ottomano, impero
Tra i grandi processi storici di cui M. fu testimone, riveste un’importanza non secondaria l’affermazione definitiva della potenza turca nel mondo mediterraneo, che seguì alla conquista di Costantinopoli (1453) e culminò nell’abbattimento del sultanato dei mamelucchi (→) e nella conseguente espansione in Siria ed Egitto (1516-17). M. guardò con interesse al nuovo soggetto politico rappresentato dall’impero ottomano, avvertito allora come una pericolosa minaccia dalla maggior parte degli Stati europei («Il signor di Turchia auzza l’armi», recita un verso dello stesso M. nei Canti carnascialeschi, V, vv. 34-35; e un’anonima gentildonna con «gran paura di quello impalare» chiede a frate Timoteo nella Mandragola «Credete voi che ’l Turco passi questo anno in Italia?», III iii). A esso dedicò riflessioni originali e destinate ad avere una duratura influenza.
Negli scritti di M. l’espansione turca è affrontata come un esempio storico esterno all’Europa, ma riconducibile a una matrice comune sotto il profilo della condotta politica e militare. In Principe iii 12, analizzando le possibili strategie da seguire per conservare possedimenti «in una provincia disforme di lingua, di costumi e di ordini», si ricorda che «uno de’ maggiori remedi e più vivi» era quello che aveva seguito «il Turco di Grecia: il quale, con tutti li altri ordini osservati da lui per tenere quello stato, se non vi fussi ito ad abitare non era possibile che lo tenessi». Si trattava di una linea perseguita sin dalla metà del 14° sec., quando gli ottomani avevano varcato l’Ellesponto, per poi riuscire appunto nell’impresa della conquista di Costantinopoli del 1453, completando l’assoggettamento della Grecia nel decennio successivo.
La prima fase dell’ascesa ottomana nella regione mediterranea era stata il risultato di una linea offensiva imperniata sulla guerra, voluta dal sultano Maometto II. Al successore Bayazid II, salito al trono nel 1481, M. dedica due passaggi nei Discorsi. Anzitutto, presenta il suo caso come una conferma della regola politica, incarnata da David e Salomone e da Romolo e Numa Pompilio, secondo cui «dopo uno eccellente principe si può mantenere uno principe debole» (I xix 1), ricordando come
Baisit, sultan de’ Turchi, come che fussi più amatore della pace che della guerra, potette godersi le fatiche di Maumetto suo padre; il quale avendo, come Davit, battuto i suoi vicini gli lasciò un regno fermo, e da poterlo con l’arte della pace facilmente conservare (I xix 8).
M. si richiama a Bayazid II anche nel capitolo sulle congiure, annoverandolo, insieme all’episodio della coltellata inferta al re di Spagna Ferdinando il Cattolico a Barcellona nel 1492, tra le vittime di una cospirazione «contro a uno principe»: «Uno dervis, sacerdote turchesco, trasse d’una scimitarra a Baisit, padre del presente Turco; non lo ferì, ma ebbe pure animo e commodità a volerlo fare» (III vi 33). In M. non mancano neppure accenni a momenti specifici delle spedizioni militari del coevo sultano Selim I, figlio di Bayazid II, a cui succedette nel 1512. Sotto Selim I si realizzò la penetrazione dell’impero ottomano nel Mediterraneo sud-orientale, a danno della potenza dei mamelucchi. In particolare, M. si concentra sul periodo «avanti che da Salì Gran Turco fosse stata spenta» (I i 18). Così, criticando l’opinione diffusa di un’inevitabile centralità dell’artiglieria destinata nei conflitti armati, osserva che
se il Turco mediante l’artiglieria contro al Sofì e il Soldano ha avuto vittoria, è nato non per altra virtù di quella che per lo spavento che lo inusitato romore messe nella cavalleria loro (II xvii 44; cfr. anche Arte della guerra IV 60).
