Impero bizantino
I contatti diretti di Federico II con l'Oriente bizantino e in genere il delinearsi di una sua politica estera applicata a quell'area geografica risalgono, a quanto sembra, alla fine del secondo decennio del sec. XIII. A quel tempo, dopo che nel 1204 la quarta crociata aveva portato allo smembramento dell'Impero bizantino, sul suolo prima occupato dall'antica Bisanzio sorgevano da un lato l'Impero latino di Costantinopoli e il principato d'Acaia (o Morea), istituiti dai cavalieri occidentali; dall'altro due stati creati dalle residue forze bizantine, ossia il despotato di Epiro, elevatosi al rango di Impero dopo aver annesso il Regno di Tessalonica, un'altra creazione dei crociati, e l'Impero di Nicea in Asia Minore. Un altro stato di tradizione bizantina sorto allora, il piccolo Impero di Trebisonda lungo la costa meridionale del Mar Nero, per la sua isolata posizione geografica, dopo qualche tentativo di far parte del quadro comune, ebbe invece una storia a sé. Epiro e Nicea, invece, si proponevano di rivestire il ruolo di eredi diretti di Bisanzio nello scontro con l'Occidente, senza soluzioni di continuità ma ciascuno a scapito dell'altro.
Il quadro appena tracciato offriva dunque una pluralità di possibili interlocutori in conflitto gli uni con gli altri, cosa che rendeva notevolmente difficile, soprattutto nel caso di Federico II, il mantenimento di una coerente politica diplomatica nella regione. L'Impero latino di Costantinopoli, già indebolito per gli scontri con i suoi vicini e ridotto alla capitale, Costantinopoli, con a oriente la sponda del Bosforo fino a Nicomedia e a occidente la Tracia meridionale, era una creazione alla quale la dinastia degli Hohenstaufen era del tutto estranea per la minore età di Federico stesso all'epoca della sua fondazione. L'Impero latino era strettamente dipendente dall'appoggio del papato e rappresentava per quest'ultimo uno strumento per conseguire l'unione delle Chiese occidentale e orientale e per rafforzare il prestigio internazionale della Curia romana. Federico II, al contrario, già scomunicato nel 1228 all'epoca della sua spedizione in Terrasanta, mirava in campo internazionale soprattutto al contenimento dell'influenza papale e non poteva guardare con favore alla creazione dei crociati. Inoltre, dal 1228 regnava a Costantinopoli un sovrano ancora bambino, Baldovino II di Courtenay (v.), per cui nel 1229 venne eletto come reggente e coimperatore dell'Impero latino Giovanni di Brienne (v.). Nonostante fosse il suocero di Federico II, egli era profondamente ostile all'imperatore svevo per avergli dovuto cedere i propri diritti sulla corona di Gerusalemme, di cui aveva il nominale possesso, e mentre Federico II era ancora in Oriente aveva guidato per conto del papa un'invasione armata nell'Italia meridionale sveva.
Federico II dovette allora concentrare la sua attenzione sui nemici dell'Impero latino di Costantinopoli, gli stati fondati dalla 'resistenza' bizantina. A dire il vero, la tradizionale politica della Corona di Sicilia con quanti precedettero Federico II, dai suoi antenati normanni al padre Enrico VI, era sempre stata aggressiva verso Bisanzio. Qualche tentazione di espansione territoriale in quella direzione dovette averla lo stesso Federico, che dopo il 1230 tentò di imporre al despotato di Epiro la propria sovranità sull'isola di Corfù, come attestano le lettere di Giorgio Bardane, metropolita dell'isola. Tuttavia ben presto l'imperatore svevo rinunciò a simili ambizioni, puntando piuttosto a rafforzare la propria posizione e influenza a livello internazionale, a detrimento, se possibile, di quella papale. Anche in questo caso, però, veniva offerta più di una scelta, perché almeno due erano i possibili alleati, il despotato di Epiro-Tessalonica, appunto, e l'Impero di Nicea. Era il caso di mantenere buoni rapporti con entrambi, malgrado la loro reciproca rivalità, o di legarsi più strettamente a uno di essi, con l'obiettivo di una più solida alleanza?
