BRITANNICO, IMPERO
L'espressione italiana Impero Britannico è quella che più si presta per rivestire ad un tempo ambedue i concetti raffigurati nelle espressioni inglesi di British Empire o "Impero britannico", la quale sta ufficialmente non meno che praticamente a identificare lo stato britannico nel suo complesso, cioè - per usare le denominazioni ufficiali attuali - il Regno della Gran Bretagna e Irlanda del Nord, lo Stato libero d'Irlanda, i Dominions, l'Impero dell'India, le Colonie, í Protettorati, le Dipendenze; e di British Commonwealth o "Comunità britannica" (British Community è infatti l'espressione inglese esattamente equivalente, usata talora - per quanto di rado - anche in occasioni ufficiali), la quale serve invece a contraddistinguere, per i particolari legami che li vincolano in seno all'impero, gli organismi politici autonomi che di quel complesso fanno parte (Regno della Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Stato libero d'Irlanda, Dominions) e l'India.
La seconda espressione la troviamo adoperata ufficialmente per la prima volta nella famosa risoluzione costituzionale (Risoluzione IX) della Conferenza imperiale di guerra del 1917. Essa fu accolta e si andò affermando ogni giorno di più nel linguaggio ufficioso ed ufficiale e in quello stesso politico e giuridico ordinario nel decennio successivo.
L'area dell'Impero Britannico veniva calcolata, nel 1921, a 32.253.955 kmq. incluse alcune terre artiche, ma esclusi i territorî di mandato che comprendono 2.453.593 kmq.
Le varie provenienze e la diversità dei popoli che compongono questo aggregato politico, rendono complicato il sistema di governo, tanto più che la tradizione inglese della legge consuetudinaria impedisce necessariamente la creazione di qualsiasi sistema logico. Il numero totale della popolazione fu calcolato nel 1921 a 438.761.015 abitanti, con aggiunta di 9.075.881 per il territorio dei mandati. Di questi, 61 milioni sono Europei, in massima parte di razza anglosassone, e circa il 750% vivente nella Gran Bretagna; altri 16 milioni sono sparsi nel Canada, in Australia, nella Nuova Zelanda e nel Sud-Africa. Il rimanente della popolazione è costituito di razze di colore: circa 323 milioni vivono in India e a Ceylon, circa 18 milioni nella Nigeria e gli altri, in minor numero, abitano in svariatissimi paesi.
I territorî dell'Impero Britannico si possono così dividere secondo le loro relazioni con la Corona:
a) Il Regno Unito, che comprende l'Inghilterra, il Galles, la Scozia e, eccetto che per l'amministrazione locale, l'Irlanda del Nord. Il Parlamento di Westminster esercita l'autorità suprema sotto la sovranità della Corona. È sovranità piena, interna ed esterna, limitata praticamente da convenzioni tra il Regno Unito e i Dominions. L'Irlanda del Nord ha legislazione propria e potere esecutivo agli effetti dell'amministrazione locale.
b) Lo Stato libero d'Irlanda, che ha regime di Dominion.
c) L'Isola di Man e le Isole della Manica, autonome sotto il Consiglio reale, che costituiscono una sopravvivenza storica.
d) I Dominions, che sono membri diretti della Lega delle Nazioni e godono di autonomia completa negli affari interni, ma hanno scarsa rappresentanza internazionale al di fuori della Lega delle Nazioni (p. es. le rappresentanze diplomatiche del Canada e dell'Irlanda a Washington). Ciascun Dominion ha legislazione e governo propri e manda rappresentanti alla Conferenza imperiale. I Dominions sono: Canada, Australia, Nuova Zelanda, Unione Sudafricana e, come si è detto, lo Stato libero irlandese.
Eccetto che nell'Unione Sudafricana, in tutti gli altri paesi la popolazione è in massima parte, se non interamente, europea di origine e di tradizione. Nel Canada convivono discendenti di Francesi e d'Inglesi e v'è qualche traccia di razze indigene; ma la tradizione vi è prevalentemente europea.
e) Dominion di Terranuova, autonomo, rappresentato alla Conferenza imperiale, ma senza diritto a far parte della Lega delle Nazioni. Il Labrador, sulla costa americana, è ora parte del Dominion di Terranuova.
f) India: l'autorità suprema è esercitata da un governatore generale responsabile di fronte al Ministero dell'India a Londra, che, a sua volta, è responsabile davanti al Parlamento della Gran Bretagna. Un sistema di legislazione esecutiva sta formandosi nell'India, e va acquistando importanza, ma l'autonomia completa è lungi dall'essere raggiunta. Parecchi "stati indigeni" godono di un grado relativo di autonomia sotto l'autorità del governatore generale e, in molti casi, un residente britannico funge da consigliere del governo indigeno. L'India fa parte della Lega delle Nazioni ed è rappresentata alla Conferenza imperiale.
g) Malta, con larga autonomia ma senza diritto a far parte della Lega delle Nazioni, né della Conferenza impeiiale.
h) Rhodesia del Sud, con larga autonomia, ma senza alcuna rappresentanza estera.
i) Colonie della Corona, termine tecnico per designare un territorio, del quale un membro del governo britannico è responsabile davanti al Parlamento. Quasi sempre un governatore vi rappresenta la Corona e governa con l'ausilio di un consiglio amministrativo, o di un corpo legislativo locale, nel quale il governo britannico ha ufficialmente la maggioranza dei membri. Molti territorî minori nelle zone tropicali sono in questa condizione. Le maggiori Colonie della Corona sono Ceylon, gli Stabilimenti dello Stretto (Malesia britannica) e alcuni territorî africani.
f) Protettorati: territorî, come la Nigeria e l'Uganda, in cui l'autorità dei capi indigeni è sostenuta dal potere britannico. Si considerano questi popoli non interamente sudditi dell'Impero.
l) I territorî sottoposti a mandato, che sono estranei all'Impero, in senso stretto. Alcuni mandati sono affidati al regno della Gran Bretagna e Irlanda del Nord, uno all'Australia, uno alla Nuova Zelanda, uno all'Unione Sudafricana, e uno all'Impero.
Il precedente elenco comprende la maggior parte dei territorî dell'Impero, ma alcuni pochi, come ad esempio Sarawak, hanno una storia propria e un loro statuto particolare.
Uno scrittore popolare definì l'Impero Britannico come una "unione di piroscafi", espressione che corrisponde, in certa misura, a verità: la grande attività marinara, che condusse allo stabilirsi di scali inglesi con le conseguenze suesposte, costituì infatti la spinta preponderante per lo sviluppo dell'Impero. Varie, a seconda dei tempi, sono le opinioni circa la funzione delle diverse parti dell'Impero e circa la loro relazione con la Gran Bretagna. Adesso l'unione è essenzialmente volontaria per quelle regioni che hanno una popolazione ritenuta capace di governarsi da sé. Per le altre regioni vige il principio del bene degl'indigeni; principio che però è applicato con riserva e senz'altro è messo da parte, ogni volta che gl'interessi degl'indigeni contrastano con quelli dei coloni europei.
Nondimeno l'Impero Britannico è retto senz'alcun contributo delle sue varie parti per le grandi spese militari o per gl'interessi dei debiti pubblici generali. Ciascuna unità ha le proprie finanze, tasse, dogane, ecc., e non vi è neppure l'obbligo di servizio militare di tutte le parti dell'Impero, nel caso di entrata in guerra della Gran Bretagna, l'obbligo morale si è rivelato ben sufficiente.
La cittadinanza di una parte dell'Impero non implica necessariamente il diritto di cittadinanza e di residenza in un'altra parte dell'Impero come fu dimostrato dalle difficoltà sollevate per gli Indiani nell'Africa del Sud.
Le relazioni reciproche tra le varie parti dell'Impero, e di ciascuna di queste con la collettività imperiale e con l'estero, sono state oggetto di discussione nelle riunioni periodiche della "Conferenza imperiale", da poco stabilita; questa è costituita dai rappresentanti della Gran Bretagna, del Canada, dell'Australia, della Nuova Zelanda, dell'Unione Sudafricana, dello Stato libero dell'Irlanda, di Terranuova, e dell'India. Finora il governo centrale, Home Governement, responsabile dinanzi al Parlamento di Westminster, aveva, in teoria, autorità su tutto l'Impero, ed era rappresentato nelle diverse parti di questo, da governatori e governatori generali, con funzioni di consiglieri intorno ad ogni cosa che riguardasse il territorio affidato a ciascuno di essi.
Nei paesi di popolazione prevalentemente europea sono stati costituiti parlamenti e governi locali, ad imitazione della Costituzione inglese, e l'ingerenza del governo centrale nei loro affari interni diventa sempre minore.
Adesso è stato decretato che nei Dominions il governatore generale sarà d'ora innanzi il rappresentante del re, e non il rappresentante del governo metropolitano; però sarà pienamente informato degli affari, come lo è il re in Inghilterra. Si riconosce che il governo non farà uso di quello che, in principio, è suo diritto, cioè non annullerà gli atti del Parlamento di un Dominion; si può dunque dire che tale diritto è decaduto. Si riconosce inoltre che, se il governo centrale promulga leggi che tocchino anche i Dominions, è necessario il consenso di ciascun Dominion interessato nella questione. Ci si avvicina così a uno stato di eguaglianza tra i governi dei Dominions e quello centrale, ma questa evoluzione implica numerose e complesse conseguenze, e una commissione sta definendo tutta la materia. Circa la navigazione, è ovvia la necessità di una legislazione unica, e anche in questo campo una speciale commissione sta studiando uno schema di ordinamento generale. I governi dei Dominions, come il Governo centrale, possono intavolare negoziati con stati esteri, ma debbono tenersi reciprocamente informati in precedenza, in modo che ciascuno dei governi cointeressati possa nominare un suo rappresentante che assista alle discussioni, e riferisca al suo governo circa l'opportunità o meno di firmare. Nessun governo dell'impero può essere obbligato a firmare un particolare trattato.
Il governo centrale è sempre responsabile della politica estera e militare, mai per ciò che riguarda la politica estera, il Dominion del Canada e lo Stato libero d'Irlanda hanno creduto necessario di aver ciascuno un ministro plenipotenziario a Washington, ed è probabile che questo tipo di rappresentanza assuma ulteriore sviluppo. Il rappresentante del governo centrale e quelli del Canada e dell'Irlanda agiscono di concerto. In parecchi casi i governi dei Dominions applicano alle merci della Gran Bretagna dazî minori di quelli imposti alle merci di nazioni estere. L'aumento delle importazioni dei viveri dai Dominions nella Gran Bretagna è oggetto di studio. Ciascun Dominion decide da sé quale debba essere il proprio contributo alla difesa generale dell'Impero, ma ciascuno è considerato responsabile della propria difesa. Sono invitati a partecipare alle discussioni della Commissione imperiale di difesa militare i rappresentanti di quei Dominions, i cui interessi fossero toccati dalle questioni discusse.
