Imperialismo
'Imperialismo' è uno dei tanti termini astratti ingannevolmente semplici, che sembrano racchiudere in un'unica espressione un enorme contenuto, ma in effetti sono come vasi di Pandora da cui, appena si solleva il coperchio, fuoriesce una varietà sorprendente di elementi spesso contrastanti l'uno con l'altro. Il motivo ovvio e storiograficamente importante di ciò è che tali astrazioni sono una sorta di stenografia, servono a risparmiare tempo. Il che sarebbe giustificabile se queste parole non venissero usate anche per evitare la fatica di chiarire i concetti, nel presupposto che essi siano autoesplicativi, o, peggio ancora, per evitare una dettagliata analisi di fatti e avvenimenti particolari, il che, nel campo delle scienze sociali, costituisce un peccato imperdonabile. Questo articolo vuole esaminare criticamente il termine imperialismo considerandone gli usi legittimi e illegittimi. Perciò è necessario porre cinque quesiti fondamentali e cercare di dare ad essi una risposta: a) cosa si intende comunemente per imperialismo e come il termine abbia assunto quel significato; b) in quali forme, in concreto, l'imperialismo si è realizzato storicamente; c) quali sono state le principali interpretazioni del moderno imperialismo nelle sue diverse forme; d) quali di queste interpretazioni sembrano meglio adattarsi all'espansione dell'Occidente nel periodo del moderno imperialismo, dal 1870, all'incirca, al 1942; e) infine, con quali riserve va usato eventualmente il termine imperialismo.
Anzitutto è necessario porre la fondamentale questione storiografica se sia lecito a storici e studiosi di scienze sociali usare un termine generico come imperialismo. Secondo il più famoso tra gli storici australiani, sir Keith Hancock (v., 1942, p. 1), "Imperialismo non è termine da studiosi". Questo aforisma ampiamente citato (ma di fatto non originale) ha avuto risonanze in tutta la seconda metà del secolo ed è ancora oggi una sfida nei riguardi di tutti quelli che aspirano ad essere studiosi e tuttavia parlano e scrivono di imperialismo. Hancock invero intendeva dire che alla fine degli anni trenta, quando egli scriveva, il termine imperialismo era giunto a significare cose così diverse per le diverse persone da essere privo di un contenuto storico univocamente definibile. Questo difetto di precisione accomuna la parola imperialismo a tante altre parole astratte come 'feudalesimo', 'capitalismo', 'nazionalismo', termini contestati dagli studiosi e che tuttavia sopravvivono nell'uso comune. Bisogna chiedersi perché ciò si verifica.
Vi sono almeno due distinti motivi per cui il termine imperialismo ha avuto fortuna. Il primo è la comodità: i termini astratti sono necessari per indicare concetti generali, pur se in modo impreciso, e se il termine imperialismo non fosse stato coniato, si sarebbe dovuta usare qualche altra parola per richiamare la stessa idea. Il secondo motivo è che tra il 1890 e il 1917 alcuni autori di orientamento socialdemocratico e i marxisti avevano attribuito al termine imperialismo un significato abbastanza preciso e funzionale ai loro scopi: essi lo avevano usato per indicare una determinata fase dello sviluppo del capitalismo europeo e le necessarie conseguenze mondiali che ne derivavano. Imperialismo divenne cioè un termine convenzionale che, usato in quel senso, doveva in qualche modo indicare questo fatto. Per questa sola ragione, e poiché questa definizione ha avuto vastissimo seguito, gli storici devono considerare se l'imperialismo in questo senso è esistito e se vi sono spiegazioni alternative degli stessi fenomeni.
I compiti da affrontare pertanto sono due; in primo luogo occorre esaminare l'origine del termine imperialismo, la varietà di significati che è stata a esso attribuita e le forme concrete che esso può assumere. In secondo luogo, considerare se l''imperialismo' ha un valore esplicativo sul piano storico, cioè se dire che un fatto o una situazione è il prodotto dell'imperialismo aggiunge qualche cosa a ciò che già se ne sa. Questo articolo intende affrontare entrambe le questioni.
In un famoso articolo pubblicato nel 1949, cui seguì un ancor più famoso libro (scritto insieme a H. Schmidt) nel 1964, lo storico israeliano Richard Koebner tracciò l'evoluzione della parola imperialismo come termine convenzionale. Inizialmente esso fu usato quasi sempre con valore polemico e fece la sua prima comparsa negli anni cinquanta dell'Ottocento, allorché fu adoperato in Gran Bretagna per caratterizzare il Secondo Impero francese di Luigi Napoleone con i suoi forti richiami bonapartisti, militaristi e la sua spettacolare politica estera. Nel corso degli anni settanta del secolo scorso i liberali britannici ripresero il termine in senso dispregiativo per colpire l'atteggiamento aggressivo di Disraeli nelle questioni coloniali e internazionali. Vero è anche che presso quanti approvavano tale politica, il termine imperialismo ebbe per una breve stagione un significato positivo: personaggi come Cecil Rhodes e lord Milner e anche alcuni liberali come Albert Asquith e sir Edward Grey si autoproclamarono orgogliosamente 'imperialisti' per indicare la loro fiducia nell'Impero britannico e in una energica politica estera. Ma negli anni novanta il termine 'imperialismo' venne nuovamente screditato muovendo da varie direzioni. Quanti in Gran Bretagna avversavano il rapido sviluppo del colonialismo europeo, cominciarono ad usare il termine in senso spregiativo. Così nel 1896 sir William Harcourt, un liberale gladstoniano, descrisse la spedizione di Jameson nel Transvaal come "uno squallido e sordido esempio di imperialismo da speculatori di borsa"; e nel 1898 il suo compagno di partito, il deputato liberale J.M. Robertson, insieme a molti altri, ricollegava con forza l'imperialismo agli egoistici interessi economici e alle mire oltremare dei capitalisti britannici ed europei. Nel 1902 John A. Hobson sviluppò questo concetto nel suo autorevolissimo Imperialism. A study.
Imperialismo come termine convenzionale non si risollevò più da questo attacco liberale, quantunque la gamma delle connotazioni possibili di questo concetto venisse rapidamente ampliata da marxisti e socialisti. Dal 1902 il termine aveva essenzialmente tre implicazioni: militarismo e politica aggressiva, colonialismo (Engels, per esempio, nell'edizione da lui curata del terzo libro del Capitale di K. Marx che è del 1894, lo usava in questo senso) e infine un complesso di interessi consolidati, che si riteneva favorissero sia il militarismo sia il colonialismo. Non distano molto da queste posizioni le più complesse definizioni sviluppate tra il 1900 e il 1917 dai socialdemocratici europei Rudolf Hilferding, Rosa Luxemburg, Nikolaj Bucharin e Nikolaj Lenin, le cui argomentazioni esamineremo in seguito. Il punto fondamentale è che la diffusione generalizzata del termine imperialismo venne a coincidere con lo sviluppo senza precedenti delle colonie europee tra il 1870 e il 1914, e che esso poté essere associato in modo particolare al colonialismo proprio perché in quel periodo questo era in forte espansione.
Ma il termine imperialismo attualmente è utilizzato in senso molto più generale, anche in relazione a tutti i periodi della storia umana che conosciamo e a molte situazioni di tipo non coloniale; in particolare esso è usato in due forme del tutto diverse, la prima per descrivere una situazione specifica, la seconda per delineare le dinamiche del processo storico attraverso cui un impero si è costituito. L'analisi di questa seconda forma, cioè lo sviluppo dei moderni sistemi imperiali, sarà qui limitata al periodo successivo al 1870, cui il termine imperialismo si riferiva originariamente: a ciò è dedicato il capitolo 5.
Ma per prima cosa dobbiamo liberare l'espressione dal valore polemico che comunemente ad essa si attribuisce, ricercando un nucleo essenziale, una connotazione applicabile al fenomeno nell'aspetto statico come in quello dinamico. Le quattro definizioni seguenti furono elaborate a partire dal 1973 da studiosi di diversa impostazione.
1. L'imperialismo riguarda "ogni rapporto di effettivo dominio o controllo politico o economico, diretto o indiretto che una nazione esercita su un'altra" (v. Cohen, 1973).
2. "Il concetto di imperialismo denota un rapporto di dominio, a volte esplicito, nella forma di una sovranità politica mantenuta con la forza su popoli soggetti indipendentemente dalla loro volontà o consenso, a volte implicito, in quanto sistema di controllo esercitato su popoli e territori indipendentemente dalla loro organizzazione politica, al fine di dirigere le loro attività verso il soddisfacimento di esigenze ed interessi che sono essi stessi prodotti dal sistema" (v. Reynolds, 1981).