Nel 1229 il despotato di Epiro era in piena ascesa e sembrava destinato a un grande futuro. Al Nuovo Epiro (Albania centromeridionale), con Durazzo, univa l'Epiro propriamente detto, l'Acarnania e l'Etolia fino al golfo di Corinto; dopo la conquista di Tessalonica nel 1224 si era esteso anche alla Tessaglia e a buona parte della Macedonia e della Tracia strappate agli invasori occidentali. Era retto da Teodoro I Angelo (v., che preferiva però fregiarsi degli altri due cognomi da lui posseduti, Comneno e Duca, della stessa famiglia imperiale bizantina scacciata da Costantinopoli nel 1204. Avvicinandosi all'obiettivo di riconquistare addirittura l'antica capitale sul Bosforo, con il sostegno della popolazione e del clero locale, Teodoro aveva poi assunto il titolo di imperatore, mostrando così chiaramente i suoi progetti di ricostituzione dell'Impero di Bisanzio. Proprio nel 1229 Teodoro inviò un'ambasceria a Federico II di ritorno dalla Terrasanta con l'intento di stringere un'alleanza: veniva inaugurata così una politica poi tradizionale del despotato, ossia scongiurare, anche a costo di gravose concessioni, attacchi improvvisi da occidente alle sue regioni prospicienti l'Adriatico meridionale per guadagnare piuttosto terreno verso sud e soprattutto verso est in direzione di Costantinopoli. Vi erano dunque dei fattori che suggerivano l'opportunità per Federico II di allearsi strettamente con il despotato nel 1229. Non è dato sapere l'esito di quei primi colloqui, che dovettero comunque essere cordiali, ma è comunque probabile che l'improvviso tracollo della potenza dell'Epiro abbia consigliato a Federico di attendere e osservare l'evoluzione degli eventi. Infatti Teodoro I Angelo, dopo Tessalonica, a partire dal 1225 aveva spinto la sua avanzata lungo la Tracia meridionale e orientale a scapito dell'Impero latino di Costantinopoli, giungendo a occupare Adrianopoli; ma aveva poi pensato bene di attaccare anche il confinante Regno di Bulgaria, andando però incontro a una memorabile disfatta con la battaglia di Klokotnica nella primavera del 1230. Ivan Asen II, zar dei bulgari, si prese le terre strappate da Teodoro ai latini in Macedonia e Tracia, Tessalonica rimase sotto il governo di un fratello di Teodoro, Manuele, mentre il nucleo originario del despotato di Epiro con l'Acarnania e l'Etolia si staccava in seguito sotto il governo di un nipote di Teodoro, Michele II Angelo (v.). Quel che più importa è che il frazionamento del Regno epirota significò di fatto la sua definitiva retrocessione a realtà politica locale, cui veniva preclusa ogni ambizione di restaurazione imperiale. Anche se la rinuncia formale al titolo di basileus avvenne ben dopo, è sul campo di Klokotnica che la partita per la corona imperiale era stata perduta. Forte fu il contraccolpo della sconfitta anche nei principali centri del despotato tanto che, profittando della situazione, Federico II, come si è anticipato, pensò anche per qualche tempo di guadagnarci per il suo Regno un avamposto al di là dell'Adriatico. I suoi rapporti con l'Epiro rimasero poi cordiali, ma non andarono oltre una benevola neutralità, che garantì però il despotato durante tutto il resto del suo regno da attacchi provenienti dall'Italia meridionale.
I contatti di Federico II con l'Impero di Nicea sembra siano avvenuti ben più tardi, se non altro per la geografia che rendeva l'Epiro un immediato vicino dell'Italia meridionale e Nicea un Regno lontano in Asia Minore. Ma il progressivo consolidamento e ingrandimento dell'Impero niceno lo imposero ben presto all'attenzione generale. Dopo lo smembramento di Bisanzio nel 1204, benché anche l'Asia Minore rientrasse nei piani di spartizione dei crociati, il ritardo con cui questi ultimi si accinsero alla sua conquista dopo la presa di Costantinopoli diede modo alle forze bizantine in fuga di fondarvi uno stato destinato a realizzare le loro speranze di riscatto. Il primo sovrano di Nicea, Teodoro I Lascari (v.), gettò le fondamenta della nuova formazione statale, riuscendo a consolidarne le frontiere. A sud-est combatté contro i turchi del sultanato di Iconio, vincendoli nella battaglia di Antiochia sul Meandro nel 1210 (o 1211 secondo alcuni). Ciò contribuì a fissare la frontiera meridionale e orientale lungo una linea che da Amastri sul Mar Nero scendeva a sud-ovest di Ancira girando poi a ovest per raggiungere la valle del Meandro e la costa dell'Egeo a sud di Mileto. Meno fortunato militarmente contro l'Impero latino di Costantinopoli, Teodoro Lascari riuscì comunque, dopo vari scontri, a fissare la frontiera nord-ovest del suo stato: secondo il trattato del Ninfeo del 1214, ai latini rimanevano la Misia e la Bitinia nordoccidentale, lungo