impero (imperio)
Nella lingua di D., il termine è portatore di tre valori, ai quali fin dall'antichità risulta legato il corrispondente latino e che nel Vocabularium di Papia (sub v. imperium) sono indicati come " potestas, iussio, perpetuum regnum ".
Il più antico valore nella letteratura classica è quello espresso da iussio, " comando ", " ordine ": cfr. Publilio Sententiae 56 " blanditia, non imperio fit dulcis Venus "; Valerio Massimo Dict. et fact. mem. II II 6 " quidquid imperio cogitur exigenti magis quam praestanti acceptum refertur "; Seneca Contr. exc. IV 1 " Nunquam lacrimae supprimuntur imperio ", e Oed. 527 " imperia solvit qui tacet iussus loqui "; Cod. Theod. 2, 9, 3 " nullo cogentis imperio, sed libero arbitrio et voluntate confecta ". La seconda accezione è potestas, " esercizio del potere " legato alla funzione di un magistrato in una società organizzata. La nozione è in s. Gerolamo Transl. Hom. Orig. in Luc. 8 (Patrol. Lat. XXVI 251-252) " Virtus sive imperium potestas est regia. Etenim ϰράτος quod nos imperium possumus appellare "; Cicerone Leg. III 3 " Nihil porro tam aptum est ad ius condicionemque naturae - quod quom dico, legem a me dici intelligi volo -, quam imperium, sine quo nec domus ulla nec civitas nec gens nec hominum universum genus stare, nec rerum natura omnis nec ipse mundus potest "; Verr. act. I 37 " erit tum consul Hortensius cum summo imperio et potestate "; ad Quintum fr. I I 23 " Quibus imperium ita datum est ut redderent ", e Font. 37 " in potestatibus, in imperiis gerendis ". Il terzo valore del termine (perpetuum regnum in Papia) designa di preferenza l'i. del popolo romano. In questo caso, che è quello più corrente, fonte di D. è prevalentemente Virgilio (cfr. in particolare Aen. 1286-287 " Nascetur pulchra Troianus origine Caesar / imperium Oceano, famam qui terminet astris "; VI 781-782 " En huius, nate, auspiciis illa incluta Roma / imperium terris, animos aequabit Olympo ", e 851 " tu regere imperio populos, Romane, memento "; IX 448-449: Eurialo e Niso saranno ricordati " dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum / accolet imperiumque pater Romanus habebit ".
Nel senso di " comando ", il termine occorre in Cv IV XXII 1 Comandamento è de li morali filosofi che de li benefici hanno parlato... onde io, volendo a cotale imperio essere obediente..., dov'è da notare l'esplicita correlazione comandamento-imperio. Questa valenza permane anche quando il termine è usato in contesti in cui prevale altro valore: IV IV 7 universale e inrepugnabile officio di comandare... per eccellenza Imperio è chiamato. Ancora nel senso di " ordine ", " disposizione provvidenziale ", in II XII 5 E sì come essere suole che l'uomo va cercando argento e fuori de la 'ntenzione truova oro, lo quale occulta cagione presenta, non forse sanza divino imperio.
Nel senso di " esercizio del potere ", il termine occorre in IV IV 8 Veramente potrebbe alcuno gavillare dicendo che, tutto che al mondo officio d'imperio si richeggia, non fa ciò l'autoritade de lo romano principe ragionevolemente somma, la quale s'intende dimostrare (cfr. Mn II III 1: qui i. designa la funzione dell'imperatore, il quale è colui che per eccellenza esercita il potere. In questo stesso senso, in Cv IV Le dolci rime 45 fu chi tenne impero / in diffinire errato, D. afferma che Federico di Svevia, che ‛ esercitò l'ufficio d'imperatore ', e quindi ‛ gestì il potere ', errò nel definire la nobiltà, e glossa (X 5): quelli che ‛ tenne impero ': non dicendo ‛ imperadore ', ma ‛ quelli che tenne imperio ' a mostrare... questa cosa determinare essere fuori d'imperiale officio; Federico è certamente imperatore, secondo D. (cfr. §§ 1 ss.); ma qui si vuol sottolineare che definire la nobiltà non rientra tra i compiti dell'imperatore.
Ma la maggior parte delle occorrenze del termine designa l'istituto della monarchia universale che Dio ha affidato a Roma e al suo popolo: If II 20 e' [Enea] fu de l'alma Roma e di suo impero / ... per padre eletto; Cv IV IV 12 non forza, ma ragione... divina, [conviene] essere stata principio del romano imperio; IV V 6 Per che assai è manifesto la divina elezione del romano imperio per lo nascimento de la santa cittade che fu contemporaneo a la radice de la progenie di Maria, cioè la contemporaneità della nascita di David (radice de la progenie di Maria) e della venuta di Enea in Italia (origine della città di Roma, santa cittade) è prova della scelta dell'i. del popolo romano da parte di Dio; § 17 manifesto esser dee, questi eccellentissimi [cittadini] essere stati strumenti con li quali procedette la divina provedena ne lo romano imperio, dove più volte parve esse braccia di Dio essere presenti.
L'i. di Roma è universale, infinito nel tempo e nello spazio: IV IV 11 a li Romani né termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio sanza fine (cfr. Virgilio Aen. I 278 " His ego nec metas rerum nec tempora pono: / imperium sine fine dedi ", ripreso da Agostino Civ. II 29; cfr. Groppi, D. traduttore, Roma 1962², 105). nella forma storicamente definita dell'i., l'atto culminante con cui l'imperatore viene insignito dei suoi poteri è l'incoronazione: XXIX 2 potrebbe dire ser Manfredi da vico... li miei maggiori...meritaro di porre mano a lo coronamento de lo imperio (cfr. G. Villani X 55 " Il modo come [ludovico il Bavaro] fu coronato, e chi 'l coronò, furono gl'infrascritti... e co' detti a coronarlo sì furono dei cinquantadue del popolo, e 'l Prefetto Di Roma sempre andandogli finanzi, come dice il suo titolo ": porre mano a lo coronamento vale ‛ partecipare come invitato ufficiale alla cerimonia dell'incoronazione '; che questa rappresentasse l'atto finale dell'investitura imperiale risulta da documenti del tempo: cfr. Mon. Ger. Hist., Legum IV, t. IV p. I, Hannover-Lipsia 1906, nr. 21, p. 18: " qua quidem die ad apicem coronationis nostrae divina favente dispensacione devenimus "; nr. 257, p. 219: " nos consecrari, coronari et praefici in Romanorum regem contingat ", e nr. 264, p. 234: " postquam ad apicem nostrae coronacionis divina favente dispositione devenimus "; gli ultimi due documenti sono del 1308-09 e appartengono ad Arrigo VII). Cfr. anche Pg VI 105 'lgiardin de lo 'mperio, per cui v. LA DOTTRINA DELL'IMPERO.
In Cv IV VIII, con riferimento alle critiche rivolte alla definizione di nobiltà data da Federico II, D. precisa cosa sia negazione (v.) e cosa sia privazione (v.: si ha negazione quando quello che non è non si confessa [§ 12] e, sul piano linguistico, essa si esprime mediante il ‛ non ' premesso a un termine, mentre privazione è mancanza di cosa dovuta, ed è espressa da un termine che ha il prefisso ‛ in '), e afferma: § 10 E come io... contra la reverenza del Filosofo non parlo ciò riprovando, così non parlo contra la reverenza de lo imperio; 11 me non essere inreverente a la maiestade de lo imperio; 13 Per che se io niego la reverenza de lo Imperio, non sono inreverente, ma sono non reverente, e 14 in questo caso a lo Imperio reverenza avere non debbo; in tutte queste occorrenze, i. designa l'istituto imperiale (per il parallelismo reverenza del Filosofo-reverenza de lo Imperio, o anche autorità del Filosofo-maiestade imperiale [cfr. § 5], v. LA DOTTRINA DELL'IMPERO; v. anche AUTORITÀ).
Per analogia, in Pd XXXII 117 gran patrici / di questo imperio giustissimo e pio sono detti gli spiriti più eletti, i ‛ dignitari ' del regno celeste. L'espressione ‛ sotto lo 'mpero di ' vale ‛ al tempo di ' (Pg XVIII 119 sotto lo 'mperio del buon Barbarossa).
La Dottrina dell'Impero. - La dottrina concernente la natura, i compiti, la provvidenzialità dell'I. è basilare nel pensiero e anche nell'opera poetica di Dante.