In un altro passo che sottende un confronto con le spedizioni degli eserciti romani contro i Parti, discusse altrove (II xviii 22-25), M. mette invece in guardia i condottieri dai pericoli di andar dietro ai consigli altrui, specie se relativi ad azioni ardite e grandiose, portando l’esempio della fallimentare spedizione ottomana contro la Persia safavide:
Il presente Sultan Salì, detto Gran Turco, essendosi preparato (secondo che ne riferiscono alcuni che vengono de’ suoi paesi) di fare la impresa di Soria e di Egitto fu confortato da uno suo Bascià, quale ei teneva ai confini di Persia, di andare contro al Sofì. Dal quale consiglio mosso, andò con esercito grossissimo a quella impresa; e arrivando in uno paese larghissimo dove sono assai diserti e le fiumare rade, e trovandovi quelle difficultà che già fecero rovinare molti eserciti romani, fu in modo oppressato da quelle che vi perdé per fame e per peste, ancora che nella guerra fosse superiore, gran parte delle sue genti; talché, irato contro allo autore del consiglio, lo ammazzò (Discorsi III xxxv 4-5).
Sebbene in questo caso il riferimento storico a Selim I abbia la funzione di monito rispetto a una condotta da evitare, M. mostra una generale ammirazione per la determinazione e il coraggio militare del sultano turco, inquadrato all’interno di un modello politico su cui formula un giudizio celebre e influente.
M. afferma nel Principe:
rsi: o per uno principe e tutti li altri servi, e’ quali come ministri, per grazia e concessione sua, aiutano governare quello regno; o per uno principe e per baroni e’ quali non per grazia del signore, ma per antichità di sangue tengono quel grado (iv 2).
Questa alternativa viene ricondotta all’opposizione speculare, «ne’ nostri tempi», tra l’impero ottomano e il regno di Francia (parallelo che ritorna brevemente anche in Discorsi I xix 10). Al contrario di quest’ultimo,
la monarchia del Turco è governata da uno signore: li altri sono sua servi; e distinguendo il suo regno in sangiacchie, vi manda diversi amministratori e gli muta e varia come pare a lui (Principe iv 6).
Un modello dispotico e antitetico alla sovrapposizione di poteri e giurisdizioni caratteristica della Francia, da cui discende che, «chi considera [...] l’uno e l’altro di questi stati, troverrà difficultà nell’acquistare lo stato del Turco, ma, vinto che fia, facilità grande a tenerlo» (§ 8). M. chiarisce che le «difficultà» per chi aggredisce l’impero ottomano «sono per non potere essere chiamato da’ principi di quel regno, né sperare, con la rebellione di quegli che ha d’intorno, potere facilitare la tua impresa» (§ 10). Infatti, poiché tutti i sudditi erano «stiavi e obligati» al sultano, non era facile portarli dalla propria parte, né sperare di innescare una rivolta interna. «Onde a chi assalta el Turco è necessario pensare di averlo a trovare tutto unito, e gli conviene sperare più nelle forze proprie che ne’ disordini altrui» (§ 11). Tuttavia, se vinto in campo aperto, impedendogli di ricostituire gli eserciti, «non si ha da dubitare di altro che del sangue del principe: el quale spento, non resta alcuno di chi si abbia a temere, non avendo gli altri credito con e’ populi» (§ 12). Quello turco è un sovrano incontrastato e libero dai limiti che una nobiltà potente come quella francese avrebbe potuto porgli, ed è sorretto da un forte esercito. Su questo aspetto M. ritorna più avanti nel Principe, a commento del fatto che, a differenza che in passato, «ora è più necessario a tutti e’ principi [...] satisfare a’ populi che a’ soldati, perché e’ populi possono più di quelli» (xix 62). Faceva eccezione appunto il sultano, perché
tiene continuamente insieme intorno a sé dodicimila fanti e quindicimila cavagli, da’ quali depende la securtà e fortezza del suo regno: ed è necessario che, posposto ogni altro respetto, quel segnore se li mantenga amici (xix 63).