3. "L'imperialismo può essere definito il dominio effettivo esercitato da uno Stato relativamente forte su un popolo più debole sul quale non ha lo stesso controllo che esercita sui cittadini della madrepatria, oppure lo sforzo per assicurarsi siffatto dominio" (v. Smith, 1981).
4. "In generale, l'imperialismo può essere definito come il dominio o controllo di un gruppo su un altro" (v. Baumgart, 1975).Il denominatore comune di queste quattro fondamentali definizioni di imperialismo è il concetto di 'dominio' di un 'gruppo', 'nazione', 'Stato' o 'popolo' su un altro. Emergono altresì due aspetti evidenti: in primo luogo, i caratteri di chi pone in atto il rapporto imperialistico e, in secondo luogo, la varietà di forme che esso può assumere. Tralasciando per ora gli elementi dinamici, ossia il modo in cui tale dominio è stato imposto, è necessario considerare questi due problemi.In primo luogo, tutti questi autori sostengono che l'imperialismo implica un tipo di dominio o di controllo diverso da quello che si ha nell'ambito di una singola unità politica, implica cioè una relazione tra due entità distinte e separate (probabilmente anche dal punto di vista geografico). Questo è fondamentale: per quanto il concetto di imperialismo sia elastico, sarebbe una forzatura parlare di un imperialismo che Roma esercita su Milano. Tuttavia il concetto non ha confini precisi. Può essere imperialistico il rapporto che sussiste tra gli elementi nazionali che compongono un singolo Stato sovrano, per esempio tra Inghilterra e Scozia o Galles? Alcuni in Scozia e nel Galles lo hanno affermato sulla base della considerazione che si tratta di un rapporto ineguale, basato più sulla storia passata che sull'attuale volontà del popolo gallese o scozzese, e che implica una subordinazione economica e culturale. In diverse altre parti del mondo, nel passato come nel presente (per esempio in Unione Sovietica), si è posto il problema di tracciare la linea di demarcazione tra l'unità 'legittima' (perché 'naturale') del singolo Stato, e quella 'illegittima' (perché 'innaturale' o imposta con la forza) che si ha nell'impero.
A questo punto dobbiamo esaminare l'idea di nazione, densa di significati quanto quella di imperialismo. Il concetto di nazione è usato per legittimare il pieno potere di uno Stato sovrano in base al presupposto che tutti i suoi membri sono eguali e hanno interessi comuni, e quindi nessuno può essere sfruttato da parte dell'autorità comune. Ebbene, quali sono gli elementi essenziali che caratterizzano la nazione in tal senso? L'Unione Sovietica, che era costituita di moltissimi gruppi etnici, diversissimi dal punto di vista culturale, economico e storico, pur se geograficamente contigui, era una nazione o un impero? Ai tempi degli zar era sicuramente un impero in cui San Pietroburgo governava su un complesso di territori coloniali.
Ma Lenin e Stalin respinsero la richiesta di indipendenza di alcune regioni non europee sulla base del principio che uno Stato socialista non può essere imperialista, e che tutti i lavoratori hanno uguali interessi. Tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, molti in Gran Bretagna pensavano che il paese unitamente alle colonie che avevano ottenuto l'autonomia, in modo particolare Australia e Nuova Zelanda, costituisse una unica 'nazione' britannica. Analoghe rivendicazioni venivano avanzate, con minore convinzione, rispetto a Canada, Sudafrica e Irlanda, ritenendo che la lontananza e le differenze non potessero indebolire i legami di cultura, lingua e comunanza storica.
Ma molti cittadini del Quebec, del Sudafrica e dell'Irlanda non accettarono tali richieste poiché ai loro occhi il rapporto con la Gran Bretagna era di tipo imperialistico, basato sulla dominazione e non su libera scelta. Si potrebbero considerare altri casi limite: l'Algeria francese, una volta parte integrante del territorio metropolitano, che infine rifiuta di far parte della Repubblica; oppure, all'opposto, le Hawaii, a duemila miglia da San Francisco e all'inizio con popolazione prevalentemente polinesiana, che purtuttavia scelgono liberamente di diventare Stato a pieno titolo dell'Unione americana.
Il fatto è, naturalmente, che la differenza tra impero e Stato, o tra dominio e cittadinanza, non deriva necessariamente dalla geografia, dalla razza o dalla cultura. Uno Stato nazionale ha due caratteristiche distintive: la piena uguaglianza giuridica tra tutti quelli che lo abitano e la spontanea adesione della maggioranza al comune potere sovrano. L'imperialismo inizia là dove il dominio viene a sostituirsi al genuino assenso della maggioranza all'unità politica. La dominazione del più forte sul più debole è perciò il concetto chiave di ogni forma di imperialismo.
Il dominio nelle situazioni di tipo imperialistico può assumere diverse forme: è la seconda caratteristica comune alle quattro definizioni di imperialismo sopra citate che deve essere ora analizzata. L'imperialismo come espressione di dominio è proteiforme, e perciò è necessario esaminare le sue varianti e la relativa terminologia comunemente adoperata. In quelle definizioni erano presenti essenzialmente due principali tipi di varianti: in primo luogo l'imperialismo può essere 'diretto' o 'indiretto'; in secondo luogo, per ciascuna di queste forme, esso può riguardare settori specifici di attività e diverse sfere della vita; tra questi i tre più comuni sono governo e politica, economia, cultura nel suo senso più ampio. Da ciò deriva che l'imperialismo può assumere sei diverse forme, che verranno comprese sotto le categorie più generali di dominio 'diretto' e 'indiretto'
L'imperialismo 'diretto' (o 'formale') implica che la potenza imperialistica eserciti un pieno controllo su un'area dipendente. Questo controllo viene esercitato dall'interno del territorio, assai spesso sostituendo il capo o i capi indigeni, le istituzioni di governo e anche alcune delle leggi e delle consuetudini locali con funzionari, istituzioni e leggi importate dalla metropoli. In questo modo la capacità decisionale viene sottratta al territorio dipendente e trasferita allo Stato imperialista. Trasformazioni di questa portata erano comuni nei territori coloniali dell'America Latina anteriormente al XIX secolo, e nell'Africa subsahariana, nell'Asia meridionale e nel Pacifico in epoca moderna. Invece in molti territori, per esempio nei paesi islamici dell'Africa settentrionale, nel Medio Oriente e nel Sudest asiatico, e anche nei principati dell'India ed in alcune isole del Pacifico come Tonga, lo Stato imperiale, pur dominando il paese dall'interno ed esercitando un potere praticamente illimitato, in genere manteneva le strutture politiche e giuridiche locali, e spesso anche quelle economiche, agendo dietro di esse come un burattinaio che fa danzare le marionette muovendone i fili. Nel linguaggio degli storici dell'imperialismo tali tecniche sovente sono state chiamate dominio indiretto (indirect rule), che non è lo stesso dell'imperialismo indiretto che analizzeremo tra poco, poiché in questi casi erano mantenute solo le forme esteriori del potere locale, mentre la sostanza del potere imperialistico rimaneva integra. Per questo motivo spesso si preferisce l'espressione imperialismo 'formale' a imperialismo 'diretto'. Il dominio diretto in ambedue le forme è comunemente descritto come colonialismo; il colonialismo nasce e muore con l'imperialismo formale
La fondamentale caratteristica dell'imperialismo 'indiretto' o 'informale' consiste nel fatto che uno Stato potente può esercitare un dominio effettivo su uno più debole senza occuparlo materialmente. Gli strumenti di tale forma di dominazione sono diversi e vanno, per così dire, dal bastone alla carota. Il 'bastone' consiste in minacce di interventi militari o navali, nell'uso di pressioni diplomatiche e nel controllo attraverso l'indebitamento. Vi sono anche diversi generi di 'carota': ad esempio, alleanze che proteggano gli Stati deboli dai loro vicini; prestiti, sovvenzioni ed investimenti; facilitazioni di mercato; rifornimenti di armi; 'assistenza tecnica' (come spesso viene chiamato l'aiuto militare non ufficiale), e anche il sostegno militare diretto. Il comune denominatore di tutte queste tecniche imperialistiche è che esse, esteriormente almeno, non intaccano la formale indipendenza degli Stati cui sono rivolte, e tuttavia possono costituire un effettivo dominio ed avere effetti profondi sul partner più debole. Nel mondo contemporaneo varie espressioni di uso comune descrivono questo tipo di rapporto; le più diffuse sono le tre seguenti: a) neocolonialismo, che indica il mantenimento di uno Stato indipendente in una situazione di subordinazione economica paragonabile a quella che si aveva spesso sotto il colonialismo di un impero formalmente costituito; b) dipendenza, cioè la condizione di subordinazione economica di un paese povero situato in una zona della 'periferia' o della 'semiperiferia' rispetto agli Stati 'centrali' dell''Occidente' (o 'Nord') del sistema mondiale; c) sottosviluppo, vale a dire la conseguenza della 'dipendenza', che implica che l'economia del paese dipendente è stata condizionata dal rapporto imposto dai paesi del 'centro' (spesso in conseguenza del precedente colonialismo) al punto da perdere la stessa capacità di sviluppare le proprie risorse naturali.