Nel 1899 G.A. Scartazzini nella sua Enciclopedia dantesca fondatamente asserì che la ricca letteratura sulla politica di D. aveva " poco, non di rado nessun valore scientifico ". In effetti sono del secolo presente gli studi più rigorosi e approfonditi intorno al pensiero politico di D.; avendo, gl'interpreti, potuto giovarsi da un lato dei notevoli progressi filologici nel restauro dei testi, dall'altro della possibilità di porre a pieno confronto le opere di D. con gli scritti più significativi della pubblicistica medievale, con riguardo particolare a quelli usciti nel primo Trecento intorno alla contesa che allora impegnava sui grandi temi dell'autonomia e della supremazia il Papato, l'I., e il regno di Francia. Frutto di tanta applicazione non è stato, per altro, quella concordia di conclusioni quale poteva attendersi: pochi i punti fondamentali intorno ai quali si è raggiunto un chiarimento da tutti accettato; per il resto discussioni a non finire, che riguardano l'originalità, il significato, l'ortodossia medesima del pensiero dantesco, seco trascinando ardui problemi per la datazione delle opere e la storia delle idee. Si aggiunga che l'insufficiente preparazione o la scarsa disciplina di certi interpreti, avventati nel proporre soluzioni mal fondate, ha rallentato il cammino di tutti, obbligando a confutazioni indispensabili per raddrizzare il timone e riprendere la rotta giusta. Con buon motivo il Barbi lamentava dunque che, per desiderio di troppo precisare, si fossero talvolta superati i termini legittimi; e sembrando bisognoso d'integrazione il pensiero dantesco, si fosse fatto ricorso, con poco freno, a dottrine altrui; oppure, muovendo da spunti danteschi, si fosse voluto piegarli a significati non rispondenti all'intenzione dell'autore. E tuttavia gran vantaggio si è ricavato dalle discussioni che sul pensiero politico di D. sono state impegnate in questo secolo: specialmente per l'intervento di giuristi e filosofi, che, lavorando di conserva con gli storici, i filologi e, più genericamente, con i letterati, hanno recato il contributo della loro speciale preparazione. Insomma, se pur non ci sentiamo di approvare l'ottimismo del Barbi, che giudicava come " ormai in gran parte chiarito " il pensiero politico di D., siamo certo disposti a riconoscere che in questo secolo molto si è progredito, se non altro nella retta impostazione dei problemi, e quindi favorendone la giusta soluzione.
Impero - come dice D. medesimo (Mn I II 12) - sta a indicare quel potere che sulla terra, nel mondo delle cose corruttibili destinate a morire nel tempo, sta al di sopra di tutti gli altri poteri (§ 2), sui quali esercita universale e inrepugnabile officio di comandare (Cv IV IV 6). Da ciò appunto il nome di ‛ Impero ': questo officio per eccellenza Imperio è chiamato, sanza nulla addizione, però che esso è di tutti li altri comandamenti comandamento (§ 7). Ciò che l'imperatore ordina ha dunque valore di legge per tutti coloro che posseggono autorità di comandare; i quali renderanno vigoroso il proprio potere eseguendo obbedienti il comando dell'imperatore (§ 7). Altissima è dunque l'autorità imperiale presso gli uomini, regolatrice e rettrice di tutte le nostre operazioni (IX 1), sulle quali appunto si stende la sua giurisdizione. E poiché umane sono soltanto le operazioni che subiacciono a la ragione e a la volontade (§ 4), la giurisdizione imperiale si stende tanto quanto le nostre operazioni proprie... si stendono (§ 9); Sì che quasi dire si può de lo Imperadore, volendo lo suo officio figurare con una imagine, che elli sia lo cavalcatore de la umana volontade (§ 10).
Un potere tanto esteso e assoluto può naturalmente essere pericoloso (Cv IV VI 17): potrebbe l'imperatore promulgare leggi ingiuste, senza tener conto che, nelle volontarie operazioni degli uomini, v'è equitade alcuna da conservare e iniquitade da fuggire (IX 8). Da ciò l'opportunità che le leggi promulgate dall'imperatore siano regolate e informate dai giusti criteri morali insegnati dalla filosofia di Aristotele, dal quale la perfezione di questa moralitade... terminata fue (VI 16), ponendosi come additatore e conduttore de la gente a quel fine cui è ordinata la vita dell'uomo in quanto uomo (§ 7). Utile a entrambe, dunque, la collaborazione tra l'autorità imperiale e l'autorità filosofica: la prima ha bisogno della seconda per regolare le umane operazioni secondo la verità e la giustizia, mentre la filosofia ha bisogno della forza imperiale per imporre la pratica di ciò che insegna. Congiungasi - dice dunque D. - la filosofica autoritade con la imperiale, a bene e perfettamente reggere giacché l'una con l'altra congiunta utilissime e pienissime sono d'ogni vigore (§§ 18-19). Ponendo l'I. come supremo regolatore de le umane operazioni, D. ne assume la giustificazione filosofica dalla tradizione aristotelico-tomista, secondo la quale il fine naturale di ogni uomo come essere mortale è di raggiungere la felicità terrena; alla quale tuttavia nullo per sé è sufficiente a venire santa l'aiutorio d'alcuno, con ciò sia cosa che l'uomo abbisogna di molte cose, a le quali uno solo satisfare non può (IV 1). Da ciò l'inclinazione sociale dell'uomo, che naturalmente è compagnevole animale (§ 1).
Continuando sulle orme della tradizione aristotelico-tomista, D. asserisce che dalla natura sociale dell'uomo derivano necessariamente la famiglia, la contrada, la città, in quanto un uomo a sua sufficienza richiede compagnia dimestica di famiglia (§ 2; cfr. Mn I III 2), la quale ha per fine di preparare i suoi componenti al ben vivere; e la famiglia, a sua volta, richiede una vicinanza (Cv IV IV 2), cioè l'unione di più case in una contrada, il cui fine è il mutuo soccorrersi delle famiglie nelle persone e nei beni; e infine, però che una vicinanza [a] sé non può in tutto satisfare, conviene a satisfacimento di quella essere la cittade (§ 2). Si avverta che la casa, la contrada, la città sono ‛ naturalmente ' necessarie e gerarchicamente ordinate, nel senso che i fini propri delle prime due sono subordinati al fine proprio della città; la quale, d'altra parte, presuppone come già conseguiti i fini della casa e della contrada; e che la città, per cui gl'individui conseguono la ‛ sufficientia ' al bene vivere, è la communitas perfecta della tradizione aristotelica: la πόλις, lo stato autarchico. Oltrepassa invece il pensiero di Aristotele il concetto di regno, quale unione di più città, imposta dal fatto che la cittade richiede a le sue arti e a le sue difensioni vicenda avere e fratellanza con le circavicine cittadi (§ 2; cfr. Mn I V 8). E finalmente, poiché discordie e guerre conviene surgere intra regno e regno... e così s'impedisce la felicitade... a queste guerre e le loro cagioni torre via, conviene di necessitade tutta la terra... essere Monarchia (Cv IV IV 3-4), cioè deve necessariamente esistere l'I., inteso come unico reggimento di un solo, con fondamentale carattere di universalità, stendendosi il governo del monarca fino all'Oceano (Mn I XI 12), il mar che la terra inghirlanda (Pd IX 84).
L'I.. è dunque necessario; ma potremo dirlo ‛ naturalmente ' necessario? Grave discussione, su questo punto, tra gl'interpreti di D., sostenendo alcuni la tesi della naturalità (come il Parodi, o il Barbi, cui parve vano persino il discuterne), altri invece (come l'Ercole e il Nardi) pronunziandosi, sia pure in maniera diversa, per la non-naturalità. La discussione ha il suo fondamento in un'affermazione di D. che, in Mn III IV 14, sostiene esser l'I. un ‛ remedium ' contra infirmitatem peccati: contro il guasto prodotto nella natura umana dal peccato di Adamo; ‛ remedium ' del quale l'uomo non avrebbe avuto bisogno se fosse rimasto nella primitiva innocenza. Di quest'affermazione approfittano subito coloro che intendendo la naturalità dello stato in senso aristotelico-tomista; e, persuasi che in tal modo l'intenda anche D., ritengono le comunità inferiori (vicinia, civitas, regnum) come perfettamente naturali, cioè risultanti dalla natura umana quale Dio l'ha creata, e secondo la quale gli uomini erano destinati a vita sociale anche se Adamo non avesse peccato; mentre l'I. non deriverebbe dal fatto che l'uomo è di natura compagnevole animale, ma sarebbe stato istituito dalla Provvidenza divina a rimedio dell'infermità derivante dal peccato originale. D'altra parte la perfetta naturalità dell'I. è negata anche da chi, collegando il pensiero di D. alla tradizione agostiniana anziché all'aristotelico-tomista, intende qualsivoglia forma di stato come in rapporto con la condizione innaturale dell'uomo dopo il peccato originale che ne ha corrotto intrinsecamente la natura. La felicità terrena può essere infatti raggiunta solamente per mezzo dell'organizzazione politica dello stato, il regimen temporale, che poggia sull'istinto sociale dell'uomo; e poiché tale organizzazione è una conseguenza del peccato, che ha destato in noi la cupidigia, potremo dire ‛ naturale ' tale regimen non già perché derivi dalla natura originaria dell'uomo, ma solamente in quanto conforme alla natura umana corrotta dal peccato. Non di ‛ assoluta ' naturalità dovrebbe dunque parlarsi, ma soltanto di ‛ relativa ': un principio su cui D. innesterebbe la dottrina politica di Aristotele, completando in tal modo il suo pensiero.