I quattro grandi Dominions, abitati da popolazione inglese, hanno un debito pubblico di quasi 2.000.000 di sterline, di cui più della metà di prestito interno: il Canada, essendo fra tutti il più altamente sviluppato, richiede meno degli altri il concorso estero. Ciascun Dominion ha cambî proprî, ma tutti in pratica hanno moneta aurea e usano come unità la sterlina, eccetto il Canada e Terranuova che naturalmente usano il dollaro.
Il commercio fra la Gran Bretagna e le varie parti dell'Impero è assai sviluppato. Più di un terzo del valore delle esportazioni dalla Gran Bretagna va nelle altre parti dell'Impero e questa proporzione va crescendo lentamente; ciò non dà tuttavia un quadro adeguato della situazione, perché una larghissima percentuale dell'esportazione dalla Gran Bretagna per le varie parti dell'Impero consiste in manufatti, la cui preparazione occupa oggi la metà delle fabbriche inglesi. Da territorî dell'Impero vengono gran parte delle importazioni nella Gran Bretagna, specialmente lana, pecore, grano; perché la massima parte delle loro esportazioni sono materie prime necessarie agli opifici o metalli semilavorati. L'India è sempre il massimo mercato per i prodotti inglesi. In quanto agli scambî fra le varie parti dell'Impero, al di fuori della Gran Bretagna si svolge ora un attivo commercio tra il Canada e le Indie Occidentali, il primo esportando prodotti manufatti e grano; le seconde, frutta e zucchero. Sono attivi gli scambî tra l'Australia e la Nuova Zelanda, alle quali l'India spedisce la iuta.
Le comunicazioni marittime tra le varie parti dell'Impero, sempre al di fuori della Gran Bretagna, sono aumentate in questi ultimi anni e la nuova Commissione imperiale marittima ha dato impulso alle comunicazioni mercantili entro l'Impero. I metallurgici inglesi sperano di riacquistare parte della prosperità goduta negli anni dei grandi lavori ferroviarî in Argentina e negli Stati Uniti con lo sviluppo di nuove ferrovie entro i confini dell'Impero. Tra le parti dell'Impero che hanno speciale importanza per il commercio con l'estero, merita speciale menzione il porto di Vittoria. Fino a questi due ultimi anni di torbidi cinesi Hong-kong era rivale, nel commercio, di Londra e di New York: il suo porto era aperto alle navi di ogni nazione e funzionava soprattutto come deposito delle merci europee in Cina e come luogo di concentrazione dei prodotti cinesi da esportarsi in Europa.
I problemi principali che riguardano l'Impero Britannico sono: 1. mantenere il principio della collaborazione volontaria, in base a un'intesa e a una tradizione comuni, fra Dominions posti a grandi distanze l'uno dall'altro e sviluppatisi nelle più diverse condizioni; 2. costituire governi, sempre più fondati su principî fiduciarî che si adattino a comunità sociali che si trovano nei più svariati stadî di evoluzione sociale; 3. regolare l'emigrazione inter-imperiale che è necessaria tanto per lo sviluppo di alcuni Dominions, quanto per mitigare le conseguenze dell'eccesso di popolazione della Gran Bretagna; 4. assicurare le comunicazioni e la sicurezza militare ad un impero tanto vasto e di così varia natura.
Sorgono difficoltà per i contrasti fra le varie razze specialmente nei luoghi in cui coloni bianchi si stabiliscono là dove già esiste una popolazione indigena di razza di colore; un'altra causa di dissensi è data dalla scarsa soddisfazione che l'Impero accorda all'evoluzione dei governi autonomi presso i popoli non europei come è il caso dell'India.
Ogni proposta di collegare fra loro le varie parti dell'Impero con tariffe generali o tassazioni regolari, è stata finora respinta, e il principio di collaborazione volontaria e di mutua assistenza tende ad affermarsi.
Bibl.: C. P. Lucas, Historical Geography of the British Colonies, Oxford 1887 e seg.; A. J. Herberson, Oxford survey British Empire, Londra 1914; A. B. Keith, Constitution, Administration and Laws of British Empire, Londra 1924; H. E. Egerton, British Colonial Policy in the 20th Century, Londra 1922; C. Ilbert, Government of India, Londra 1922; M. Nathan, South African Commonwealth, Londra 1920; Lugard, The Dual Mandate in British Tropical Africa, Londra 1922.
Storia. - Alla fine del Medioevo, l'Inghilterra, non ancora unita con la Scozia, era un paese povero ed arretrato: industria inesistente, marina pressoché nulla, commercio interno ristretto e stagnante e commercio esterno in mano degli stranieri. Era un paese che non superava i quattro milioni di abitanti, produceva soltanto i viveri per sé e la lana per le industrie fiamminghe di Gand e di Bruges, vantava infine ben rare città, a non dire borgate anch'esse.
Ma le grandi scoperte geografiche, detronizzando il Mediterraneo dalla sua posizione di veicolo esclusivo degli scambî mondiali per mettere al suo posto l'Oceano Atlantico e l'Indiano, venivano a valorizzare potenzialmente la posizione geografica e la costituzione insulare dell'Inghilterra. Da lembo estremo del mondo civile, essa diventava un paese intermedio fra due continenti ed era tratta a fare del mare, fino allora soltanto baluardo (non sempre insuperato) contro le altrui invasioni, lo strumento primo della sua fortuna politica ed economica. Tuttavia, non inglesi ma stranieri son quelli che dischiudono all'Inghilterra i nuovi orizzonti marittimi: principalissimi, gl'italiani Giovanni e Sebastiano Caboto. Il primo di questi, scopriva nel 1497 l'isola di Terranuova e toccava nel Labrador lo stesso continente nord-americano prendendone possesso; il secondo, come "gran pilota di Inghilterra", contribuiva più d'ogni altro nei decennî successivi all'educazione marinara del paese. Che se pure gl'insuccessi delle spedizioni marittime; l'onnipotenza sul mare della Spagna e del Portogallo, che si erano diviso fra loro il mondo extra-europeo e per circa tre generazioni (1492-1580) se ne fecero un monopolio geloso; lo stesso carattere di principi non portati o per indole (Enrico VIII) o per età (Edoardo VI) a simili imprese, ritardavano i progressi dell'Inghilterra in tal campo; andavano però nel frattempo maturando le cause interne ed esterne, politiche e sociali, d'una vera espansione coloniale. All'interno, aumentava e, più ancora, si raccoglieva nei nuovi centri urbani la popolazione; sorgeva l'industria; affluivano elementi stranieri, olandesi in specie, cacciati di patria dalle persecuzioni religiose e politiche e portanti con sé i segreti delle loro industrie e i loro capitali. E si sviluppava progressivamente la marina, nella ricerca di nuove vie alle Indie per i passaggi di NE. e più ancora di NO., nella caccia proficua ai galeoni spagnoli carichi d'oro e d'argento, nel contrabbando coi paesi transoceanici delle corone di Castiglia e di Portogallo, nella pesca dei mari nordici d'Europa e d'America, nel commercio lucroso degli schiavi sulle coste dell'Africa. Infine le lotte politiche e religiose, insieme col malessere sociale provocato dalla rivoluzione agraria, avvenuta nel paese sulla fine del sec. XV (conversione dei terreni arati in pascoli per opera della classe feudale), spingevano fuori delle isole britanniche in copia crescente uomini attivi ed intraprendenti, decisi a crearsi oltre l'oceano una nuova patria: preludio, codesto, di quella emigrazione libera che costituirà il nerbo della colonizzazione britannica e la differenzierà, nei metodi, nei risultati, nella ricerca stessa delle terre occupabili, dalle altre colonizzazioni dell'epoca. All'estero, con l'avvento al trono di Elisabetta (1558), era la lotta contro la Spagna: lotta dapprima difensiva, in cui l'Inghilterra trova un'alleata naturale nella Francia, antica rivale della Spagna; poi, distrutta l'invincible armada (1588), offensiva. L'Inghilterra, con la Francia e, più, con l'Olanda, comincia a sgretolare sui mari e nei paesi extraeuropei il monopolio coloniale fino allora incontrastato della Spagna e del Portogallo. Nella prima lotta per l'esistenza nazionale contro il nemico esterno, l'Inghilterra trovava così, al pari dell'Olanda, la spinta più poderosa per la propria espansione.
È durante questa lotta invero che sir Humfrey Gilbert, esponente - con tutta probabilità - del ceto militare del paese, per sventare le minacce della Spagna contro il suolo inglese, pensava di prevenire l'avversario colpendolo al cuore, in quei paesi, cioè, americani, donde esso ricavava le sue risorse d'oro e d'argento. A tal fine, il Gilbert proponeva alla regina Elisabetta (6 novembre 1577) tutto un piano di attacco contro la Spagna nei paesi insulari e costieri del golfo del Messico (Cuba, San Domingo, Florida), al tempo stesso che suggeriva una più larga espansione inglese nelle regioni più settentrionali del Nord-America (possesso di Terranuova, fino allora comune con le sue pescherie a tutte le nazioni marinare d'Europa, e delle coste ad essa adiacenti). Il piano, cominciato ad attuare, in base a una patente regia, dallo stesso Gilbert e, morto lui sul mare, dal fratello uterino sir Walter Raleigh, non riusciva che in minima parte: la fondazione cioè, in Saint John di Terranuova, della prima comunità inglese, sia pure non permanente, nel nuovo mondo (1583); e la presa di possesso fittizia di qualcuna delle Piccole Antille e della Virginia (1584). Ma in esso era già colorito il disegno coloniale che nel secolo successivo doveva attuarsi. Contemporaneamente, sir Francis Drake, dando la caccia ai galeoni spagnoli, circumnavigava il globo (1577-80); e James Lancaster, con tre vascelli, moveva risolutamente alla volta delle Indie orientali per il Capo di Buona Speranza (1591), in spregio delle pretese iberiche di sbarramento degli oceani, precorrendo la prima spedizione olandese alle Indie e spronando i connazionali alla costituzione della "Compagnia inglese delle Indie orientali"; questa era fondata infatti, nel 1600, cioè due anni prima di quella omonima dell'Olanda (1602). Nell'intervallo, la regina Elisabetta riconosceva tre compagnie di "mercanti avventurieri": quella di Londra per il Marocco e stati barbareschi (1585), quella del Devonshire (1588) per il Senegal e la Gambia, quella per la costa fra la Gambia e la Sierra Leone (1592). Cominciava così la prima penetrazione inglese in quel continente, su cui, del resto, già il grande corsaro John Hawkins aveva iniziato il turpe commercio degli schiavi, la tratta africana (1562).
