Impiegati e funzionari
Come dimostra la storia dell'espressione 'colletti bianchi', la categoria impiegatizia costituisce un oggetto di studio relativamente recente delle scienze sociali. Secondo J. Kocka (v., 1977, p. 142) tale espressione, usata per designare un tipo particolare di 'lavoratore non manuale' - nella fattispecie il disegnatore industriale -, compare per la prima volta nel 1903. Solo dopo la seconda guerra mondiale, comunque, l'espressione entra stabilmente nell'uso linguistico anglosassone per indicare la categoria degli impiegati, e all'inizio degli anni cinquanta, con il libro di C.W. Mills intitolato appunto White collar, il tema riceve la prima, fondamentale trattazione scientifica nell'area linguistica anglosassone.
Ciò non significa peraltro che di una sociologia degli impiegati si possa parlare solo a partire dal classico studio stimolante e impressionistico di Mills. Sin dall'inizio del XX secolo infatti in Germania - in un primo tempo in rapporto alla questione sociale e ai mutamenti della struttura sociale (v. Lederer, 1912; v. Schmoller, 1918; v. Hilferding, 1910), successivamente nella Repubblica di Weimar in relazione alle correnti politiche e al nazionalsocialismo emergente - si sviluppò un dibattito abbastanza ampio sugli impiegati come nucleo essenziale del nuovo ceto medio. Nel quadro di tale dibattito vennero posti i fondamenti della sociologia degli impiegati (v. Lederer e Marschak, 1926; v. Kracauer, 1930; v. Dreyfuss, 1933; v. Speier, 1977), che influenzarono profondamente anche la successiva ricerca angloamericana, non da ultimo a seguito dell'emigrazione degli studiosi tedeschi causata dall'avvento del nazismo. (L'opera di Mills ad esempio si articola in base ai concetti fondamentali del precedente dibattito tedesco sul 'vecchio' e sul 'nuovo' ceto medio). Questi pochi cenni sulla storia del concetto e della riflessione teorica sono sufficienti a chiarire che al di là dei confini nazionali non abbiamo a che fare con un fenomeno omogeneo. Le definizioni, l'individuazione delle problematiche e le categorie fondamentali della sociologia degli impiegati si collegano in larga misura alle specificità della struttura sociale e della storia politica dei singoli paesi (v. Mangold, 1981).
I collegamenti teorici della sociologia degli impiegati, perlomeno nei suoi sviluppi più recenti, sono interdisciplinari e di rilevanza generale; partendo dal 'colletto bianco' - questo particolare marginale sebbene appariscente dell'abbigliamento maschile - si può sviluppare un dibattito di fondamentale importanza nelle scienze sociali sull'evoluzione della struttura sociale nelle moderne società borghesi e sul passaggio dalla società industriale alla 'società dei servizi'. Proprio sull'avanzata dei gruppi di lavoratori dipendenti che rientrano - per il momento indistintamente - nella categoria dei 'colletti bianchi' o degli 'impiegati', J. Fourastié (v., 1949) fondava la sua "grande speranza del XX secolo", e D. Bell (v., 1973) la sua prefigurazione di una società postindustriale in cui l'elemento fondamentale non fosse più costituito dalla proprietà, bensì dal sapere e dalla cultura.
Nella prima letteratura sull'argomento troviamo la seguente caratterizzazione dei 'colletti bianchi', che ci consente di fare un primo passo verso una definizione sociologica e ne pone in evidenza, nel contempo, gli aspetti problematici: "Spesso hanno una gran paura di sporcarsi le mani" (v. Kocka, 1977, p. 394). Il 'colletto bianco' è simbolo di lavoro pulito, e distingue tutti coloro che possono o addirittura debbono indossarlo sul posto di lavoro da quanti svolgono mansioni 'sporche' e portano di conseguenza il meno delicato 'colletto blu'. Viene così tematizzata la contrapposizione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, e in tutte le teorie sociologiche, qualunque sia la tradizione cui esse si rifanno, la categoria degli impiegati è definita in primo luogo in contrasto rispetto a quella degli operai: i 'colletti bianchi' sono estranei al lavoro alle macchine delle fabbriche e svolgono funzioni di direzione e di controllo che non riguardano direttamente l'attività produttiva. Questa definizione di natura esclusivamente negativa è però insufficiente, perché la categoria dei lavoratori non manuali è assai numerosa e molto più eterogenea di quella dei lavoratori manuali: di conseguenza è necessario individuare ulteriori caratteristiche positive al fine di chiarire se i 'colletti bianchi' costituiscano un'unità sociale, un ceto o una classe.