Persuasi che fra la tradizione agostiniana e quella aristotelico-tomista non v'è contrasto netto, per quanto riguarda il modo di concepire la naturalità dello stato, si può infatti sostenere che D., muovendo dall'idea di un'umanità decaduta e peccatrice, abbia concepito lo stato come una necessità e come un rimedio atto a conservare l'umana società e a raggiungere la beatitudine terrena. Siffatta interpretazione induce ad abbattere certe distinzioni presenti nel pensiero di chi nega la naturalità dell'I.: in effetti, quando D. accenna alla città o al regno come a consociazioni ‛ naturali ', si riferisce sempre alla natura umana corrotta dal peccato di Adamo; e dunque città, regno, I. sarebbero, per D., formazioni politiche egualmente necessarie ed egualmente naturali. Ovviamente una tale ricostruzione del pensiero dantesco vuole che per ‛ stato ' s'intendano non soltanto le comunità inferiori all'I., il quale in tal caso sarebbe al di sopra e al di fuori di quelle, ma al contrario che per D. lo ‛ stato ', il cui fondamento coincide col fine naturale dell'umana civilitas, sia proprio l'I., unità organica nella quale sboccano le minori comunità.
Comunque si creda intorno all'origine dell'I., resta assodato che la sua esistenza strettamente è connessa con il problema della felicità cui sulla terra tende, come al proprio fine naturale, che è finir universalis civilitatis humani generis (Mn I II 8), la società come aggregazione di tutti gli uomini in quanto esseri sociali: Lo fondamento radicale de la imperiale maiestade, secondo lo vero, e la necessità de la umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice (Cv IV IV 1). Ma in che cosa consiste la felicità cui D. si riferisce? Precisandolo, ne verrà chiarita la funzione dell'autorità imperiale, alla quale spetta di provvedere le condizioni adatte per il raggiungimento, da parte dell'uomo, della felicità terrena (Mn I V 4; Cv IV IV 4); la quale consiste nella operatio propriae virtutis: nella perfetta esplicazione delle proprie capacità. E poiché la virtus propria dell'uomo è la virtus intellectiva, cioè la ragione, la felicità terrena consiste per l'uomo nell'uso della ragione: ‛ uso del proprio animo ', come dice D. (Cv IV VII 14 ss.; XXII 9 ss.).
Della ragione l'uomo può peraltro servirsi per due forme diverse di vita: l'attiva e la contemplativa. Pertanto l'uso dell'animo è doppio: pratico e speculativo; e in questo [come] quell'altro - dice D. - è nostra beatitudine e somma felicitade (Cv IV XXII 11 ss.; cfr. II V 7 ss., IV XVII 9 ss.). Naturalmente, perché ciò si verifichi, è indispensabile che l'uomo, servendosi della libertà, il massimo dono elargitogli da Dio (Pd V 19 ss.; Mn I XII 2 ss.), liberamente scelga, per l'uso della propria ragione, uno scopo atto ad appagare il naturale desiderio di felicità. La libera scelta dovrà pertanto essere guidata dalla discrezione, che nella vita attiva gli fa seguire i veri beni fuggendo i falsi, e nella contemplativa indirizza al vero scartando le false opinioni. La felicità corrisponderà, dunque, per l'uomo, all'esplicazione perfetta della propria capacità razionale secondo la guida della discrezione; e in particolare, alla felicità della vita attiva giungerà operando onestamente secondo le virtù cardinali (le fondamentali tra le virtù morali); alla felicità della vita contemplativa, considerando secondo le virtù intellettuali le opere di Dio e della natura (Cv IV XXII 11). L'una e l'altra costituiscono, nel loro insieme, quella temporale beatitudine che viene raffigurata nel Paradiso terrestre (Mn III XV 7), e che costituisce il fine ultimo cui tende l'uomo limitatamente alla sua vita terrena.
Si avverta peraltro che D. parla sempre dell'uomo come cive (Pd VIII 116), vale a dire come parte integrante dell'umana civilitade (Cv IV IV 1, XXVII 3; Mn II VII 3). L'universale società umana, cioè la moltitudine degli uomini considerata quale un tutto unito, ha infatti come proprio fine la piena e continua attuazione dell'intelletto possibile (opus humani generis totaliter accepti est actuare semper totam potentiam intellectus possibilis, Mn I IV 1): il che non riuscirebbe al singolo individuo o alle minori comunità (III 8 potentia issa per unum hominem seu per aliquam particularium comunitatum... tota simul in actum reduci non potest). E poiché con la piena attuazione dell'intelletto possibile si consegue la beatitudine nell'attività teoretica e in quella pratica, la società umana universale risulta necessaria acciò che l'uomo raggiunga il suo fine ultimo in quanto cive. Come tale egli trova nella tranquillità della pace le condizioni migliori per il raggiungimento della felicità terrena; e si tratterà di quella pace universale che a tale scopo è il più alto dei beni e il mezzo più diretto: genus humanum in quiete sive tranquillitate pacis ad proprium suum opus... liberrime atque facillime se habet. Unde manifestum est quod pax universalis est optimum eorum quae ad nostram beatitudinem ordinantur (IV 2). Acciò che si abbia questa pace universale, che consenta la felicità costante del genere umano, e quindi dei singoli individui, è d'uopo che venga domata la cupidigia, che costituisce appunto il più grave ostacolo all'attuazione della pace. La cupidigia, simboleggiata dalla lupa in If 1110-111, è conseguenza del peccato originale (cfr. Ep V 18, VI 22, VII 3); e seduce i principi con le immagini di una sempre maggiore potenza, eludendo la vigilanza della ragione (seducat alludens cupiditas, more Sirenum nescio qua dulcedine vigiliam rationis mortificans, Ep V 13); li costringe col timore dell'altrui potenza, vietando l'obbedienza alle leggi che sono l'immagine della giustizia naturale (cupidinem... sacratissimis legibus quae iustitiae naturalis imitantur ymaginem, parere vetantem, VI 22).
La cupidigia, cioè il desiderio di possedere più di quanto posseggono gli altri, l'avidità che induce a impossessarsi dell'altrui con ogni mezzo, è dunque in radicale opposizione alla giustizia (iustitiae maxime contrariatur cupiditas, Mn I XI 11), che è la virtus ad alterum, la regola che impone di dare a ciascuno il suo (§ 7). Ciò posto, il totale trionfo della giustizia sarà in rapporto alla totale rimozione della cupidigia (cfr. § 11 Remota cupiditate omnino, nichil iustitiae restat adversum). A tanto non può riuscire che l'imperatore: l'unico tra i mortali che sommamente sia potente e totalmente sia mondo dalla cupidigia, perché tutto egli possiede e altro non ha da desiderare (cfr. § 12). In lui, dunque, assente la cupidigia; ma perfetta la giustizia, valorizzata dal retto amore (karitas ovvero recta dilectio), che rende l'imperatore pienamente sollecito del bene degli uomini (cfr. §§ 13-19), cioè della loro terrena felicità. Nell'imperatore si verificano dunque le due condizioni che permettono una perfetta attuazione della giustizia: la piena volontà di realizzarla (cfr. § 6 iustitia contrarietatem habet quandoque in velle) e la potenza bastante a farlo (iustitia contrarietatem habet in posse, § 7). D'altra parte l'imperatore non risolve soltanto il problema della perfetta giustizia ma anche quello della libertà. In linea morale la perfetta libertà costituisce per gli uomini la condizione ideale (XII 1 humanum genus potissime liberum optime se habet), in quanto si risolve nel giudicare ciò che è da farsi secondo le leggi della ragione e senza che il giudizio sia alterato dagli appetiti irrazionali (cfr. § 4); e in linea politica essere liberi significa dipendere esclusivamente da sé stessi e non da altri (cfr. § 8). Ma gli uomini dipendono da sé stessi e non dai cattivi governi, quando l'autorità dell'imperatore costringe questi ultimi al loro retto ufficio, che consiste nell'aiutare i cittadini onde raggiungano il loro bene (cfr. § 9). Il genere umano è dunque perfettamente libero sotto il governo dell'imperatore (§ 8 existens sub Monarcha est potissime liberum): unica autorità animata dal retto amore, promulgatrice di leggi volte al bene degli uomini secondo i principi della razionalità. Nell'osservanza lieta e spontanea di tali leggi l'uomo troverà la più alta forma di libertà, intesa come libero attuarsi del proprio volere (cfr. Ep VI 22 ss.).
L'I.. si definisce dunque come il supremo potere civile; e ha come carattere fondamentale l'universalità: onde può frenare gli effetti perniciosi della cupidigia, e guidare l'umana civilitas alla beatitudine terrena, assicurando la giustizia e la libertà. Resta da chiarire il preciso rapporto tra l'I. e gli altri poteri che hanno autorità di comandare agli uomini: i regni, dunque, e soprattutto il supremo potere religioso, il Papato. Il rapporto tra l'I. e le minori autorità civili è subito chiarito quando si sottolinei che i regni soddisfano a esigenze diverse da quelle che riguardano il carattere universale dell'Impero. Il genere umano deve infatti essere retto da un solo principe supremo; ma tale reggimento riguarderà soltanto ciò che è comune a tutti gli uomini i quali saranno dalla norma dell'imperatore guidati alla pace (ab eo regatur et comuni regula gubernetur ad pacem, Mn I XIV 7). Alle esigenze proprie di ciascun popolo, e diverse da luogo a luogo, provvederanno invece i principi particolari. La monarchia universale ammette dunque l'esistenza di regni, signorie, comuni; e quanto al preciso rapporto tra queste unità politiche inferiori e la suprema, non dovremo intendere che quelle godano di assoluta indipendenza da questa, cui in tal caso spetterebbe soltanto una sovranità morale, ma non politica (come intese il Solari, ad esempio, prontamente rimbeccato dal Nardi). Dice infatti D. che l'imperatore ha cura per prius et inmediate di tutti gli uomini: gli altri principi, invece, per volere del monarca, giacché la cura che costoro hanno dei loro sudditi deriva dalla cura del supremo reggitore (Monarchae inest cura de omnibus, aliis autem principibus per Monarcham, eo quod cura ipsorum a cura illa supprema descendit, XI 16).
