BRITANNICO, IMPERO (VII, p. 891)
Incoronato il 12 maggio 1937 in Westminster re di Gran Bretagna, dell'Irlanda Settentrionale, dei Dominî d'oltre mare, e imperatore delle Indie, Giorgio VI rinunziava, dieci anni dopo, al titolo imperiale (quindi anche abrogato sulle monete), proclamandosi il 15 agosto 1947 l'indipendenza dell'India, la bipartizione della penisola e la congiunta accessione dell'India propria e del Pakistan alla famiglia dei Dominî britannici. Giorgio R. (Rex), né più oltre R.I. (Rex Imperator), giusta la formula cesarea e latina coniata novellamente dal Disraeli per la regina Vittoria, suggella così la fine di un'epoca e l'inizio di un'epoca nuova. Perché, invero, se termina quello che gli storici anglo-americani definiscono il Terzo Impero, (terzo a differenziarlo dal Primo che fu del Settecento e di Chatham e tramontò nella secessione delle 13 colonie unite, nonché dal Secondo che fu mercantilistico e strategico, e concrebbe dopo il 1815 con la pax britannica e la proclamazione della dottrina di Monroe); se termina l'Impero capitalistico e strettamente "imperialistico" ed esclusivo, divinato nell'Oceana del Froude ed instaurato nella "più grande Britannia" del Seeley e di Joseph Chamberlain, nasce, peraltro e tuttavia, l'impero associazione fraterna di eguali, lo statuto di Westminster inverandosi nell'ampliato commonwealth e quest'ultimo spazialmente e idealmente slargandosi nel partnership, sintesi dei Bianchi e degli uomini di colore, organata nei sistemi postbellici di convivenza civile che già preannunziavano, l'aprile 1945, lo statuto di San Francisco e il marzo 1948 il patto sottoscritto a Bruxelles dalle cinque nazioni egemoniche dell'Unione occidentale europea.
La storia dell'ultimo decennio dell'Impero britannico, la quale non soltanto per coincidenza estrinseca, ma per intrinseco disegno e proposito, s'identifica con la storia del primo decennio di re Giorgio VI, è appunto la storia di quest'immane trasformazione ideologica e pratica, ripercussione e contrappeso - sul piano ecumenico ed imperiale, del trapasso all'interno dalla democrazia politica conservatrice alla democrazia sociale laburista. Autarchica e accentratrice e nazionale quest'ultima per obbedienza a un programma di riforme e alle necessità imprescindibili dell'economia e amministrazione del mondo in crisi bellica e postbellica. E temporaneamente autarchica e accentratrice e nazionale pertanto anche nell'ambito dell'Impero, ma obbligata da principî ideologici di nazionalizzazione e di lavoro per tutti, nonché dalla necessità pratica d'incrementare al massimo la produzione, a favorire il livellamento delle nazioni e delle razze quanto in Gran Bretagna il livellamento classistico e il progressivo elevamento e adeguamento della vita d'ognuno e di tutti. Che se, d'altro canto, la pace dopo la tormenta napoleonica instaurava nell'isola l'acconcia temperie all'avvento della rivoluzione industriale, cui sarebbero conseguiti i rivolgimenti sociali culminanti nell'avvento del laburismo al potere, la guerra, scatenatasi con la tormenta hitleriana e fascista, e l'isolamento effettivo dell'Inghilterra e dei Dominî dopo l'esodo da Dunkerque instauravano nell'Impero la temperie opportuna all'avvento della rivoluzione industriale in un'area vasta ormai come il mondo: e destinata a subire le ripercussioni, gli sviluppi e gli avanzamenti sperimentati nel secolo scorso dal solo continente, o anzi dal solo occidente, europeo. Perciò, come si avverano fragilissime e logicamente assurde intese politiche o soluzioni diplomatiche o ideologie che nel mondo mutato di dopo la seconda Guerra mondiale ripetano le proprie origini dalla pace di Versaglia o dalla pace di Vienna, così, e del pari, le sorti dell'Impero britannico, alle quali per gran parte si collegano le sorti universe del mondo, e del continente americano primamente, sono destinate a prosperità rivoluzionaria o a decadenza non arrestabile nella misura in cui l'Impero voglia configurarsi nelle fogge antiquate dei Chatham e dei Beaconsfield, dei Cecil Rhodes e dei Joseph Chamberlain, o invece si organizzi nelle nuove entità prefigurate dagli organismi bellici e postbellici, nel concrescere dei Dominî e nell'abbozzarsi, oltre la esistente realtà del commonwealth, della preveduta, intravveduta e ormai quasi imminente realtà del partnership. All'Impero egoisticamente in sé chiuso, popolato d'indigeni e spopolato d'europei, campo all'avventura dei singoli, imprenditori capitalistici di razza bianca, e governato da una piccola schiera di burocrati, nostalgici o dalla mira fissa costantemente a Whitehall e al proprio ritorno nell'isola, precipuamente pensosi di battere, o di escludere, la concorrenza statunitense in virtù del principio della preferenza imperiale, si viene, si verrà, quindi, necessariamente sostituendo l'Impero aperto, e bastevole ai congiunti bisogni degli europei e degli indigeni, quanto più gli uni e gli altri partecipino alle medesime organizzazioni economico-sociali, quanto più, soprattutto, i firmatarî del patto di Bruxelles (e gli Stati che successivamente vi aderiscano) e le 16 nazioni europee beneficiarie del piano Marshall conferiscano al comune benessere le risorse proprie delle proprie colonie, e all'unità, parziale almeno, dell'Europa si accompagni, e consegua, l'unità, parziale almeno, dell'Asia e dell'Africa.