Tutti questi termini e concetti chiave derivano dalla definizione di imperialismo come "dominio di una nazione su un'altra" ed hanno tutti un valore polemico e descrittivo, non esplicativo. È necessario allora esaminare come la dominazione imperialistica, qualunque sia la sua forma, si è costituita, limitando l'analisi al mondo moderno. Questa analisi sarà suddivisa in due parti. Il capitolo 4 esaminerà sommariamente e valuterà alcune delle principali teorie sviluppate dalla fine del XIX secolo per chiarire la genesi dell'imperialismo occidentale ed il suo impatto sul resto del mondo a partire dal 1870 circa. Il capitolo 5 verificherà poi la validità di queste diverse teorie relativamente all'imperialismo europeo e giapponese tra il 1870 ed il 1942.
In pratica tutte le spiegazioni più note del perché una nazione giunga a instaurare forme di dominio su un'altra, partono dal presupposto che tale tendenza esprima e rifletta il carattere peculiare dello Stato imperialista, oppure, alternativamente, del gruppo politicamente o socialmente dominante in esso. Vale a dire, l'imperialismo è un carattere sistemico, non accidentale ed estrinseco. Un paese non decide improvvisamente di cambiare la sua natura e diventare imperialista: le radici più profonde dell'imperialismo affondano nei caratteri costitutivi e nei bisogni di tale paese. La questione più dibattuta è quali siano o siano state queste radici.
A questa affermazione di carattere generale è stata mossa un'obiezione. Si potrebbe infatti sostenere che attitudini e prassi imperialistiche, in alcuni paesi, possono essere una risposta a condizioni esterne, più che espressione delle rispettive situazioni interne. In una particolare fase storica le disuguaglianze che esistono tra le condizioni dei diversi paesi, oppure l'instabilità delle relazioni internazionali, potrebbero stimolare una risposta imperialistica in un paese che altrimenti non avrebbe manifestato una simile tendenza. In questo caso l'imperialismo può essere definito 'reattivo' o anche 'riluttante'. Questi due tipi di interpretazione debbono perciò essere esaminati separatamente.
In primo luogo, quali sono i motivi più profondi che spingono all'azione un paese sistemicamente imperialista? Naturalmente si può rispondere in modo riduttivo, dicendo che in tutte le epoche e in tutti gli uomini ci sono aggressività e desiderio di dominio, che tutto il mondo si trova in uno stato di natura hobbesiano, e che l'unica variabile è che alcuni Stati hanno la capacità di sfogare i propri istinti aggressivi mentre altri sono troppo deboli per farlo. Ciò può essere vero, ma con tale semplificazione il problema è semplicemente rimosso. Anche se il mondo fosse popolato di tali irriducibili aggressori, sarebbe comunque preferibile presupporre che potrebbe non essere così e ricercare le possibilità alternative. La letteratura sull'imperialismo suggerisce quattro fondamentali interpretazioni.
Il più noto esponente dell'interpretazione sociopolitica dell'imperialismo è stato l'economista e sociologo viennese Joseph A. Schumpeter che rielaborò alcune idee del suo maestro Max Weber. Nel 1919 egli pubblicò un saggio che nasce da una riflessione sulla prima guerra mondiale e sulle argomentazioni marxiste di Rudolf Hilferding, Rosa Luxemburg e Nikolaj Lenin. Schumpeter sosteneva che alcuni tipi di sistemi sociopolitici, e in modo particolare i gruppi in essi dominanti, sono imperialisti per natura, poiché essi perderebbero la loro ragion d'essere e probabilmente il loro potere, qualora agissero in modo diverso. Più precisamente l'imperialismo è sempre stato una caratteristica delle monarchie assolute e delle aristocrazie militariste, in quanto per le une come per le altre prestigio, ricchezza e potenza derivano da continue guerre e conquiste. Inoltre conquista ed espansione territoriale, diceva Schumpeter (v., 1919; tr. it., p. 69), erano "tendenze 'prive di oggetto' all'espansione violenta, ignara dei limiti utilitaristicamente definiti - cioè inclinazioni arazionali e irrazionali, puramente istintive, alla guerra e alla conquista". Tali tendenze erano evidenti in tutti gli imperi del mondo antico, nel Medioevo e nella prima epoca moderna, e hanno semplicemente continuato ad agire anche nel XX secolo. Furono esse le vere ragioni per cui Germania, Austria e Russia ebbero una forte tendenza espansionistica alla fine del XIX secolo ed entrarono in guerra nel 1914, mentre invece Stati borghesi come Gran Bretagna e Francia non erano intrinsecamente imperialisti. Essi attuarono una politica imperialistica solo in risposta all'imperialismo altrui. Perciò l'imperialismo sarebbe scomparso se, e solo se, la democrazia egualitaria si fosse sostituita ovunque all'irriducibile militarismo delle monarchie e delle aristocrazie.
Questa spiegazione 'atavistica' del moderno imperialismo è niente altro che un approccio sociopsicologico al fenomeno, la cui debolezza risulta evidente se si considera il caso della Francia dopo il 1871. Quantunque borghese, democratica, antimonarchica essa fu, cionondimeno, uno degli Stati più aggressivi ed espansionisti nel periodo che precede il 1914, e inseguì ambizioni che apparivano prive di scopo in quelle terre del Sahara che lord Salisbury definiva crudamente 'terra bruciata'. Tuttavia la spiegazione 'atavistica' dell'imperialismo rimane ancora un punto di vista utilizzabile, se non è presa del tutto alla lettera. Non potrebbe adattarsi egualmente a regimi come quello fascista italiano, oppure a quello nazista tedesco, che, per quanto ambedue essenzialmente piccolo-borghesi, cercarono tuttavia di ricreare l'ethos e la retorica delle antiche monarchie militariste? Non era forse il loro 'espansionismo privo di oggetto' condizione necessaria della stabilità interna? Non si potrebbe forse utilizzare lo stesso concetto nel contesto totalmente diverso dell'espansionismo giapponese dopo il 1930?
È stato affermato che gli Stati nazionali moderni con i loro sistemi politici sempre più democratici e le loro strutture sociali sempre più egualitarie, contenevano le premesse per una loro forma specifica di imperialismo. Ci sono numerosi modi per dimostrare e chiarire tale affermazione; il più comune è che il moderno Stato nazionale è frutto di un nazionalismo potenzialmente aggressivo. Fu un impulso nazionalistico a creare Stati che coincidevano con una 'nazione', ed esprimevano una sorta di 'realtà' in senso hegeliano, a dar luogo a entità statali come l'Italia, gli Stati Uniti dopo la guerra civile e la Germania dopo il 1871. La spinta nazionalistica, che per tutto il periodo della formazione di questi Stati aveva avuto quasi sempre tratti fortemente liberali ed anti-imperialistici, si protrasse anche nel periodo meno eroico seguito all'unificazione, specialmente quando (come in Italia) risultò chiaro che i vantaggi conseguiti erano scarsi. Il nazionalismo cambiò allora direzione e diventò imperialismo. L'Italia sviluppò ambizioni espansionistiche verso l'Africa del Nord, gli Stati Uniti verso i Caraibi e il Pacifico, la Germania verso l'Africa, il Pacifico e infine l'Europa orientale, e molti altri esempi si potrebbero trovare nella storia del XIX secolo.
Ma c'è un altro modo per spiegare l'imperialismo, nel contesto dei sistemi politici moderni, democratici o burocratici che siano. I politici per aver popolarità ed essere eletti debbono guadagnarsi le simpatie della massa degli elettori e assicurarsi il favore dei gruppi di interesse. Le guerre di conquista, in modo particolare se di basso costo, spettacolari, ritenute capaci di dare importanti benefici alla nazione, fanno acquistare voti, e comunque possono distrarre le masse dai problemi interni e dall'incompetenza dei governanti. Inoltre, poiché i politici sono costretti a compiacere forti gruppi di interesse, i ministri possono essere sottoposti a condizionamenti occulti da parte di tali gruppi. In un modo o nell'altro gli uomini di Stato borghesi possono essere attratti dai possibili vantaggi politici dell'imperialismo e possono essere aiutati a convincere gli elettori dei benefici delle loro politiche dai mezzi d'informazione: la stampa prima del 1914 e più tardi, in modo crescente, la radio e la televisione. Con argomentazioni di questo tipo è stato spesso spiegato da critici liberali e di sinistra l'imperialismo di Stati democratici come Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, nei quali il presunto buonsenso della gente comune sarebbe stato sviato dai seducenti ragionamenti e dalle manipolazioni propagandistiche dei mezzi di comunicazione di massa. Fu così, ad esempio, che venne spiegato il sostegno dato dall'opinione pubblica britannica alla guerra anglo-boera del 1899-1902, e ad altri successivi conflitti imperialistici. La risposta liberale è consistita nel proporre una migliore educazione delle masse, un governo e una diplomazia più 'aperti' e una riforma dei media, presumendo che una democrazia correttamente informata non possa desiderare politiche imperialistiche, se è pienamente consapevole dei costi morali e finanziari che esse comportano per il paese dominante e per quello dominato.