A tutt'altro discorso, e ben più complesso, obbligano - naturalmente - i rapporti tra I. e Chiesa: il più gran tema della filosofia politica del Medioevo. E subito, per una retta impostazione del problema, sarà da ricordare che D. scolasticamente distingue l'esse dell'I., la virtus (cioè la sua autorità: virtutem quae est eius auctoritas, Mn III IV 20) e l'operatio; e poiché l'esse è ordinato alla sua particolare operatio, e di quest'ultima la virtus è il principio attivo, la vis, correttamente D., per chiarire i rapporti tra l'I. e il Papato, pone il quesito di riconoscere l'esatta origine dell'autorità imperiale. Tutti erano d'accordo nell'affermare la derivazione da Dio; ma il problema stava nel precisare se derivasse da Dio direttamente, senza alcun intermediario, o se invece derivasse da Dio attraverso la mediazione del pontefice (Mn I II 3 dubitatur et quaeritur... an auctoritas Monarchae dependeat a Deo inmediate vel ab alio, Dei ministro seu vicario; cfr. III I 5, XV 16). A quest'ultima soluzione si appoggiavano tutti coloro che intendevano affermare la potestas della Chiesa non solo in spiritualibus ma anche in temporalibus, e quindi la totale subordinazione dell'I.; difendevano invece l'altra soluzione coloro che, come D., intendevano affermare in modo più o meno radicale l'indipendenza dell'I. dalla Chiesa.
D. prende le mosse dalla constatazione che l'uomo è composto di due parti essenziali: l'anima (la forma) e il corpo (la materia); e che, considerato come tale (cioè come composto), è corruttibile, perché destinato a morire. Considerato invece come anima, secondo la quale ‛ homo habet quod sit homo ', esso è incorruttibile, perché, al sopravvenire della morte, l'anima si separa dal corpo e continua a esistere, come sostanza separata, eternamente (Mn III XV 4). Duplice, dunque, la natura dell'uomo, che è al tempo stesso corruttibile e incorruttibile (§ 5); e poiché ogni natura è ordinata a un fine suo proprio, due saranno i fini dell'uomo: un primo in quanto composto corruttibile, un secondo in quanto anima incorruttibile (§ 6). Il composto umano (compresa dunque l'anima come forma del corpo) viene in tal modo tenuto distinto dall'anima considerata nella sua sostanzialità; e distinto è tenuto il fine che il composto umano può raggiungere in questa vita terrena, dal fine che la sola anima può raggiungere nella vita eterna. Due fini, dunque: la beatitudine sulla terra e la beatitudine in cielo, i duo ultima da Dio assegnati all'uomo (§ 7); il quale potrà conseguire e l'uno e l'altro operando con mezzi diversi (per diversa media, § 8). A conseguire la beatitudine terrena, assegnata come fine al mortale composto umano, serviranno gl'insegnamenti della filosofia, operando secondo le virtù morali e intellettuali; assicureremo, invece, all'anima l'eterna beatitudine per mezzo degl'insegnamenti dello spirito, operando secondo la fede, la speranza e la carità (§ 8).
Intorno a questa dottrina delle due felicità si è sviluppata un'accanita discussione tra opposte schiere d'interpreti. Da un lato coloro che (quali il Gilson e il Nardi) erano persuasi di essere innanzi a una dottrina contraria a quella propugnata da s. Tommaso, secondo il quale non esiste per l'uomo che un solo fine veramente ultimo: la beatitudine eterna; mentre il fine naturale che l'uomo persegue in questa vita non dev'essere considerato come il fine ultimo della vita terrena, ma soltanto come fine da cercare in vista della beatitudine eterna. In tal modo viene affermata e sottolineata una gerarchia tra i due fini che l'uomo persegue e può raggiungere, essendo la beatitudine terrena una beatitudine imperfetta la quale è ordinata alla perfetta beatitudine, consistente nella visione di Dio. Un solo fine ultimo, dunque, per s. Tommaso: mentre per D. due fini ultimi; e per s. Tommaso il fine naturale è ordinato all'unico fine ultimo: il soprannaturale; mentre per D. il fine naturale è assolutamente autonomo rispetto al soprannaturale. Contro tale interpretazione, altri (quali il Busnelli e il Barbi) hanno sottolineato come fra il pensiero di D. e quello di s. Tommaso non corra affatto quella radicale opposizione che si vorrebbe vedere. Se D. parla di un fine ultimo riservato al composto umano, cioè la beatitudine in questa vita, anche s. Tommaso ammette una " beatitudo huius vitae " alla quale " de necessitate requiritur corpus " (Sum. theol. II I 4 5c); e al pensiero di s. Tommaso, che dichiara imperfetta la felicità raggiungibile nella vita presente, e semplice mezzo per raggiungere la perfetta felicità della vita eterna, esattamente si conforma il pensiero di D., il quale asserisce appunto: E così appare che nostra beatitudine... prima trovare potemo quasi imperfetta ne la vita attiva, cioè ne le operazioni de le morali virtudi, e poi perfetta quasi ne le operazioni de le intellettuali. Le quali due operazioni sono vie espedite e dirittissime a menare a la somma beatitudine, la quale qui non si puote avere (Cv IV XXII 18).
Pertanto, quando D., riferendosi alla vita terrena, parla di somma beatitudine, non è da intendere in senso assoluto, ché l'uomo, come essere mortale, non può avere altro che una felicità imperfetta rispetto alla beatitudine eterna, la quale è riservata a lui non in quanto è un essere corruttibile, ma in quanto egli è un'anima immortale. Anche per D. dunque, non meno che per s. Tommaso, il fine supremo e veramente ultimo dell'uomo, in quanto destinato alla vita eterna, è la felicità celeste. L'altro fine, quello riservato al composto umano, è detto ‛ ultimo ' relativamente alla vita mortale, ma ultimo in senso assoluto non è. E se ne conclude che non solo non c'è contraddizione con s. Tommaso, ma che " anzi la dottrina dantesca delle due felicità, soprannaturale e terrena, non è che la tomistica ". Le opposte conclusioni su questo punto fondamentale del pensiero dantesco trascinano seco conseguenze gravissime. Chi, infatti, intende i duo ultima come affatto indipendenti e senza alcun rapporto gerarchico, ne argomenta che tali sono tra loro anche l'imperatore e il papa, incaricati dalla Provvidenza di guidare gli uomini rispettivamente alla felicità terrena e alla felicità eterna (Mn III XV 10). Chi, invece, ammette tra i duo ultima quel rapporto che D. esplicitamente dichiara nel Convivio (cfr. IV XXII 18) e nella Monarchia (III XV 17 cum mortalis ista felicitas quodammodo ad inmortalem felicitatem ordinetur), introduce anche, tra i due poteri, il rapporto gerarchico giustificato dalla ratio dignitatis, per cui di più alto grado è tutto ciò che si riferisce al regno di Dio e alla beatitudine eterna, come insegnava il Decreto di Graziano (c. 9 dist. 96): " Quis dubitet sacerdotes Christi regnum et principum omniumque fidelium patres et magistros censeri? "; onde D.: Illa igitur reverentia Caesan utatur ad Petrum qua primogenitus filius debet uti ad patrem: ut luce paternae gratiae illustratus, virtuosius orbem terrae irradiet (Mn III XV 18).
Naturalmente questa esplicita affermazione riesce estremamente scomoda per chi intende sostenere la totale separazione dei duo ultima e quindi la totale indipendenza dei due poteri; da ciò i tentativi di liberarsi in qualche modo dell'affermazione dantesca: il Nardi cercando di dare a intendere che fosse frutto di un tardo pentimento di D., desideroso di annacquare in qualche modo ciò che aveva fino a quel momento sostenuto; il Gilson restringendo per quanto possibile il significato dell'affermazione dantesca in modo da non menomare la totale autonomia dell'I., e dunque interpretando che l'imperatore è soggetto al papa non in quanto imperatore ma in quanto cristiano, e che solo in quanto tale deve al capo della Chiesa quella reverenza che il primogenito deve al padre; altri, infine (come il Friedberg e il Kelsen), accusando esplicitamente D. di essere un pensatore incoerente. Conferma peraltro l'affermazione dantesca, e ne chiarisce il significato, il riferimento, giustamente messo in rilievo dal Maccarrone, a un altro passo della Monarchia (III IV 20): dico quod regnum temporale non recipit esse a spirituali, nec virtutem quae est eius auctoritas, nec etiam operationem simpliciter; sed bene ab eo recipit ut virtuosius operetur per lucem gratiae quam in coelo et in terra benedictio summi pontificis infundit illi. Chiaro è dunque che, secondo D., l'imperatore, pur essendo totalmente indipendente dal papa per quanto riguarda l'esse e l'auctoritas, dal momento che riceve l'una e l'altro direttamente da Dio, tale non è per quanto riguarda l'operatio. Non potremo dire tuttavia che dipenda simpliciter, cioè in via assoluta dal papa, ma rispetto all'efficacia del governo, si deve ammettere che il papa eserciti un influsso benefico sull'imperatore. Del resto sul rapporto tra i due poteri D. è esplicito: sbaglierebbe chi escludesse in modo assoluto ogni vincolo di soggezione dell'imperatore al papa. Pur essendo vero che l'autorità imperiale deriva direttamente da Dio, tuttavia tale vincolo di soggezione esiste, anche se limitato (Quae quidem veritas ultimae quaestionis non sic stricte recipienda est, ut romanus Princeps in alsquo romano Pontifici non subiaceat, Mn III XV 17).