Non stupisce che dinanzi alle conseguenze potenzialmente gigantesche di codesta radicale trasformazione dell'Impero britannico arretrino per ostilità partigiana e più per nostalgico arcaismo ottocentesco gli uomini della Destra, siano essi conservatori liberisti, come Lord Beaverbrook e l'ex-ministro L.S. Amery, entrambi oppositori tenaci, fin dal 1945, del prestito americano alla Gran Bretagna, o conservatori di origine vittoriana, ma di tradizioni elisabettiane e settecentesche: W. Churchill, per esempio, avverso all'indipendenza della Birmania per ideologica e domestica fedeltà alla politica del Cancelliere suo padre che primo donò quella terra alla corona dei Windsor. Ma, come dalla crisi bellica interna non si uscì che mediante un governo di coalizione nazionale in cui al rappresentante dell'antica e feudale nobiltà dei Marlborough si affiancavano i rappresentanti della nuova nobiltà del lavoro - organizzatori sindacali alla Bevin, organizzatori cooperativisti alla Alexander, organizzatori di partito alla Herbert Morrison - così dalla crisi bellica sul piano imperiale non si uscì, e non si esce, che mediante un mutamento di rotta, affrettato dalla disfatta in Estremo Oriente e dalla mobilitazione dei popoli di colore. La nuova rotta individua nel partnership il porto sicuro, fuor dalle strette e dagli scogli dove oggi naufragherebbe altrimenti, e per sempre, il principio oramai superato, ma fino a ieri tradizionale, della superiorità egemonica della razza bianca.
Il mutamento fu, del resto, agevolato e a un tempo giustificato, oltre che dalle indeprecabili necessità della guerra, dall'imprevidenza del governo conservatore, che abbandonava impreparati e sguarniti gli avamposti dell'Impero all'offensiva concentrica del Tripartito, mentre fingeva di accettare a parole, ed inconsciamente in effetti accettava, il cosiddetto principio del "ripiegamento imperiale", cioè la rinunzia all'Europa, campo quasi non più contrastato alle cupidige dei dittatori, col vano miraggio e pretesto del corrispettivo di un rafforzamento coloniale e del ribadimento dei vincoli fra l'Inghilterra e i suoi Dominî.
Il triennio fra il termine della guerra d'Etiopia e l'inizio della seconda Guerra mondiale vide lo scadimento britannico senza, o quasi, che il governo di Londra vi provvedesse. Lo Stato libero d'Irlanda, dopo avere, primo fra le nazioni di lingua inglese, riconosciuto de jure, e indipendentemente da ogni sanzione od autorizzazione ginevrina, l'impero mussoliniano, rivendicava, e otteneva, la rioccupazione degli "approcci occidentali", e già tradiva il proposito di serbarsi neutrale nell'eventualità, non pure probabilissima, sì anzi imminente, d'un conflitto in Europa. La guerriglia infuriava in Terrasanta, dove il Gran Muftī di Gerusalemme, protetto e satellite degli stati dell'Asse, sollecitava gli Arabi contro gli Ebrei: e la potenza mandataria, anziché resistere e consentire l'immigrazione degli scampati al terrore hitleriano, col libro bianco dell'aprile 1939, parteggiava invece apertamente per gli Arabi e proibiva agli Ebrei lo sbarco in Palestina, non appena che nel successivo quinquennio si fosse colmata la quota limite di 75 mila persone, garantendosi così, nella sperata unità dello stato misto, la perpetua inferiorità numerica degli Israeliti. (E giova notare qui di passata che al libro bianco governativo si dichiararono unanimamente ostili non solo i parlamentari dell'opposizione laburista e liberale, ma uomini di parte conservatrice avversi alla politica di N. Chamberlain, come il Churchill e L.S. Amery). Nonostante il decennale trattato del 1936, che riconosceva alla Gran Bretagna il diritto di tener truppe nella zona del canale di Suez, indipendentemente dagli obblighi politici e militari delle due parti contraenti, le relazioni fra Londra e il Cairo tanto più si esacerbavano quanto più l'Egitto era aperto alla penetrazione di agenti dell'Asse, e quanto più re Fārūk inclinava a una politica di neutralità, perseguita, nonostante la duplice invasione di Graziani e di Rommel, fino all'indomani della conferenza di Yalta.