un confine che scendeva diagonalmente da Nicomedia ad Adramittio, includendole, mentre i bizantini conservavano i restanti territori d'Asia Minore fino al confine con i turchi. Si trattava di un grande risultato, perché il nuovo stato riusciva a sorgere e imporsi combattendo quasi contemporaneamente su due fronti. Nella storiografia moderna tale Impero viene indicato con il nome della sua capitale, Nicea, città posta in Bitinia, non lontana da Costantinopoli. Nel 1208 Teodoro I Lascari vi si era fatto formalmente incoronare imperatore, cosa che aveva reso necessario ristabilire preventivamente, nella migliore tradizione di Bisanzio, la stretta intesa e collaborazione tra colui che si accingeva a divenire imperatore e la massima autorità religiosa della Chiesa bizantina, il patriarca di Costantinopoli. Al momento della caduta della città nel 1204 il seggio patriarcale era occupato da Giovanni X Camatero, il quale, per ragioni non chiare, scelse di rifugiarsi presso i bulgari e rifiutò gli inviti di Teodoro Lascari a stabilirsi a Nicea. Morto Camatero nel 1206, al clero greco costantinopolitano fu negato dai latini il permesso di eleggere un nuovo patriarca greco, almeno fintantoché non fosse definita la questione dell'unione delle Chiese. Fu allora che il clero della capitale fece appello a Teodoro Lascari perché ospitasse a Nicea una sinodo per l'elezione patriarcale. Teodoro ben comprese l'importanza del momento: non solo la gerarchia ecclesiastica greca di Costantinopoli si stava rivolgendo a lui come imperatore, ma gli offriva anche l'opportunità di eleggere un patriarca che a sua volta lo avrebbe incoronato. Lascari accettò senz'altro, invitò a Nicea i rappresentanti del clero costantinopolitano e dalla sinodo del 1208 risultò eletto il dotto Michele IV Autoriano, che procedette poi all'incoronazione. L'autorità del nuovo patriarca non era indiscussa agli occhi di quanti avrebbero voluto il rigoroso rispetto della tradizione canonica, che tra l'altro proibiva il cumulo dei vescovati (nel caso, il patriarcato di Costantinopoli più il vescovato di Nicea), ma le circostanze giustificavano l'applicazione meno rigida della norma: con il tempo Autoriano e i suoi successori videro progressivamente rafforzata la propria posizione, cosicché buona parte della Chiesa orientale finì per riconoscere il suo capo in colui che, pur risiedendo a Nicea, portava il titolo di patriarca ecumenico di Costantinopoli: ben prima dei despoti epiroti, Teodoro I Lascari si diede dunque a consolidare e organizzare il proprio Impero per presentarlo quale legittimo e unico erede di Bisanzio. L'intenzione era già dichiarata in quello che risulta essere un di-scorso scritto perché Teodoro lo pronunciasse in un'occasione ufficiale di quegli anni: "vi sarà un solo gregge e un solo pastore" (Sathas, 1872, p. 107).
Nel 1222 a Teodoro successe il genero Giovanni III Duca Vatatze (v.) e con questo sovrano Nicea entrò in una nuova fase di sviluppo ed espansione, trasformandosi da stato regionale in grande potenza. Nel 1225 a Poimanenon Giovanni III sconfiggeva duramente l'Impero latino di Costantinopoli, allora retto da Roberto di Courtenay (v.), sovrano giovane e poco capace. Con il nuovo trattato di pace i latini cedevano a Nicea tutti i loro territori in Misia e Bitinia, mantenendo la loro presenza sul lato asiatico del Bosforo solo fino a Nicomedia e dintorni; contemporaneamente Nicea riaffermava la sua sovranità sulle isole di Lesbo, Chio, Samo, Icaria, Coo e più tardi anche Rodi: queste vittorie riportate sul mare erano particolarmente importanti e significative, perché segnavano la rinascita, dopo alcuni tentativi già compiuti da Teodoro Lascari, della flotta bizantina, pressoché scomparsa sotto gli ultimi imperatori di Bisanzio già prima del crollo, soppiantata da quella veneziana. Accogliendo poi un appello degli abitanti di Adrianopoli, che chiedevano di essere liberati dal giogo latino, Giovanni III inviò truppe nella Tracia orientale; fu allora che la rivalità tra il despotato di Epiro-Tessalonica e l'Impero di Nicea, apertamente dichiarata dal momento che Teodoro I Angelo aveva assunto anch'egli il titolo imperiale, portò al primo scontro diretto tra i due potentati: le forze nicene, pur avendo occupato Adrianopoli, dovettero poi cederla alle truppe frettolosamente inviate da Tessalonica, dal momento che Teodoro Angelo era ben deciso a non lasciarsi sbarrare la strada verso Costantinopoli. Anche se non fu possibile per Nicea mantenere il possesso della città, le sue forze si erano attestate nella regione: l'Impero niceno ormai non era più confinato alla sola Asia Minore, ma aggirando Costantinopoli aveva fatto la sua comparsa nella penisola balcanica.