Affermazione recisa, ma necessaria del resto, per evitare l'accusa di cadere nell'errore manicheo, ammettendo due princìpi distinti. Il problema estremo - ma al tempo stesso fondamentale - è dunque di precisare in quale senso D. limiti la soggezione dell'imperatore al papa: di assegnare, cioè, alla formula in aliquo il suo esatto significato; e si dovrà farlo tenendo presente che D. giustifica tale subordinazione col riferirsi al rapporto tra la beatitudine terrena e la beatitudine eterna: cum mortalis ista felicitas quodammodo ad inmortalem felicitatem ordinetur (Mn III XV 17). Sopra questo quodammodo si è dunque appuntato, e giustamente, lo sforzo di quegl'interpreti che non si contentavano dell'atteggiamento rinunciatario del Gilson (" L'expression quodam modo est indeterminée. Il est donc dangereux de vouloir en préciser le sens ") o della pervicacia del Nardi nello scorgervi soltanto un'espressione imbarazzata e tardiva, da D. inserita per attenuare alquanto la risolutezza delle conclusioni cui era giunto discutendo l'origine del potere temporale e i rapporti tra Chiesa e Impero. Gl'interpreti più recenti hanno pertanto posto a confronto la formula data da D. con altre identiche o consimili usate da certi pensatori, preoccupati di limitare - senza negarla - la podestà del papa nel temporale. Muovendosi in tale ordine di ricerche, il Maccarrone ha ritenuto di poter collegare il pensiero dantesco con la dottrina della cosiddetta potestas indirecta in temporalibus, affermata da alcuni pensatori contemporanei a D., come Remigio de' Girolami. La dottrina ierocratica attribuiva al papa il potere assoluto liberamente delegato ai principi, i quali dovevano esercitarlo in suo nome e sotto il suo controllo. Tale dottrina, detta della potestas directa in temporalibus, riconosceva dunque nel papa un sovrano temporale che esercita su tutti i principi la sua autorità temporale. La potestas indirecta riconosceva invece al papa il diritto e il dovere d'intervenire nel temporale " aliqualiter, scilicet quantum ad spiritualia et ratione peccati ": in quanto, cioè, si trattava di un sovrano spirituale e spirituale era il fine che egli perseguiva.
La soggezione in aliquo dovrebbe dunque riferirsi alla positiva influenza del papa sull'operatio dell'imperatore, per cui l'autorità temporale recipit aliquid dall'autorità spirituale; e il quodammodo dovrebbe riferirsi alla superiorità morale ma non ierocratica del potere spirituale rispetto al temporale. Di tutto ciò dovrebbe essere conferma il richiamo alla comparatio tra papa e imperatore sicut patrem ad filium, e alla reverentia che si esige da quest'ultimo. Ma chi è persuaso che D. propugni la totale indipendenza del potere civile dal religioso, in quanto operanti in sfere del tutto separate, perseguendo fini diversi e senza reciproca relazione, non condivide l'idea che D. faccia sua la dottrina della potestas indirecta in temporalibus, osservando che l'intervento del pontefice quantum ad spiritualia et ratione peccati non si limitava a consigliare e correggere senza efficacia diretta sull'autorità temporale del principe in quanto tale, perché il fine cui tende il potere civile è ordinato al fine ultimo dell'uomo, cui presiede la Chiesa; e poiché " tanto est regimen sublimius quanto ad finem ulteriorem ordinatur ", il papa, anche secondo la dottrina della potestas indirecta, esercitava sui principi una vera sovranità temporale.
Dagl'interpreti secondo i quali D. avrebbe eliminato la tomistica subordinazione tra i due poteri per sostituirla con la semplice coordinazione, meno viene avversata, caso mai, quell'altra interpretazione sul pensiero dantesco che riconduce alla sola ratio dignitatis la superiorità dello spirituale sul temporale con le formule restrittive in aliquo e quodammodo, in quanto tale riconoscimento non altera la concezione dualistica dell'indipendenza e della parità dei due poteri, come suggerisce la distinzione tra giurisdizioni e dignità: il fine più nobile è quello del papa, ma non perciò il papa in quanto tale esercita alcun potere sull'imperatore in quanto tale. La gerarchia degli ordini in dignità assoluta non conferisce infatti agli ordini superiori alcuna autorità sopra gl'inferiori. Questo, peraltro, sembra certo: che nel pensiero di D. l'indipendenza, sotto certi rispetti, del potere civile coesiste con la sua subordinazione, del pari sotto certi rispetti, al potere spirituale. Non si può dunque raffigurare D. né come un ghibellino sfrenato, nemico della Chiesa e del Papato, né come un precursore della Riforma. Pure avversando il dominio diretto della Chiesa sul temporale, egli ammette che l'imperatore dev'essere in parte (in aliquo) sottomesso al papa nella sua attività di governo; e ciò perché subordinato finaliter, cioè per quanto riguarda i fini perseguiti dai due poteri. Da un lato dunque la reciproca indipendenza garantita dal fatto che ambedue derivano la loro autorità direttamente da Dio; dall'altro lato la subordinazione, giustificata dal fatto che I. e Chiesa collaborano in modo ineguale per il fine supremo cui tende l'umanità.
Il problema di collocare storicamente il pensiero politico di D. obbliga al confronto con certe posizioni dottrinarie ai suoi tempi largamente diffuse, e con alcuni testi fondamentali ai quali la Monarchia o più strettamente si apparenta o più recisamente si oppone. È evidente, a questo proposito, che D., scrivendo il suo trattato politico, ha inteso contrapporlo alla Determinatio compendiosa de iurisdictione Imperii, scrittura anonima d'incerta datazione (non so con quanto fondamento la si ritenga opera del domenicano fra Tolomeo da Lucca); onde non a caso vi fu chi, nel Trecento, volle le due opere insieme rilegate in un unico codice. La Determinatio discute infatti il problema medesimo del terzo libro della Monarchia: l'esatta origine della giurisdizione imperiale; e poiché l'anonimo è , un fermo e radicale assertore della plenitudo potestatis pontificia, la sua soluzione è diametralmente opposta a quella di D.: l'autorità imperiale deriva da Dio, ma non direttamente, bensì attraverso la Chiesa. E di conseguenza, mentre per D. l'imperatore regolarmente eletto ottiene per l'elezione medesima il diritto di amministrare l'I., per l'anonimo la giurisdizione imperiale è subordinata alla conferma e alla consacrazione dell'eletto da parte del papa; e ciò per un principio fondamentale: " Summum pontificem in sua auctoritate sive spirituali sive temporali dominio praeeminere cuiuscunque potestati sive dominationi ".
La Determinatio compendiosa si pone dunque come l'affermazione del più assoluto diritto pontificio in rapporto all'autorità temporale, riassumendo, con esplicito riferimento al caso dell'I., gli argomenti usati dai teologi pontifici per il potere degli stati in generale. In questo senso la Determinatio strettamente si apparenta con quella parte del De Regimine principum, che Tolomeo da Lucca aggiunse a completare l'opera lasciata in tronco da s. Tommaso, e radicalmente contraddetta da Dante. Dice il De Regimine: " sicut corpus per animam habet esse, virtutem et operationem... ita et temporalis iurisdictio principum per spiritualem Petri et successorum eius " (III 1); mentre D. (in Mn III IV 20): regnum temporale non recipit esse a spirituali, nec virtutem quae est eius auctoritas, nec etiam operationem simpliciter.
Nello sviluppare la filosofia del sistema imperiale, D. si apparenta invece, sotto certi rispetti, con Enghelberto d'Admont, che nel suo trattato De Ortu et fine Imperii, composto negli anni medesimi del Convivio, si studiò di motivare razionalmente i principi dell'autorità imperiale. Come in D., si trova in Enghelberto l'esaltazione dell'I. universale, suprema autorità che assicura la pace, il maggior bene di cui possa godere questo mondo. E v'è la fede nell'I. non soltanto come istituzione politica, ma anche come istituzione religiosa, in quanto voluto dalla Provvidenza e dipendente direttamente da Dio: " Ex divinae Providentiae ordinatione erit de necessitate aliqua una potestas et dignitas suprema et universalis in mundo, cui de iure subesse debent omnia regna et omnes gentes mundi ad faciendam et conservandam concordiam gentium et regnorum per totum mundum " (De Ortu XV). V'è infine l'esaltazione del giusto I. dei Romani, i quali " regna ac provincias taliter... adeptas et subiectas incoeperunt iuste possidere et iuste administrare ipsas, videlicet non tyrannicis moribus ac motibus, sed aequis et iustis legibus gubernantes " (De Ortu XI).