All'altro vertice del continente nero la politica europeistico-ginevrina del gen. Smuts suscitava le ire del partito nazionalista, capeggiato dall'hitleriano Oswald Pirow e dal gen. Hertzog, dimissionario, quest'ultimo, allorquando gli anglofili prevalsero e l'Unione Sudafricana scese in campo, nel settembre 1939, a fianco della madrepatria. Gli stessi europeizzanti d'Africa e del Sudafrica non avevano, del resto, veduto di malocchio l'avventura etiopica di Mussolini (cui si era disposti a perdonare anche l'agitazione maltese), nella speranza che la scomparsa dell'ultimo stato africano indipendente ed indigeno - a prescindere dalla semi-angloamericana Liberia - avrebbe accresciuto il prestigio della razza bianca e depresso le velleità autonomistiche degli uomini di colore.
Né più favorevole profilavasi la situazione in Asia dove giocavano, in favore del Tripartito, oltre al ravvicinamento russo-tedesco e alla ravvivata intesa russo-nipponica di non aggressione, il vittorioso intervento del Giappone contro la Cina di Ch'ang Kai shek, l'instaurazione dello stato vassallo del Manchukwo, sorto a dispetto della Società delle Nazioni, il ribollimento degli odî nella Malesia e in Birmania, soprattutto ed infine la crisi indiana, aggravata dall'indifferentismo quietistico e dalla neutralità intransigente d'un Gandhi. In tali condizioni poteva sembrare giustificato l'ottimismo fiducioso dell'Asse cui la guerra, benché la si sperasse, a prevenir l'intervento statunitense, ristretta allo scacchiere mediterraneo ed europeo, doveva fornir l'occasione a frantumare l'Impero britannico, scardinandone le fondamenta ed isolandone le nazioni.
Ma l'Irlanda fu sola ad esser neutrale. E nessuna conobbe, nel giugno del 1940, la via della capitolazione. Se è vero, come da coevi e postumi apologeti del patto di Monaco pur fu sostenuto, che nella crisi del 1938 il governo Chamberlain scelse la politica della resa perché tristemente consapevole di non potere contare, nell'eventualità d'un conflitto, sull'aiuto e l'intervento armato dei Dominî, tanto più riesce, allora, significativo che i Dominî concedessero alla madrepatria quanto le avrebbero forse negato nella questione sudetica, e dichiarassero guerra già nel settembre del 1939, per bocca del Primo ministro neozelandese affermando che "dov'ella andava, essi andavano", decisi a non separare i destini comunque volgessero le sorti, e quanto più, anzi, l'indomani di Dunkerque pareva prossima e reale la possibilità di un esodo della Corte, o almeno delle principesse reali, e dei membri del governo, dall'isola, per continuare la resistenza nel mondo nuovo. Già nel suo discorso del 4 giugno 1940 ai Comuni, Churchill esplicitamente accennava all'attesa speranza che sull'altra sponda atlantica mobilitassero non pure il Canada, indifferente, nonostante la numerosa sua popolazione cattolica, al contagioso esempio del maresciallo Pétain, ma gli Stati Uniti, non più oltre disposti ad osservare la neutralità in un conflitto in cui si giocavano anche le loro fortune.
Perché, tuttavia, la resistenza riuscisse efficace e potesse convertirsi dalla posizione, essenziale ma negativa, della difesa nella posizione positiva del contrattacco vittorioso, necessitavano il potenziamento dell'arma aerea e il decentramento economico e industriale. Necessitava, cioè, l'industrializzazione dell'Impero, e quindi, conseguentemente, la rivoluzione all'interno dell'isola e all'interno dell'Impero. La rivoluzione, in un primo tempo economica, sarebbe, in un secondo momento, divenuta politica, e inversamente. Giusta la formula dell'attuale ministro laburista delle colonie, A. Creech-Jones, "non si può parlare di libertà politica fin quando non si sia posto un termine allo schiavismo economico", e non è possibile porre un termine allo schiavismo economico fin quando non si sia data alle classi e masse lavoratrici dell'Impero britannico una coscienza e una organizzazione.