Pur essendo un aspetto non molto sviluppato, emerge da alcune pagine dei Discorsi la convinzione di M. che i turchi fossero per certi versi eredi dell’antico valore militare dei Romani, coerentemente con l’idea che «se dopo lo Imperio romano non è seguito Imperio che sia durato né dove il mondo abbia ritenuta la sua virtù insieme», quest’ultima si è pero distribuita tra vari popoli, fra cui «il regno de’ Turchi» (II proemio 14). La continuità tra gli antichi Romani e gli ottomani è implicita in più di un passo, ma affiora con particolare evidenza laddove si ricorda la partecipazione in prima persona da parte di Selim I alle campagne di guerra, additato come modello:
Uno principe, per fuggire questa necessità di avere a vivere con sospetto o essere ingrato, debbe personalmente andare nelle espedizioni, come facevono nel principio quegli imperadori romani, come fa ne’ tempi nostri il Turco, e come hanno fatto e fanno quegli che sono virtuosi (I xxx 2).
L’associazione fra Romani e turchi, e in particolare fra i loro eserciti, sarebbe stata al centro del Commentario de le cose de’ Turchi di Paolo Giovio, uscito a stampa a Roma nel 1532, l’anno dopo i Discorsi, presso il medesimo editore: Antonio Blado. Il duplice affondo di M. sulla religione dei Romani e di Giovio sulla «disciplina militar [...] con tanta giustitia et severità regulata da’ Turchi che si può dir che avanzino quella de gli antichi Greci et Romani», rendendoli perciò «migliori de’ nostri soldati» (Commentario [...], ed. a cura di L. Michelacci, 2005, p. 169), avrebbe suscitato l’irritata risposta di autori come lo spagnolo Juan Ginés de Sepúlveda (De convenentia militaris disciplinae cum christiana religione dialogus, qui inscribitur Democrates, 1535) e il portoghese Jerónimo Osório (De nobilitate civili et christiana, 1542), decisi a riaffermare il valore e l’onore delle armi cristiane. Ma non mancò chi, come il monaco cistercense portoghese Diogo de Castilho – che risiedeva nelle Fiandre e dedicò all’imperatore Carlo V un trattato sull’origine dei turchi (Livro da origem dos turcos he de seus emperadores, 1538) – rafforzasse la lettura gioviana di M., sulla scorta di un passo del trattato Omnium gentium mores, leges et ritus (1520) dell’umanista tedesco Johann Boheme. Nel suo trattao Castilho osservò come il valore militare dei turchi derivasse dal
ritenere più felice morire tra i nemici che non in casa fra i pianti e le lacrime di mogli e figli, e in tutti i convitti e incontri pregano per la gente d’armi e soprattutto per quanti sono periti per il vantaggio della patria comune, e scrivono le gesta dei loro antenati, che poi cantano e lodano, accendendo molto gli animi della gente d’armi (ff. Y iv-Y ii r).
Fu soprattutto in Italia poi che, tra Cinque e Seicento, si sviluppò, per es. nelle Relazioni universali (4 voll., 1591-1596) di Giovanni Botero, una riflessione sull’impero ottomano, in quanto non cristiano, come piena realizzazione delle idee di M. sull’assolutismo – un paradigma contro il quale, tra Sei e Settecento, Spinoza e Montesquieu avrebbero definito l’ideale europeo di libertà civile e tolleranza religiosa. Prima di allora, però, nei Ragguagli del Parnaso (2 voll., 1612-1613) Traiano Boccalini aveva usato il modello politico ottomano per criticare l’apologia della tolleranza religiosa di Jean Bodin.
Bibliografia: Fonti: D. de Castilho, Livro da origem dos turcos he de seus emperadores, Louvain 1538; P. Giovio, Commentario de le cose de’ Turchi, a cura di L. Michelacci, Bologna 2005.
Per gli studi critici si vedano: A. Prosperi, La religione, il potere, le élites. Incontri italo-spagnoli nell’età della Controriforma, «Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea», 1977-1978, 29-30, pp. 499-529; L. D’Ascia, L’impero machiavellico. L’immagine della Turchia nei trattatisti italiani del Cinquecento e del primo Seicento, «Quaderns d’Italià», 2010, 15, pp. 99-116.