Fra tutte le interpretazioni del moderno imperialismo, quella basata sui fattori economici ha avuto il maggior successo. Come si è già visto, la parola imperialismo acquistò tale connotazione negli anni novanta dell'Ottocento: qualunque forma esso assumesse come 'impero diretto' o 'formale', l'imperialismo era sempre visto come espressione necessaria delle esigenze economiche delle società moderne giunte ad una certa fase del loro sviluppo. E poiché alcuni grandi Stati riuscirono a raggiungere questo livello nell'ultimo decennio dell'Ottocento ed oltre, fu allora che si ebbe la loro espansione imperialistica. Questa, tuttavia, è un'affermazione troppo generica: i fattori economici debbono essere analizzati nelle loro forme specifiche. Quantunque le variabili possibili siano troppo numerose per essere esaminate dettagliatamente, esse sono riconducibili a due diverse spiegazioni di fondo: l'imperialismo come prodotto dei moderni sistemi commerciali e l'imperialismo come espressione della necessità di investimento del capitalismo moderno.
L'imperialismo commerciale. - Non è immediatamente chiaro perché il commercio spingerebbe un paese ad affermare il proprio dominio materiale su un altro. Come si dice spesso, non c'è bisogno di possedere un territorio per potervi commerciare. Eppure in particolari circostanze si può pensare che il dominio favorisca i commerci di uno Stato, e ciò si può vedere distinguendo tra l'influenza dei mercati di esportazione (imperialismo orientato verso il mercato) e quella delle fonti di materie prime (imperialismo orientato verso l'approvvigionamento di materie prime).
L'imperialismo orientato verso il mercato può essere sia aggressivo che difensivo. Sarà aggressivo se un paese esportatore si serve della forza o di minacce per costringere un altro paese a scambi commerciali contro la sua volontà, o per assicurarsi condizioni di commercio privilegiate. L'uso della forza da parte britannica contro la Cina e da parte degli Stati Uniti contro il Giappone nel XIX secolo, fu un'azione aggressiva per costringere partners riluttanti al commercio ad una maggiore apertura. Il colonialismo assicurò agli Stati metropolitani condizioni di commercio negli Stati dipendenti enormemente favorevoli e talvolta monopolistiche.
L'imperialismo, per un altro verso, può agire in senso difensivo qualora vi sia la possibilità che rivali stranieri si accaparrino opportunità di commercio esistenti o potenziali. Al riguardo è stato sostenuto che la spartizione dell'Africa occidentale alla fine del XIX secolo fu in larga misura causata dalla reciproca paura, da parte di alcuni Stati europei, che regioni commerciali importanti e ancora aperte potessero essere annesse e monopolizzate da altri. La spartizione politica attribuiva a ciascun contendente una quota accettabile e soprattutto sicura di opportunità disponibili. Oppure, i sistemi di monopolio e di privilegi imperiali risalenti al XVI secolo, ma rinati a partire dal 1870 dopo un periodo di relativa libertà di commercio, potevano essere espressione del timore che un paese esportatore meno competitivo, in una situazione di competizione aperta, potesse essere estromesso dai suoi mercati da parte di uno più forte. L'imperialismo, comunque, anche in un mondo commerciale libero, poteva dare benefici commerciali ad uno Stato industrializzato le cui industrie dipendevano dai mercati esteri per mantenere determinati livelli di produzione e realizzare economie di scala.
Relativamente alle fonti di materie prime, le motivazioni dell'imperialismo possono essere ugualmente di carattere aggressivo o difensivo. In un'economia internazionale competitiva e libera, il prezzo delle materie importate può essere cruciale per il grado di redditività di un paese industrializzato. Una politica aggressiva di controllo delle risorse per la produzione di beni essenziali avvantaggia lo Stato imperialista sui rivali, assicurandogli l'approvvigionamento di risorse scarse e garantendo alle industrie nazionali materie prime più a buon mercato rispetto alle industrie straniere. Viceversa l'imperialismo può essere anche una strategia difensiva per assicurarsi proprie fonti di beni relativamente scarsi, come petrolio o uranio, per non essere ricattati da produttori ostili.
L'imperialismo dovuto agli investimenti. - Per quanto importante possa essere il commercio, l'investimento è stato sempre considerato dai marxisti la principale causa economica dell'imperialismo. Tale argomentazione fu sviluppata in diverse forme ed ebbe un lungo periodo di gestazione nel XIX secolo. Comunque la formulazione ancora comunemente accettata fu data da Lenin nel suo libro L'imperialismo fase suprema del capitalismo, che a sua volta molto doveva alle argomentazioni di Hilferding e di Bucharin, suoi compagni socialdemocratici, e del liberale britannico John A. Hobson.
Per Lenin, che scrisse nel 1916, quando era in esilio, l'imperialismo era un carattere strutturale e costituiva una fase inevitabile dell'evoluzione di qualsiasi società capitalistica. Alla fine del XIX secolo (egli pose come data formale il 1900), il capitalismo competitivo era stato sostituito nei principali Stati capitalistici d'Europa e del Nordamerica da un capitalismo monopolistico, quando le piccole imprese erano state assorbite da grandi concentrazioni industriali. Nello stesso tempo le banche si erano strettamente integrate con le grandi imprese industriali attraverso prestiti, partecipazioni azionarie e direzioni comuni, formando il 'capitale finanziario'. Il capitale finanziario monopolistico, che operava dietro le tariffe protettive nella maggior parte dell'Europa e del Nordamerica (eccetto Gran Bretagna e Paesi Bassi), era in condizione di aumentare i prezzi nel mercato interno. Ma dal momento che i salari dei lavoratori non aumentavano in modo proporzionale, il volume delle vendite interne era destinato a diminuire. Piuttosto che abbassare i prezzi, le imprese si rivolsero ai mercati esteri e per ridurre i costi di produzione cercarono materie prime più a buon mercato. Inoltre, piuttosto che accettare la diminuzione degli utili marginali investendo i loro profitti all'interno, i capitalisti scelsero sempre più di investirli all'estero. Questi tre fattori (mercati, rifornimenti di materie prime e aree di vantaggioso investimento) suggerirono una divisione del mondo tra i grandi capitalisti finanziari di diversi paesi per evitare la concorrenza. In prima istanza essa fu delineata in modo 'informale' attraverso accordi per zone, ma in ultimo questi approcci fallirono perché i capitalisti di un paese non si fidavano della buonafede di quelli di un altro. A questo punto si rivolsero ai rispettivi Stati affinché con l'azione politica garantissero la sfera degli interessi economici già esistenti in modo informale, e ciò portò alla formale divisione del mondo in colonie prima del 1914, nonché alla revisione di tale assetto cui mirò successivamente ciascun belligerante della prima guerra mondiale.
Questa era la versione originale di ciò che Lenin chiamava la teoria dell''imperialismo capitalistico'. Successivamente i marxisti dovettero però riformularla per tener conto dei cambiamenti avvenuti, e punto focale divenne la società di capitali o l'impresa multinazionale o transnazionale, considerata espressione contemporanea del capitalismo monopolistico.
Queste società, si è argomentato, avviano imprese in alcuni paesi del Terzo Mondo, inizialmente soprattutto piantagioni, concessioni petrolifere, servizi pubblici - ma in epoca più vicina industrie manifatturiere -, mantenendone il controllo e godendone in esclusiva i profitti. Tali imprese, ognuna secondo le proprie caratteristiche specifiche, soddisfano tutte e tre le funzioni proprie di un'economia capitalistica avanzata: possono facilitare l'esportazione di manufatti, fornire materie prime essenziali e, soprattutto, permettono favorevoli investimenti di capitale.