Di qui l'incremento del sindacalismo in Africa e in India, dove sul finire del 1943 già si contavano circa 750 associazioni operaie, forti di quasi 650.000 aderenti, mentre il 9 febbraio 1944 il governo informava la Camera dei Comuni che a quella data esistevano 89 sindacati in Nigeria, 5 sulla Costa d'Oro, 11 nella Sierra Leone, 2 al Kenya, 2 al Tanganica e uno nell'Uganda. Di qui, pur nell'inflazionistico aumento dei prezzi, l'aumento progressivo dei salarî parallelo, nonostante la spaventosa tragedia della fame in Bengala fra il 1943 e il 1944, all'innalzamento del tenor di vita. Quindi, infine, già nel 1940, e ancora in regime Chamberlain, la nuova legge sullo sviluppo delle colonie, commisurato ai termini d'un piano decennale d'incivilimento e nella misura di 5 milioni di sterline l'anno di spese per l'educazione, l'assistenza sociale e l'igiene, ferma restando al Parlamento la facoltà di spendere maggiori somme qualora ciò si ritenesse necessario e previa la cancellazione dei debiti contratti dalle colonie con la tesoreria della Corona, per un ammontare di circa 12 milioni di sterline.
Frattanto, la necessaria liquidazione della riserva aurea nonché degli investimenti e crediti esteri e coloniali dell'Inghilterra per il finanziamento della guerra, gli acquisti di merci, materie prime e derrate alimentari nei Dominî e il nuovo sviluppo industriale di varie zone (quelle, soprattutto, a carattere prevalentemente strategico e favorite da particolari immunità contro le insidie dei sommergibili e la minaccia dell'arma aerea, come il Canada) trasformavano la Gran Bretagna da nazione creditrice in nazione debitrice, sebbene le sole colonie (stricto sensu) contribuissero allo sforzo bellico con 23 milioni 300 mila sterline in donativi e 10 milioni 700 mila sterline in prestiti senza interesse (e investissero inoltre 14 milioni di sterline in prestiti a basso interesse). Come tipico esempio dell'industrializzazione bellica dei Dominî valga l'Empire Air Training Scheme, l'addestramento al Canada di piloti dell'aviazione imperiale, il collaudo di nuovi apparecchi, l'apprestamento di basi per il decollo e il carico degli aviotrasporti che recavano viveri, materiali ed armi sui fronti e nell'isola, mentre si gettavano le fondamenta di officine aeronautiche e, nell'esperienza comune, si affratellavano i soldati dei varî paesi. Anche più spediti erano gli avviamenti nell'India dove, fra il 1939 e il 1942, la produzione di ghisa crebbe d'un terzo e di oltre la metà quella dell'acciaio finito. Nonostante i salarî di fame, gli operai indigeni apprestavano pezzi di ricambio per aerei, utensili ed armi. Una missione economica americana riferiva nel 1942 che nelle fabbriche Firestone di Bombay la produzione individuale indigena era pari alla produzione individuale negli impianti della medesima azienda a Detroit, laddove la produzione individuale indigena nelle acciaierie Tata a Jamshedpur pareggiava quella produzione statunitense nelle acciaierie di Pittsburgh.
Sebbene capeggiato da un conservatore imperialista, il governo di coalizione nazionale era, d'altronde, costretto a procedere e a perseverare lungo la via delle riforme nell'ambito dei Dominî e delle colonie quanto più folti erano su ogni scacchiere i battaglioni delle milizie imperiali e quanto più le potenze, allora vittoriose, del Tripartito sbandieravano un demagogico programma d'indipendenza e di ordine nuovo nella più grande Asia orientale.