Nello scontro per il titolo imperiale tra Teodoro I Angelo e Giovanni III Vatatze anche il clero dell'uno e dell'altro stato fu necessariamente coinvolto. Il clero epirota fin dall'inizio aveva sostenuto appieno Teodoro Angelo nel suo desiderio di sviluppare non solo uno stato forte e indipendente, ma anche una propria autonoma gerarchia ecclesiastica. Il fratello e predecessore di Teodoro, Michele I Angelo, si era limitato a favorire l'elezione di vescovi (di Durazzo, Larissa) da parte della sinodo provinciale senza consultare il patriarca a Nicea, di cui però poi, a cose fatte, aveva chiesto la ratifica delle nomine. Teodoro invece mostrò ben presto di voler sottrarre il suo clero alla giurisdizione patriarcale, senza chiedere approvazioni per le nomine né prima né poi. La sinodo di Arta dell'autunno del 1219, eleggendo Giorgio Bardane vescovo di Corfù, colse anche l'occasione per redigere un documento ufficiale in cui si rendeva noto che elezioni prive dell'approvazione patriarcale come quella di Bardane erano legittimate dal bisogno di assegnare tempestivamente a uomini validi le sedi episcopali vacanti in quei tempi difficili. Il diritto canonico infatti prevedeva la deroga alle sue stesse norme in caso di estrema necessità, purché non fossero intaccati contenuti dogmatici, e il patriarca niceno, pertanto, non aveva motivo di lamentare la violazione delle sue prerogative (Vasilievskij, 1896, nr. 13, pp. 260-263). Di fatto, però, la necessità in questo caso era dettata da Teodoro I Angelo. E poiché il patriarca Manuele I nelle sue reiterate proteste mosse contro il clero epirota non sembrava saper (o voler) cogliere le implicazioni politiche della faccenda, finalmente il vescovo di Naupatto, Giovanni Apocauco, in buona parte responsabile delle ordinazioni vescovili contestate, si risolse a parlar chiaro in una lettera al patriarca dell'aprile 1222. Il progressivo ingrandimento del despotato a spese soprattutto dei latini rendeva necessario il tempestivo reinsediamento di vescovi ortodossi nelle città riconquistate, senza la possibilità di rivolgersi a Nicea; al di là di questa motivazione concreta, bisognava in generale prendere atto del fatto che l'antico Impero di Bisanzio era stato smembrato e che i suoi successori, uniti nella stessa fede, erano politicamente divisi (ibid., nr. 17, pp. 270-278). In sostanza, la formale superiorità del patriarca niceno era riconosciuta nella sua valenza puramente onorifica, in omaggio al concetto dell'unità della Chiesa greca, ma non comportava più automaticamente, secondo il clero greco occidentale, l'universalità della sua giurisdizione. Indipendenza politica e autonomia ecclesiastica mostravano così nei domini del despota i loro intrecci. Sull'argomento, in modo più perentorio, il clero epirota tornò negli atti di una sinodo successiva, inviati al patriarca a Nicea con l'esplicita richiesta di riconoscere al clero del despotato il diritto di eleggere in piena autonomia la propria gerarchia; in caso contrario, si temeva che Teodoro Angelo si sarebbe sentito incoraggiato a intavolare con il papato le trattative per l'unione religiosa dei suoi domini con Roma (ibid., nr. 26, pp. 288-293). Quest'ultimo argomento suonava in pratica come un ricatto, tanto più incredibile dal momento che Teodoro era salutato dal suo clero come il paladino dell'ortodossia greca. Nel frattempo la conquista di Tessalonica e l'assunzione del titolo imperiale da parte di Teodoro (intorno al 1226-1227) avevano elevato il livello dello scontro, perché così non era più in discussione la sola potestà giurisdizionale del patriarca, ma la posizione stessa dell'imperatore di Nicea. Il tono del confronto si fece allora veramente aspro nello scambio di missive tra il patriarca Germano II, succeduto a Manuele, inflessibile sostenitore dei diritti dell'imperatore di Nicea, e Demetrio Comatiano, arcivescovo di Ocrida (Macedonia occidentale), che di sua mano aveva incoronato Teodoro Angelo a Tessalonica: quando mai si era visto un imperatore bizantino incoronato dal metropolita di Ocrida? chiedeva da un lato Germano II, riversando il suo biasimo sull'arcivescovo; dall'altro, Comatiano rispondeva ricordando al patriarca le modalità poco canoniche del trasferimento del suo stesso patriarcato da Costantinopoli a Nicea e le circostanze irregolari in cui anche Teodoro Lascari aveva assunto il potere in Asia Minore (Pitra, 1891, nr. 113, coll. 483-486; nr. 114, coll. 487-498). Quando però Teodoro Angelo espulse da Durazzo il candidato scelto dal patriarca per occupare quella sede vescovile, Germano II si rivolse direttamente contro Teodoro, dichiarandolo responsabile di tutti gli abusi fino ad allora commessi e rimproverandolo per la scissione nella Chiesa che la sua incoronazione a imperatore aveva causato. Giorgio Bardane, incaricato ufficialmente dal clero epirota di rispondere alle accuse, con una missiva al patriarca fece sapere che sia nel caso di Durazzo, strappata ai latini con tanta fatica e assai importante per la sua posizione strategica, sia per tutte le altre nomine vescovili nei domini di Teodoro Angelo la relativa competenza spettava al suo sovrano e alla sinodo della sua Chiesa. Il patriarca non doveva più interessarsene, ciò era senz'altro anticanonico, ma era anche il segno dei tempi: che ciascun Impero dunque riconoscesse l'altro e si accontentasse