La differenza essenziale dal capitalismo descritto da Lenin è che queste imprese non hanno bisogno di controllare politicamente i paesi in cui operano, e sono perciò ben inserite nel mondo postcoloniale. Esse sono in condizione di dominare e dettar legge negli Stati piccoli o poveri, grazie alle loro dimensioni e all'importanza che hanno nelle economie locali. In tal modo esse impongono un neocolonialismo informale. Con questi mezzi il Terzo Mondo è tenuto in condizione di quasi subordinazione, come una catena di paesi 'dipendenti' e 'sottosviluppati' il cui surplus, invece di essere usato per lo sviluppo delle economie locali, è drenato all'estero; essi restano così totalmente dipendenti dai paesi centrali per quanto riguarda le tecnologie moderne.Riassumendo per sommi capi, queste sono le più significative spiegazioni dell'imperialismo moderno, considerato logica conseguenza delle esigenze e delle caratteristiche degli Stati dominanti. Ma, senza necessariamente sostenere che queste spiegazioni siano prive di validità, bisogna esaminarne altre di tipo diverso, che non si rifanno in modo esclusivo alle esigenze ed alle necessità degli Stati 'centrali' e non considerano l'imperialismo una loro caratteristica strutturale.
In questi ultimi trent'anni ha perso molta della sua credibilità l'idea che l'imperialismo moderno, specialmente nella sua forma dinamica - che ha portato al colonialismo formale o all'egemonia informale -, fosse esclusivamente il prodotto di fenomeni riguardanti le metropoli. Sulla base di studi più dettagliati su regioni e situazioni particolari, oggi risulta che ciò che a prima vista poteva apparire semplicemente una spinta verso l'esterno, europea o americana, era spesso una risposta, più o meno riluttante, ai problemi delle periferie. Il più comune di questi problemi è quello che spesso è stato indicato come 'destabilizzazione' di un paese meno sviluppato; fenomeno che poteva avere diverse cause ed assumere diverse forme. Nell'ultima parte del XIX secolo, molto probabilmente, la destabilizzazione era stata la conseguenza dei primi stretti contatti tra le società indigene ed i commercianti occidentali, i missionari, i cercatori d'oro, gli speculatori sui terreni, ecc., mentre nel tardo XX secolo essa è venuta a dipendere, più che altro, dall'instabilità interna e dall'aggressività verso l'esterno dei deboli Stati ex coloniali.
Qualunque sia la causa, il problema che le potenze sviluppate devono affrontare è sempre lo stesso. Possono le grandi potenze, gli Stati del 'centro', che hanno sia una vasta gamma di interessi particolari in queste regioni, sia un interesse generale per la stabilità internazionale, starsene in disparte a guardare il disordine e ciò che ne consegue, oppure debbono intervenire? Se intervengono, possono trovarsi invischiate nelle situazioni locali al punto da non poterne più uscire senza aggravare la situazione di crisi. Per di più l'intervento può far sorgere un desiderio di interferenza e di controllo. Qualora ciò si verifichi il controllo sarà esercitato direttamente nella forma dell'occupazione materiale (come fece la Gran Bretagna nel XIX secolo con l'Egitto, o, più recentemente, hanno fatto i Sovietici in Afghanistan), o indirettamente per mezzo dei 'residenti' (come nel XIX secolo in Malesia) o attraverso 'consiglieri tecnici' (come nella moderna Angola hanno fatto i Cubani).
Non è necessario addurre altri esempi: la conclusione è che l'imperialismo può essere la conseguenza sia di avvenimenti che si verificano nella periferia, sia di un'iniziativa che parte dal centro. Per quanto forte sia la spinta verso l'esterno dell'imperialismo occidentale, e qualunque forma esso possa assumere, ci sono quasi sempre due attori nell'instaurarsi di un rapporto imperialistico, che è perciò una dinamica tra due poli. Di più: per mantenere una qualunque forma di dominio, lo Stato imperialista deve avere 'collaboratori' indigeni o compradores, secondo la moderna terminologia di sinistra. La dominazione diverrebbe insostenibile in mancanza di collaborazione e il risultato sarebbe la fine sia del colonialismo formale sia del controllo informale.Vi sono perciò numerosi modi di spiegare lo sviluppo di ogni forma particolare di imperialismo. La validità di tali spiegazioni può essere verificata sulla base delle testimonianze di ogni periodo storico conosciuto. Ma poiché il concetto è stato sviluppato in modo specifico relativamente al periodo dell'imperialismo formale europeo, a partire dalla fine del XIX secolo e fino all'attacco giapponese agli Stati Uniti nel 1941 e all'offensiva nel Sudest asiatico, ci proponiamo di servirci degli avvenimenti di questo periodo come del più attendibile e più valido test per la verifica di quelle spiegazioni.
È più facile definire le diverse possibili cause dell'imperialismo che mostrare come esse agiscono e spiegare così gli specifici sviluppi storici. Inoltre, poiché le conquiste dell'imperialismo sono state tante, di diversa origine e disseminate in una varietà di aree geografiche, sarebbe necessario un grosso volume per darne un resoconto anche sommario. Ma se cerchiamo, a grandi linee, di collegare la riflessione teorica agli avvenimenti della storia moderna a cui più propriamente si riferisce il concetto di imperialismo, allora risulta il seguente modello, che distingue i fattori generali in atto da quelli specifici.
Recenti ricerche mettono in chiaro che nell'ultima parte del XIX secolo agivano su scala mondiale almeno tre fattori che differenziavano questo periodo da ogni altro periodo precedente e che rendevano possibile, e forse desiderabile, un'enorme estensione del dominio europeo sulle altre parti del mondo: l'evoluzione del sistema economico e sociale occidentale, i nuovi caratteri della politica internazionale e dei sistemi di alleanze, i cambiamenti verificatisi nelle parti del mondo colonizzate in questo periodo (alcuni dei quali conseguenza dei precedenti cambiamenti). Esamineremo separatamente questi fattori.Per prima cosa, non c'è dubbio che lo sviluppo dell'economia europea e del Nordamerica nel XIX secolo avesse prodotto, verso il 1870, condizioni che rendevano certo il fatto che l'Occidente avrebbe incorporato tutte le altre parti del mondo in un unico sistema i cui centri sarebbero stati nell'Europa occidentale e nel Nordamerica. In questo almeno i teorici prima menzionati avevano ragione. L'Occidente aveva bisogno di una quantità e di una varietà sempre crescenti di materie prime, dai metalli agli oli vegetali, che potevano essere ottenute solamente, o a minor costo, da altre parti del mondo. Di contro la tecnologia occidentale poteva produrre tutta una serie di beni più a buon mercato e in modo più efficiente rispetto ai paesi meno sviluppati. Era pertanto ovvio che le manifatture occidentali cercassero di penetrare nei mercati esteri per sviluppare la loro produzione, e, d'altro canto, che i paesi meno sviluppati desiderassero importare tali beni. Inoltre l'accumulazione capitalistica dell'Occidente rendeva possibile che una parte dei capitali fosse investita nello sviluppo di risorse nei territori d'oltremare, oltre che all'interno; un'altra ipotesi, sostenuta dai marxisti, è che l'Occidente avesse bisogno di fare tutto ciò per mantenere elevato il tasso di rendimento sul capitale. Spingeva in questo senso anche il rapido aumento della popolazione in Europa, che alimentava la richiesta di terra e di occupazione e accelerava il flusso migratorio, come anche lo spostamento all'estero di commerci e investimenti. Perciò non c'erano dubbi che, da un punto di vista economico, l'Occidente avrebbe esteso i suoi interessi in tutto il mondo. Tuttavia rimaneva la questione se questa espansione avrebbe preso la forma di una semplice attività economica, o se avrebbe assunto anche quella del controllo politico coloniale.
Le trasformazioni nella politica internazionale e nei sistemi di alleanze vennero dopo quelle economiche e demografiche. Esse non furono del tutto evidenti prima del 1870, ma furono nondimeno importanti. La sconfitta della Francia da parte della Prussia nel 1871, la conseguente unificazione della Germania, l'unità d'Italia e la fine della guerra civile negli Stati Uniti d'America, indicavano che sul piano internazionale agivano soggetti completamente nuovi. Il sistema delle alleanze che ne scaturì - con la nascita della Triplice alleanza del 1882 tra Germania, Austria e Italia, e la conseguente alleanza franco-russa del 1894 - divideva l'Europa in due potenziali campi avversi, mentre la Gran Bretagna restava in una situazione di isolamento ed era sottoposta a pressioni dall'una e dall'altra parte. Questa situazione rendeva probabile che i conflitti di interessi tra individui di diversa nazionalità nelle aree periferiche avessero gravi ripercussioni internazionali. Era anche probabile che i contrasti coloniali entrassero a far parte della diplomazia internazionale delle grandi potenze, e che dunque i territori fossero considerati in funzione del loro valore strategico o anche del loro valore simbolico, come evidente espressione di forza, piuttosto che per il loro valore intrinseco.