Poiché il concetto di 'colletti bianchi' o 'impiegati' riguarda l'ambito del lavoro dipendente, prima di intraprendere qualunque tentativo di definizione in base allo status sociale occorre operare una delimitazione rispetto ad altre categorie di lavoratori sulla base di caratteristiche attinenti alle funzioni e/o ai contenuti dell'attività lavorativa, oppure sulla base di criteri che fanno riferimento alla posizione nella gerarchia aziendale. È questa la direzione seguita dagli esponenti della sociologia classica degli impiegati, o dai suoi precursori. Nel Capitale Marx fornisce una definizione degli impiegati che risulta funzionale sotto due aspetti. Dal punto di vista economico, la maggior parte dei gruppi di lavoratori che oggi classifichiamo come impiegati svolge, secondo Marx, un lavoro improduttivo, ossia un lavoro che non produce plusvalore; egli li definisce "salariati commerciali del capitale". Dal punto di vista funzionale, si tratta di lavoratori dipendenti, impiegati nei settori commerciali-amministrativi delle aziende industriali o negli istituti bancari e commerciali. Alla categoria dei lavoratori produttivi appartiene una porzione minima degli impiegati, che deve la propria nascita ed espansione alla progressiva differenziazione delle funzioni di direzione e di controllo determinata dallo sviluppo della divisione del lavoro; tra essi Marx include gli overlookers, i periti ecc., definendoli non senza scherno "ufficiali e sottufficiali del capitale" (v. Marx, 1867-1894, in particolare vol. I, cap. 14, e vol. III, capp. 17 e 23).
Nell'analisi marxiana di questa categoria di lavoratori emergono già numerosi elementi che avrebbero suscitato accese controversie nel successivo dibattito delle scienze sociali sulle caratteristiche particolari e generali del lavoro impiegatizio. Un'importanza cruciale per la discussione successiva ebbe soprattutto il fatto che anche per i gruppi impiegatizi Marx subordinasse la loro funzione e la loro posizione all'interno dell'azienda allo status di lavoratori salariati, ritenendo di conseguenza che a lungo termine anche gli impiegati sarebbero stati soggetti alle stesse leggi della divisione del lavoro e della razionalizzazione che valevano per i lavoratori produttivi. Se le cose stanno così, se i vantaggi del lavoro improduttivo rispetto a quello produttivo, ad esempio una migliore retribuzione e una maggiore qualificazione, verranno livellati a seguito della progressiva razionalizzazione, è inutile - secondo una delle principali correnti della sociologia marxista - preoccuparsi troppo delle specificità sociologiche e politico-strategiche della categoria impiegatizia, dato che prima o poi essa verrà inesorabilmente riassorbita nella classe operaia (torneremo su questo punto in rapporto al dibattito sulla struttura sociale).
La definizione funzionale degli impiegati fornita da Weber, al pari della sua analisi del capitalismo, è agli antipodi di quella marxiana. Weber considera gli impiegati un gruppo burocratico e si occupa soprattutto degli impiegati dell'industria come gruppo particolare della burocrazia, che, in quanto funzionari privati, non differiscono sostanzialmente da quelli pubblici. Caratteristica preminente della loro concezione del lavoro è la rigorosa obiettività, capace di astrarre da ogni fattore personale, e uno spiccato senso del dovere. Poiché a seguito dell'ampliarsi dei mercati, della crescente razionalizzazione dei rapporti sociali e della tecnologizzazione del lavoro e delle comunicazioni le forme di organizzazione e gli apparati amministrativi di tipo burocratico si vanno estendendo a tutti gli ambiti della vita - dalle chiese ai grandi magazzini, dall'industria ai sindacati e ai partiti - anche il modello di condotta che definisce questa categoria di lavoratori è destinato a diffondersi e a influenzare le forme dei rapporti sociali (v. Weber, 1922).