di se stesso (Loenertz, 1964, pp. 104-118). Lo scisma era ormai dichiarato. Se il patriarca avesse rinunciato a esigere la rigida applicazione dei canoni e avesse in qualche modo distinto la propria posizione da quella dell'imperatore di Nicea, avrebbe mantenuto il suo prestigio di capo spirituale anche in Epiro, a prezzo però del mutamento di una tradizione secolare, che Germano II non volle ammettere. D'altro canto il clero greco occidentale doveva essere almeno in parte consapevole di non avere tra le proprie fila nessuno che potesse competere in prestigio con il patriarca di Costantinopoli a Nicea, malgrado i tentativi dello stesso Comatiano, ormai a capo del clero epirota, di dare maggior lustro alla propria sede rispolverando presunti antichissimi privilegi. Ciò rappresentava probabilmente un punto debole nella politica di potenza dell'Epiro e un vantaggio per l'Impero niceno. Da ultimo la di-sfatta di Klokotnica segnò per l'Epiro la fine delle sue ambizioni imperiali e l'impossibilità di conservare una propria Chiesa autocefala. A Teodoro, rimasto in una prigione bulgara, successe il fratello Manuele Angelo con il consenso dello zar Ivan Asen, di cui di fatto risultava essere un vassallo. Con le perdite territoriali subite molti vescovati passarono sotto il controllo del metropolita bulgaro di Tarnovo, incluso l'arcivescovato di Tessalonica, nonostante la città fosse rimasta sotto il governo di Manuele. Questi, nel tentativo di rafforzare la propria vacillante posizione, nel 1231 cercò sostegno all'esterno, chiedendo addirittura aiuto a Roma e Nicea contemporaneamente, il che mostra quanto fosse cambiata la situazione. Fu anche per questo, probabilmente, che i rapporti di Manuele con Federico II s'incrinarono a tal punto da spingere poi l'imperatore svevo a rivendicazioni territoriali ai suoi danni in Epiro. Una delegazione di cui faceva parte anche Giorgio Bardane fu inviata a papa Gregorio IX per accordarsi sulla sottomissione ecclesiastica del despotato d'Epiro-Tessalonica a Roma; sembra che l'obiettivo fosse anche stato raggiunto, ma l'opposizione del clero epirota spinse Manuele a rinunciarvi. Potendo contare ormai solo su Nicea, Manuele fece sapere a Germano II di essere pronto a riconoscere la sua giurisdizione ecclesiastica sui propri domini, ovviamente meno sgradita al clero greco occidentale di quella latina. Nell'estate del 1232 in una sinodo riunita a Tessalonica fu letta e approvata la lettera patriarcale che fissava le modalità per la composizione dello scisma e toccò proprio a Bardane, che ne era stato uno dei maggiori protagonisti, rispondere al patriarca per iscritto con accenti di umiltà e gratitudine.
Frattanto Giovanni III di Nicea si decideva ad allearsi con lo zar dei bulgari Ivan Asen II nella prospettiva di un attacco congiunto all'Impero latino e nel 1235 l'intesa venne sancita dalle nozze celebrate a Lampsaco dell'unico figlio maschio ed erede di Giovanni, Teodoro, con una figlia dello zar, Elena. La scelta della sposa per il proprio erede non doveva essere di poco conto, soprattutto per Giovanni III che era un fine diplomatico e aveva avuto personale esperienza dei vantaggi di un buon matrimonio, essendo giunto al trono grazie alle sue nozze con Irene Lascarina, figlia del suo predecessore. Oltre a ciò, nella stessa occasione, la sede del metropolita bulgaro di Tarnovo venne elevata al rango di patriarcato da Germano II, di concerto con l'imperatore niceno. Anche questa era un'iniziativa di un certo peso, considerando tra l'altro quanta importanza attribuiva Germano II alle questioni di gerarchia ecclesiastica. Viene allora spontaneo chiedersi quale ruolo Giovanni III intendesse riservare alla Bulgaria nei suoi piani futuri, perché le premesse indicavano qualcosa di ben più impegnativo di un'alleanza temporanea. A quelle regioni, sottrattesi al dominio di Bisanzio non più di una quarantina di anni addietro e con una popolazione ancora in parte greca o grecizzata, Giovanni probabilmente guardava con rimpianto, dolendosi che la sua stessa città d'origine, Didimotico in Tracia, fosse ormai in mano bulgara.
Cominciarono dunque le operazioni militari congiunte delle truppe bulgare e nicene, procedendo alla conquista della Tracia sudorientale e finalmente all'assedio di Costantinopoli, che era da tempo il vero obiettivo di tanti sforzi; l'Impero latino sembrava prossimo al crollo per le condizioni critiche di grave debolezza in cui versava e d'altro canto non si doveva più temere l'intervento del rivale despotato d'Epiro, come era accaduto dieci anni prima, giacché la battaglia di Klokotnica lo aveva definitivamente messo fuori gioco. Tuttavia l'imperatore latino Giovanni di Brienne seppe organizzare un'energica difesa della città sul Bosforo e gli assediati furono salvati dall'intervento della flotta veneziana; un nuovo assedio posto nella primavera del 1236 fu poi sventato dal soccorso insperato prestato alla città da Goffredo di Villehardouin, principe d'Acaia. Avvenne poi l'impensabile: lo zar bulgaro, per il timore non infondato di un eccessivo rafforzamento di Nicea, ruppe l'alleanza con Giovanni III e mosse contro di lui le sue armi. Bulgari, latini e cumani uniti riuscirono a indebolire la posizione di Nicea in Tracia e cadde anche il suo caposaldo nella regione, la fortezza di Tzurulon a nord-ovest di Costantinopoli.