Infine c'era nel mondo extraeuropeo un nuovo fattore di cambiamenti e di tensioni. Lo sviluppo delle attività occidentali - a carattere economico, missionario o esplorativo - in altre società era certo notevole, ma probabilmente anche non bene accetto. La pressione straniera poteva suscitare risposte di diverso tipo. Inizialmente molte società potevano accogliere favorevolmente gli Europei per i potenziali vantaggi che essi arrecavano, incluse le opportunità commerciali e l'alfabetizzazione. Gli stranieri potevano inoltre essere considerati degli alleati contro eventuali nemici locali. In questo caso la penetrazione imperialistica e l'instaurazione di un dominio coloniale potevano aver luogo senza serie opposizioni, sebbene più tardi, quando divenivano chiare tutte le conseguenze della dominazione straniera, si delineasse spesso una reazione di ostilità. Ma altre società, in particolare le più evolute, avrebbero potuto opporre resistenza alla penetrazione straniera e combatterla. In questo caso le forze armate delle potenze europee sarebbero state chiamate a reprimere i tentativi di resistenza; e una volta sul posto avrebbero avuto interesse alla continuazione della conquista, dato che il successo dell'impresa avrebbe promosso l'avanzamento in carriera degli ufficiali in essa impegnati. Tale 'imperialismo militare' fu un elemento importante nello sviluppo del dominio coloniale dopo il 1870; e lo fu anche l'analogo imperialismo di altri agenti europei che operavano oltre i confini, come i funzionari civili delle colonie già esistenti.Queste, grosso modo, furono le tre forze più significative dell'imperialismo che si videro chiaramente in azione tra il 1870 ed il 1942. Lo studio delle singole iniziative imperialistiche implica l'analisi di situazioni particolari, per poter individuare quale di quelle forze, o quale loro combinazione, sembri risultare più importante. È verosimile che non vi siano due storici concordi nel delineare tale composizione di forze in ciascuna situazione particolare, come risulta dalle opere indicate nella bibliografia. Tuttavia, semplificando al massimo, dall'analisi di ciascuna delle principali potenze imperialistiche si possono in linea di massima trarre le conclusioni seguenti.
Il caso britannico è peculiare, in quanto la Gran Bretagna a metà del XIX secolo era la sola potenza coloniale su larga scala. Essa aveva inoltre conseguito una notevole influenza su molti paesi indipendenti grazie alla sua potenza navale e alle sue attività commerciali, missionarie ed esplorative. Perciò, quando gli altri Stati d'Europa cominciarono a pretendere un controllo esclusivo su alcune regioni in Africa, nel Sudest asiatico e nel Pacifico, furono in qualche modo obbligati a sfidare il predominio britannico. Per questo motivo gli Inglesi dopo il 1870 sono stati definiti 'imperialisti riluttanti', in quanto spesso istituirono colonie solo per salvaguardare i propri interessi economici o di altro tipo, cosa che in sé non rendeva necessario un regime coloniale.
Entro certi limiti questa analisi è corretta, ma potrebbe essere anche fuorviante. Per tutto il XIX secolo gli Inglesi furono pronti ad ampliare i possedimenti già esistenti, quando e dove le loro frontiere non apparivano sicure (è questo il caso dell'India Britannica), o se un consistente numero di coloni giustificava o richiedeva l'intervento britannico, come avvenne, per esempio, in Nuova Zelanda. Essi, cioè, si opponevano all'ingrandimento del loro impero solamente lì dove non si prospettassero vantaggi reali dalla sostituzione della loro influenza con il dominio formale. Così, anche dopo il 1870, avrebbero preferito spesso non trasformare la loro influenza nell'Africa Tropicale in un impero; tale riluttanza, però, non deve oscurare l'altro fatto, cioè che, pur dietro pressione straniera, agirono nondimeno da imperialisti. Un breve esame delle più significative annessioni britanniche tra il 1870 ed il 1919 potrà chiarire questa affermazione.Il motivo più importante che spingeva in questo periodo la Gran Bretagna ad acquisizioni territoriali era quello strategico: bisognava proteggere le vie di comunicazione con i preziosi possedimenti esistenti. Questo risulta in modo chiaro in relazione all'area che si estende tra il Vicino Oriente e l'Africa Orientale. L'Egitto fu occupato nel 1882 per paura che il disordine interno, conseguenza dell'esorbitante debito estero, la bancarotta, il controllo straniero del debito e la conseguente resistenza dell'Egitto alla stretta finanziaria, potesse spingere la Francia o la Russia a un'azione di controllo su quella regione di vitale importanza tra il Mediterraneo e l'Oceano Indiano. La sicurezza dell'Egitto fece allora apparire necessaria l'esclusione di altre potenze dall'Alto Nilo e l'annessione di ciò che divennero l'Uganda, il Kenya e il Sudan tra il 1894 ed il 1898. Durante e dopo la prima guerra mondiale, quando la Turchia dichiarò guerra alla Gran Bretagna, le stesse ragioni portarono all'occupazione britannica della Mesopotamia, Iraq e Palestina, che furono mantenuti come mandati della Società delle Nazioni dal 1919 in poi. Sempre lo stesso motivo, il desiderio di garantire la sicurezza di possedimenti già esistenti, fu in gran parte la causa dell'occupazione britannica della Birmania settentrionale nel 1885 - quando l'espansione francese in Indocina sembrò minacciare pericolosamente l'India -, del rafforzamento a partire dal 1874 del controllo sui sultanati della Malesia e, infine, della fortificazione di Singapore come bastione di difesa della rotta per la Cina e il Pacifico.
Nell'Africa Occidentale gli interessi britannici erano più economici che strategici; nei primi anni settanta non sembravano richiedere il controllo politico, ma dopo il 1879 apparvero minacciati dalle azioni di altre potenze europee. In primo luogo vi fu l'improvvisa intensificazione, dopo il 1870, dell'attività militare francese, dal Senegal verso l'interno, in vari punti della costa e vicino alla foce del Congo. Vi furono poi le rivendicazioni della Germania, a partire dal 1884, nelle zone costiere e la richiesta straordinaria di Leopoldo del Belgio a nome della sua Associazione Internazionale dell'Alto Congo (AIC) di controllare gran parte della riva meridionale del fiume. Dopo aver esitato di fronte a queste nuove minacce, gli Inglesi ebbero un ruolo di primo piano nelle trattative internazionali che si tennero negli ultimi due decenni del secolo, e ottennero una parte consistente dell'Africa occidentale.
La politica britannica nelle regioni meridionali fu ulteriormente complicata quando la spinta all'espansione territoriale partì dai residenti nella Colonia del Capo, e particolarmente da Cecil Rhodes. Nei territori che vennero successivamente chiamati Rhodesia e Niassa, gli Inglesi erano interessati essenzialmente a rifornirsi di metalli preziosi, ma anche a impedire che la Germania stabilisse una serie ininterrotta di possedimenti dall'Africa sud-occidentale fino all'Africa orientale. Innanzitutto, alla Gran Bretagna interessava in quest'area la sicurezza della base navale di Simonstown, vicina a Città del Capo, ma per garantirla bisognava assecondare le richieste dei coloni. Durante gli anni ottanta ed i primi anni novanta perciò il governo britannico sostenne i piani espansionistici di Rhodes, mirando a proteggere nello stesso tempo le missioni scozzesi nel Niassa, finché, nel 1899, si trovò coinvolto nella guerra con le due repubbliche afrikaaner dell'interno, essenzialmente perché queste, dopo la scoperta dell'oro sul Rand, avrebbero potuto esercitare il dominio nell'Africa meridionale e centromeridionale, eventualmente alleandosi con la Germania, minacciando il predominio britannico in questa zona. Anche nel Pacifico meridionale la politica britannica fu condizionata principalmente dai timori dei connazionali residenti in Australia e Nuova Zelanda per le conseguenze che avrebbero avuto sulla propria sicurezza eventuali annessioni di Francia e Germania in quelle regioni. Donde una 'riluttante' annessione di territori come la Nuova Guinea e Tonga.
L'imperialismo britannico dopo il 1870 può perciò essere definito in breve come una energica risposta alle minacce che venivano rivolte alla complessa catena di interessi consolidati della madrepatria o delle colonie esistenti, minacce che venivano in modo particolare dall'espansione di altre potenze europee, ma anche, e in modo più immediato, dalle conseguenze che tale espansione aveva per la stabilità e l'indipendenza politica delle società indigene, conseguenze che qui non possono essere prese in considerazione. La stessa cosa non può dirsi degli altri principali imperialismi europei, dato che nessuno di essi si trovava nella necessità di difendere una sfera così ampia di interessi preesistenti.
L'espansionismo francese ebbe due componenti dominanti: il risentimento nazionalista dopo la sconfitta subita ad opera della Prussia nel 1871, che spinse molti Francesi a ricercare una compensazione con i successi nelle meno rischiose terre d'oltremare e, in secondo luogo, le ambizioni dei soldati e dei marinai francesi cui era concessa eccezionale libertà di azione nel perseguire quanto ritenevano fosse richiesto dall'interesse nazionale. Ulteriori elementi furono: gli interessi commerciali francesi che avevano necessità di mercati oltremare e di rifornimenti di materie prime, la Chiesa cattolica francese, le cui missioni si trovavano spesso in situazioni pericolose per l'ostilità dell'ambiente, e, nel corso del tempo, esigue ma rumorose organizzazioni nazionaliste.