Esistono senza dubbio dei collegamenti tra le analisi weberiane e le definizioni degli impiegati elaborate nel quadro di alcune recenti teorie del potere e dell'organizzazione, ad esempio quelle di Dahrendorf (v., 1957) e di Croner (v., 1954). In quanto gruppo burocratico gli impiegati costituiscono un'articolazione funzionale dell'esercizio del potere e di conseguenza sono anche investiti di autorità, o dall'imprenditore nel settore dell'economia privata, o dal 'sovrano' in quello dell'amministrazione pubblica. Questa cosiddetta 'teoria della delega' coglie senza dubbio un elemento strutturale decisivo per la nascita della categoria impiegatizia, già individuato peraltro da Marx. A essa tuttavia si potrebbe obiettare che, con l'espansione dell'amministrazione burocratica e la sua progressiva differenziazione basata sulla divisione del lavoro, la partecipazione delegata al potere cessa di essere un elemento determinante dei contenuti e delle modalità di esecuzione dell'attività lavorativa; per la maggior parte degli impiegati dei livelli inferiori dell'apparato burocratico, meramente esecutivi, questo tratto distintivo del loro lavoro è annullato da regolamenti d'esecuzione spesso restrittivi e da una divisione gerarchica delle competenze. Lo stesso Dahrendorf sembra essersi reso conto del problema, senza peraltro dargli il giusto peso sul piano teorico. Oltre a una differenziazione orizzontale degli impiegati in base ai settori economici (industria, commercio, servizi, pubblico impiego), Dahrendorf propone una differenziazione verticale, basata sullo status professionale, tra 'burocrati puri', 'tecnici' e 'semplici impiegati' (v. Dahrendorf, 1957, pp. 52 ss.). Questa differenziazione non gli impedisce peraltro, sulla base della teoria della delega, di includere tutti gli impiegati e i funzionari nella 'classe dominante'.
Se si confrontano queste definizioni tradizionali con la realtà attuale dei gruppi di lavoratori che rientrano nella categoria dei 'colletti bianchi', si vedrà ben presto che esse risultano del tutto inadeguate rispetto alla varietà delle mansioni e all'eterogeneità delle condizioni professionali degli impiegati. Questi approcci infatti restano ancorati a determinate caratteristiche che sono rilevanti per particolari gruppi di impiegati e funzionari (ad esempio quelli dell'industria nel caso di Marx e di Weber), ma che con l'espandersi della categoria e con la progressiva differenziazione delle sue funzioni non si sono generalizzate. L'eterogeneità del campo professionale, la complessità e la diversificazione delle funzioni, del livello di qualificazione e della posizione aziendale di un top manager, un'infermiera, o una cassiera del supermercato - che rientrano tutti tra i 'colletti bianchi' - condannano al fallimento ogni tentativo di definire una categoria omogenea rispetto alla funzione, al tipo di attività o allo status. Per render conto di tale eterogeneità si può far ricorso a una tipologia altamente astratta, quale quella abbozzata da Mills (v., 1951) e precisata in seguito da Kohn attraverso le seguenti categorie: "rapporto con le cose" (che riguarda la maggior parte delle mansioni operaie), "rapporto con i simboli" e "rapporto con le persone" (che riguardano le mansioni impiegatizie: v. Kohn, 1977², pp. 165 ss.). E tuttavia oggi non è più possibile tracciare una linea di demarcazione precisa tra le attività lavorative degli operai (colletti blu) e quelle degli impiegati (colletti bianchi) servendosi di una tipologia di questo genere, poiché a seguito della computerizzazione dei processi del lavoro produttivo alcune mansioni specializzate dei 'colletti blu' si avvicinano sempre più alla categoria "rapporto con i simboli".