Si trattava però solo di una momentanea battuta di arresto. Giovanni III dovette certo rivedere tutti i suoi piani, constatando che era indispensabile trovarsi alleati diversi da Ivan Asen II, con il quale una spartizione di Costantinopoli era inconcepibile, e che la fine dell'Impero latino poteva essere quantomeno facilitata da un'opportuna azione diplomatica di ampio respiro. Il più grande successo in questo senso si sarebbe avuto se fosse stato possibile indurre il papato ad abbandonare la causa dell'Impero latino. A ciò si sarebbe dovuti arrivare attraverso l'unione delle Chiese occidentale e orientale negoziata direttamente con Nicea, il che avrebbe reso inutile, nell'ottica del papato, la permanenza dei latini a Costantinopoli. Un primo tentativo in questa direzione Giovanni III lo aveva già fatto nel 1234, ospitando a Nicea una delegazione inviata da papa Gregorio IX. L'incontro con il patriarca Germano II e con altri membri del clero greco fu però un disastro anche a causa della rigidezza dei delegati papali. La ricerca di un'intesa si protrasse fino al 1236, quando il dialogo si interruppe completamente. Giovanni III se ne mostrò sinceramente dispiaciuto. Era necessario intanto guardare altrove e furono le circostanze stesse a far convergere gli interessi dell'imperatore di Nicea con quelli di Federico II. L'imperatore svevo intendeva rafforzare la propria posizione facendo appello a sovrani sensibili alla sua politica di contenimento dell'influenza papale sulla scena internazionale e ammetteva anche la possibilità, almeno in teoria, della fine dell'Impero latino di Costantinopoli, che dell'influenza papale era uno strumento; dal canto suo Giovanni III, per recuperare l'antica capitale, era disposto non solo a favorire l'unione delle Chiese, ma anche a prestare aiuto a Federico II laddove lo avesse richiesto. Già dal 1237 l'alleanza era stata stretta e nel 1238 essa diede alcuni frutti: in quell'anno Federico II negò il passaggio attraverso i suoi stati a un contingente armato diretto contro l'Impero di Nicea, nonostante Gregorio IX gli avesse chiesto espressamente di non ostacolarlo, e a sua volta Giovanni III inviò delle truppe in sostegno di Federico impegnato nell'assedio di Brescia. È evidente allora, come giustamente ha sottolineato Erasmo Merendino (1975, pp. 372-373), che per l'Impero niceno l'alleanza con Federico II aveva un valore anche strategico tutt'altro che trascurabile, scongiurando la possibilità che spedizioni armate occidentali potessero muovere contro di esso partendo dai porti dell'Italia meridionale. Quand'anche non vi fosse stato un aiuto concreto con uomini e mezzi da parte dell'imperatore svevo per la riconquista di Costantinopoli, si poteva almeno essere ragionevolmente sicuri di non su-bire attacchi alle spalle da parte dagli occidentali nel corso di un futuro assedio alla grande città.
L'alleanza fu successivamente sanzionata con un atto importante, ovvero le nozze di Giovanni III, rimasto vedovo della sua prima moglie, con Costanza/Anna (v.), figlia di Federico II e Bianca Lancia. L'unione, avvenuta nel 1241 (secondo altri nel 1244), fu duramente condannata da papa Innocenzo IV, che nel corso del concilio di Lione (v.) nel 1245 comminò la scomunica a Federico II (la terza) anche a causa di quel suo nuovo legame familiare con lo scismatico imperatore di Nicea. Sembra tuttavia che questo legame matrimoniale non abbia contribuito sostanzialmente in sé e per sé al rafforzamento dell'alleanza, di cui fu tutt'al più un simbolo, soprattutto perché la sposa, fin troppo giovane, per alcuni anni ebbe influenza scarsa o nulla su Giovanni III.
L'Impero di Nicea continuava intanto a crescere in potenza: nel 1241 venne a morire lo zar Ivan Asen II. Pentitosi del suo voltafaccia, egli aveva ristabilito buoni rapporti con Nicea. Dopo la sua morte la Bulgaria attraversò un periodo di generale instabilità, governata da sovrani ancora minorenni e sotto tutela. Giovanni III, lasciando per il momento da parte la questione bulgara, ne approfittò subito per condurre una campagna militare contro Tessalonica, conquistando terre nella Macedonia orientale. Giunto nella città, impose a Giovanni Angelo, dal 1237 al governo di Tessalonica dopo Manuele, la rinuncia a qualsiasi pretesa al titolo imperiale e all'uso dei suoi simboli (inchiostro rosso per la firma degli atti ufficiali, calzari di porpora) e ottenne una formale sottomissione a Nicea, di cui Tessalonica diveniva uno stato vassallo. Avvertito però dell'improvvisa irruzione dei mongoli che aveva investito il sultanato di Iconio in Asia Minore, Giovanni III ritenne a quel punto più prudente rientrare.