Perciò, nonostante le agitazioni disfattistiche dei nazionalisti birmani di U Ba Maw (imprigionato nel 1940, liberato nel 1942 dai Giapponesi e nominato Primo ministro del paese vassallo), Londra rinnovò nel luglio del 1940 la promessa di accordare dopo la guerra alla Birmania lo stato giuridico di Dominio, libero quest'ultimo di secedere dalla comunità delle nazioni britanniche (come avvenne, difatti, sul principio del 1948) o di rimanervi. Perciò, nonostante la resistenza passiva di Gandhi e l'opposizione attiva dell'ex-sindaco di Calcutta ed ex-presidente del partito del congresso Subhas Chandra Bose, passato quindi ai Nipponici e da essi nominato "presidente del governo provvisorio dell'India libera", la missione, temporaneamente fallita, di Sir Stafford Cripps nel marzo-aprile del 1942 fu il primo concreto preannunzio dell'indipendenza dell'India della quale invano allora tuttavia si sperava di potere salvaguardar l'unità. Perciò la difesa aerea di Ceylon, comandata da due ufficiali sudafricani, e la successiva scelta dell'isola a quartier generale dell'ammiraglio Mountbatten furono la premessa d'un nuovo assetto costituzionale; come la resistenza di Malta all'offesiva della Luftwaffe e alle tendenze nazionalistiche fasciste, e il vigoreggiare del partito laburista fra gli operai ed i marittimi dell'arcipelago furono premessa al riconoscimento del diritto dell'isola unica insignita della George Cross, all'autogoverno tempestivamente accordatole da Clemente Attlee.
Alla guerra l'Impero conferiva, dapprima, con le sue risorse, la sua posizione strategica e le sue forze armate. L'India per esempio mise in campo mezzo milione di volontarî e mobilitò 2 milioni di uomini per la resistenza civile. Aprì una scuola di antisommergibilisti che presto divenne seconda solo a quella di Gran Bretagna; mandò le sue navi a bloccare il porto di Massaua e ad organizzare, il 10 luglio del 1943, lo sbarco in Sicilia. Truppe dei Dominî si batterono su ogni fronte d'Africa e d'Europa, contribuirono come altre poche al crollo dell'impero fascista d'Etiopia: già erano pronte alla missione entro il 1939, per la massima parte volontarî.
Ed è significativo che i comandanti popolarmente più celebri, epperò meglio e più meritamente destinati a lasciar durevole traccia di sé nella nuova storia di Gran Bretagna, del suo Impero e del mondo, fossero uomini o personalmente congiunti con i Dominî come il maresciallo Montgomery od ispiratori di truppe indigene come il compianto gen. Orde Wingate, leggendario capo dei chidwins e postumo animatore dell'Haganà e degli altri soldati della repubblica d' Israele, o l'ammiraglio Mountbatten, per le sue medesime relazioni di sangue con la famiglia reale, oltre che per l'ardimento nell'ideare i commandos e la preveggenza nel redigere i piani di riconquista della Birmania e d'invasione dell'arcipelago nipponico, figura tra le più rappresentative dell'odierna Inghilterra, e, nella sua duplice carica di ultimo viceré e di primo Governatore generale dell'India, quasi anello simbolico di congiunzione fra l'Impero vittoriano che tramonta e il partnership laburista che sorge.
Quanto più, nell'inferocire dell'avanzata nemica, l'Impero sembrava condannato a cadere, tanto più, nel decentramento difensivo e per l'intervento statunitense, l'Impero si dischiudeva, e, nel dischiudersi, si trasformava e salvava. Suggellato il Mediterraneo, pur in mezzo a varî, costosissimi ed energici tentativi di soccorrere Malta assediata, nel biennio fra la caduta della Francia e l'azione simultanea di Montgomery ad el-‛Alamein e di Eisenhower nell'Algeria e nel Marocco (giugno 1940-novembre 1942), la diversione del traffico importava un potenziamento inconsueto e lo sfruttamento sistematico delle risorse di quei territorî che sorgessero lungo la duplice via dei rifornimenti. Alla circumnavigazione dell'Africa si accompagnava, difatti, il sorvolo trasversale del continente: i convogli marittimi attraccavano a Lagos, a Città del Capo e a Mombasa in rotta per Suez; i convogli aerei puntavano su Nairobi, Massaua, Khartum e l'Egitto. Donde, per esempio, lo sviluppo di una città come Lagos, ottimo osservatorio dell'Africa Equatoriale degaullista o vichista, e capitale universitaria di tutta una civiltà di colore, consapevole ormai di sé medesima e del proprio risveglio, giustamente persuasa del carattere di perpetuità, pur nell'impiego ad usi civili e pacifici, dei nuovi sistemi di comunicazione.
Dalla sponda atlantica d'Africa verso l'Oceano Indiano e il Canale di Suez, come dalla sponda meridionale dell'Australia verso la costa settentrionale del continente e gli arcipelaghi del Pacifico intanto affiuivano rifornimenti, mezzi e uomini provenienti dagli Stati Uniti, e l'area, fin allora potenzialmente antiamericana dell'Impero britannico in certa misura almeno entrava a far parte del sistema difensivo apprestato dal governo di Washington, che nel contempo raffermava col governo di Ottawa i vincoli di solidarietà simbolicamente manifesti nell'immenso tracciato d'una comune frontiera indifesa. Parve a taluni, e allo stesso Churchill, che l'intervento americano celasse la possibilità d'una minaccia, e perciò nel suo discorso alla Mansion House il 10 novembre 1942 il Primo ministro negò di avere assunto il potere unicamente per sovrintendere alla liquidazione dell'Impero britannico, e brusco soggiunse: "Quanto si ha, noi si tiene".