Di fronte all'eterogeneità sociale e professionale degli impiegati, può sorprendere il fatto che in quasi tutte le società industriali occidentali venga utilizzato il medesimo concetto per designare gli stessi gruppi di lavoratori del settore terziario pubblico e privato, nonostante la diversità di funzioni e di status che li caratterizza. Sia che si parli di white collar, di employée salarié, di Angestellte o di empleado, la gamma delle categorie di lavoratori comprese sotto questi concetti va sempre dal manager alla semplice commessa, suscitando una vaga idea di comunanza sociale. Si potrebbe credere che di fatto l'immagine contrapposta, l'omogeneità relativamente grande dei lavoratori dell'industria, sia stata più determinante rispetto ad altre caratteristiche comuni. Su questo punto il senso comune e la sociologia con tutta probabilità condividono sostanzialmente l'idea che molti impiegati hanno della propria posizione, e che è stata recentemente caratterizzata da H.P. Bahrdt (v., 1984, p. 154) con la seguente osservazione giocata sull'ambiguità: "Alcuni impiegati si distinguono dagli operai solo perché si distinguono dagli operai".
Di fatto la sociologia degli impiegati non si è incentrata tanto su un'analisi approfondita della situazione lavorativa professionale della categoria, quanto piuttosto su un annoso dibattito relativo al significato politico e sociostrutturale degli impiegati. Il fatto che sinora abbiamo citato tanti autori tedeschi ha qualcosa a che fare con questa tradizione. Come sociologia degli impiegati, lo studio dei 'colletti bianchi' è stato per lungo tempo (sino alla fine della Repubblica di Weimar) monopolio della sociologia dell'area linguistica tedesca. Esso si è sviluppato prima e nel modo più durevole là dove gli impiegati come gruppo sociale sono stati creati dalla classe politica dominante in contrapposizione a una classe operaia che si proponeva e si organizzava in senso rivoluzionario: in Germania e in Austria. In Inghilterra, nonostante la forte dicotomizzazione della società, l'alleanza politica tra la borghesia dominante e una categoria impiegatizia che avrebbe dovuto essere comprata con la concessione di determinati privilegi appariva meno necessaria, in quanto non esisteva un movimento operaio rivoluzionario e il suo organo politico, il Partito Laburista, sin dall'inizio aveva seguito un orientamento riformistico (v. Hobsbawm, 1964; v. Lockwood, 1966). Gli Stati Uniti nel XIX secolo erano principalmente una società di imprenditori e di lavoratori autonomi. Secondo Mills (v., 1951) all'inizio dell'Ottocento gli imprenditori autonomi costituivano circa i quattro quinti della popolazione attiva, nel 1879 un terzo e nel 1940 solo un quinto.
I mutamenti della struttura sociale in Francia, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti tra il 1880 e il 1980 mostrano (v. tabella) che quasi dappertutto gli impiegati sono diventati la categoria di lavoratori quantitativamente più rilevante. In questo caso, tuttavia, occorre tener presente in modo particolare la riserva metodologica che vale in generale per tutti gli studi di comparazione internazionale, ossia il fatto che analoghe categorie professionali hanno un significato diverso in paesi diversi (v. Sylos Labini, 1987⁶). Ciò vale in particolare per la categoria degli impiegati, che assume il carattere di un gruppo sociale non solo per il tipo di attività lavorativa, ma anche per l'inquadramento normativo di quest'ultima. Proprio in relazione al trattamento normativo e previdenziale esistono differenze determinanti tra i paesi angloamericani e i paesi di lingua tedesca, nonché tra le varie società europee.
Per quanto riguarda l'origine storica degli impiegati come categoria sociostrutturale, occorre considerare due fattori: la loro funzione aziendale, come lavoratori le cui mansioni non riguardano il processo produttivo immediato ma la direzione e il controllo di quest'ultimo, e la posizione privilegiata rispetto agli operai sul piano del trattamento normativo e previdenziale. La seconda componente ha una diversa incidenza nei diversi paesi: in Germania è assai più pronunciata che nei paesi angloamericani, dove per questo aspetto gli impiegati non si differenziano in alcun modo dagli operai.