Le condizioni politiche interne dell'Inghilterra, dopo la morte di Elisabetta, non furono favorevoli alla realizzazione politica del programma della "Vergine regina"; ma all'azione coloniale dello stato, languente per tanta parte del Seicento, subentra vigorosa quella privata di individui e, più ancora, di gruppi o di associazioni (mercantili, finanziarie, filantropiche, confessionali), cui la Corona rilascia speciali "concessioni" o "carte" per l'esercizio del commercio e la giurisdizione sui sudditi biitannici, per l'occupazione coloniale, per l'organizzazione infine politico-amministrativa con poteri sovrani delle nuove comunità politiche sorgenti sotto l'egida britannica ("colonie a carta" o "colonie di proprietarî", contrapposte alle "colonie della Corona"). Due compagnie coloniali, quella di Londra e quella di Plymouth, cui era stata assegnata la costa atlantica (dal 34° al 38° lat. nord alla prima e dal 41° al 45° alla seconda), promuovono la colonizzazione inglese del Nord-America con lo stabilimento di Jamestown nella Virginia, per iniziativa della compagnia di Londra, 1607; mentre la spontanea iniziativa d'un gruppo di dissidenti religiosi, i Pellegrini puritani, Pilgrim Fathers, dava vita allo stabilimento di New Plymouth nella Nuova Inghilterra (1620). Occupate nel frattempo le Bermude (1619), punto d'appoggio sulla rotta marittima fra il vecchio e il nuovo continente, bucanieri inglesi, pirati e contrabbandieri a danno della Spagna, venivano annidandosi nelle Piccole Antille, ancora politicamente vacanti, dove sorgevano Barbados (1612), S. Cristoforo (1623), Nevis (1628), Montserrat e Antigua (1632), Santa Lucia e San Vincenzo (1632), Dominica, Tobago, ecc. Alcuni di questi stabilimenti già nella prima metà del '600 si svolgono in fiorenti colonie di piantagioni: ad esempio Barbados, centro già nel 1650 della produzione zuccheriera, arriverà in breve a una popolazione di 50.000 bianchi e 100.000 schiavi negri, così da meritarsi il nomignolo di Little England (piccola Inghilterra). Nella stessa epoca, gl'Inglesi porranno definitivamente il piede nell'America meridionale, cioè nella Guiana (1617-18), che rimarrà tuttavia, per secoli, in grande abbandono economico e demografico.
Nel continente africano, lungo la costa occidentale, vanno creandosi intanto, a scopo di commercio e, più, di tratta, i primi stabilimenti inglesi duraturi (nella Gambia anzitutto, concessa in amministrazione ad una nuova compagnia africana, dotata nel 1618 di carta regia; sulla Costa d'Oro e altrove); mentre nel continente asiatico comincia a svolgersi con ottimi risultati economici la penetrazione, marittima ancora e commerciale, anziché politico-territoriale, della East India Company, che, sorta nel 1600 col nome di "Governo e Compagnia dei mercanti di Londra trafficanti colle Indie Orientali", solo ora inizia una sua vera e propria attività. Essa è costretta a ritirarsi dalle isole della Sonda, di fronte alla concorrenza commerciale e alla potenza militare ancora insuperabile della compagnia olandese omonima, dopo il cosiddetto "giudizio di sangue" di Amboina (cattura e massacro, sia pure con le formalità giudiziarie, dei mercanti inglesi dell'isola: 1623; v.); ma concentra la sua azione nell'India anteriore, arrivando, prima della metà del secolo, a distribuire ai suoi azionisti dei dividendi varianti dal 100 al 200%.
Il programma coloniale della regina Elisabetta veniva ripreso, aggiornato e allargato, alla metà dello stesso secolo XVII, dalla prima rivoluzione inglese (1649-1660). La politica coloniale di Oliviero Cromwell può riassumersi nella emanazione dell'Atto di navigazione (1651); nella guerra vittoriosa contro l'Olanda (la pace di Westminster del 1654 dava all'Inghilterra, insieme con l'isola di Pulo-Run, nel gruppo insulare malese di Banda, la riparazione lungamente attesa del massacro di Amboina); in quella pure fruttuosa contro la Spagna (conquista militare della Giamaica, da parte dell'ammiraglio Penn nel 1655). La stessa restaurazione stuardica, nella seconda metà del Seicento, non arresterà il processo ormai inevitabile di rivalità con l'Olanda, i cui interessi coloniali contrastano ogni giorno più con quelli inglesi in tutte le parti del mondo: nelle Indie orientali, come sulle coste occidentali dell'Africa; nella Guiana, come nell'America Settentrionale, dove si erano sviluppati i cosiddetti Nuovi Paesi Bassi. La nuova guerra con l'Olanda, a differenza della precedente, terminava militarmente con la sconfitta dell'Inghilterra, ma la pace di Breda, stipulata il 30 giugno 1667, veniva conclusa sulla base dello statu quo del 20 maggio 1667: l'Inghilterra perdeva così Pulo-Run nella Malesia e veniva esclusa definitivamente dal commercio delle Molucche; ma guadagnava i Nuovi Paesi Bassi nel Nord-America, acquisto prezioso che le permetteva di unificare territorialmente tutta la costa atlantica di quel continente, dal Canada allora francese alla Florida, allora spagnola.
Un'altra breve guerra, determinata più che altro dalla supina acquiescenza di Carlo II Stuart alla volontà di Luigi XIV, chiudeva negli anni successivi (1670-74) la lotta anglo-olandese per il primato marittimo, dopo che si era chiusa, col trionfo parimenti dell'Inghilterra, anche quella anglo-spagnola. Il Trattato di Madrid del 1670, all'art. 7, riconosceva infatti all'Inghilterra il possesso di tutti i paesi occupati dalla corona inglese o dai sudditi di essa. Infranta così la superiorità marittima e coloniale ispano-portoghese e prossima al tramonto anche l'olandese, che immediatamente le era succeduta, veniva aprendosi la lotta coloniale anglofrancese. Dall'ascesa di Guglielmo III d'Orange al trono d'Inghilterra (1688), sino al 1763, il duello si proseguiva attraverso la guerra della grande alleanza, le guerre di successione di Spagna (1701-1714) e di Austria (1740-48) e la guerra dei Sette anni (1756-63).
Tre, in particolare, erano i teatri geografici della storica competizione per il primato marittimo e coloniale: il Nord-America, le Antille, l'India anteriore. Nell'America Settentrionale, il dominio coloniale francese, che si estendeva dagli stabilimenti pescherecci di Terranuova e dall'Acadia (Nuova Scozia) al Canada e poi, attraverso i Grandi Laghi, giù per la vallata e il bacino interno del Mississippi e dell'Ohio sino alla Luisiana (v. america, p. 934 segg.), veniva sgretolato e infranto, per opera più ancora che dell'Inghilterra, delle colonie inglesi del Nord-America. Nel 1760, il Canada stesso veniva definitivamente occupato dagl'Inglesi; e poiché la guerra dei Sette anni costava pure alla Spagna, unitasi in ultimo alla Francia (1762), la Florida, il forte di Sant'Agostino e la baia di Pensacola cioè i suoi ultimi possedimenti a est e a sud-est del Mississippi; così, dopo il trattato di Parigi (1763), l'Inghilterra rimaneva signora di tutto il Nord-America a oriente del Mississippi. Nell'America Centrale, le sorti anglo-francesi erano decise, a favore anche qui dell'Inghilterra, dal trattato di Utrecht (1713), che le riconosceva definitivamente quell'isola di San Cristoforo (St. Kitts), a più riprese occupata dalla Francia nel secolo precedente. In tal modo, alla Francia non rimanevano più, nelle Indie occidentali, che la Martinica, la Guadalupa e dipendenze, Grenada e il lembo occidentale di San Domingo; mentre l'Inghilterra vi possedeva, oltre alle Bahamas e alla grande isola di Giamaica, l'isola di Barbados, le Leward Islands (St. Kitts, Nevis, Montserrat, Antigua, Barbuda e Anguilla) e le adiacenti Isole della Vergine. Nell'India anteriore, infine, dove il duello, dapprima commerciale, fra le due compagnie rivali delle Indie - la francese e la inglese - si ampliava poi in lotta politico-territoriale fra le due potenze (v. india), il conflitto terminava con la rovina completa della Francia, la cui eredità territoriale (tranne gli stabilimenti costieri non fortificabili di Yanaon, Mahé, Pondichéry, Karikal, Chandernagor) passava all'Inghilterra, insieme con i disegni politici e i metodi coloniali più appropriati di espansione nel mondo indiano (1763).
Ultima venuta delle tre Potenze coloniali, che erano succedute nel dominio dei mari ai popoli iberici, l'Inghilterra era rimasta così, nel 1763, la predominante. Primeggiava sul mare. Era signora d'un vasto dominio riservato all'attività colonizzatrice della propria razza nell'America Settentrionale e sulla via di costituirsene un altro nell'India. Poteva quindi allargare il proprio orizzonte coloniale oltre il vecchio e il nuovo mondo, nell'emisfero australe in ispecie. Un'impresa scientifica, lo studio del passaggio di Venere sul disco solare il 3 giugno 1769, fenomeno astronomico raro, appieno osservabile allora in alcune zone del Pacifico meridionale, porgeva al governo inglese l'occasione di condurre delle esplorazioni geografiche, eventualmente a fini anche coloniali, in quella parte della superficie terrestre. La spedizione colà inviata agli ordini del navigatore Giacomo Cook, dopo aver visitato le Isole della Società e circumnavigato la Nuova Zelanda, risaliva da sud a nord la costa orientale di quel continente novissimo di cui l'Europa non conosceva vagamente che il nome, già datole dai navigatori olandesi (Nuova Olanda), e ne prendeva possesso per conto della corona inglese, denominandola Nuova Galles del Sud.
Ma, nel momento in cui i viaggi e le prese di possesso di Giacomo Cook lasciavano intravvedere all'Inghilterra nuovi campi di espansione coloniale nell'Australia, nella Nuova Zelanda, nella Columbia britannica, essa perdeva il più vasto e prezioso dei suoi dominî d'oltremare: le "Tredici colonie unite del Nord-America" emancipatesi dalla metropoli dopo un'aspra guerra (1776-1783). Conseguenza del contrasto insanabile fra quelle colonie, giunte ormai a maturità politica, e la metropoli, col suo regime sempre più duro di schiavitù economica, la guerra d'indipendenza d'America, nelle sue cause prime, lumeggia tutta quanta la politica coloniale seguita fino allora dall'Inghilterra. Incardinata teoricamente e praticamente nel mercantilismo; ispirata ai principî del cosiddetto patto coloniale; fondata sulla pretesa di escludere ogni altro popolo dal commercio con le proprie colonie (pretesa comune a tutti i popoli colonizzatori dell'Occidente, sino dall'epoca delle grandi scoperte geografiche), questa politica aveva trovato in Inghilterra le sue prime estrinsecazioni concrete, consapevoli, durature negli atti di navigazione della seconda metà del Seicento, intesi ad assicurare alla metropoli il commercio esterno delle colonie, dopo che l'"Atto di navigazione" del Cromwell del 1651 aveva colpito al cuore il commercio olandese coi porti inglesi. "Nessuna mercanzia sarà importata nelle piantagioni se non da vascelli inglesi, montati da equipaggio inglese, sotto pena di confisca", statuirà, subito dopo la restaurazione stuardica, il Parlamento-Covenant nell'"Atto di navigazione" del 1660, modificante quello precedente del Cromwell. Dall'esclusione dei bastimenti stranieri nei porti coloniali in forza del circuito obbligatorio, stabilito già in un nuovo "Atto" del 1663, per il quale tutte le mercanzie europee, anche se caricate su vascelli inglesi, non potevano esser trasportate nelle colonie se non partendo da porti inglesi e previo sbarco in questi delle merci; si passava alla divisione dei prodotti coloniali in due grandi categorie: merci elencate (enumerated commodities) e merci non elencate. La prima comprendeva i prodotti specifici delle colonie di piantagione (zucchero, tabacco, indaco, legno tintorio, droghe, caffè, cotone, ecc.); la seconda, tutte le altre. Per le merci della prima categoria, era fatto obbligo di trasportarle nella metropoli soltanto o nelle altre colonie britanniche, per averle così a più buon mercato; mentre per le altre si permetteva che fossero trasportate direttamente negli altri paesi. Si finì addirittura con l'ostacolare sistematicamente la stessa marina delle colonie ,scoraggiarne la pesca, soffocare infine con le imposte e con le proibizioni più assurde l'intero commercio intercoloniale. L'Inghilterra, in una parola, non si accontentava soltanto di essere il deposito dei prodotti più ricchi delle colonie e delle forniture per le colonie, danneggiando così queste in duplice modo (come produttrici e come consumatrici); ma voleva anche preservare la sua agricoltura dalla temibile concorrenza dei paesi nuovi e garantirsi contro ogni possibilità di concorrenza marittima delle colonie stesse.