Ma nel trattato di Enghelberto i rapporti tra I. e Papato non sono esplicitamente toccati, e quindi il terzo libro della Monarchia esige il riferimento ad altre opere della pubblicistica trecentesca. Le più recenti che D. aveva a disposizione per studiarvi il problema dei rapporti tra i due poteri, erano quelle uscite in occasione della contesa tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello; e il suo consenso, naturalmente, non andava verso le grandi opere speculative che codificavano la tesi pontificale della potestas directa in temporalibus quali il De Ecclesiastica potestate di Egidio Romano e il De Regimine christiano di Giacomo da Viterbo e simili, ma piuttosto verso certi scritti preoccupati di rivendicare l'indipendenza del potere temporale dallo spirituale. E particolarmente utili dovevano riuscirgli quelli che, astenendosi dal reagire con eguale estremismo alle pretese degli ierocratici, non pretendevano la subordinazione della Chiesa allo stato, ma si limitavano alla dottrina della coordinazione dei due poteri: come, ad esempio, l'anonima Quaestio in utramque partem, scrittura di carattere teologico, nella quale vengono posti alcuni principi che D. farà suoi. Tanto l'uno che l'altro potere derivano da Dio: dunque devono essere distinti e separati (" debent duae potestates remanere distinctae sicut sunt divinitus institutae "); l'uomo ha bisogno di beni temporali e spirituali: a questi ultimi presiederà la Chiesa, agli altri il potere civile; le due giurisdizioni sono separate, " nec debent se mutuo perturbare "; la " potestas spiritualis debet iudicari dignior et sublimior temporali ", anzi, la " potestas temporalis quodammodo ordinatur ad spiritualem "; e subito l'anonimo teologo spiega il quodammodo, precisando il suo pensiero: " in his quae ad ipsam spiritualitatem pertinent, idest in spiritualibus ".
D. trovava dunque nella Quaestio l'affermazione risoluta dell'indipendenza dello stato e al tempo stesso il riconoscimento della superiorità della Chiesa nel campo dello spirituale. Se ne ricorderà scrivendo l'ultimo periodo della Monarchia, dove ripeterà ad verbum la formula della Quaestio: cum mortalis ista felicitas quodammodo ad inmortalem felicitatem ordinetur (Mn III XV 17).
Anche nel De Potestate regia et papali di Giovanni da Parigi D. poté trovare principi e argomenti che egli svilupperà nella Monarchia: l'autorità temporale viene definita " regimen multitudinis perfectae ad commune bonum ordinatum ab uno ": il governo di un solo che dirige l'umanità verso il bene comune; dunque un governo fondato sul diritto naturale, ché l'uomo ha bisogno della società, e questa ha bisogno di una guida unica che la preservi dal disordine; tutto ciò per disposizione di Dio che ha provveduto al fine naturale dell'uomo; ma l'uomo ha anche un fine soprannaturale, che esige un capo unico: Cristo, naturalmente, e il suo Vicario sulla terra. Quanto al rapporto tra i due poteri, Giovanni da Parigi risolutamente nega che l'autorità spirituale conferisca la giurisdizione alla temporale: ambedue derivano immediatamente da Dio: " ambae oriuntur ab una suprema potestate, scilicet divina, immediate... unde Imperium a solo Deo est " (è la tesi difesa da D. nel terzo libro della Monarchia); il governo del mondo è costituito di due domini distinti: quello che riguarda gli uomini come esseri mortali, e quello che riguarda le anime; a ciascuno presiede una diversa potenza sovrana: lo stato e la Chiesa; senza, tuttavia, che venga elusa quell'unità che è indispensabile all'ordine razionale del mondo: dal momento che i due poteri derivano da Dio e ne derivano ambedue direttamente.
Quanto al loro preciso rapporto politico, dovremo aggiungere che la rispettiva indipendenza dei due poteri non esclude la superiorità dello spirituale sul temporale: " dicimus potestatem sacerdotalem maiorem esse potestate regali et ipsam praecellere dignitate "; e ne segue che spetta al papa dirigere l'imperatore, ma non già nel campo politico, bensì in quello morale e religioso: " convenit regem fidelem esse in quo instruitur a Papa de fide et non de regimine... et ita debet concludi quod potestas terrena est a Deo immediate, licet ipsa ad beatam vitam dirigatur per potestatem spiritualem ". Alla maniera medesima un anonimo commento alla celebre bolla Unam sanctam, promulgata da Bonifazio VIII, precisava i rapporti tra i due poteri, ammettendo la superiorità dell'ecclesiastico " secundum ordinem dignitatis ", ma non " secundum ordinem causalitatis ". Donde segue che la Chiesa, avendo come suo diretto dominio lo spirituale, ha il diritto di controllare il temporale, e " in temporalibus spiritualiter dirigere ", e " temporalia ad spiritualia ordinare ". In tal modo viene garantita, in Dio, l'unità razionale del mondo, essendo salva la condizione che uno dei poteri " teneatur velordinetur sub reliquo quantum ad aliqua, licet non quantum ad omnia ".
Accanto a questi pensatori, preoccupati di affermare l'indipendenza del temporale, senza tuttavia sacrificare il primato dello spirituale, sembra appunto collocarsi D., dai quali egli peraltro si distacca nettamente secondo due ordini di motivi. Da un lato per la fede nell'I., che colorisce di accenti religiosi il pensiero politico dantesco, proteso nello sforzo di armonizzare l'idea imperiale con la supremazia del potere spirituale; dall'altro lato per l'ostilità verso le pretese dei re di Francia nel campo del potere temporale. I regalisti francesi, quali appunto l'anonimo autore della Quaestio in utramque partem, o Giovanni da Parigi, erano infatti pronti a sottrarre il trono dei re di Francia alla suprema autorità imperiale. Nell'anonima Disputatio inter clericum et militem (scrittura di un acceso regalista) è detto recisamente: " nec Francorum rex potest statuere super Imperium nec Imperator super regnum Franciae "; e ciò perché il re francese ha sulle proprie terre i medesimi diritti dell'imperatore, essendo la Francia - si diceva - una porzione staccata dell'Impero. Non stupisce pertanto la comune affermazione che pienissimi sono i poteri del re di Francia, " quia ultra eum non est superior ullus ". Così anche un altro trattato regalista, il Rex pacificus, dov'è ribadita l'indipendenza della Francia dall'I. " a tempore ex quo non extat memoria " e che i re di Francia " solum Deum superiorem habent in temporalibus, nullum alium recognoscentes superiorem in istis, nec Imperatorem nec Papam ". Non diversamente la Quaestio in utramque partem si appoggia alla testimonianza di Innocenzo III per proclamare: " Rex Francorum superiorem in temporalibus minime recognoscit "; e non diversamente Giovanni da Parigi si richiama agli argomenti tradizionali per sostenere che la Francia non fu mai sottomessa all'autorità imperiale.
Siffatte affermazioni contraddicevano il principio dell'universalità dell'I., e ne svalutavano la funzione essenziale nel governo del mondo: da ciò la violenta reazione di D., preoccupato di salvaguardare la sua teoria dell'I. come fondamento indispensabile per il retto cammino dell'umanità. Se dunque si era trovato pienamente d'accordo con certi regalisti francesi sul terreno teologico nel tentativo di chiarire il rapporto tra potere civile e potere religioso, è d'altra parte con quei medesimi in radicale opposizione quando contestano i diritti dell'I. e si sforzano di sottrarre la Francia alla giurisdizione imperiale. Il nazionalismo che, dai Capetingi agli Angiò, si oppone ai supremi diritti imperiali angoscia dunque D.: cum... doleam reges et principes in hoc unico concordantes: ut adversentur Domino suo et Uncto suo, romano principi (Mn II I 3). In realtà, posta dalla teoria dell'I. la necessità che il governo supremo sia nelle mani di un solo principe, capace di stabilire quella pace universale che è per gli uomini la condizione fondamentale della loro vita felice, resta da esaminare l'I. nella concretezza della realtà. Quale, infatti, tra i reggitori della terra ha il diritto di essere il principe dei principi e di proclamarsi imperatore?
Chiarito questo punto, cesseranno - si augura D. - le vane pretese di coloro che credono di poter usurpare il supremo potere pubblico, avversando quell'unico che ha veramente diritto alla monarchia universale (cfr. Mn II I 3 e 6). Per sciogliere il nodo, D. prende le mosse dall'osservare che al totale dominio del mondo (omnibus praeesse mortalibus, VIII 2), cioè all'I., invano aspirarono Assiri, Egiziani, Persiani, Macedoni: soltanto i Romani riuscirono ad avere l'universalem mundi iurisdictionem (§ 14). E a tanto riuscirono senza che nessuno potesse resistere (sine ulla resistentia, I 2), perché l'I. romano fu voluto da Dio, e da Dio a poco a poco costituito (Cv IV IV 13 da Dio avere spezial nascimento, e da Dio avere spezial processo). D'altra parte i Romani meritarono di essere prescelti da Dio all'impero del mondo, perché più nobili, più valorosi, più umani, più accorti di ogni altro popolo: più dolce natura [in] segnoreggiando, e più forte in sostenendo, e più sottile in acquistando né fù ne fia che quella... [di] quello popolo santo nel quale l'alto sangue troiano era mischiato... (§ 10). Se dunque da Dio il popolo romano venne prescelto al governo del mondo, non sulla violenza poserà la conquista dell'I., ma sul diritto (romanus populus de iure, non usurpando, Monarchae offitium, quod " Imperium " dicitur, sibi super mortales omnes ascivit Mn II III 1), in quanto il diritto, sul terreno pratico, non è altro che un'immagine della volontà divina (II 5). E la forza, che i Romani usarono, non sarà da considerare come la cagione movente, ma soltanto la cagione strumentale per mezzo della quale essi conquistarono quell'I. che spettava loro di diritto (Cv IV IV 12).