In Germania il Regolamento in materia di professioni e di mestieri del 1891 prevedeva già un trattamento normativo speciale per gli impiegati, come ad esempio un termine di preavviso di sei settimane in caso di licenziamento e la corresponsione dello stipendio anche nei periodi di malattia. La posizione privilegiata degli impiegati venne definitivamente consolidata dalla legge sull'assicurazione degli impiegati (AVG) del 1911, che istituiva un'assicurazione di invalidità e vecchiaia specifica per la categoria, con condizioni nettamente più favorevoli di quelle previste per gli operai (limiti di pensionabilità inferiori, condizioni più generose per l'invalidità professionale ecc.). Il carattere esclusivo della previdenza sociale degli impiegati venne, nella sostanza, motivato sulla base di particolari caratteristiche sociali e di maggiori spese di riproduzione della categoria: accesso all'istruzione, condizioni di vita, posizione sociale, precoce usura delle capacità intellettuali, attività lavorativa ridotta per le donne sposate, maggiori spese per l'istruzione e l'educazione dei figli rispetto al ceto operaio; tali motivazioni, già allora discutibili, dimostrano l'interesse scopertamente politico del legislatore a costituire un ceto sociale particolare, tentativo che nel periodo successivo - perlomeno dal punto di vista politico-ideologico - fu coronato da un certo successo, e si tradusse, anche sul piano materiale, in una serie di differenze in termini di sicurezza sociale che solo in tempi recentissimi vanno scomparendo.
Questo trattamento privilegiato del ceto impiegatizio attuato per fini politici non solo implicava vantaggi materiali, ma comportava anche sul piano simbolico una promessa - come sempre soggetta a tutta una serie di condizioni - di appartenenza a un livello sociale 'migliore', in quanto, attraverso la maggiore sicurezza del posto di lavoro e il riconoscimento di un certo livello di istruzione, implicava inequivocabilmente una maggiore considerazione rispetto alla precaria esistenza degli operai. Ciò di fatto poteva rafforzare l'illusione di uno status sociale privilegiato tra i lavoratori dipendenti proprio negli impiegati di livello inferiore, che solo con l'emendamento del 1924 vennero inclusi nella legge sull'assicurazione degli impiegati (v. Kocka, 1969, pp. 463 ss.; v. Mangold, 1981, pp. 16 ss.; per quanto riguarda l'Austria v. Botz, 1981).
In Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Italia non esiste un'analoga normativa statale per un'assicurazione di invalidità e vecchiaia specifica degli impiegati. Solo i cadres in Francia (v. Boltanski, 1982) e i dirigenti in Italia godono di un trattamento speciale. Ciò non significa tuttavia che nei sistemi previdenziali delle aziende non sia previsto un regime di favore per gli impiegati o per determinate categorie di impiegati. Lo stesso vale per l'Inghilterra e gli Stati Uniti (v. Dorow, 1970; per gli Stati Uniti in epoca recente v. Sweeney e Nussbaum, 1989).
Nel 1926 Lederer e Marschak puntualizzarono la tematica sociostrutturale dei 'colletti bianchi', sia in retrospettiva che in rapporto alle future tendenze di sviluppo, formulando l'ipotesi secondo la quale "se è vero che il capitalismo per le sue immanenti tendenze alla concentrazione delle imprese porta alla riduzione dei lavoratori autonomi, alla disgregazione e alla recessione del vecchio ceto medio, dall'altro lato tuttavia c'è da tener conto della rapida espansione di uno strato di lavoratori dipendenti che non comprende gli operai, il quale frena il processo di proletarizzazione, fa da cuscinetto tra il grande capitale e il proletariato e assume tutte le funzioni sociali per le quali il 'vecchio ceto medio' non è più sufficiente, sia dal punto di vista quantitativo sia, in parte, anche dal punto di vista sociale e culturale" (v. Lederer e Marschak, 1926, pp. 121 s.). In questa ipotesi è riassunto il primo dibattito tedesco sugli impiegati menzionato in precedenza; a essa si possono facilmente ricollegare le tre questioni fondamentali sulle quali si è incentrato il dibattito internazionale sul significato sociostrutturale della categoria impiegatizia.
1. La prima questione - la più antica dal punto di vista storico - riguarda la collocazione sociale e di classe degli impiegati, e può essere formulata nei seguenti termini: il nuovo ceto in rapida espansione degli impiegati del commercio e dell'amministrazione nel settore privato si considera parte della classe operaia e scende a patti con il movimento sociale e politico di quest'ultima, oppure si orienta verso la borghesia o tenta addirittura di assumere un ruolo autonomo tra la borghesia e la classe operaia?
