l'importanza sempre minore che i territori coloniali e gli investimenti imperialistici di capitali nei territori oltremare hanno rivestito per il capitalismo occidentale nel periodo tra le due guerre e soprattutto dopo il 1945.
c) Recenti teorie politiche dell'imperialismo
Contro le teorie marxiste-leniniste, molti interpreti occidentali dell'imperialismo tengono fermo, come già in passato, al primato dei fattori politici e sociologici. Ogni teoria che faccia leva unicamente sulle cause economiche dei fenomeni imperialistici è insoddisfacente, perché spiega ‟solo una parte - importante ma per nulla sufficiente - dei fatti", e inoltre trascura di considerare che le motivazioni economiche sono in gioco non solo sul versante dei colonizzatori, ma anche su quello dei loro avversari (v. Landes, 1961, p. 95). Del resto, già W. E. Langer osservava: ‟È possibile che esistano interessi commerciali per le conquiste territoriali. Quanto agli interessi delle cricche militari e dei gruppi dominanti, esistono sempre" (v. Langer, 1935). Come mostra questa citazione, l'accento si è spostato rispetto alle vecchie interpretazioni dell'imperialismo. Viene in primo piano non più l'interesse delle grandi potenze, dettato dalla ragion di Stato, ma la dinamica peculiare dei movimenti di massa degli Stati industriali in via di democratizzazione. Già Langer interpretava l'imperialismo britannico essenzialmente come ‟una proiezione del nazionalismo al di là dei confini d'Europa" (ibid., p. 11). H. Arendt ha messo l'imperialismo in relazione con i movimenti fascisti di massa del Novecento; gli elementi razzisti e antiliberali della politica imperialistica scaturirebbero, al pari dei fascismi moderni, da una radice comune, cioè da una democrazia solo esternamente democratica, ma in realtà antiliberale e totalitaria. In modo analogo Fieldhouse ha voluto vedere l'imperialismo come il prodotto di una ‟isteria nazionalistica di massa" (v. Fieldhouse, 1966): un'interpretazione che è stata recentemente proposta anche da Lichtheim (v., 1971, pp. 81 ss.).
d) Teorie ‛oggettivistiche' dell'imperialismo
Un'altra schiera di teorici, in primo luogo H. Lüthy, interpreta l'imperialismo come lo scontro inevitabile tra la progredita civiltà occidentale e le vecchie, comparativamente anacronistiche culture del Terzo Mondo, scontro i cui risultati neppure i diretti interessati vorrebbero cancellare. L'espansione imperialistica sarebbe stata promossa da gruppi meramente marginali delle società occidentali, in primo luogo da migliaia di coloni pionieri e avventurieri, in cui, per così dire, s'incarnava la sovrabbondanza d'energie del mondo occidentale: ‟Questo scoppio di energie sovrabbondanti fu l'autentica forza motrice dinanzi alla quale i primitivi o decrepiti o pietrificati ordinamenti e sistemi politici del mondo extraeuropeo si frantumarono e si disgregarono" (v. Lüthy, 1964, pp. 370 ss.). Analogamente, Landes ha interpretato l'imperialismo come la conseguenza di un fondamentale squilibrio politico, economico, culturale e militare tra la civiltà occidentale e le arretrate società del Terzo Mondo.
e) Teorie sociologiche e sociopolitiche dell'imperialismo
Secondo un significativo orientamento dell'interpretazione occidentale dell'imperialismo, i fenomeni imperialistici vanno ricondotti non tanto alla dinamica interna del sistema capitalistico quanto piuttosto a certe strutture sociali e a certe confignrazioni di interessi che, sorte sulla scia della modernizzazione delle società occidentali, scatenano conflitti sociali che a loro volta spingono le élites dominanti a cercare in una politica di espansione una via d'uscita da una situazione socialmente opprimente. Queste interpretazioni si rifanno per lo più al classico saggio di Schumpeter Zur Soziologie der Imperialismen, nel quale l'imperialismo viene definito come ‟la disposizione priva di oggetto, da parte di uno Stato, più precisamente dei suoi strati dominanti, all'espansione violenta e intollerante di confini", e quindi come un ‛atavismo' sopravvissuto nei tempi moderni (v. Schumpeter, 1953, p. 74; tr. it., p. 6). Contro Lenin, Schumpeter sostenne con decisione l'idea che la società capitalistica, lungi dal suscitare l'imperialismo, è invece orientata, per sua natura, verso lo scambio pacifico dei beni nella cornice di un mercato internazionale. Soltanto in un ambiente politico, nel quale predominino ancora rapporti politici feduali, può aver luogo la formazione di strutture monopolistiche ed è perciò possibile che anche Stati capitalistici promuovano talvolta una politica imperialistica.