Le misure restrittive della navigazione e del commercio coloniale, adottate o adombrate nei primi "Atti di navigazione" della seconda metà del Seicento e svolte in seguito, non erano però che l'avviamento a un più complesso ed organico sistema di monopolio coloniale, che si inaugurava, come effetto nell'onnipotenza del Parlamento inglese, dopo la rivoluzione costituzionale del 1688, e si basava sugli interessi permanenti dei mercanti, degli armatori, degli industriali, dei finanzieri inglesi, ben più temibili, per le colonie, che non l'egoismo e tutti i capricci e i favoritismi degli Stuarts. Nel 1696, gli affari delle piantagioni venivano confidati definitivamente al Board of trade and plantations (la matrice del futuro Colonial Office o Ministero inglese delle colonie) e per quasi un secolo e mezzo tutte le questioni concernenti gl'interessi materiali e quegli stessi morali e politici dei coloni vennero decisi dal punto di vista della convenienza economica della metropoli (cfr. america, p. 934 segg.). Tutti gli "Atti" anteriori, concedenti alla madrepatria qualche monopolio nel commercio delle colonie, furono rinnovati e, per garantirne la perfetta esecuzione, si proclamò rigorosamente l'autorità suprema del Parlamento in materia. Il mercantilismo coloniale del sec. XVII si sviluppava così nel XVIII, in un vero e proprio sistema completo, costituito di privilegi metropolitani ed anche (se questi erano utili alla metropoli) coloniali, di proibizioni cioè ed anche in certi casi di favori. Primi fra questi, ad es., i diritti doganali differenziali, intesi a proteggere sul mercato metropolitano i prodotti coloniali contro quelli similari stranieri. Metropoli e colonie, nella concezione teorica mercantilistica e nella politica britannica, venivano cioè considerate un tutto composto di due parti distinte: l'una, dove si producevano determinate materie prime e derrate alimentari speciali, l'altra dove si producevano soprattutto manufatti; e si pensava, con ottimismo molto interessato, che ambedue le parti dovessero avvantaggiarsi di un sistema per il quale l'Inghilterra consumasse solo le derrate e le materie prime coloniali prodotte dai coloni inglesi e questi consumassero solo i manufatti prodotti in Inghilterra. Era questo il "patto coloniale", sia pure unilaterale e coattivo. E sarà demolito più tardi, nella teoria prima che nella realtà economico-politica, da Adamo Smith e dalla scuola Iiberista. Dopo il monopolio mercantile e marittimo, l'interdizione gelosa alle colonie di ogni manifattura ed industria (tessile, laniera in particolare; e poi siderurgica, meccanica, navale, zuccheriera, ecc.) diventava col sec. XVIII la seconda pietra angolare del sistema, in corrispondenza non tanto con le premesse teoriche di esso, quanto con la progressiva industrializzazione dell'Inghilterra in quel secolo e con le esigenze sempre maggiori del capitale industriale inglese, venute ad aggiungersi ed allearsi con quelle del capitale marittimo e mercantile, prevalente nel secolo innanzi. Il partito Whig (liberale), esponente politico per eccellenza del capitale mobiliare, sarà di tale politica economica propulsore non meno accanito e spregiudicato di quello che fosse il partito Tory (conservatore), esponente politico invece del capitale fondiario, per il protezionismo agrario metropolitano; e gl'interessi dei due gruppi, antagonistici in patria, troveranno nelle colonie un campo naturale di facile e proficuo accomodamento a ribadire vieppiù le catene della servitù economica di esse. Contrastava apparentemente con le forme di questa politica economica restrittiva, mentre ne completava sostanzialmente il sistema, la grande libertà accordata nel Settecento alla tratta africana, sorgente inesauribile di mano d'opera negra e abbrutita. A parte i vantaggi di armatori e mercanti di schiavi, essa avrebbe confinato sempre più le colonie di clima caldo e suolo fertile nel campo della produzione agraria, allontanandole da quella produzione industriale che richiedeva mano d'opera di qualità superiore. Il titolo soltanto d'un anonimo opuscolo inglese dell'epoca: Il traffico degli schiavi affricani colonna e sostegno delle piantagioni inglesi in America basta a mettere in luce meridiana la connessione intima fra tratta, mercantilismo e sistema coloniale restrittivo.
Tirannica ed oppressiva, quanto e più di quella di altre nazioni colonizzatrici dell'epoca, nel campo economico (Adamo Smith definì la politica economica inglese di fronte alle colonie "una violazione manifesta dei diritti dell'umanità"), la politica coloniale dell'Inghilterra nel sec. XVII, e ancora nella prima metà del XVIII, era stata invece, a differenza di quella delle altre nazioni, quanto mai blanda e liberale nel campo amministrativo, tributario, legislativo e perfino politico: sia che le colonie fossero affidate a compagnie coloniali, sia, più ancora, che dipendessero direttamente dalla corona inglese. Il sistema di govemo coloniale rifuggiva in genere dall'assolutismo e dall'arbitrio; contemperava il potere, teoricamente pressoché illimitato del governatore, con la consultazione obbligatoria dei più alti funzionarî; l'assoggettamento politico della colonia col decentramento amministrativo di essa; l'eventuale prepotenza del governo metropolitano, con l'onnipotenza del Parlamento inglese. Rispettava, infine e soprattutto, gli usi, i costumi, la lingua, la religione degl'indigeni, e le libertà individuali e locali dei coloni: quelle libertà che ogni cittadino inglese portava seco oltre gli oceani, per sé e per i suoi discendenti. Tale sistema di governo culminava, naturalmente, nelle colonie inglesi di razza, in quelle cioè di clima temperato, dove erano sorte e cresciute le più fiorenti comunità britanniche. Figuravano tra queste, in prima linea, le colonie nord-americane, non solo pienamente autonome nel campo amministrativo, ma anche arbitre, con le loro assemblee rappresentative, della legislazione e perfino della tassazione locale. Ma con Giorgio III (1760), il governo inglese si accinse risolutamente a stringere i freni anche politicamente e ad imporre alle colonie la diretta dipendenza politica dalla metropoli. E allora dalle colonie americane prorompe - nella seconda metà del Settecento - la ribellione vittoriosa. Il trattato di Parigi del 1783, col quale l'Inghilterra riconosce l'indipendenza delle colonie d'America, non solo stroncava il vecchio impero britannico, al quale toglieva oltre 2 milioni di kmq. di superficie e una popolazione complessiva, fra bianchi e negri, di tre milioni e tre quarti circa di abitanti, di cui oltre due e mezzo di razza bianca; ma ne sovvertiva per il momento le stesse basi: da impero coloniale prevalentemente di razza bianca, esso diventava un impero in prevalenza di colore, mentre il suo centro di gravità si spostava dall'America all'India.
L'insurrezione delle "Tredici colonie unite" aveva chiamato a riscossa le antiche rivali dell'Inghilterra - la Francia, la Spagna e l'Olanda - che nel corso della guerra univano le loro armi a quelle degl'insorti americani, con la speranza di abbattere il predominio marittimo e coloniale inglese; ma le loro speranze rimanevano frustrate. Il trattato di Versailles, se toglieva all'Inghilterra qualche posizione vantaggiosa o qualche territorio di vecchio o di recente acquisto (la Florida nel Nord-America e Minorca nel Mediterraneo, restituite alla Spagna, quella dopo venti anni, questa dopo settantaquattro anni di occupazione inglese; Tobago, nelle Indie occidentali, ceduta alla Francia insieme col riconoscimento di qualche più esteso diritto di pesca e soggiorno per i suoi sudditi in Terranuova: perdite cui si contrapponeva l'acquisto di Negapatam nelle Indie, ceduta dall'Olanda insieme con la concessione ai sudditi inglesi di commerciare liberamente alle Indie olandesi), non distruggeva la preponderanza marittima e commerciale e tanto meno la potenza coloniale dell'Inghilterra. Questa, anzi, trovava nella perdita delle colonie americane lo stimolo, non già a modificare li per lì la sua politica economica restrittiva verso le colonie, ma bensì a procedere a nuove occupazioni coloniali, che la compensassero delle provincie perdute, sia nelle regioni ancora politicamente vacanti del mondo nuovo e novissimo, che per il clima temperato più si confacevano alla razza bianca, sia nelle popolose regioni meridionali dell'Asia o sulle coste dell'Africa più adatte alla espansione mercantile della metropoli. Erano queste l'Australia, di cui col 1788 si iniziava la colonizzazione penale, nelle condizioni territoriali più difficili che alcun'altra colonia antica o moderna avesse forse mai conosciuto; il Canada, di cui i nuovi coloni inglesi ampliavano rapidamente i confini effettivi, stanziandosi in massa nella regione dei Grandi Laghi; l'India anteriore, la cui conquista politico-territoriale da parte della Compagnia delle Indie orientali si faceva più netta e rapida; la penisola di Malacca, dove la compagnia predetta nel 1785 comprava da un principe indigeno l'isola di Penang, primo in ordine cronologico degli "Stabilimenti inglesi dello Stretto" (Streits settlements), eretto a minaccia commerciale del grande emporio di Malacca, ancora per poco (fino al 1795) in mano dell'Olanda; lo stabilimento infine della Sierra Leone (1787), fondato sulla costa del continente nero, non più - come i precedenti - per condurvi il commercio degli schiavi, ma per raccogliervi i negri liberati dalla schiavitù; preludio codesto della vasta impresa abolizionista, con la quale l'Inghilterra cercherà di riscattare la colpa e le infamie dello schiavismo da lei prima esercitato in quel continente.