Ma occorreva saper anzitutto quale fosse il modo migliore di detenere. La caduta di Singapore mise in luce difatti un panorama spaventoso d'insipienza e d'incapacità, di cupidigia, di paura e d'indifferenza, sollecitando perciò l'opinione pubblica a una sorta d'inchiesta retrospettiva e di esame collettivo di coscienza, donde naturalmente non poteva che uscire confermata e più vigorosa la nuova politica laburista e in cui si comprometteva invece vieppiù la politica dei tradizionalisti alla Churchill. Il governo, perciò, sebbene sostanzialmente deciso a non fomentare oltre lo stretto necessario a fini strategici il risentimento antieuropeo delle popolazioni di colore, intese la necessità d'imparar la lezione che obiettivamente insegnavano i successi nipponici nell'Estremo Oriente, il crollo simultaneo e concentrico del colonialismo francese nell'Indocina, del colonialismo olandese nell'Indonesia e del colonialismo britannico in Malacca. "Il mondo del Pacifico - scriveva l'Economist del 18 dicembre 1943 - sarà dopo la sconfitta del Giappone, anche dal punto di vista economico, diverso dal mondo di prima".
Poiché l'epicentro della trasformazione imperiale giustamente s'individuava in Singapore e in Hong Kong, tanto meno il governo britannico volle affrettare un moto analogo di trasformazione nell'Asia Anteriore e nell'Africa. Fallito il colpo di mano degaullista contro Dakar già nel settembre 1940, Londra si astenne, con eccezione del Madagascar, nella primavera 1942, dal forzare o dal favorire la sedizione dei governatori coloniali obbedienti a Vichy, pazientando finché non parve opportuno a quest'ultimi di condividere, fra il novembre e il dicembre 1942, il doppio gioco dell'ammiraglio Darlan. Invasi la Siria e il Libano nel maggio del 1941, per contrapporsi alla politica dell'Asse nell'‛Irāq e nell'Irān, e allestita la legione araba di Transgiordania agli ordini dell'ex ufficiale inglese Giubb Pascià, parve ugualmente opportuno infrenare i risentimenti antifrancesi dei musulmani nello scacchiere mediterraneo e serbare un instabile equilibrio pro-arabo nel conflitto fra gli Ebrei e gli Arabi di Palestina, quanto più i primi erano naturalmente risoluti a difendersi e decisi a partecipare, anzi, a una guerra per lo sterminio del razzismo hitleriano. Le sole concrete promesse politiche degli anni di guerra 1940-42 furono perciò la restaurazione del Negus e la guarentigia di non ricondurre i Senussi di Cirenaica - rimpatriato dall'Egitto l'esule emiro El Idris - sotto la signoria dell'Italia. E le due promesse, formulate sotto l'urgere della necessità e in una fallace illusione di giustizia riparatrice, pesano da allora sullo scacchiere delle relazioni internazionali, gravosa eredità per il governo laburista in quanto pregiudizievole al ristabilimento della pace e dell'amicizia non pure tra vincitori e vinti, ma fra gli stessi ex Alleati delle N.U.
Questa è, invero, la realtà cui, dal 1945, deve far fronte la Gran Bretagna. Come sul piano interno e internazionale, così, e del pari, sul piano imperiale l'ostilità dei due blocchi discordi è il grande ostacolo alla ripresa del mondo. Perché, inevitabilmente, le considerazioni strategiche finiscono per prevalere, subordinando a sé medesime tutte le altre: anche quelle obiettivamente dettate dalla economia e dalla geografia. I partiti comunisti persistono a far del colonialismo o dell'anticolonialismo tradizionale a fini di politica interna: e quindi, mentre i comunisti italiani e del blocco orientale sollecitano a gran voce la restituzione all'Italia delle sue colonie africane (fallita ogni possibilità di amministrazione fiduciaria sovietica), i comunisti dell'Europa occidentale con eguale vigore deprecano la guerriglia della Francia nell'Indocina e dell'Olanda nell'Indonesia, gli apprestamenti difensivi dell'Inghilterra in Birmania e a Singapore, la resistenza della Quarta Repubblica alla marea araba dilagante nell'Algeria e nel Marocco.