Soltanto gli imperatores Romanorum (cioè di tutti coloro che, per l'editto di Caracalla del 212, ebbero la cittadinanza romana entro i confini dell'I.) furono dunque imperatori di diritto; e tali, naturalmente, i loro legittimi successori: gl'imperatori di Oriente; e poi, per effetto della translatio a Graecis in Germanos, Carlo Magno e tutti i sovrani del Sacro Romano Impero; per giungere finalmente, attraverso la casa di Sassonia e di Franconia, agli Svevi.
Quando D. lavorava al Convivio, era appunto ricordato come ultimo imperadore de li Romani (IV III 6) Federico II, essendo egli l'ultimo sovrano che avesse percorso intero l'iter che, secondo la tradizione consolidatasi nei secoli, partiva dalla scelta del candidato all'I. in Francoforte da parte dei sette elettori, proseguiva con l'incoronazione in Aquisgrana a rex Romanorum, in attesa che il gradimento del pontefice (la confirmatio), consentisse al sovrano di essere finalmente proclamato imperatore in Roma. Ma dei reges Romanorum eletti a Francoforte dopo il 1250 né Rodolfo di Asburgo, né Adolfo di Nassau, né Alberto d'Austria ebbero la corona imperiale; e solamente Enrico di Lussemburgo riuscì a farsi incoronare in Roma dai legati di Clemente V nel giugno del 1312, più di sessant'anni dopo la morte di Federico II. In Enrico VII D. vide dunque riaffermata la pienezza del potere imperiale contro le autorità che lo avversavano: da un lato per le tendenze separatiste della monarchia francese, volta ad affermarsi non solo come indipendente dall'imperatore ma come autorità di pari o superiore potenza (cfr. Pd VI 100-101 al pubblico segno i gigli gialli / oppone...); dall'altro lato per le pretese dei pontefici che, ritenendosi in virtù della Donatio Constantini i legittimi signori di Roma e dell'intero Occidente, affermavano di detenere non soltanto la suprema autorità spirituale, ma anche la temporale, turbando - secondo D. - l'ordine voluto da Dio, che aveva disposto Chiesa e I. come i due rimedi contro l'infermità causata alla natura umana dal peccato originale, e come guide per il conseguimento del duplice fine dell'uomo.
D., come tutti i suoi contemporanei, crede perfettamente autentico il documento della Donatio: dunque una donazione c'era stata, e il fatto non poteva negarsi; restava, però, da chiarirne la precisa natura, e da verificarne la legittimità giuridica. A proposito della quale D. si schiera con quei civilisti che negavano alla Donatio ogni valore, sostenendo che all'imperatore non era giuridicamente lecito recar nocumento all'Impero (Mn III X 4 ss.). Alienandone una parte, Costantino avrebbe infatti attentato all'indivisibilità, all'universalità, e - in definitiva - all'esistenza medesima dell'Impero. D'altra parte, anche se per ipotesi a Costantino fosse stato lecito donare una parte del suo i., la Chiesa non aveva la possibilità giuridica di accettare il dono per espresso divieto della Sacra Scrittura: " Nolite possidere aurum neque argentum " (Matt. 10, 9). Il pensiero di D. è dunque conforme a quello dei riformatori religiosi che auspicavano il ritorno della Chiesa alla povertà evangelica. Negata la validità giuridica della Donatio, da un lato perché l'imperatore non poteva donare una parte dell'i. per modum alienationis, e dall'altro lato perché la Chiesa non poteva ricevere il dono per modum possessionis (Mn III X 15), resta facile, per D., precisare la vera natura della Donatio, con la quale Costantino avrebbe affidato alla Chiesa una parte dei beni imperiali onde costituire una rendita a favore dei poveri di Cristo. In tal modo quei beni restavano sotto la giurisdizione dell'imperatore (§ 16 inmoto semper superiori dominio); mentre alla Chiesa era affidato il compito di distribuirli ai bisognosi (§ 18). Ottima, dunque, l'intenzione del pio imperatore: pessime, invece, le conseguenze della Donatio (Pd XX 56) se interpretata come rinunzia alla giurisdizione imperiale su Roma e sull'intero Occidente in favore della Chiesa: risvegliò negli ecclesiastici la cupidigia di danaro e la brama di dominio, causò incalcolabile danno alla Chiesa medesima e all'umanità (If XIX 115-117). Provvidenziale, dunque, l'imperatore Enrico VII, novus agricola Romanorum (Ep V 16), Romanae rei baiulus (VI 25), atteso da coloro che l'invocavano come Romanae gloriae promotorem (VII 8): custode dell'integrità e unità dell'I., simboleggiata dalla tunica inconsutile (Ioann. 19, 23) quam scindere ausi non sunt etiam qui Cristum verum Deum lancea perforarunt (Mn III X 6; cfr. I XVI 3), ma insidiata dalla cupidigia di coloro che si appellavano alla donazione di Costantino come al fondamento del potere temporale della Chiesa. Entro la riaffermata unità dell'I., D., come suddito italiano, volge una particolare attenzione ai benefici che la provvidenziale presenza dell'imperatore farà sentire in partibus Italiae; tanto più che alla corona di rex Romanorum (cioè alla corona di colui che era destinato a essere imperatore e che, nell'attesa, esercitava le funzioni imperiali) era tradizionalmente legata, insieme con quella di re di Germania, anche quella di re d'Italia. Enrico VII era già, dunque, rex Romanorum e diverrà presto imperatore, quando, scendendo in Italia, assunse al tempo medesimo il regnum Italiae; onde D., ricordandosi dell'etimologia per cui " imperator " dicitur ab " imperando ", " rex " autem a " regendo ", esclama: et assurgite regi vestro, incolae Latiales, non solum sibi ad imperium, sed, ut liberi, ad regimen reservati (Ep V 19). Di seguito alla scarsa conoscenza del diritto pubblico ai tempi di D. e per effetto della falsa impostazione critica di chi tutto vedeva in funzione degli ideali risorgimentali, hanno nel passato avuto gran fortuna due opposte valutazioni del pensiero dantesco. La prima di chi, osservando come l'imperatore esaltato da D. fosse di stirpe tedesca ed eletto in Germania, se ne sdegnava, rimproverando all'Alighieri di aver annullata ogni esistenza politica dell'Italia, che sarebbe stata asservita a un imperatore tedesco, e di non aver dunque sentito il problema nazionale. Rimproveri ingiustificati perché l'imperatore non poteva essere considerato né tedesco né italiano, ma soltanto ‛ imperatore ', senza aggettivi. D'altra parte, la preoccupazione di collocare l'Alighieri tra i numi tutelari della nostra stirpe e delle nostre fortune ha indotto a vedere in lui un rigeneratore della nazionalità, un precursore dell'unità d'Italia, in quanto ‛ una ' sotto l'imperatore; e per dare base giuridica a siffatta affermazione, si è voluto piegare il dettato dantesco a sensi che non poteva avere col porre in rilievo quei passi nei quali sembra asserita la continuità tra gli antichi Romani e i nuovi Italiani, citando poi a conferma l'incoronazione milanese di Enrico VII, con la quale si credeva erroneamente che avesse assunto il titolo di re dei Romani, ed erroneamente s'identificavano i Romani con gl'Italiani; re degl'Italiani e imperatore sarebbero stati pertanto titoli equivalenti, e l'I. sarebbe stato per diritto divino essenzialmente italiano. La realtà era molto diversa: se D., richiamandosi alla tradizione classica, poteva esaltare la nostra penisola come la più nobile regione di Europa (Mn II III 17), oppure indicarla come giardino dell'I. (Pg VI 105), dal punto di vista giuridico l'Italia era soltanto una parte del territorio imperiale; e quanto alla corona italica, ricevuta a Milano da Enrico VII, sarà bene ricordare che non conferiva affatto il governo diretto dell'intera Italia, ma soltanto di una porzione alquanto limitata, rimanendone escluse tutte le terre pontificie e tutte quelle del regno meridionale. Su queste ultime l'incoronato a Milano non aveva, in quanto tale, alcun diretto potere; e i guelfi sostenevano che neppur ne aveva come imperatore, essendo quelle terre feudo della Chiesa; al pari, dunque, delle terre pontificie, dove i guelfi sostenevano che l'imperatore non poteva esercitare alcun potere, perché l'alienazione voluta da Costantino le aveva tolte all'I., come pareva confermato da una glossa del Decreto nella quale era detto appunto che la città di Roma era del papa, non dell'imperatore, perché quest'ultimo l'aveva donata al papa; e che in Roma l'imperatore era soltanto l'avvocato e il difensore della Chiesa. Diverso, naturalmente, il pensiero di D.: Roma è per lui la sede naturale non soltanto della Chiesa, ma anche dell'I. (Pg XVI 100 ss.); ed egli ne piange la miseranda condizione, vedendola utroque lumine destitutam (Ep XI 21). Dimostrata invalida giuridicamente la donazione costantiniana, D. restituisce dunque Roma all'I., e auspica che l'imperatore torni a sceglierla come propria sede (Pg VI 112-114). Ricondotto alla sua integrità e restituito alla pienezza del suo ufficio, l'I. riceve da D. caratteri che lo pongono alla pari della Chiesa e assicurano il parallelismo tra le due autorità. D. ha infatti contrapposto al papa universale il monarca universale; e gli ha attribuito i caratteri medesimi. Ambedue derivano la loro autorità direttamente da Dio (a quo velut a puncto biffurcatur Petri Caesarisque potestas, Ep V 17); ambedue vengono scelti da particolari elettori, i quali sono da porre sul piano medesimo, dato che non solo i cardinali, ma anche coloro che scelgono l'imperatore, sono da considerare denuntiatores divinae providentiae (Mn III XV 13); ambedue possono esercitare intera la loro autorità tosto che vengono eletti, dato che l'imperatore non ha bisogno della conferma pontificia (solus eligit Deus, solus ipse confirmat, § 13); e ognuno rappresenta, nella sfera del proprio ordine, l'autorità suprema, cum superiorem non habeat (§ 13); ambedue assolvono per disegno della Provvidenza a un pari ufficio: l'imperatore liberando il mondo dalla cupidigia per stabilire la pace sulla terra e guidando il genus humanum simul sumptum, l'umanità, alla felicità temporale con gl'insegnamenti della filosofia, il papa distribuendo i doni soprannaturali della grazia e guidando l'umanità alla vita eterna con la Rivelazione.