Effettivamente, in Occidente è diffusa l'idea che l'imperialismo sia in ultima analisi il risultato di strutture sociali predemocratiche o non democratiche, e che la liquidazione di queste ultime comporti il suo definitivo superamento. E. M. Winslow, per esempio, è giunto alla conclusione che con lo sviluppo di moderne società industriali capitalistiche di tipo pluralistico, l'imperialismo appartiene ormai al passato (v. Winslow, 1948). Analogamente, W. W. Rostow ha difeso la tesi che grosse sproporzioni nella crescita economica, insieme con forti differenze nel potenziale militare, possono sì fornire lo spunto a una politica di aggressione su scala sia regionale che globale, ma che le vere forze motrici di una politica siffatta vanno ricondotte a fattori politici, specialmente al ruolo di gruppi sociali, la cui posizione di potere affondi le radici nella fase arcaica del capitalismo o addirittura in fasi precapitalistiche. Una società dei consumi capitalistica che sia giunta alla maturità non mostra invece alcuna inclinazione alla politica imperialistica, giacché il capitalismo non ha affatto bisogno dell'imperialismo per il proprio ulteriore sviluppo (v. Rostow, 19712).
Mentre queste concezioni si incentrano ancora in larga misura sulla concezione classica dell'imperialismo come forma di dominio territoriale di territori dipendenti, la tesi del ‛social-imperialismo', difesa soprattutto da H.-U. Wehler ma anche da W. LaFeber e W. A. Williams, se ne distacca notevolmente. Con ‛social-imperialismo' non bisogna intendere quella variante dell'imperialismo che, per esempio con J. Chamberlain e Fr. Naumann, propagandava l'espansione economica e territoriale al fine di elevare il livello economico e sociale degli strati inferiori (v. Semmel, 1960; v. Düding, 1972). Si tratta piuttosto di una politica di espansione imperialistica - è indifferente se di specie formale o informale - mirante a difendere le posizioni privilegiate di élites dirigenti tradizionali in società soggette a rapidi mutamenti sociali dovuti all'industrializzazione e alla democratizzazione. Questa strategia di un ‟social-imperialismo manipolatorio", quale Wehler l'ha analizzata dapprima nel caso di Bismarck e quindi generalizzata, trova un ulteriore appoggio nel cosiddetto ‛consenso ideologico' degli strati dominanti e degli strati borghesi, secondo i quali la conservazione dell'ordinamento sociale esistente dinanzi alle crisi periodicamente ricorrenti della crescita è possibile solo se si provvede a una costante espansione economica (è indifferente se attraverso incrementi forzati delle esportazioni o esportazioni di capitali o conquiste coloniali formali). Analogamente Williams, in base all'esempio americano, ha sostenuto la tesi che anche i contadini americani - e in seguito la community business americana - hanno considerato l'incessante apertura di nuovi sbocchi commerciali nei territori oltremare come una condizione del mantenimento del sistema sociale americano.
f) Teorie periferiche dell'imperialismo
Contro queste teorie, che cercano di spiegare l'imperialismo come il risultato di strutture o processi endogeni, ha preso posizione di recente una schiera di studiosi che, all'opposto, considerano decisivi non i processi delle metropoli, bensì quelli della periferia. Le vecchie teorie dell'imperialismo, ha osservato recentemente Robinson, si basano tutte su una grande illusione, in quanto partono sempre dall'assunto che le componenti attive dei fenomeni imperialistici siano di origine europea, ed escludono quindi, qua definitione, gli altrettanto vitali elementi non europei (v. Robinson, 1972, p. 118). L'azione degli uomini di Stato europei era invece di norma determinata dalle crisi e dai sommovimenti della periferia, in particolare dalle ribellioni nazionalistiche contro i regimi collaborazionisti. Su questa base Fieldhouse arriva alla conclusione che l'imperialismo è in primo luogo una ‟reazione a situazioni non soddisfacenti nella periferia" (v. Fieldhouse, 1973, p. 79). Quando si è giunti all'espansione territoriale indipendentemente da tali fattori periferici o ‛eccentrici', si è trattato di norma di annessioni preventive o di misure dirette primariamente (in particolare nel caso della Gran Bretagna) a consolidare e preservare un impero coloniale già esistente; l'official mind dell'imperialismo britannico era guidato anzitutto da considerazioni strategiche e di sicurezza.