Dal canto suo il governo laburista si sente diviso fra l'obbligo ideologico e politico di instaurare il partnership coloniale e l'obbligo strategico-pratico d'impedire la penetrazione russa verso il Mediterraneo, l'Oceano Indiano e il basso Pacifico. Di qui la serie di misure che possono parere - che in certa misura per certo sono - intrinsecamente contraddittorie. Nonché l'accusa al governo Attlee di essere, nel giudizio degli oppositori di destra, rinunciatario e disfattistico, e di essere invece, nel giudizio dell'estrema sinistra, imperialista e guerrafondaio. L'antitesi non è che il frutto e il riconoscimento obiettivo d'uno stato di necessità.
Il Primo ministro Attlee ha, infatti, esplicitamente chiarito, e più volte, l'impossibilità di perseguire nel mondo postbellico metodi anacronistici d'amministrazione imperiale, ed altresì l'impossibilità di adottare decisioni pregiudizievoli alla sicurezza strategica del Commonwealth, e misure politiche alle quali i Dominî siano riluttanti o contrarî. Parallelamente si svolgono quindi il processo di liberazione ideologico-statutaria e il processo di presunto rafforzamento strategico dell'Impero.
Sono fra gli episodî e le tappe del processo di liberazione l'indipendenza dell'India (15 agosto 1947), seppur bipartita nei due dominî dell'India propria e del Pakistan, l'indipendenza (e secessione) della Birmania, la concessione dello stato di dominio all'isola di Ceylon, il duplice plebiscito di Terranova che annette al Canada la colonia antichissima, l'autogoverno a Malta laburista, lo stesso dissidio con l'Egitto, allo scadere nel 1946 della decennale alleanza, per non pregiudicare il diritto del Sudan a decidere del proprio destino, trasformando il condominio in un Dominio o in uno stato autonomo ed eventualmente disposto a consociarsi con l'Egitto ma non a lasciarsene annettere a priori, per obbedienza alla formula nazionalistico-imperialista dell'unità della valle del Nilo. Sono invece tappe del processo di rafforzamento strategico - e, come sempre dove prevalgano concezioni puramente strategiche, non è detto che le tappe di rafforzamento non si risolvano, invece, in tappe di progressivo indebolimento politico - la crisi palestinese e del Medio Oriente in genere, e la crisi circa l'assetto definitivo delle colonie italiane.
La rinunzia al mandato sulla Palestina e l'esodo dalla Terrasanta (maggio-giugno 1948), cioè la rinunzia alle basi aeronavali e la potenziale minaccia agli oleodotti e ai giacimenti petroliferi di Mesopotamia, il comprensibile proposito di cercare nella Cirenaica e in Tripolitania il corrispettivo per la copertura dell'Egitto e la difesa del Canale di Suez, hanno indotto il governo britannico, e, in specie, il ministro degli esteri Bevin, non troppo disposto a intendere il punto di vista ebraico e sovente irritato dal punto di vista e dalla condotta, a volta elettoralistica, del governo di Washington, a favorire gli Arabi, primo fra essi il re amico di Transgiordania, cui si votarono una pensione annua di 2 milioni di sterline e l'aiuto d'un corpo di ufficiali o ex-ufficiali inglesi al comando della legione araba, nel contempo deprecando e osteggiando la decisione delle N.U. di procedere alla bipartizione del paese e all'avvento della repubblica d'Israele. Quanto più si temeva, a diritto o a torto, una penetrazione comunista e sovietica in Palestina, sia mediante lo scambio fra Mosca e Tel Avīv di rappresentanti diplomatici accreditati, sia mediante il favore concesso contro i regolari della Haganà agli uomini della Stern e dell'Irgun Zwai Leumi, tanto più si credette utile di tutelare gl'interessi e i rifornimenti militari dell'Occidente rafforzando l'antemurale di Cipro e, dinanzi alle rivendicazioni ufficiali dello stesso re Paolo di Grecia, revocando la promessa di autogoverno significata in un primo tempo dal governatore laburista dell'isola, Lord Winster, non per alcuna inimicizia effettiva ma per non creare un pericoloso precedente qualora s'instaurasse ad Atene un governo d'estrema sinistra.