Non è esagerazione pertanto affermare che il decennio (1783-1793) corso fra la perdita delle colonie americane e lo scoppio della nuova guerra contro la Francia, abbozzava i contorni dell'impero Britannico del secolo successivo. L'avvenire di esso riposava però su quella sicurezza dei mari che l'Inghilterra si era guadagnata a prezzo d'una lotta secolare con la Spagna, l'Olanda, e la Francia; e tale sicurezza veniva messa ancora una volta a duro cimento nel ventennio successivo, in cui la Francia rivoluzionaria e imperiale, assai più temibile di quella assolutista dell'ancien régime, tentava l'ultima prova storica contro la rivale britannica, in tutti i mari e su tutti i continenti. Nonché l'impero coloniale nei punti suoi più vitali (dalle Indie alle Antille, dal Mediterraneo all'Oceano Indiano), la vita commerciale e la stessa esistenza fisica della nazione britannica venivano allora minacciate e insidiate. La lotta immane terminava però non solo con la sconfitta della Francia e la liquidazione del suo primo impero coloniale, ma altresì con la sconfitta delle Potenze coloniali, che di buono o cattivo grado avevano dovuto seguirne le vicende, la Spagna e l'Olanda. Sulle colonie di questi due stati l'Inghilterra si gettava non meno che sulle francesi ad arricchire di nuove gemme la sua corona imperiale. Lungo le coste africane, essa toglieva all'Olanda il Capo di Buona Speranza (1795 una prima volta e 1806 definitivamente), chiave della via marittima alle Indie, sino all'apertura del canale di Suez nel 1869; e alla Francia l'isola di Maurizio (1810). Nel Mediterraneo, occupava il gruppo insulare di Malta (1798), che teneva poi definitivamente, nonostante i patti in contrario di Amiens del 1802, e assumeva il protettorato della repubblica delle Isole Ionie (che terrà poi fino al 1863, anno della cessione alla Grecia); allo stesso modo che, nel Mare del Nord, si installava nell'isolotto di Helgoland (che terrà fino al 1890, anno della cessione alla Germania). Nell'America occupava la parte occidentale della Guiana olandese; toglieva definitivamente Trinidad alla Spagna (1795), per ritorsione contro la cessione alla Francia di San Domingo spagnola, nella pace di quell'anno tra Francia e Spagna; teneva per sé anche quella parte (Tobago e Santa Lucia) delle Piccole Antille cosiddette "neutrali", che, nella divisione fatta col trattato del 1783, erano state riconosciute alla Francia, risolvendo definitivamente in proprio favore la questione delle isole "neutrali" delle Indie occidentali, che si trascinava dai primi del Seicento. Nell'Asia meridionale, infine, strappava all'Olanda, oltre a Cochin, l'isola di Ceylon, mentre conduceva innanzi indisturbata la conquista dell'India anteriore, dove il dominio britannico diretto aggiungeva - ai 436.200 kmq. di area acquistata col Bengala nel 1765 - altri 431.000 nel 1799, col debellamento del Mysore, e altri 268.400 ancora nel 1818, in connessione e conseguenza delle lotte coi Maratti. Così l'Inghilterra usciva dalla grande crisi con un debito pubblico ragguagliabile in circa venti miliardi di lire italiane oro, cifra per l'epoca formidabile; ma anche in possesso di una posizione di monopolio mondiale nella navigazione, nel commercio, nelle industrie, nella finanza, che conserverà poi indisturbata per oltre mezzo secolo, e di un impero coloniale popolato ormai da circa 126 milioni di abitanti (340.000 in Europa; 124.000.000 in Asia, 243.500 in Africa, 1.599.850 in America, 25.050 in Australia). Impero gigantesco, non per quel che esso era allora, ma per la potenzialità sua di sviluppo territoriale e demografico in quattro continenti (America, Africa, Asia, Australia).
Ed ecco, infatti, nei decennî immediatamente successivi, la Gran Bretagna procedere all'occupazione pacifica d'un intero continente, l'Australia, dove, accanto alla colonia-madre della Nuova Galles del Sud, vanno sorgendo e sviluppandosi gli stabilimenti coloniali di Brisbane (il futuro Queensland: 1824), della Tasmania (1824), dell'Australia occidentale (1829), di Victoria (1836), dell'Australia meridionale (1836); e all'occupazione della Nuova Zelanda (1840); mentre, con non dissimile processo di occupazione coloniale pacifica, nell'America Settentrionale il dominio inglese diretto (sviluppo delle due colonie del Basso e più dell'Alto Canada) o indiretto (territorî sottoposti alla Compagnia della Baia d'Hudson) va estendendosi dall'Atlantico al Pacifico, dai confini settentrionali degli Stati Uniti alle estreme terre polari, se ne togli l'Alaska, posseduta dalla Russia e da questa ceduta nel 1867 agli Stati Uniti. Né diverso il risultato di espansione etnico-territoriale nell'Africa meridionale, conseguito attraverso a fiere lotte con gli Ottentotti e coi Cafri: si raddoppia l'antica colonia del Capo e si aggiunge ad essa quella del Natal; mentre nuovi campi di espansione sono preparati dalle ritirate successive di quei Boeri, che al dominio inglese non sanno adattarsi, e dall'opera dei missionari protestanti, battistrada religiosi e politici a un tempo della penetrazione britannica nel cuore dell'Africa. Il missionario Roberto Moffat dischiude all'Inghilterra i territorî remoti dei Bechuana e dei Matabele; il genero di lui, Davide Livingstone, scopre lo Zambesi e si spinge fino al lago Nyassa e al Tanganika, ricongiungendo così - a vantaggio della futura espansione coloniale britannica nell'Africa centrale ed orientale - l'opera sua a quella delle spedizioni geografico-politiche inglesi di Burton e Speke (1857-59), di Speke e Grant (1860-63), dirette verso le sorgenti del Nilo. Nell'Africa occidentale (1843) l'Inghilterra raccoglie e organizza in un'unica colonia gli stabilimenti fondati alla Costa d'Oro, arricchendola nel 1850 delle antiche fattorie danesi e nel 1871 di quelle olandesi; e fonda nel 1863 lo stabilimento di Lagos. In Asia, nel frattempo, si completa la conquista colossale dell'India anteriore (occupazione del Sind, 1843, e del Panjab, 1846-49, che porta il confine occidentale alle frontiere naturali della penisola), con un'aggiunta non indifferente di India posteriore o transgangetica (conquista della Bassa Birmania 1852); e, sventato il pericolo mortale dell'insurrezione militare indigena dei Sipahi, si consolida il possesso dell'immensa colonia instaurandovi il governo diretto dell'Inghilterra (1858), che sostituisce quello della East India Company, sciolta dopo oltre due secoli e mezzo di feconda esistenza (1600-1858). Nel 1876 si crea l'Impero Indiano. Nella Malesia, sir Stamford Raffles, con intuito felice, sceglie Singapore (1819) a sede del commercio inglese dell'Estremo Oriente; e cinque anni dopo, il governo britannico, procedendo col trattato del 17 marzo 1824 a una liquidazione amichevole delle secolari vertenze anglo-olandesi nei mari dell'Asia e a una definizione delle sfere d'influenza rispettive delle due nazioni, si fa cedere dall'Olanda, in cambio di Bencoolen ed altri possessi della Compagnia inglese delle Indie Orientali sulla costa occidentale di Sumatra, lo stabilimento di Malacca che, insieme con Giava, l'Inghilteria aveva tenuto già dal 1795 al 1818. A tali possessi si aggiungerà nel 1846 l'isoletta di Labuan, per il commercio con Borneo. Nella Cina, infine, si abbattono dall'Inghilterra, con la cosiddetta "guerra dell'oppio" (1839-42), le barriere elevate contro gli occidentali e si fonda Hong-Kong (1840). Nel 1841, quando per la prima volta si hanno dati complessivi attendibili e comparabili, l'Impero Britannico, si estende già, fra madrepatria e colonie, su 8.526.641 miglia quadrate inglesi (kmq. 23.085.000) di area, con una popolazione di oltre 203 milioni di abitanti: area e popolazione che crescono rispettivamente a 8.778.241 miglia e a 241 milioni scarsi nel 1851; a 8.810.413 e a più di 258 e mezzo nel 1861; ad 8.813.833 e a circa 280 e tre quarti nel 1871.
È colonizzazione di razza, nei paesi temperati dell'America Settentrionale, dell'Africa meridionale, dell'Australasia. Gl'indigeni vengono combattuti, spossessati del loro suolo e costretti così, automaticamente, a servire i bianchi (Sud-Africa), quando non possono essere confinati in particolari riserve territoriali (come nel Canada) o addirittura distrutti sistematicamente (come in Australia e Tasmania); mentre i coloni europei di altra nazionalità, preesistenti al dominio inglese (francesi, spagnoli, olandesi), o si fondono coi nuovi venuti, o terminano con l'accettare lealmente il dominio inglese (Basso Canada ad esempio) o infine si ritirano verso l'interno (Boeri del Capo), facendosi essi stessi per tal modo strumenti involontarî dell'ulteriore avanzata anglosassone. È, invece, dominazione politica e sfruttamento economico nei paesi tropicali e subtropicali dell'Asia meridionale e, più tardi, dell'Africa intertropicale. È, infine, semplice penetrazione commerciale, non aborrente dove occorra dalla coazione politica e dalla fondazione di stabilimenti coloniali di appoggio, di difesa, di scambio, nei paesi di densa popolazione e di antica civiltà dell'Estremo Oriente.
Le nuove forze di espansione, che l'incremento incessante della popolazione, dell'industria, del commercio, della marina, dell'accumulazione capitalistica sprigiona dalla madrepatria nel periodo intercorrente tra la fine della Rivoluzione francese e la guerra franco-germanica (1815-1870), spiegano lo slancio meraviglioso e la varietà di forme della colonizzazione inglese in quest'epoca; al tempo stesso che la posizione economica internazionale, conseguita dall'Inghilterra nello stesso periodo, spiega la nuova politica coloniale. L'ormai incontrastata superiorità, non solo coloniale e marittima ma anche commerciale, industriale e finanziaria, conseguita su tutti gli altri paesi del mondo, dà all'Inghilterra, col sec. XIX, una specie di monopolio economico naturale della navigazione, del commercio, dell'industria, della finanza, senza bisogno - nonché di violente coazioni politico-militari - di artifici doganali o legislativi. Essa può deporre via via in patria e nelle colonie quell'armatura protezionistica, che ormai le è di impaccio più che di difesa; quell'armamentario di leggi e decreti che era venuta fabbricandosi nel corso dei secoli a difesa della marina, del commercio, della produzione nazionale dapprima, a salvaguatdia in seguito del mercato coloniale riservato alle industrie nazionali. Nel mercato coloniale, come su quello interno, essa non ha più da temere la concorrenza straniera; l'apertura del mercato interno porta con sé logicamente l'apertura del mercato coloniale; lo sviluppo di questo, in qualsiasi campo economico, diventa una nuova ragione di prosperità anziché una minaccia per l'altro. Mentre, così, l'Inghilterra economica, tra la fine del Settecento e la metà dell'Ottocento, va instaurando gradualmente quel libero scambio, che culminerà nel 1846 con la legge di Peel abolitiva del dazio sui grani e nel 1849 con l'abolizione degli Atti di navigazione; l'Inghilterra coloniale subisce per volontà e nel beninteso interesse della metropoli, tutta una trasformazione profonda dei suoi ordinamenti economici (regime del lavoro, nelle colonie di piantagione in ispecie; regime fondiario; regime marittimo, commerciale e industriale) e di quegli stessi amministrativi e politici.