Gli esordi dell'imperialismo francese interessarono l'Africa del nord e quella occidentale. Nel nord l'Algeria, occupata a tappe successive a partire dal 1830, offriva una base consolidata per l'espansione, a est verso la Tunisia e a ovest verso il Marocco, con il pretesto della mancanza di sicurezza interna o alle frontiere (un po' come faceva la Gran Bretagna con l'India). In entrambe le regioni, come anche in Egitto, esistevano motivazioni di natura finanziaria: i grossi prestiti francesi messi in pericolo dalla bancarotta del governo. Nel caso della Tunisia ciò condusse ad un controllo internazionale del debito, senonché la debolezza dei governi indigeni offriva la possibilità che un'altra potenza europea ne assumesse il controllo: in Tunisia l'Italia, in Marocco la Germania. Nel 1881 la Tunisia, in seguito a un accordo internazionale generale, divenne un protettorato francese e nel 1911, ma solo dopo due gravi crisi diplomatiche con la Germania, anche il Marocco.
L'espansione francese nell'Africa occidentale iniziò nel 1879 ed ebbe nel Senegal la base più importante. Gli ufficiali dell'esercito francese iniziarono una serie di campagne militari, con il pretesto di liberare il Senegal dalla minaccia di attacco da parte degli Stati islamici confinanti e di ampliare le basi economiche della colonia: in effetti il motivo vero era l'avanzamento in carriera degli ufficiali impegnati nell'impresa. Questo è stato giustamente descritto come 'imperialismo militare'. Per tutto il ventennio seguente si ebbe una vasta estensione del territorio coloniale, che riduceva i territori di Gran Bretagna e Germania al rango di enclaves costiere relativamente piccole. Più a sud, dove si sarebbe costituita l'Africa Equatoriale Francese, l'espansione partí dalla piccola colonia preesistente del Gabon. L'occupazione della riva settentrionale del Congo fu dovuta, più che altro, alla spedizione dell'esploratore Pierre de Brazza, che a sua volta tentava di neutralizzare con una serie di trattati quelli stipulati dagli emissari di Leopoldo del Belgio. La Francia, piuttosto a sorpresa, convalidò questi trattati nel 1882, soprattutto per il successo ottenuto dalla campagna d'opinione di Brazza tra i nazionalisti francesi. Al largo delle coste orientali dell'Africa la Francia occupò il Madagascar, che da tempo era sotto l'influenza francese, per il timore che tale influenza fosse minata dai missionari protestanti britannici.
Infine nel Sudest asiatico e nel Pacifico l'imperialismo francese era animato da un complesso miscuglio di interessi religiosi, navali, nazionalistici e commerciali. La colonia francese della Cocincina, costituita nel 1862, doveva la sua esistenza al sostegno della marina francese alle missioni cattoliche e al fatto che il governo non intendeva perdere il sostegno della Chiesa. L'espansione a nord, nell'Annam prima e poi nel Tonchino, seguì negli anni ottanta e fu dovuta in parte ai contrasti con i governi indigeni, in parte agli interessi commerciali francesi e di Saigon che spingevano alla valorizzazione delle possibilità commerciali in direzione della Cina meridionale, in parte all''imperialismo militare' dell'esercito e della marina francesi. Anche nel Pacifico - dove fin dall'inizio del secolo i Francesi avevano svolto attività navali, commerciali e missionarie, senza giungere a una formale colonizzazione - la paura di penetrazioni straniere, verso la fine del secolo, convinse il governo francese a trasformare l'informale influenza in controllo politico formale al fine di tutelare i propri interessi.
Per queste ragioni l'imperialismo francese fu molto meno conservatore e più aggressivo di quello britannico e l'influsso di determinati gruppi d'interesse - in particolare le forze armate, la Chiesa cattolica e gli investitori - fu notevolmente maggiore. Ma probabilmente il tratto distintivo più importante dell'imperialismo francese fu l'elemento nazionalistico e antibritannico che, naturale fin dall'inizio nelle forze armate, aveva avuto negli anni novanta una notevole diffusione tra i politici francesi.
Il caso della Germania fu ancora diverso, dato che nel 1880 essa non aveva ancora né colonie né una tradizione coloniale. Non v'era neppure una forte spinta finanziaria, nazionalistica o commerciale sul governo volta all'acquisizione di colonie, e Bismarck, in qualità di Cancelliere, aveva sempre ritenuto i possedimenti d'oltremare irrilevanti per la Germania. V'è stata perciò una notevole disparità di pareri sui motivi per cui, a partire dal 1883, egli volle rivendicare estesi protettorati in Africa e nel Pacifico. Le prime spiegazioni ponevano l'accento sulle richieste da parte di alcuni commercianti e proprietari di terre dell'Africa occidentale, sudoccidentale, orientale e di alcune isole del Pacifico, le cui legittime rivendicazioni per aver acquistato territori più o meno estesi attraverso trattati con i capi indigeni trovavano sistematica opposizione da parte britannica. Successivamente gli studiosi, in modo particolare i marxisti, suggerirono che Bismarck considerava la colonizzazione oltremare un mezzo per distrarre l'opinione pubblica tedesca dai contrasti sociali e dalle difficoltà dell'industria, attraverso la formazione di un consenso sull''imperialismo nazionale'. Ma oggi si è ampiamente d'accordo nel riconoscere che i motivi che lo spingevano, tra il 1883 ed il 1885, erano essenzialmente politici: in patria, in vista delle elezioni al Reichstag, avrebbe voluto l'appoggio dei nazionalliberali; sul piano internazionale, intendeva compiacere la Francia sostenendo le sue rivendicazioni contro la Gran Bretagna e, in prospettiva, usare le colonie come valido elemento della sua attività diplomatica europea. Per quanto i suoi scopi immediati fossero limitati, l'ingresso della Germania sulla scena coloniale ebbe profonde ripercussioni sulle altre potenze, poiché l'interesse che il più potente Stato europeo rivolgeva al panorama coloniale rendeva la colonizzazione parte integrante della diplomazia internazionale e del sistema di potere. Inoltre dopo le dimissioni di Bismarck, nel 1890, i suoi successori considerarono la politica imperiale con molto maggiore interesse e la loro Weltpolitik mirò a rendere la Germania una delle principali potenze imperiali. Questo è il motivo principale per cui l'imperialismo divenne parte integrante delle relazioni internazionali tra il 1890 e il 1914.
Solo due altri paesi europei ebbero un ruolo attivo nell'espansione imperialistica tra il 1870 ed il 1942: il Belgio e l'Italia. Per esattezza, l'imperialismo belga inizialmente fu solo l'imperialismo del sovrano Leopoldo II, dato che il paese non intese sostenere le sue ambizioni africane finché il governo non fu costretto dalla reazione internazionale ai cosiddetti scandali della gomma rossa, ai primi del Novecento, ad assumere il controllo del Congo nel 1908. Tra tutti gli imperialisti di questo periodo, Leopoldo era quello più interessato ai vantaggi economici, e poiché pensava che Gran Bretagna e Olanda fossero ricche soprattutto a causa dei possedimenti coloniali, mirò a costituire un impero coloniale anche per il Belgio. Non riuscendo a convincere i suoi connazionali di tale necessità ed essendo troppo debole per far valere le sue rivendicazioni sul piano internazionale, si adoperò tra il 1876 ed il 1879 per costituire tutta una serie di organizzazioni apparentemente umanitarie, tra cui l'Associazione Internazionale dell'Alto Congo, che in ultimo incaricò l'esploratore Henry M. Stanley di stipulare una serie di trattati con i capi della regione del Congo per conferire la sovranità all'AIC.
In condizioni normali le grandi potenze non avrebbero riconosciuto la validità di quei trattati, ma nel periodo 1884-1885 c'erano condizioni eccezionalmente favorevoli per Leopoldo: la Francia s'era opposta al trattato anglo-portoghese del 1884, che riconosceva la sovranità portoghese sulla regione del Congo, Bismarck era desideroso di compiacere la Francia; infine tutte le potenze considerarono l'AIC un'organizzazione neutrale e apparentemente disinteressata, cui si poteva concedere tranquillamente il controllo su una vasta regione che altrimenti sarebbe stato solo causa di contrasti tra le potenze. La Francia aveva un motivo particolare per accettare questa soluzione: un trattato segreto con Leopoldo in base al quale era riconosciuto alla Francia un diritto di prelazione nell'acquisto del Congo nel caso, molto probabile, del fallimento dell'AIC. Così Leopoldo fu libero di dirigere quello che giustamente può essere considerato un feudo economico privato, fino a che, dopo il 1900, la cattiva fama delle sue tecniche di sfruttamento della regione indusse il governo belga ad assumerne direttamente la conduzione nel 1908. Al Belgio fu riconosciuto, dopo la prima guerra mondiale, il mandato sui territori del Ruanda Urundi, già appartenenti alla Germania.
