imperialismo
Politica di potenza di uno Stato tesa a creare una situazione di predominio, diretto o indiretto, su altre nazioni, mediante conquista militare, annessione territoriale, sfruttamento economico o egemonia politica. Sul piano storiografico è invalsa la definizione di «età dell’i.» per il periodo che precedette la Prima guerra mondiale e in essa trovò il suo sbocco. La sparizione dell’impero zarista, la fase isolazionistica della politica statunitense, la prostrazione delle potenze europee indussero storici di diverso indirizzo, come H. Fredjung (1919-22) e E.V. Tarle (1927), a considerare ormai chiusa l’epoca classica della politica di espansione. Non altrettanto concordi furono gli storici sul momento iniziale dell’età dell’imperialismo. In genere, la tendenza a fissarlo intorno al 1870 si fece valere presso gli autori che insistettero sulle cause economiche del fenomeno; quanti, invece, rilevarono l’importanza di altri fattori concomitanti, ne posero le origini nel decennio fra il 1880 e il 1890. L’interpretazione economicistica dell’i. risale ad autori liberali anglosassoni, come C.A. Conant (1898) e J.A. Hobson (1902), che denunciavano la crisi della libera concorrenza, lo sviluppo monopolistico, il nuovo protezionismo, deplorandone le conseguenze politiche negative per la pacifica convivenza internazionale. Tale interpretazione fu poi sviluppata da socialisti come O. Bauer (1907), R. Hilferding (1910), R. Luxemburg (1913), K. Kautsky (1915), per i quali le tendenze imperialistiche erano conseguenza della necessità di nuovi mercati per la sovrapproduzione industriale, della ricerca di materie prime e di mano d’opera a buon mercato; l’i. era una fase inevitabile nello sviluppo del capitalismo, che si aprì quando il capitale eccedente, vedendo diminuire il reddito all’interno, si indirizzò verso nuovi campi d’investimento all’estero. Ma il maggiore teorico marxista dell’i. fu Lenin (L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916), il cui pensiero ha ispirato a lungo la strategia dei partiti comunisti e dei movimenti rivoluzionari del Terzo mondo. Per Lenin i grandi gruppi monopolistici del capitalismo maturo, mentre ottenevano alte quote di profitto sul mercato interno grazie alla possibilità di contingentare la produzione e sostenere i prezzi, erano però obbligati dallo stesso processo del loro sviluppo e dalla concorrenza intermonopolistica a cercare nei mercati esteri le fonti delle materie prime, lo smercio dei prodotti manufatturati, gli sbocchi per l’investimento dei capitali. Tale ricerca di nuovi mercati economicamente privilegiati e politicamente sicuri accelerò in tutti i Paesi sviluppati, europei ed extraeuropei (sul finire del sec. 19° USA e Giappone), la spinta all’espansione, verso nuovi territori in cui l’abbondanza di materie prime e il basso costo della forza-lavoro consentissero l’investimento di capitali nei settori complementari e non rivali con quelli metropolitani, a tassi di redditività ormai irraggiungibili sul mercato interno. In questa lotta per la supremazia economica due fattori giocarono un ruolo decisivo: lo sviluppo del capitale finanziario e bancario, e il rafforzamento dell’apparato statale; l’uno necessario a sostenere i costosi programmi di espansione coloniale e di investimenti di lungo periodo (trasporti, irrigazioni ecc.), l’altro a garantire al tempo stesso il protezionismo interno e la concorrenza monopolistica internazionale. Ciò comportò la fusione del capitale industriale col capitale finanziario, la concentrazione progressiva di quest’ultimo, il potenziamento dell’autorità e della capacità d’intervento dello Stato. Gli autori non socialisti non negavano il fattore economico nelle tendenze espansionistiche, ma sottolineavano altri fattori concomitanti, di carattere sociologico, psicologico, politico: l’istituzione del suffragio popolare, il trasferimento delle teorie darwiniane ai rapporti politici e la loro diffusione a livello di massa, lo scoppio negli ultimi decenni del sec. 19° di una febbre di evasione e di azione. Tra gli assertori di tali fattori psicologici furono J. Schumpeter (1918-19 e 1955) e W.L. Langer (1935). Secondo D.K. Fieldhouse (The colonial Empires, 1966) fino al 1882, cioè al protettorato francese sulla Tunisia e inglese sull’Egitto, le potenze coloniali europee non erano disposte all’acquisto di nuovi territori, ma esclusivamente interessate alla riorganizzazione dei vecchi possedimenti; soprattutto la Gran Bretagna non sentiva il bisogno di stabilire la sua sovranità su territori oltremare, poiché la sua supremazia industriale era garanzia sufficiente per il dominio economico mondiale, in un’epoca di liberismo pressoché incontrastato. Il trentennio, invece, che precedette il primo conflitto europeo vide notevolmente accelerarsi il ritmo delle conquiste coloniali, che superarono in estensione quelle realizzate nei primi ottant’anni del sec. 19°; si moltiplicò, inoltre, il numero delle potenze coloniali, con il risveglio della Spagna e del Portogallo, l’intervento della Germania, dell’Italia e del Belgio, Paesi privi fino a quel momento di tradizioni coloniali. La grande epoca del capitale finanziario, in realtà, era successiva all’inizio del sec. 20°, e i suoi prodromi non poterono aver influenzato efficacemente il colonialismo degli Stati europei; fattori determinanti, invece, andrebbero considerati i nuovi metodi della diplomazia europea, che usarono le colonie come merce di scambio indispensabile per la contrattazione diplomatica. Fieldhouse parla di «una borsa dei titoli coloniali», che sarebbe stata imposta da O. von Bismarck con la sua improvvisa rivendicazione di colonie nel biennio 1884-85 e avrebbe favorito, direttamente o indirettamente, l’improvvisa spartizione dell’Africa e del Pacifico e gli avvenimenti del Sud-Est asiatico. W.J. Mommsen (Das Zeitalter des Imperialismus, 1969) ha insistito sul declino delle idealità liberali e sull’avvento di nuove forze sociali, che trovarono espressione politica nelle elezioni britanniche del 1885, nell’ascesa di G.-E.-J.-M. Boulanger a ministro della Guerra (1886), nelle prime agitazioni operaie in Belgio (1886), nella caduta di Bismarck, che avrebbe segnato la fine del tradizionale realismo nelle relazioni diplomatiche. Dopo il 1890, può parlarsi, secondo questo autore, di un vero «delirio imperialistico», giacché allora la pressione dal basso dei vari nazionalismi spinse i governi europei a perseguire deliberatamente una politica di nuove conquiste territoriali e a sostenere con i mezzi finanziari dello Stato la conquista militare e la penetrazione economica nei Paesi sottosviluppati. Nel secondo dopoguerra sono stati al centro dell’interesse di vari studiosi, in buona parte neomarxisti, i nuovi equilibri tra Nord e Sud del pianeta e tra centro e periferia; vi è stata ravvisata continuità dell’organizzazione mondiale dell’economia e della moderna divisione internazionale del lavoro con l’i. e il colonialismo tradizionali (P.A. Baran, P.M. Sweezy,1966; A. Emmanuel, 1969; S. Amin, 1973; I. Wallerstein, 1983; E. Balibar, I. Wallerstein, 1988).
Si vedano anche Gli imperialismi asiatici e L’imperialismo