2. La seconda questione concerne l'orientamento politico degli impiegati e dal punto di vista storico si riferisce soprattutto al periodo tra le due guerre e al ruolo del nuovo ceto medio nell'ascesa del fascismo. Tale questione si collega alla tesi secondo la quale la piccola borghesia e i 'nuovi ceti medi' nella fase del loro declassamento economico e sociale hanno costituito il terreno propizio per lo sviluppo di movimenti fascisti.
3. La terza questione infine riguarda la mentalità e le caratteristiche sociali degli impiegati: sono essi i rappresentanti di una cultura del conformismo, probabilmente di un conformismo individualistico della carriera, quale per lungo tempo è stato loro imputato (v. Mills, 1951), e del gusto piccolo borghese che - per usare le parole di Bourdieu (v., 1979) - riconosce la grandezza senza conoscerla e non è capace di sviluppare alcun rapporto con ciò che è 'autentico'?
Queste tre questioni - che, sebbene storicamente siano nate in contesti diversi, hanno nondimeno una rilevanza generale che trascende la loro localizzazione storica - riguardano tutte l'identità politica, sociale e culturale degli impiegati. Per potervi rispondere si dovrebbe presupporre una situazione sociale comune che - come abbiamo già accennato - non esiste e probabilmente non è mai esistita. Se, nondimeno, nelle scienze sociali queste domande hanno sempre trovato delle risposte - in parte anche piuttosto categoriche - che hanno influenzato i termini del dibattito politico, ciò non è dovuto tanto ad analisi approfondite della cultura e della coscienza della categoria impiegatizia, quanto piuttosto a quel privilegiamento della classe operaia tipico di gran parte della sociologia, che ha attribuito agli operai una sorta di diritto di primogenitura come protagonisti di un mutamento sociale radicale e ha discriminato gli impiegati come semplici epigoni i quali, per la loro maggiore vicinanza sia sociale che funzionale alla borghesia possidente, comprometterebbero l'unità e la capacità di lotta del movimento operaio.
1. Nella tradizione di questa sociologia di stampo politico viene data la preminenza alla prima questione, quella relativa alla collocazione e all'autocollocazione sociale degli impiegati. Questo duplice problema venne affrontato dalla prima socioeconomia tedesca sotto l'aspetto sociopolitico e nella prospettiva della teoria delle classi, e rimase un tema centrale sino alla fine della Repubblica di Weimar. Il fatto che anche la tradizione di pensiero marxista nel movimento operaio tedesco e austriaco accettasse la tesi degli impiegati come nuovo ceto medio può essere ricondotto a due ordini di motivi: in primo luogo i primi impiegati provenivano dal 'vecchio ceto medio' degli artigiani e commercianti autonomi, e ciò fece sì che la loro coscienza sociale restasse per lungo tempo ancorata ai modi di pensare tradizionali di questi ultimi. In secondo luogo la maggior parte delle mansioni tipiche dei primi impiegati (contabili, periti, capireparto) li collocava effettivamente tra i due fronti all'interno dell'azienda: agli occhi dei lavoratori manuali gli impiegati costituivano un personale meglio retribuito dal datore di lavoro, il quale valutava con diverso metro le prestazioni lavorative degli operai e poteva ridurre arbitrariamente i loro salari (v. Kadritzke, 1982). Scarsa considerazione trovavano per contro altre analisi, come ad esempio quella di G. Adler (v., 1891 e 1892), le quali indicavano come all'interno della categoria impiegatizia andasse aumentando il divario tra il numero esiguo di impiegati commerciali, privilegiati per estrazione sociale, grado di istruzione, condizioni di lavoro e opportunità professionali, e lo strato numericamente assai più consistente e in rapida espansione di semplici impiegati e commessi, la cui situazione sociale era analoga a quella degli operai (v. anche Mangold, 1981, pp. 13 ss.). Con la legge sull'assicurazione speciale per gli impiegati del 1911 la politica sociale dello Stato compì l'ultimo passo per sostenere l'ottica del 'nuovo ceto medio' e per accentuare la funzione politica di cuscinetto degli impiegati.