Nel 1246 l'imperatore di Nicea era di nuovo in armi, questa volta contro la Bulgaria, strappandole tutti i suoi possessi in Tracia e Macedonia e portando così i confini settentrionali del suo Impero al corso superiore dei fiumi Marica e Vardar, lungo una linea che da Adrianopoli passava per Klokotnica, Filippopoli e Skoplje. Un episodio della fortunata campagna, la pacifica resa della città di Melnik all'esercito niceno, mostra la stretta affinità tra conquistatori e conquistati su cui dieci anni prima Giovanni III aveva tentato di costruire un'alleanza: un notabile di Melnik convinse infatti i suoi concittadini ad abbracciare la causa degli invasori perché dopo tutto essi stessi, bulgari, erano anche un po' bizantini, provenendo originariamente dalla città bizantina di Filippopoli, e gli aggressori bizantini da parte loro erano in parte anche bulgari, come mostrava il fatto che il figlio ed erede al trono di Giovanni III era sposato con una figlia del loro zar. La Bulgaria, piegata per di più dai mongoli al pagamento di un tributo mentre tornavano nella steppa russa dalle loro scorrerie in Europa, riconobbe a Giovanni III le sue conquiste con la firma di un trattato di pace, purché egli non si spingesse oltre. L'imperatore di Nicea si rivolse allora contro Tessalonica e grazie anche al sostegno di una fazione della città a lui favorevole vi entrò senza colpo ferire, annettendola agli altri territori appena conquistati. Giovanni III aveva così più che raddoppiato l'estensione dell'Impero ricevuto dal suo predecessore e Nicea era ormai una potenza anche nei Balcani, con la quale né la Bulgaria con le sue difficoltà interne, né il despotato di Epiro per la sua posizione marginale potevano competere. Completamente accerchiato, ridotto alla sola Costantinopoli e ai suoi immediati dintorni sull'una e sull'altra sponda del Bosforo, l'Impero latino non aveva futuro.
Questi notevoli successi si accompagnarono o forse furono in parte proprio essi stessi la causa di un cambiamento nella politica estera di Giovanni III. Questi probabilmente si sentiva forte come non mai e meno allettato dalla prospettiva di un eventuale aiuto militare da parte di Federico II per la riconquista di Costantinopoli, aiuto che per altro fino ad allora non era stato ancora prestato; d'altro canto, anche a costo di inquinare i rapporti con l'imperatore svevo, era forse il caso di tornare a giocare la carta di un accordo con la Curia romana per l'unione delle Chiese e il completo isolamento diplomatico dell'Impero latino di Costantinopoli ormai agonizzante. Si ha l'impressione che tutto sommato Giovanni III non ritenesse impossibile mantenere l'alleanza con Federico II e allo stesso tempo avviare dei colloqui con la Curia romana. Da un lato, infatti, l'imperatore di Nicea continuò a far pervenire denaro al suo alleato, in particolare per riparare almeno in parte alla perdita del tesoro reale subita da Federico a Vittoria; dall'altro, lo stesso Giovanni III nel 1249 si decideva a inviare a papa Innocenzo IV un suo messo, un frate minore di nome Salimbene che parlava sia greco che latino, per chiedere la ripresa dei colloqui sul tema dell'unione. Il papa inviò una sua delegazione guidata da Giovanni da Parma, ministro generale dell'Ordine dei Frati minori, e sebbene all'inizio i legati avessero ricevuto istruzioni così rigide da lasciare poco spazio al dialogo, i contatti si protrassero attraverso uno scambio di ambascerie, mostrando indubbiamente l'interesse di entrambe le parti di giungere a un accordo. Tutto ciò spiacque assai a Federico II, che scrisse una lettera all'imperatore niceno rimproverandolo per la leggerezza con cui si era imbarcato in simili trattative, ignorando quanto inaffidabile fosse la gerarchia ecclesiastica latina e il suo sommo capo, senza contare che, per il semplice fatto di avergli dato la propria figlia in moglie, anche lui aveva dovuto subire la scomunica. E facendo seguire i fatti alle parole, Federico fece poi arrestare e trattenne presso di sé i membri di una delle ambascerie inviate da Giovanni III al papa mentre passava per la Puglia.