Quattro sono gli elementi costitutivi precipui e i capisaldi di quella che può chiamarsi la "riforma coloniale inglese dell'Ottocento", cioè di quella nuova politica coloniale britannica che sopravviverà alle condizioni storiche che l'avevano promossa: a) l'abolizione della tratta o commercio degli schiavi (1807-1812) e della stessa schiavitù (1834-40); b) la nuova politica fondiaria, caratterizzata dall'abbandono del sistema delle enormi concessioni gratuite di terre, dalla vendita di queste a un prezzo relativamente elevato, dall'impiego del provento nel sussidiare l'immigrazione, secondo un processo di associazione coattiva della mano d'opera col capitale, al quale il fondatore della scuola, il Wakefield, darà il nome di "colonizzazione sistematica" (1830-1850), dalla subordinazione dell'area venduta o concessa alla disponibilità di capitale e di mano d'opera del concessionario, per arrivare, senza pregiudizio delle altre forme di alienazione delle terre, alla concessione, gratuita sì ma condizionata, di esse al lavoratore diretto; c) l'abolizione graduale del patto coloniale (deroghe sempre più estese alle norme sulla navigazione e sul commercio nelle colonie, 1822-25, soppressione del protezionismo agricolo coloniale e vantaggio dei consumatori metropolitani, 1846, abolizione infine degli atti di navigazione e apertura dell'immenso impero britannico al commercio mondiale, 1849); d) l'autonomia coloniale. Questa significa l'introduzione di forme sempre più larghe di reggimento politico, in tutte indistintamente le colonie, col progredire della loro vita economica e sociale; la sostituzione sempre più larga del sistema politico rappresentativo a quello puramente amministrativo nelle colonie, fino ad arrivare nelle colonie di popolamento bianco alla concessione di un governo responsabile non davanti alla madrepatria, ma alla rappresentanza elettiva della stessa colonia, cioè all'adozione anche nelle colonie del governo parlamentare inglese. Primo esempio, il Canada, nel 1846; quindi, la Nuova Scozia e il Nuovo Brunswick nel 1848, le colonie dell'Australia, meno l'Australia occidentale, e la Nuova Zelanda fra il 1850 e il 1855, il Capo di Buona Speranza nel 1872, il Natal nel 1892, le stesse colonie boere dell'Orange e del Transvaal nel 1906-1907, per quanto sottomesse da pochi anni soltanto e al prezzo di lotta cruentissima. Lo stesso Impero delle Indie riceve, nel 1909, con un maggiore decentranento provinciale, istituzioni parzialmente rappresentative di governo centrale. La politica coloniale dei secoli precedenti, imperniata economicamente e politicamente sul mercantilismo, cede ormai definitivamente il posto, in Inghilterra, alla nuova, imperniata economicamente e, per riflesso, politicamente sul liberismo; e il paese che aveva più sistematicamente e completamente di ogni altro in Europa elaborato con freddo cinismo il vecchio regime coloniale di oppressione economica, non aliena, se necessaria ai suoi fini, dall'oppressione politica, diventerà l'antesignano del nuovo regime a base di libertà economica e di autonomia amministrativa e perfino politica (self government).
Mentre però questa trasformazione radicale di tutti i rapporti economici, amministrativi e politici fra l'Inghilterra e le sue colonie si compie, la posizione privilegiata goduta dalla Gran Bretagna nel mondo per oltre mezzo secolo comincia a mutare. Il suo monopolio marittimo, commerciale, industriale, finanziario, dopo il 1870 va declinando e tramonta con la fine del secolo, pure continuando il progresso assoluto del paese e pure mantenendo ancora l'Inghilterra sino alla guerra mondiale (1914-18) una superiorità più o meno sensibile su tutti gli altri grandi paesi commerciali del mondo. E se, nel campo economico, l'industrializzazione progressiva e l'espansione commerciale e marittima di altri paesi - la Germania in prima linea, gli Stati Uniti, il Belgio, la Francia - le creano competitori o rivali addirittura in tutti i mercati, non esclusi quello coloniale e perfino quello stesso nazionale interno; nel campo coloniale, altre potenze, vecchie e nuove alla colonizzazione - la Russia, la Francia e la Germania in prima linea, e in grado minore tutte, più o meno le altre, dal Belgio agli Stati Uniti, dal Portogallo all'Italia, dalla Spagna al Giappone - aspirano, per ragioni politiche o demografiche od economiche, a costituirsi dei possessi territoriali nelle regioni dei continenti extra-europei ancora vacanti giuridicamente. Occupate già l'Australia e la Nuova Zelanda, presidiate le Americhe dalla dottrina di Monroe e dalla forza incipiente degli Stati Uniti; l'Africa, di cui ancora al 1876 l'occupazione coloniale effettiva non oltrepassava alcune zone costiere, diventava così - in una coi popolosi mercati dell'Estremo Oriente e coi punti di appoggio insulari del Pacifico - l'oggetto delle maggiori competizioni coloniali; dopo che le grandi scoperte geografiche dei bacini del Niger, dello Zambesi, del Nilo e soprattutto del Congo ne rivelavano al mondo civile l'interno.
Il 1876, data della scoperta del Congo, può infatti essere assunto come inizio del nuovo febbrile periodo di espansione coloniale. Se la guerra franco-germanica chiude per l'Occidente, nel campo politico, il periodo storico dell'equilibrio europeo ed apre quello dell'equilibrio mondiale degli stati; il 1876 apre, nel campo coloniale, l'epoca dell'arrembaggio africano. L' Inghilterra, dapprima, non aveva voluto approfittare della scoperta congolese dello Stanley e si adattava qualche anno dopo (1881) alla retrocessione ai Boeri del Transvaal, occupato dal 1877. Ma nell'ultimo ventennio del secolo anch'essa era costretta dalla forza degli eventi mondiali a prendere parte attivissima alla spartizione dell'Africa, o direttamente, o, più spesso, per il tramite di "compagnie a carta", cioè compagnie coloniali a poteri sovrani, emanazione dell'attività coloniale privata o tutt'al più ufficiosa. Queste compagnie risorgono un'altra volta a rappresentare una parte di prim'ordine nella storia coloniale britannica (British North Borneo Company, 1881; Royal Niger Company, 1886; Imperial British East Africa Company, 1888; British South Africa Company, 1889). Di fronte al dilemma "o lasciarsi prevenire da altri nei territorî estra-europei ancora vacanti o allargare ulteriormente i limiti dell'Impero"; di fronte alla minaccia di vedersi compromessa nelle stesse posizioni già conquistate nel passato, l'Inghilterra non poteva esitare. L'imperialismo territoriale, che in fondo non era mai morto nella coscienza del paese, del partito conservatore in ispecie, per il quale esso era sempre dogma e missione, diventava un'altra volta il propulsore cosciente della politica estera dell'Inghilterra, facendo dell'ultimo ventennio dell'era vittoriana un periodo di espansione superiore a quella stessa del primo ventennio di regno della gloriosa regina. L'Egitto (1882), il Somaliland britannico (1884), il Bechuanaland (1884), l'Africa Orientale Inglese (1887-89), Zanzibar (1890), l'Africa Centrale Inglese (1891), la Nigeria inglese (1880-1890), la Rhodesia (1889-91), l'Uganda (1894), il Sūdān anglo-egiziano (1899), l'Orange (1900) e il Transvaal (1902) nell'Africa; il Belūcistān (1879) nell'Asia; la Nuova Guinea inglese (1884) nell'Oceania, venivano ad aggiungersi, sotto una o altra forma politica, in una o altra veste giuridica internazionale, all'Impero Britannico. L'occupazione di Cipro (1878) aveva nel medesimo tempo rafforzato la posizione dell'Inghilterra nel Mediterraneo; l'assunzione dei protettorati di Perak, Selangor e Sungei Ujong (1874), iniziato la marcia nella penisola di Malacca; l'occupazione finalmente delle Fiji (1874), costituito un nuovo punto d'appoggio nel Pacifico. Così l'Impero Britannico, che durante il periodo della politica coloniale di raccoglimento, caratterizzato dalla concezione liberista della cosiddetta Little England (Piccola Inghilterra), nel trentennio 1851-1881, era aumentato soltanto di 87.104 miglia quadrate inglesi e di circa 65 milioni di abitanti, nel trentennio successivo (1881-1911) aumenta di ben 2.465.898 miglia quadrate inglesi e di 112 milioni di ab.; da 8.865.345 miglia quadrate inglesi fra madrepatria e colonie e da oltre 306 milioni di ab. nel 1881, esso passa rispettivamente a 9.598.726 miglia ed a quasi 347 milioni di ab. nel 1891; a 11.141.971 e a quasi 385 1/2 nel 1901; a 11.331.243 e a circa 418 3/4 nel 1911.
Le scoperte scientifiche e tecniche venivano intanto a stringere insieme le parti disseminate del gigantesco dominio, prospettando possibilità economiche di sviluppo e perfino possibilità politiche di ordinamenti istituzionali federativi su basi rappresentative che per gli imperi mondiali del passato (dal romano nell'antichità allo spagnolo nell'epoca moderna) erano stati, nonché attuabili, inconcepibili per le distanze geografiche. Già dal 1837, infatti, si era iniziato un primo servizio regolare di navigazione a vapore fra la Gran Bretagna e l'America inglese; e i due paesi anglosassoni, un ventennio dopo (1858), venivano congiunti anche con un cavo sottomarino. Nel 1852 si erano istituite le prime linee regolari di navigazione a vapore con l'Australia, che vent'anni dopo (1872) veniva anch'essa congiunta alla madrepatria con linee telegrafiche sottomarine dirette. Il 1869 vedeva col taglio dell'istmo di Suez abbreviarsi di molto la via marittima alle Indie; e nel 1879 veniva posato il cavo sottomarino diretto fra il Sudafrica inglese e la madrepatria. All'interno, poi, dei singoli dominî coloniali, si moltiplicavano le ferrovie locali e transcontinentali: i pochi chilometri di ferrovie, che - solo fra tutte le colonie inglesi d'oltremare - possedeva il Canada all'aprirsi dell'era vittoriana (1837), saranno al chiudersi di essa (1901) un centinaio di migliaia all'incirca. Questo sviluppo rapido e grandioso delle vie e dei mezzi di comunicazione e di trasporto, promoverà, insieme con l'aumento dell'immigrazione e l'investimento dei capitali, lo sviluppo economico delle singole parti dell'Impero; avvicinerà la madrepatria alle colonie più lontane, fonderà insieme, finalmente, in organismi coloniali sempre più vasti e ad un tempo compatti, le singole dipendenze inglesi, schiudendo l'era delle grandi confederazioni coloniali autonome, delle nazioni federate nell'Impero Britannico. Essa si apriva con la costituzione del Dominion of Canada nel 1867, cui teneva dietro nel 1900 quella del Commonwealth of Australia e nel 1909 quella della Union of South Africa.