Se il proposito d'arginare la minaccia sovietica governa, dunque, la politica imperiale e coloniale di Londra tanto nel costituire una cintura di sicurezza fra l'Egeo e l'Oceano Indiano, quanto nel conservare agli Anglo-americani le basi di Massaua, di Tobruch e della Mellaha, previe talune probabili concessioni all'Etiopia nell'Ogaden, forse in Eritrea, e sul mare di Assab, se analoghe mire difensive inducono a inviare armati contro i comunisti della Birmania e i cosiddetti "ribelli" o "banditi" della Malesia, a ripristinare in tutta la loro efficienza i porti di Hong Kong e di Singapore, e a costituire con base a Nairobi quell'esercito di colore al comando di ufficiali metropolitani che per oltre un secolo ebbe invece la propria base operativa nell'India, consapevolmente inarrestabile procede, frattanto, l'opera d'incivilimento in Africa e in Asia consertata alle nuove necessità internazionali dell'economia e della alimentazione.
Al pianismo nazionale e internazionale si accompagna perciò il pianismo coloniale inglese, soprattutto per l'Africa nera, di cui sono esempio notevole la Colonial Development e la Overseas Development Corporation con capitale iniziale di 100 milioni di sterline ciascuna: più genericamente assistenziale la prima, più specificamente annonaria la seconda e che, mediante lo sfruttamento sistematico degli olî vegetali, tende a ridurre di un terzo almeno entro il 1952, cioè allo scadere del piano Marshall, la scarsezza di grassi in Gran Bretagna e nell'area della sterlina. Non è a dire, d'altronde, quanto giovino all'avanzamento e all'arricchimento dell'Africa le nuove e già comuni aviolinee che schiudono al traffico un continente oramai senza misteri. Anche più spedito opera il processo di popolamento del Canada e dell'Australia (processo che subirà invece probabilmente un arresto in sudafrica per l'avvento al potere dei nazionalisti del dr. Malan).
L'emigrazione si vorrebbe per ora limitata agli Inglesi o almeno a individui di lingua inglese. Ma l'isola, se pur teoricamente sovrapopolata e incapace di nutrire con i frutti del proprio suolo neanche la metà degli abitanti, difetta, d'altronde, di mano d'opera, e la sollecita sul continente europeo per intensificare la produzione, mentre affretta e perfeziona la meccanizzazione dell'agricoltura e degli impianti. Perciò il popolamento delle grandi zone dell'Impero britannico disabitate o ancora improduttive o fin d'ora essenziali alla difesa (per esempio, gli arcipelaghi del Pacifico a cavaliere fra l'Australia e le Filippine) riuscirà possibile solo nella misura in cui a individui di ceppo anglosassone altri Europei si accompagnino di ceppo diverso; e gl'Italiani, del resto, che già diedero nel Queensland un'alta prova di sé, pare siano i favoriti soprattutto del governo di Canberra. Quanti potranno essere domani i più che 500 milioni di abitanti dell'India e dei Dominî e colonie dell'Impero sarebbe vano voler dire. Come vano sarebbe prevedere fin d'ora le conseguenze di un partnership anglo-indigeno tanto nella struttura del Commonwealth - che da non pochi già ora si vorrebbe meno flessibile e occasionale, e più organicamente articolata in commissioni, enti e consigli a carattere pemanente, in guerra ed in pace - quanto negli istituti della società internazionale. Politicamente e praticamente resta, però, indiscussa e inconcussa la realtà parallela del Commonwealth e dell'Unione Atlantica, né all'indomani della seconda Guerra mondiale alcuno ardirebbe di revocar più oltre in dubbio la presenza simultanea dell'Inghilterra, dei suoi Dominî e degli Stati Uniti in qualsiasi crisi politica donde possa uscire un nuovo conflitto. E resta, del pari, l'inevitabilità, in era atomica, di un mondo affiorante sui sette mari e capace d'infinite, seppure ancora in parte latenti, possibilità di sviluppo: porto, patria e miraggio per milioni di uomini, durante la seconda metà del secolo XIX costruttori degli Stati Uniti d'America, e nella seconda metà di questo secolo artefici, forse tuttavia inconsapevoli, degli Stati Uniti di lingua inglese.
Bibl.: E. Barker, Ideas and ideals of the British Empire, Cambridge 1941; G. A. Borgese, Common Cause, Londra 1944, p. 14 segg.; A. Campbell, It's. your Empire, Londra 1945; Lord Elton, Imperial Commonwealth, Londra 1945, p. 512 segg.; C. E. Carrington, An exposition of Empire, Cambridge 1947; H. V. Hodson, Twentieth Century Empire, Londra 1948. Per una raccolta dei giudizî di Churchill sull'Impero britannico, cfr. W. S. C., Maxims and Reflections, Londra 1947, p. 92 segg. Per la politica coloniale del laburismo e del governo laburista, cfr. J. Parker, Labour marches on, Londra 1947, p. 126 segg.; F. Williams, The triple Challenge, Londra 1948.