Oltre alla lettera appena menzionata, ce ne sono pervenute altre due inviate da Federico II a Giovanni III Duca Vatatze e una quarta dello stesso autore al despota d'Epiro Michele II Angelo, tutte e quattro scritte in greco nel 1250. Dacché le lettere furono pubblicate, la maggior parte degli storici le ha effettivamente ritenute la genuina testimonianza di uno scambio epistolare tra i personaggi nominati. Qualcuno però ha già in passato avanzato qualche dubbio sulla capacità della cancelleria federiciana di redigere corrispondenza diplomatica direttamente in greco, mentre più di recente è stato proposto di considerare tali documenti come una sorta di esercitazione letteraria di cui sarebbero autori personaggi vicini alla corte sveva e a Federico II. Anche in questa ultima ipotesi, le lettere manterrebbero comunque una notevole importanza per la comprensione del significato ideologico, oltre che pratico, dei rapporti di Federico II con l'Impero di Nicea e con l'Oriente bizantino in generale. Federico aveva mantenuto buoni rapporti con tutti i greci, nei Balcani come in Asia Minore, ma aveva finito per allearsi più strettamente con Nicea non semplicemente perché quell'Impero alla lunga era destinato a prevalere sui suoi rivali, ma perché con la sua affermazione promuoveva un modello di regalità antico e da tempo dimenticato in Occidente, ma conservato e perpetuato da Bisanzio: una monarchia che recava in sé e traeva da sé la fonte del proprio potere, in un rapporto diretto con il divino, e alla quale si poneva affianco, mai al disopra, un clero disposto alla collaborazione con essa per il bene del Regno. Questa idea di regalità esercitava un fascino grandissimo su Federico II e gli offriva un nobile modello di riferimento nella sua lotta contro le pretese del papato d'imporsi alla sua autorità sovrana. Il nobile modello di riferimento era poi incarnato, all'epoca di Federico II, da Giovanni III Duca Vatatze. La sua politica ecclesiastica era, sotto certi aspetti, esemplare. Pur desiderando l'unione con la Chiesa latina per i vantaggi politici che ne sarebbero derivati, Giovanni non era disposto per essa (come a un certo punto lo furono i despoti d'Epiro) a rinunciare alla tradizione e all'autonomia della propria Chiesa, di cui rimase, visto dall'esterno, il custode; d'altro canto, ebbe sempre cura che a capo di quella stessa Chiesa fossero posti, come patriarchi, personaggi devoti alla causa imperiale e intellettualmente non troppo brillanti, se si deve credere a quanto afferma Niceforo Blemmida, intellettuale 'indipendente' al quale l'imperatore precluse l'elevazione al patriarcato.
Giovanni III poté d'altro canto rappresentare un esempio per molti sotto diversi punti di vista. I suoi meriti e le sue capacità furono chiaramente percepiti e apprezzati dai suoi contemporanei e poi esaltati dai posteri, tra i quali un anonimo encomiasta ebbe a scrivere, tracciando una sorta di speculum principis, che come figura di sovrano egli "più d'ogni altro mostra di corrispondere al canone della potestà imperiale, da semplici cittadini generato privato cittadino, degno nondimeno di regnare e dell'Impero, illustre uomo, nobile nel corpo, ancor più nobile nell'animo, sommo nella sua istruzione, magnifico, liberale, urbano nei costumi, amabile con gli interlocutori, veramente di buona radice un buon germoglio" (Giorgio di Pelagonia [?], 1905, cap. VI, 29-34, p. 197).
Giovanni III, nonostante le sue capacità e il suo personale prestigio, non riuscì a rendere ben accetti a Federico II i progressi in politica interna ed estera dell'Impero di Nicea dopo il 1246. L'Impero niceno era divenuto un alleato in qualche modo ingombrante, che di lì a poco con le ultime campagne militari di Giovanni avrebbe strappato all'Epiro anche un breve tratto della sua costa. La morte colse l'imperatore svevo alla fine del 1250 prima che potesse vedere il suo alleato attestarsi sull'Adriatico, ma si era ormai comunque definitivamente chiuso il capitolo della effettiva collaborazione tra la Corona di Sicilia e Nicea. Dell'intesa che aveva legato i due grandi sovrani restavano la formale cordialità e i toni garbati espressi ancora da Federico in particolare nelle sue due ultime lettere in greco a Giovanni III, congratulandosi con il proprio genero per i successi militari niceni e annunciandogli i propri nella Marca e in Romagna (Le lettere greche, 1894, pp. 28-30, ma con la datazione seguita da Merendino, 1975, p. 377), nonché l'espugnazione di Parma, conseguita anche grazie agli aiuti inviati proprio da Nicea (Le lettere greche, 1894, pp. 17-21). Non per questo però Federico pensava al rilascio degli ambasciatori di Giovanni III arrestati mentre erano in viaggio per raggiungere il papa, perché costoro furono rimessi in libertà solo dopo la morte dell'imperatore svevo, nel 1251. Era d'altro canto l'intestazione stessa di quelle lettere a rivelare un'ambiguità di fondo nei rapporti tra i due imperatori: Federico, presentandosi come imperatore dei Romani, si rivolgeva a Giovanni III designandolo come imperatore dei Greci, quando invece i greci ufficialmente definivano se stessi "romani", in quanto con una linea ininterrotta potevano far risalire la loro monarchia all'Impero che era stato di Augusto. Una volta conseguiti i rispettivi obiettivi, quale Impero avrebbe avuto allora il primo posto?
fonti e bibliografia
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