A torto la concezione dantesca di un I. come guida sovranazionale viene comunemente giudicata un'utopia, e l'Alighieri un poeta con scarso senso della realtà, perduto dietro un sogno impossibile. Quell'I. del quale egli reclamava i diritti non era sogno della sua fantasia, ma realtà effettuale, ancorata a una tradizione storica più che millenaria, radicata nel diritto pubblico, consacrata dalla Chiesa; e che non di sogno si trattasse ma di pienissima realtà, ben lo sapevano tutti coloro che paventavano l'I. nella pienezza del suo ufficio e ogni sforzo impegnavano per negarne i diritti, per limitarne la potenza, per distruggerlo. D. pretende da costoro che pienamente accettino la tradizione, che rispettino il diritto consacrato, che nulla tentino di mutare nelle cose volute da Dio. Non di utopia si deve dunque parlare nel caso di D., ma anzi di realismo conservatore, accompagnato da profonda fede nella perfezione dell'universo e nella contingenza del male; subito aggiungendo che tale realismo poggia intero sul pieno riconoscimento del diritto: da un capo all'altro dell'opera sua D. non si stanca di raccomandare la scrupolosa obbedienza alla legge e il totale rispetto del diritto consacrato dalla tradizione romana. Al di fuori di tale ossequio D. non vede che l'anarchia, il furioso scatenarsi delle lotte alimentate continuamente dalla cupidigia, il trionfo dell'Anticristo; e certo egli non poté, contemplando i suoi tempi, se non gioire che il sacro romano imperatore benedetto dal pontefice continuasse a esistere come entità politica operante nell'obbedienza alla volontà di Dio.
Bibl.- Le varie interpretazioni oggi discusse del pensiero politico di D. sono ben documentate dalle seguenti pubblicazioni; H. Kelsen, Die Staatslehre des D.A., Vienna-Lipsia 1905: F. Kern, Humana civilitas (Staat, Kirche und Kultur). Eine D. Untersuchung, Lipsia 1913; E. Flori, Dell'idea imperiale di D., Bologna 1921; S. Vento, La filosofia politica di D. nel De Monarchia, Torino 1921; E. Jordan, Le gibelinisme de D.: la doctrine de la Monarchie universelle, in Dante. Mélanges de critique et d'érudition... publiés à l'occasion du VIe centenaire de la mort du poète, Parigi 1921, 61 ss.; ID., D. et la théorie romaine de l'Empire, in " Nouvelle Revue Hist. de Droit Français et Étranger " XLV (1921) 353 ss.; XLVI (1922) 191 ss., 333 ss.; A. Solmi, Il pensiero politico di D., Firenze 1922; G. Solari, Il pensiero politico di D., in " Rivista Stor. It. " XL (1923) 373 ss.; F. Ercole, Il pensiero politico di D., Milano 1927-28; B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Milano-Genova 1930 (Firenze 1967²); H. Hauvette, L'Empire et la Papauté dans l'æuvre de D., in " Journal des Savants " 1931, 18 ss., 66 ss.; F. Von Falkenhausen, Dantes Staatsldee, in " Deutsche Dante-Jahrbuch " n.s., X (1937) 47 ss.; É. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 1939; B. Nardi, D. e la cultura medievale, Bari 1942 (1949²); F. Battaglia, Impero, Chiesa e stati particolari nel pensiero di D., Bologna 1944; B. Nardi, Nel mondo di D., Roma 1944; A. Passerin d'Entrevès, D. politico e altri saggi, Torino 1955; M. Maccarrone, Il terzo libro della Monarchia, in " Studi d. " XXXIII (1956) 5 ss.; B. Nardi, Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960.
Intorno al problema della naturalità dell'I., e a quello gravissimo delle due felicità, quanto dire del tomismo di D., si vedano: F. Ercole, Per la genesi del pensiero politico di D.: I, La base aristotelica-tomistica e la idea della umana civiltà; II, La base cristiano-patristica e la idea dell'Impero universale, in Il pensiero politico di D., cit., II 39-164; E.G. Parodi, Del concetto dell'Impero in D. e del suo averroismo, in " Bull. " XXVI (1919) 105-148; B. Nardi, II concetto dell'Impero nello svolgimento del pensiero dantesco, in Saggi di filosofia dantesca, cit., 239-305; É. Gilson, Les deux Béatitudes, in D. et la philosophie, cit., 190-200; M. Barbi, L'ideale politico-religioso di D., in " Studi d. " XXIII (1938) 46 ss.
Per una collocazione del pensiero di D. entro il suo ambiente culturale e politico, si veda: R. Scholz, Die Publizistik zur Zeit Philipps des Schönen und Bonifaz VIII, Stoccarda 1903; J. Rivière, Le problème de l'Église et de l'État au temps de Philippe le Bel, Lovanio-Parigi 1926; M. Grabmann, Studien über den Einfluss der aristotelischen Philosophie auf die mittelalterliche Theorien über das Verhältnis von Kirche und Staat, Monaco di B. 1934. Per il rapporto tra l'I. e la Chiesa, si veda: M. Barbi, Impero e Chiesa, in " Studi d. " XXVI (1942) 9 ss.; M. Maccarrone, Il terzo libro della Monarchia, ibid. XXXIII (1956) 1-142; B. Nardi, Intorno ad una nuova interpretazione del terzo libro della Monarchia dantesca, in Dal Convivio alla Commedia, cit., 151-313.
Intorno al problema della corona italiana spettante al rex Romanorum e intorno ai rapporti tra l'imperatore e l'Italia, si veda: B.H. Sumner, D. and the " Regnum Italicum ", in " Medium Aevum " I (1932) 2-23; F. Battaglia, Impero, chiesa e stati particolari nel pensiero di D., cit., 74 ss. e 81 ss.; D,A., Monarchia, a c. di G. Vinay, Firenze 1950, 188-189 ss.; C.T. Davis, D. and the Idea of Rome, Oxford 1957, 237-238; H. Lowe, D. und das Kaisertum, in " Historische Zeitschrift " CXC (1960) 517-552; P.G. Ricci, D. e l'Impero di Roma, in D. e Roma, Firenze 1965, 137-149. Riassume parecchie delle convinzioni erronee maturate dalla critica italiana M. Barbi, L'Italia nell'ideale politico di D., in " Studi d. " XXIV (1939) 5 ss.
Già più volte si è tentato di delineare una storia del pensiero politico di D. e di precisare cronologicamente le fasi del suo presunto svolgimento, ma sempre affidandosi a elementi troppo incerti e inconsistenti. Di sicuro sappiamo soltanto quello che ci dice D. medesimo quando in Mn II I 2 confessa di aver creduto un tempo che i Romani fossero pervenuti al dominio del mondo, cioè all'I., unicamente con la forza, senza alcun fondamento di diritto (illum nullo iure sed armorum tantummodo violentia obtinuisse, Mn II I 2; la romana potenzia non per ragione né per decreto di convento universale fu acquistata, ma per forza, Cv IV IV 8): persuaso, dunque, di quel giudizio agostiniano (cfr. Civ. V 12 ss.) che costituiva un tema di continuo ricorrente nella polemica guelfa contro l'Impero. Ma quando D. abbia cambiato opinione, e attraverso quali riflessioni sia maturato il suo pensiero intorno alla dottrina dell'I., non siamo in grado di dirlo. Comunque chi si diletta di sottili e vane discussioni potrà leggere: F. Ercole, Le tre fasi del pensiero politico di D., in Il pensiero politico di D., cit., 271-407; B. Nardi, Tre pretese fasi del pensiero politico di D., in Saggi di filosofia dantesca, cit., 307-345.