Sulla base di questi risultati della ricerca, Robinson ha avanzato recentemente la proposta di sostituire il vecchio modello eurocentrico con un modello pluralistico dell'imperialismo, il quale combini i fattori eurocentrici - cioè da un lato l'espansione economica degli Stati industriali occidentali che tendevano all'integrazione economica delle regioni sottosviluppate del globo nel sistema capitalistico (in via di rapida evoluzione), e dall'altro i fenomeni di politica di potenza legati alla formazione e alla reciproca delimitazione di imperi coloniali tra loro rivali - con i processi operanti nelle società indigene stesse, i quali fornirono spesso l'occasione per l'edificazione di un dominio coloniale formale (v. Robinson, 1972, p. 139). L'imperialismo non era, secondo questo modello, un processo guidato dalle metropoli secondo un programma, ma un processo che sia gli agenti dell'imperialismo nelle metropoli sia le sue vittime nella periferia consideravano inarrestabile, e che si sottraeva in larga misura al controllo razionale.
g) Teorie del neocolonialismo e del sottosviluppo
Le teorie ‛periferiche' dell'imperialismo forniscono un collegamento diretto con i più recenti tentativi di sussumere sotto il fenomeno generale dell'imperialismo le numerose forme di dipendenza che sopravvivono anche dopo la fine dell'imperialismo formale. I primi tentativi del genere sono dovuti a marxisti africani. Kwame Nkrumah coniò nel 1965 lo slogan estremamente incisivo: ‟Neocolonialismo, fase suprema dell'imperialismo", intendendo con ciò riferirsi alle numerose dipendenze indirette che continuavano a sussistere anche dopo la concessione dell'autonomia politica ai paesi ex coloniali. Attraverso l'esportazione di capitali, l'influenza economica, la manipolazione dei terms of trade e gli ‛aiuti per lo sviluppo', veniva di fatto continuato lo sfruttamento dei popoli del Terzo Mondo, mentre i governi fantocci indigeni prestavano di buon grado assistenza agli interessi capitalistici degli ex padroni delle colonie. Questa fu anzi definita da Nkrumah la ‛peggior forma di imperialismo', giacché ormai era cessato ogni controllo su questi processi di sfruttamento (v. Nkrumah, 19682, p. XI). F. Fanon mise invece l'accento sui profondi danni psichici che l'imperialismo ha lasciato dietro di sé nei popoli coloniali - e specialmente nei loro strati dirigenti - e che sono d'intralcio all'emancipazione definitiva (v. Fanon, 1961).
Questi argomenti sono stati ripresi in particolare da un vasto arco di autori neomarxisti di obbedienza assai diversa. La tesi essenziale è che nel corso del suo lungo dominio nei paesi del Terzo Mondo, l'imperialismo ha creato strutture politiche ed economiche, che riproducono incessantemente e necessariamente le vecchie forme di dipendenza dagli Stati industriali. P. A. Baran ha energicamente messo in chiaro che il processo di sfruttamento del Terzo Mondo prosegue immutato anche dopo la fine del colonialismo, sebbene su un piano nuovo e relativamente più razionale (v. Baran, 19622, p. 309). La tesi di Baran è che non sarà possibile superare le irrazionalità del sistema esistente, che rende i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, ‟sino a che esisterà il sistema capitalistico" (ibid., p. 440). Anche Magdoff, che insieme con Mandel appartiene all'ala revisionista degli autori neomarxisti e che ha rifiutato la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto, richiama l'attenzione sul fatto che non è cosa semplice ‟eliminare relazioni di dipendenza, che si sono sviluppate durante un così lungo periodo storico e che hanno radici tanto profonde". La struttura economica dei popoli coloniali e semicoloniali si è sempre di più adattata al ruolo di appendice dei centri metropolitani, e pertanto anche dopo la fine del dominio coloniale formale tanto la struttura dei prezzi che la distribuzione del reddito e l'allocazione delle risorse rimangono soggette all'influsso del potere militare e ‟delle forze cieche del mercato in misura tale che la dipendenza si riproduce incessantemente" (v. Magdoff, 1969, pp. 166 ss.).