Il duplice movimento di espansione e di unificazione coloniale trovava un impulso, e ne era in ugual tempo causa, in quel sentimento nuovo imperiale, che le mutate circostanze storiche ravvivavano nella società inglese durante l'ultima generazione; mentre la nuova più difficile situazione economica dell'Inghilterra nel mondo dopo il 1870 portava verso concezioni imperialiste non più soltanto politiche ma anche economiche. Lo spirito della Little England, che, salvo rari intervalli, aveva dominato la politica coloniale inglese per un'intera generazione dopo il trionfo del libero scambio, era ancora così vivo nel 1880, al ritorno del Gladstone al potere, che un famoso pamphlet, dal titolo British Colonial Policy, diffuso a piene mani dalla National Liberal Federation, dichiarava interesse della Gran Bretagna "astenersi da ulteriori allargamenti territoriali, anzi spingere a questi gli altri stati per indebolirli economicamente e politicamente con la dispersione delle loro forze". E il pamphlet poteva passare non solo in Inghilterra, ma perfino all'estero, come il programma nazionale autorizzato in materia coloniale. Ma questo spirito anticoloniale, insito nel liberalismo manchesteriano, che si traduceva in una politica di quietistico astensionismo e in una concezione fatalistica delle colonie "frutto destinato a staccarsi dall'albero" anziché patrimonio sacro e intangibile dell'Impero, cedeva rapido il posto a quello della Greater England, della "più grande Inghilterra". Pensatori insigni (dal Carlyle al Dilke ed al Seeley) avevano imposto la nuova concezione all'attenzione del mondo britannico, metropolitano e coloniale; uno statista profetico (il romantico Disraeli) l'aveva già prima del 1880 trasfusa nella sua politica imperialista; un poeta dell'Impero, Rudyard Kipling, doveva renderla popolare.
Il nuovo imperialismo differiva però dall'antico negli spiriti e nelle forme, come le nuove necessità coloniali della metropoli differivano dalle antiche. Più che di allargare un impero mondiale già troppo vasto, si trattava oramai di meglio utilizzarlo ai fini commerciali della vecchia Inghilterra, ogni giorno più combattuta sui mercati stranieri, allacciando più stretti legami economici fra madrepatria e colonie, di sviluppare ed armonizzare in un tutto compatto le forze militari ai fini della comune difesa; di promuovere una più intima unione materiale e morale fra le parti costitutive di esso, mediante una federazione imperiale assorbente metropoli e colonie in un nuovo tipo di stato frazionato geograficamente, ma non politicamente, dagli oceani. Primi passi su questa via erano le conferenze coloniali, seguite da quelle imperiali. Cominciavano le prime con la conferenza dei rappresentanti delle colonie autonome, convocati a Londra nel 1887 dal governo inglese (diretto allora da lord Salisbury) in occasione del 10° anno di regno della regina Vittoria, per trattare (sia pure con carattere consultivo soltanto) tutta una serie di questioni commerciali, giuridiche, diplomatiche, militari, interessanti le singole colonie e l'Impero nel suo complesso. Ad essa facevan seguito la conferenza di Ottawa del 1894, tenuta ad iniziativa di governi coloniali (il canadese e l'australiano), la quale affermava in linea di massima l'opportunità di tariffe doganali preferenziali a vantaggio delle merci metropolitane sulle straniere nelle colonie autonome; e la conferenza tenuta a Londra nel 1897, in occasione del Diamond Jubilee (giubileo di diamanti) della regina Vittoria, per esaminare, sulla direttiva del neo-imperialismo unionista del Chamberlain, il problema dell'unione imperiale sotto gli aspetti suoi più importanti e delicati (doganale, militare, politico). Da questa conferenza usciva il voto, dalla madrepatria accolto ed effettivamente applicato nei riguardi della Germania e del Belgio, per la denuncia dei trattati commerciali, i quali con la "clausola della nazione più favorita" ostacolassero la libertà di disciplinare in modo autonomo le relazioni commerciali tra la Gran Bretagna e le sue colonie. L'incoronazione del nuovo monarca Edoardo VII, consacrato dal Parlamento britannico "re di tutti i dominî britannici d'oltremare" a riconoscimento della nuova posizione politica dei Dominî o colonie autonome nel seno dell'Impero, porgeva occasione a convocare a Londra nel 1902 - nell'atmosfera vibrante della vittoria riportata con lo spontaneo concorso anche delle armi coloniali canadesi e australiane nella guerra tipicamente imperialista contro i Boeri - una terza conferenza coloniale: conferenza importante soprattutto per la risoluzione votata circa la convenienza per l'Impero di convocare ad intervalli non superiori a quattro anni conferenze del genere per trattare di comune accordo "le questioni d'interesse comune relative ai rapporti fra la madrepatria e i dominî di Sua Maestà". Con questo carattere di periodicità le conferenze coloniali, fino allora occasionali, assumevano così il grado di organo regolare, di tipo quasi diplomatico, della costituzione imperiale britannica in via ormai di elaborazione. Tale la quarta ed ultima conferenza coloniale di Londra del 1907. Questa - convocata dai liberali, tornati al potere nel dicembre 1905 dopo circa un ventennio di quasi ininterrotto governo conservatore imperialista - allentava in apparenza più che conservarli i legami giuridici dell'Impero, con l'emancipare le colonie autonome dalla tutela del Colonial Office o Ministero inglese delle colonie (esso veniva allora diviso in tre branche: Dominions Department, Crown Colonies Department, General Department, di cui la prima veniva unita col Segretariato permanente delle Conferenze imperiali); ma appunto perciò affrettava la marcia costituzionale sulla via dall'"Isola" all'"Impero" dando alle colonie autonome il riconoscimento formale della loro eguaglianza di principio, se non ancora di fatto, col Regno Unito, divenuto primus inter pares, anziché arbitro assoluto, col suo Parlamento, degli altri membri politico-territoriali dell'Impero.
La nuova serie delle conferenze imperiali s'inaugurava con quella di Londra del 1911, in occasione dell'incoronazione del nuovo re Giorgio V. Delle tre forme che rivestiva l'imperialismo inglese dell'epoca (la forma politica mirante a formare una costituzione imperiale britannica di tipo preferibilmente federale; la forma economica mirante alla costituzione d'un mercato imperiale unico sulla base del libero scambio interimperiale o, quanto meno, di una politica doganale preferenziale nei rapporti fra le singole parti dell'Impero; la forma militare, infine, mirante all'unità organica di difesa dell'Impero contro l'estero), la terza soltanto (in coerenza con le idee tutt'altro che imperialiste prevalenti in seno al partito liberale al potere) faceva nella conferenza di Londra del 1911 un qualche progresso sensibile mediante la creazione d'un Comitato di difesa imperiale: ultimo passo sulla via dell'evoluzione dell'Impero verso un'organizzazione federale prima della guerra mondiale.
La difesa, sia pure preventiva, dell'Impero Britannico contro gli opposti imperialismi, che un'altra volta nella storia lo minacciavano. costituì uno dei fattori fondamentali e decisivi di tale guerra, nelle cause, nello svolgimento, negli effetti di essa. I nuovi grandiosi acquisti coloniali, che l'Inghilterra aveva fatto nell'ultimo ventennio dell'era vittoriana, non si erano attuati in un'atmosfera internazionale di calma, come quelli del primo ventennio della stessa era, ma in un'atmosfera quanto mai burrascosa di competizioni e rivalità, se non ancora di conflitti violenti con le armi. Si riaccendeva tra l'Inghilterra e la Francia l'antica rivalità coloniale, che sembrava tramontata col primo Impero napoleonico; mentre s'intensificava quella con la Russia, e se ne veniva delineando una terza più inquietante ancora con la Germania, la nazione più potente dal punto di vista politico-militare, più espansiva da quello demografico-economico. Mentre, anzi, la lotta con la Francia verte di preferenza sulla spartizione del continente africano, minacciando a più riprese, ma soprattutto sul cadere del secolo (1898), di prorompere in conflitto aperto, e quella con la Russia s'impernia principalmente sulle tre questioni d'Oriepte (Oriente Europeo, Medio Oriente ed Estremo Oriente); la lotta con la Germania assume natura e carattere sempre più vasti e generali di mano in mano che questa intensifica la penetrazione economica cominciando ad attuare la sua politica mondiale (Weltpolitik), e a realizzare la sua aspirazione a costituire un impero estraeuropeo, di cui non solo l'eredità olandese e i dominî portoghesi, ma le stesse colonie inglesi avrebbero dovuto diventare parte integrante. Il predominio marittimo e coloniale che l'Inghilterra aveva conseguito in due secoli di lotta con la Spagna, l'Olanda e la Francia e che aveva poi mantenuto indisturbato per gran parte del sec. XIX, veniva minacciato in modo diretto dalla nazione che alle maggiori forze di espansione coloniale e alla piu̇ deliberata volontà imperialistica di dominio universale accoppiava ormai non solo le maggiori, meglio agguerrite e preparate forze militari del mondo per terra, ma benanche la più formidabile flotta sul mare, dopo quella inglese.
Il regno della regina Vittoria (1837-1901), che aveva segnato l'apice della preponderanza mondiale dell'Inghilterra, si chiudeva cosi con la minaccia incombente del più grave pericolo, forse, che l'Impero avesse mai corso; ed il breve ma utile regno di Edoardo VII (1901-1910), durante il quale la gara febbrile degli armamenti navali fra Germania ed Inghilterra assumeva ormai il carattere di una vera lotta non ancora cruenta per il primato mondiale fra due imperialismi, rappresentava la ricerca, nelle intese diplomatiche e nei nuovi orientamenti coloniali, di quelle difese supreme dell'Impero Britannico, di cui la storia doveva affidare l'utilizzazione al successore di lui, Giorgio V. Dalla prova della grande guerra, l'Inghilterra, assecondata da tutti i suoi possedimenti, di razza e di colore, usciva ancora una volta, nonché immune, ingrandita di territorî, di potenza e influenza nel mondo. Fondato sulle rovine degl'imperi coloniali che l'avevano preceduto - lo spagnolo, l'olandese, il francese - l'Impero Britannico, o direttamente o indirettamente per il tramite dei suoi membri autonomi, raccoglieva, sia pure sotto la forma di mandato internazionale da gestirsi per conto e sotto il controllo della Società delle Nazioni, non solo la parte di gran lunga maggiore delle antiche colonie tedesche, ma anche alcuni dei territorî asiaticí, popolati da razza non turca, appartenenti prima della guerra all'Impero Ottomano. Direttamente, nel trattato di pace, erano riservati all'Inghilterra tutta l'Africa orientale tedesca, meno i distretti di Ruanda e Urundi, la quale veniva a costituire il mandato del Tanganika (kmq. 950.000 e 4.300.000 abitanti); oltre un terzo del Togo (kmq. 33.700 e 190.000 abitanti), venuto ad aggiungersi alla limitrofa Costa d'Oro britannica, e quasi un quinto del vecchio Camerun tedesco (kmq. 80.600 e 600.000 abitanti), venuto ad aggiungersi alla Nigeria orientale e settentrionale; la piccola, ma ricca in fosfati isola di Nauru (kmq. 19 e 4150 abitanti) nel Pacifico; la Palestina (kmq. 23.000 e 887.000 abitanti), con la Transgiordania (40.000 kmq. con 260.000 ab.), e l'Irah o Mesopotamia (371.000 kmq. e 2.850.000 ab.). Indirettamente, le erano attribuite l'Africa Sud-occidentale Tedesca (808.000 kmq. di superficie e 260.000 abitanti), assegnata all'Unione Sudafricana; la Nuova Guinea tedesca (240.000 kmq. e 545.000 abitanti), assegnata all'Australia; le Samoa tedesche infine (3260 kmq. e 40.000 ab.), assegnate alla Nuova Zelanda. In tutto, erano oltre 2 milioni e mezzo di chilometri quadrati di superficie e una decina di milioni di abitanti che venivano ad aggiungersi all'Impero, in una forma giuridica nuova (quella del mandato coloniale) che poteva ben figurare fra le tante altre onde risultava la compagine giuridica dell'Impero Britannico (Regno Unito, dominî, colonie della Corona, protettorati, cessioni in affitto, semplici occupazioni di fatto e così via).