Infine l'Italia, tra tutte le potenze europee, fu il più chiaro esempio di uno Stato che perseguì la colonizzazione in Africa per promuovere l'unità interna e affermarsi come potenza internazionale. Secondo la retorica nazionale l'Italia era destinata a ricreare l'antico Impero romano nell'Africa del nord e nel Mediterraneo. Sfortunatamente per l'Italia gran parte dei territori che appartenevano a quell'impero erano già occupati o oggetto di rivendicazione da parte di potenze più forti: nel 1882 era potenzialmente disponibile solo quella parte dell'Impero ottomano che divenne poi la Libia. L'Italia si rivolse allora a regioni più deboli e non ancora colonizzate; iniziando con Assab, in Eritrea, attivò una strategia che la portò prima in Somalia e successivamente, in seguito all'accordo con la Gran Bretagna nel 1894, in Etiopia. Nel 1896 l'Italia, unico tra gli Stati imperialisti europei, fu sconfitta in modo decisivo da parte di uno Stato indigeno ad Adua in Etiopia, il che segnò una battuta d'arresto per l'imperialismo italiano. Ma le ambizioni francesi sul Marocco resero possibile all'Italia ottenere il riconoscimento internazionale delle sue pretese sulla Libia, territorio conquistato, non senza difficoltà, nel 1912. Negli anni trenta la colonizzazione della Libia divenne un elemento rilevante, e costoso, della strategia fascista.
Ma la sconfitta del 1896 ancora bruciava, e nel 1935, sfruttando la confusa situazione internazionale e la debolezza della Società delle Nazioni, di cui l'Etiopia era membro a pieno titolo, Mussolini invase l'Etiopia, completandone l'occupazione nel 1936. L'Italia ne ebbe il possesso sino al 1940, quando l'alleanza con la Germania ne determinò la conquista da parte delle forze britanniche.
Al di fuori di questi Stati europei e prescindendo dall'espansionismo russo in Estremo Oriente, in quanto si trattava dell'estensione di un impero formato da territori contigui, l'unica altra importante potenza imperialistica moderna fu il Giappone. Si è molto discusso se l'imperialismo giapponese possa essere interpretato con gli stessi criteri usati per l'imperialismo europeo, date le profonde diversità di carattere storico e culturale. A grandi linee sono stati proposti quattro tipi di spiegazione. In primo luogo, l'espansione giapponese dopo il 1895, quando il Giappone sconfisse le forze cinesi in Corea e acquistò i suoi primi nuovi possedimenti (le Isole Pescadores e Taiwan in cambio dell'evacuazione di Corea e Manciuria), potrebbe essere stata una semplice prosecuzione di antichi contrasti. In secondo luogo si è pensato che, allora come in seguito, il Giappone intendesse principalmente difendere i propri interessi dalle usurpazioni delle potenze europee, in modo particolare della Russia, e adottare i sistemi e le strategie politiche delle potenze occidentali. In terzo luogo, l'espansionismo giapponese è stato considerato come il prodotto di una variante dell''imperialismo militare', dato che, specialmente dopo il 1930, esercito e marina considerarono l'espansionismo verso la Cina e il Sudest asiatico un mezzo per favorire gli interessi delle forze armate. In ultimo, l'imperialismo giapponese può aver avuto essenzialmente un carattere economico e sociale, in quanto espressione sia dell'esigenza di un'economia industriale altamente sviluppata di assicurarsi materie prime di essenziale importanza e mercati sicuri di fronte alla resistenza internazionale alle esportazioni giapponesi a basso costo, sia dell'esigenza di un paese densamente popolato di procurarsi sbocchi territoriali per l'emigrazione. Qui non è possibile discutere la validità di ciascuna di queste interpretazioni, presentate in modo esemplare da Beasley. Elementi di ciascuna di esse si possono trovare nel periodo che va dal 1894 al tentativo finale di occupare la Cina, il Sudest asiatico e il Pacifico che iniziò nel 1941. Comunque si potrebbe affermare che nella prima metà del XX secolo i Giapponesi stavano adottando modi di pensare e comportamenti simili a quelli propri dell'imperialismo europeo prima del 1914.
Per concludere, è necessario ritornare al punto di partenza, all'affermazione che imperialismo è un termine necessario, ma non 'da studiosi'. In che modo l'analisi dei fatti riesce a chiarire questo paradosso?Il termine imperialismo è stato riconosciuto necessario, perché non v'è altro concetto che contenga ed evochi lo stesso complesso di idee. Se si deve usare una singola parola, il termine imperialismo è valido quanto nessun altro.
Ma, nel dimostrare ciò, si è visto che quando si usa questa parola in effetti non si spiega né si definisce alcunché, ma semplicemente ci si limita ad indicare un complesso di importanti concetti connessi tra loro. È principio della logica che basti un'eccezione per invalidare un'asserzione universale, e allo stesso modo è principio fondamentale della storiografia che ogni evento storico sia unico. Se consideriamo insieme questi due principî, risulta evidente il motivo per cui gli storici non possono affidarsi all'uso del termine imperialismo per risolvere alcuno dei loro problemi interpretativi. Vale a dire, nessuna delle 'spiegazioni' generali che abbiamo descritto si adatta esattamente né è in grado di spiegare in modo esauriente fatti e situazioni particolari. Quando si dice che un paese è imperialista, o che quel caso di aggressione o di dominio è conseguenza dell'imperialismo, si suggerisce semplicemente un quadro di riferimento preliminare. Ma la cosa essenziale è esaminare dettagliatamente perché quel paese ha quelle caratteristiche, e perché agisce in quel modo. Ne risulterà che non vi sono due imperialismi identici, e che l'uso di questo termine non ha valore esplicativo.
Questo punto di vista è stato ampiamente discusso da molti autori, tra cui Charles Reynolds, la cui definizione di imperialismo è stata citata in precedenza. Riprenderemo alcune delle sue conclusioni che a nostro avviso sintetizzano efficacemente l'impostazione di questo articolo.
Nel suo libro Reynolds ha esaminato quattro comuni interpretazioni dell'imperialismo, che non differiscono molto da quelle qui usate, e per ciascuna di esse ha considerato un episodio storico particolare o un problema specifico, per vedere in che misura potesse essere spiegato nei termini di quella teoria generale. In ciascun caso egli ha trovato che l'aderenza alla teoria generale era molto ridotta, perché per lo meno alcuni dei fatti non concordano con quella griglia interpretativa. Pertanto Reynolds giunge a due conclusioni complementari.In primo luogo sostiene che "tutti questi modelli di imperialismo sono per loro natura riduttivi. Costituiscono non un modo di guardare al mondo, ma dei mondi in se stessi" (v. Reynolds, 1981, p. 238). Vale a dire, il pericolo è che se ci avviciniamo ad un particolare problema storico con un modello generale preconcetto di come opera l'imperialismo, dovremo manipolare i fatti per farli rientrare nel modello.In secondo luogo, Reynolds sostiene che tutte le spiegazioni storiche adeguate debbono essere specifiche. Esse non possono essere fondate sulle motivazioni attribuite ai soggetti storici in base al modello di imperialismo scelto, ma piuttosto sulle effettive e dimostrabili intenzioni o ragioni di una particolare azione. Né è legittimo sostenere che qualche cosa 'deve' essere avvenuto in un certo particolare modo, nonostante l'evidenza del contrario, sulla base di come si ritiene che dovessero agire le forze sotterranee della storia. Ciò che Reynolds scrive concisamente su questo punto costituisce un'adeguata conclusione di questo articolo: "Una spiegazione dell'agire umano è buona o cattiva a seconda che le motivazioni cui essa fa risalire l'azione siano o meno convalidate da riscontri fattuali. E così una valutazione dell'imperialismo del passato ci dà un chiarimento sulla logica degli imperialisti. Tale logica non è imposta loro in virtù di una concezione teorica [...] o dalla spiegazione razionalizzante di ipotetici osservatori. Essa è desunta dai riscontri fattuali del loro modo di ragionare che sopravvivono nel nostro presente. È il loro imperialismo che costituisce insieme il problema e l'oggetto della nostra indagine" (v. Reynolds, 1981, p. 248).
(V. anche Colonizzazione e decolonizzazione; Comunismo; Economia-mondo; Relazioni internazionali).
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