Così, accanto all'ala del marxismo-leninismo ortodosso, rappresentato per esempio da Varga e Leontieff, e a un gruppo relativamente più flessibile di teorici marxisti occidentali, rappresentato per esempio da Dobb, Sweezy, Mandel e Kemp, che sottolinea in particolare il ruolo del capitalismo monopolistico di Stato nella conservazione e ulteriore evoluzione del capitalismo anche dopo la fine del colonialismo (v. Kemp, 1967), si è costituito un forte gruppo di studiosi che non fonda più la sua critica al capitalismo in primo luogo sulle sue interne contraddizioni condizionate dal sistema, ma sull'incapacità del sistema capitalistico di dare una soluzione soddisfacente al rapporto tra paesi industriali e paesi del Terzo Mondo. Vengono allora in primo piano due problemi: quello dello ‛scambio ineguale', cioè dell'ingiusta valutazione del valore dei beni provenienti dai paesi in via di sviluppo rispetto a quelli provenienti dai paesi industriali (v. Jalée, 1968 e 1969; v. Emmanuel, 1969); e quello delle imprese multinazionali, che dispongono di una capacità pressoché incontrollabile di dominare i mercati del Terzo Mondo e alle quali risale la formazione di una nuova ‛classe internazionale' (v. O' Connor, 1971, p. 153). Queste tesi sono esemplificate soprattutto dagli Stati Uniti in quanto centro di un nuovo ‛super-imperialismo' che ha assunto una veste prevalentemente informale, dato che la superiorità delle corporations internazionali è tanto grande che si rinuncia per lo più agli strumenti della politica di potenza. Il dominio diretto è stato infine sostituito dalla ‟riproduzione della dipendenza sulla base del potere strutturale" (v. Senghaas, 19732, p. 20).
h) L'imperialismo come potere strutturale
Sulla base di queste interpretazioni neomarxiste, J. Galtung ha intrapreso l'interessante tentativo (che riguarda però, in linea di principio, anche gli Stati socialisti in quanto oggetti e soggetti di un siffatto super-imperialismo) di elaborare una teoria generale dell'imperialismo secondo un ‛tipo ideale', che prescinde in larga misura dalle forme storiche per definire l'imperialismo come un ‟tipo speciale di rapporto di dominio tra collettivi organizzati" (v. Galtung, 19732, p. 29). Galtung si richiama in particolare alle considerazioni della ‛scuola periferica', e descrive il dominio imperialistico come una forma di dipendenza strutturale che si instaura tra ‛nazione centrale' e ‛nazione periferica'; ciò si verifica in forza di un complicato meccanismo, basato in primo luogo sul fatto che il centro dispone nella periferia di una testa di ponte, cioè di uno strato dominante indigeno disposto a cooperare e i cui valori sono ispirati a quelli della metropoli, uno strato che ha quindi un proprio interesse alla conservazione dei rapporti esistenti. In altre parole, la dipendenza imperialistica ha le sue radici essenzialmente nel terreno dell'inuguaglianza sociale, la quale, maggiore nella periferia che nella metropoli, ridonda a vantaggio di quest'ultima. Qui l'idea leniniana di un'aristocrazia operaia corrotta dai sovrapprofitti imperialistici viene applicata ai rapporti esistenti nella periferia. La ‛struttura asimmetrica di interazione' tra ‛nazione periferica' e ‛nazione centrale', che deriva dall'epoca colonialistica ed è rafforzata dal fatto che i paesi sottosviluppati sono anzitutto fornitori di materie prime, viene sostenuta da tale ‛struttura feudale di interazione' e per questa via perpetuata. Si costituisce così una forma di dipendenza strutturale che soltanto in caso di uno sviluppo incompleto richiede ancora il ricorso alla potenza politica o militare: ‟Soltanto l'imperialismo imperfetto abbisogna di armi; l'imperialismo si fonda sul potere strutturale piuttosto che sul potere diretto" (v. Galtung, 19732, p. 55). Da questo modello fondamentale di dipendenza imperialistica delle nazioni periferiche dalle nazioni centrali Galtung ricava cinque forme diverse di imperialismo: l'imperialismo economico, l'imperialismo politico, l'imperialismo militare, l'imperialismo delle comunicazioni e, last but not least, l'imperialismo culturale.
È invero dubbio se, dopo i profondi mutamenti intervenuti negli ultimi anni nell'equilibrio dei rapporti tra paesi produttori di materie prime e paesi industriali, questo modello sia ancora plausibile, tanto più che l'argomento secondo il quale le metropoli mantengono la dipendenza della periferia per mezzo delle organizzazioni internazionali è altrettanto contestabile della tesi che gli spin-off-effects, indotti dalle ‛relazioni di interazione asimmetrica', debbano sempre e necessariamente tornare a vantaggio degli Stati industriali (v. anche Schäfer, 1972, pp. 29 ss.). Comunque, sebbene le teorie dell'imperialismo appena considerate trascendano il problema di un'interpretazione degli imperialismi storici e corrano il rischio di trasformarsi in un gioco di formule vuote, esse possono tuttavia fornire un contributo importante ai gravi problemi che oggi si pongono nei rapporti tra Stati industriali e paesi del Terzo Mondo. E ciò è tanto più vero in quanto esse liberandosi della dicotomia sistema socialista-sistema capitalista, prendono in considerazione gli effettivi rapporti di dipendenza che si rinnovano incessantemente, e che possono avere origine sia nel dominio coloniale sia nel rapporto antagonistico oggi esistente tra i grandi sistemi ideologici mondiali.
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