Per quanto cospicui i vantaggi materiali conseguiti dall'Impero con la guerra mondiale del 1914-18, essi erano pur sempre di gran lunga inferiori a quelli ideali, rappresentati soprattutto dalla spinta decisiva verso quella nuova costituzione imperiale, cui tendeva già prima della guerra la British Commonwealth. Ogni giorno più questa allargava le sue basi politiche, militari, economiche dall'Isola all'Impero, dal Regno Unito al complesso dei Self-governing british States (Stati britannici autonomi), come già durante la guerra stessa cominciavano ufficialmente ad esser chiamate le parti costitutive sovrane dell'immenso Impero. Nella vasta, fervida, spontanea cooperazione delle grandi colonie autonome e dell'India stessa alla lotta gigantesca condotta per la difesa dell'Impero sui campi di battaglia di tre continenti (Europa, Africa ed Asia) e su tutti i mari del mondo; nel contributo di energie e di sentimento, di sangue e di denaro apportato alla lotta da tutte indistintamente le dipendenze coloniali britanniche; nell'intima fusione economica e finanziaria - oltreché militare - fra madrepatria e colonie; la prima e le seconde apparivano una unità organica vivente più che un'espressione politica, di cui una parte soltanto, il Regno Unito, potesse - sia pure ai fini della lotta per la comune difesa - arrogarsi la rappresentanza esclusiva e la direzione suprema. Infatti, ancora durante la guerra e per opera di quello stesso Lloyd George che pure era stato prima di essa l'anima del radicalismo inglese per tradizione anti-imperialista, si aveva nel 1917 un fatto nuovo nella storia coloniale, non dell'Inghilterra soltanto ma del mondo: la costituzione d'un gabinetto imperiale di guerra (Imperial War Cabinet), formato non solamente di ministri metropolitani, ma anche di ministri coloniali, cioè di rappresentanti come tali delle colonie autonome e dello stesso Impero Indiano, colonia di colore anziché di razza e che per di più non godeva ancora pienamente né d'istituzioni rappresentative, né di governo responsabile. Convocato a Londra in una prima sessione nella primavera 1917, in una seconda nell'estate del 1918, in una terza nel novembre dello stesso anno, e passato successivamente (nel gennaio 1919) a Parigi con l'incarico di rappresentare l'Impero Britannico alle sedute del Consiglio Supremo di guerra degli Alleati, cui era affidato il compito di predisporre l'assetto della Conferenza della pace e delle linee fondamentali dei relativi trattati; il Gabinetto imperiale di guerra assumeva la veste di Delegazione imperiale britannica alla Conferenza della pace. Fu questo il tramite per il quale la perfetta uguaglianza raggiunta dai rappresentanti dei Dominions e dell'India nei confronti coi rappresentanti del Regno Unito entro il Gabinetto imperiale di guerra produsse - per quanto faticosamente - la conseguenza storica, gravida alla sua volta di risultati non soltanto britannici ma mondiali, dell'assegnazione da parte del Consiglio Supremo di guerra di una rappresentanza diretta dei Dominions e dell'India alla Conferenza della pace, della firma e ratifica dei relativi trattati da parte degli stessi, della entrata infine di essi nella Società delle Nazioni come membri originarî della medesima: esso fu in altre parole il ponte di passaggio dalla configurazione imperiale prebellica alla postbellica.
La guerra mondiale (1914-1918) imprimeva invero una direzione nuova (quella attualmente in corso) all'evoluzione dell'Impero, prospettandole come sbocco finale una Comunità britannica di nazioni cooperanti anziché, come prima della guerra pareva, una Federazione o Confederazione britannica: direzione nuova però soltanto nella forma giacché radicata in sostanza nelle più spiccate tendenze istintive delle giovani nazioni britanniche d'oltremare e, prima ancora che in esse, nelle profondità dello spirito nazionale anglosassone. La risoluzione costituzionale famosa della Conferenza imperiale di guerra del 1917, tenuta contemporaneamente al primo Gabinetto imperiale di guerra, pur senza formulare (in un momento così poco adatto alla bisogna) uno schema definito di costituzione dell'organismo imperiale britannico, che rimandava espressamente a una speciale Conferenza imperiale da convocarsi il più presto possibile dopo la cessazione delle ostilità, scartava infatti implicitamente la soluzione federale del semisecolare problema imperiale. La Conferenza (diceva il testo di essa) "ritiene doveroso tuttavia di esprimere il proprio avviso nel senso che tale modificazione (quella della "giustapposizione costituzionale delle parti componenti l'Impero"), oltre che preservare intatti gli attuali poteri di self-government e di completo controllo degli affari interni, si fondi sul riconoscimento dei Dominions quali nazioni autonome di una comunità imperiale (Imperial Commonwealth) e dell'India quale parte importante della stessa; riconosca ai Dominions e all'India il diritto di avere una voce adeguata in materia di politica estera e di relazioni estere, e stabilisca reali accordi per la consultazione continuativa di essi in tutte le questioni importanti di interesse imperiale e comune; concreti norme precise per una tale necessaria azione comune, fondata su consultazioni, secondo che i varî governi determineranno". Nonché radunarsi subito dopo la cessazione delle ostilità o la firma del trattato di pace (nel 1918 si era avuta un'altra Conferenza imperiale di guerra, ma di nessuna importanza al riguardo), non assunsero tale carattere di consulta costituente - per dir così - dell'Impero nemmeno le prime due conferenze postbelliche (1921 e 1923); quantunque nel frattempo due fatti nuovi di straordinaria importanza fossero sopraggiunti nella configurazione costituzionale dell'Impero Britannico: la concessione all'India di più larghe istituzioni rappresentative, come avviamento (dichiarato nel Preambolo stesso della legge) "alla successiva realizzazione di un governo responsabile", col Government of India Act, 1919 (9 e 10 Geo. V, ch. 101); e la scissione dal Regno Unito, col trattato del 6 dicembre 1921, della massima parte dell'Irlanda costituita in Libero Stato Irlandese (Iris Free State in inglese, Saorstát Eireann in irlandese), cui veniva riconosciuto espressamente lo status di Dominion nella legge fondamentale di costituzione, l'Iris Free State Constitution Act, 1922 (13 Geo. V, ch. 1), votato dal Parlamento britannico il 5 dicembre 1922. La prima anzi delle due Conferenze imperiali postbelliche, quella del 1921, si pronunciava addirittura in senso sfavorevole alla convocazione di un'apposita conferenza costituzionale per la soluzione del problema. Se ne occupava finalmente ex-professo la Conferenza imperiale del 1926; dopoché - ad attenuare, se possibile, bene sperimentati inconvenienti del sistema in vigore di consultazione interimperiale per mezzo di corrispondenza epistolare o telegrafica tra i varî governi britannici, nei periodi correnti fra una conferenza imperiale e quella successiva - si era creato nella Gran Bretagna (1925) un nuovo Ministero, quello per i Dominions (Dominions Office), posto sotto la direzione di un Segretario di stato per gli Affari dei Dominions, come mezzo diretto di collegamento fra i governi dell'Impero. Ma anche quella Conferenza si guardò bene dal dare un nuovo schema di costituzione imperiale. Il Rapporto del Comitato per lo studio delle reiazioni interimperiali (Interimperial Relations Committee, presieduto dal Balfour), frutto principale dei lavori della Conferenza e consacrazione ufficiale dell'odierno stato costituzionale dell'Impero Britannico, ebbe anzi deliberatamente carattere dichiarutivo più che innovativo, di inventario costituzionale aggiornato anziché di nuova costituzione; limitandosi più che altro a una dichiarazione di principî ormai indiscussi. Cardini del Rapporto Balfour erano: il principio dell'unità dell'Impero; il principio dell'uguaglianza deì Dominions con la Gran Bretagna (dell'India il rapporto dichiarava di non occuparsi per la ragione che la posizione di essa "entro l'Impero è già definita dal Government of India Act, 1919"); il principio infine della non opportunità di redigere una costituzione per l'Impero Britannico.
Così dopo la stessa Conferenza imperiale del 1926, come prima di essa (quella successiva del 1927, importantissima dal punto di vista economico per aver ribadito e concretato i principî di collaborazione economica interimperiale adombrati dieci anni prima nella Conferenza imperiale del 1917, nulla al riguardo innovò), i legami giuridici che univano la Gran Bretagna ai Dominions e, in parte, all'India stessa rimanevano costituiti: 1. da organi costituzionali propri del Regno della Gran Bretagna e Irlanda settentrionale (la Corona, alla cui comune sudditanza sono e si sentono vincolati del pari tutti i membri dell'Impero; il Parlamento, fonte prima ancor oggi della stessa potestà d'impero conferita ai Dominions; il Gabinetto coi quattro suoi ministri degli Affari esteri, dei Dominions, delle Colonie, dell'India; il Comitato giudiziario del Consiglio privato di Sua Maestà, teoricamente almeno ultima corte d'appello in materia costituzionale per tutto l'Impero); 2. da rappresentanti quasi-diplomatici dei governi di Oltremare a Londra (gli Alti Commissarî o Agenti generali dei Dominions e dell'India); 3. da organi infine specificamente imperiali, primo e massimo la Conferenza imperiale (riassorbente in sé dopo la stipulazione della pace quel Gabinetto imperiale di guerra, che con la fine della guerra cessava di assolvere il suo compito storico), elevatasi dopo la guerra alla caratteristica di vera e propria Conferenza fra gabinetti britannici posti su un piede di parità.
L'Impero britannico - creazione storica ancora in pieno sviluppo sulle vie secolari dell'unità dell'Impero e della libertà delle parti costitutive di esso - può, meglio che dalle definizioni giuridiche più ricercate e perfette, venire rappresentato nella realtà viva dalle parole dell'australiano Bruce alla chiusura della storica Conferenza imperiale del 1926: "ciò che abbiamo fatto ha dato al mondo un concetto chiaro quanto mai prima d'ora, di quel che noi intendiamo per Impero di Nazioni completamente autonome, gelose della propria autonomia e nello stesso tempo orgogliose della loro unità imperiale".
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