Va da sé che la questione dell'appartenenza sociale degli impiegati ha una grande rilevanza soprattutto nella sociologia del sindacato o nella sociologia dei rapporti di lavoro nell'industria. In questo importante ramo delle scienze sociali la pesante eredità della tesi del 'ceto medio' si è tradotta in un totale disinteresse, protrattosi sino ai nostri giorni, nei confronti del problema dell'organizzazione degli impiegati (v. Baethge e Oberbeck, 1986). A tale carenza, che non riguarda solo la sociologia tedesca, fa riscontro una analoga mancanza di considerazione per il problema della situazione lavorativa e professionale degli impiegati in seno ai sindacati stessi. Sebbene non siano mancati ammonimenti precoci contro questa tendenza a ignorare sul piano politico-organizzativo la categoria impiegatizia (v. Bauer, 1927; v. Bernstein, 1912; v. Lange, 1911), gli operai sono rimasti sino a oggi, in misura maggiore o minore, il riferimento privilegiato di gran parte delle organizzazioni sindacali. Ne consegue che quasi ovunque il grado di organizzazione dei 'colletti bianchi' è nettamente inferiore a quello dei 'colletti blu' (v. Appelbaum e Gregory, 1988; v. Christopherson e Noyelle, 1988; v. Baethge e altri, 1991), e che, nel momento in cui il numero degli operai delle industrie va sempre più riducendosi e gli impiegati sono diventati la maggioranza della popolazione attiva, i sindacati cercano di recuperare, senza molto successo, il loro potenziale organizzativo trascurato per decenni.
2. A prima vista la questione del rapporto tra ceto medio e fascismo appare un problema specifico, e come tale è stato affrontato in una serie di studi risalenti agli anni trenta e quaranta sul ruolo avuto dai gruppi costitutivi del nuovo ceto medio - declassati o timorosi di un declassamento - nell'ascesa del nazionalsocialismo (v. l'estesa bibliografia in Geiger, 1932, e in Kocka, 1977). In epoca recente la questione è stata riproposta dalla storia sociale, che l'ha riformulata in termini più generali, chiedendosi se esistano esperienze e forme di coscienza specifiche degli impiegati che li rendano particolarmente predisposti alle ideologie fasciste, e se nelle società democratico-borghesi esista un potenziale di minaccia collegato ai gruppi impiegatizi, immanente in quanto dipendente da fattori sociostrutturali (v. Kocka, 1977, p. 21). Kocka ha cercato di fornire una risposta a tale questione con uno studio comparato a livello internazionale incentrato sulla storia sociale degli impiegati americani tra il 1890 e il 1940. Il risultato di tale studio, documentatissimo e assai accurato, non desta sorpresa, ma toglie alla tesi tradizionale del nuovo ceto medio il suo valore politico universale e atemporale: non furono né un modello ideologico né un carattere sociale di gruppo professionale specifico propri della categoria impiegatizia che durante la crisi del '29 spinsero a destra gli impiegati tedeschi e contribuirono a rafforzare il nazionalsocialismo. Il confronto con analoghi gruppi impiegatizi negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna dimostra, secondo Kocka, che in Germania il perdurare di tradizioni feudali-corporative e burocratiche ostacolò il sorgere nella categoria impiegatizia di orientamenti individualistici e di una concezione del lavoro e del rischio conforme al mercato. La scarsa incidenza dell'elemento borghese nella struttura sociale e nella cultura politica avrebbe quindi impedito che gli impiegati tedeschi sviluppassero quelle caratteristiche sociopsicologiche che nel caso dei loro colleghi americani hanno rafforzato le aspirazioni all'ascesa sociale individuale, una relativa disponibilità al rischio e la fede nel successo individuale, rendendoli meno esposti alla suggestione di ideologie radicalmente illiberali (v. Kocka, 1977, pp. 31 ss.). Lo studio di Kocka mette in chiaro in modo inequivocabile un'altra circostanza, che dovrebbe liberare la futura sociologia dei 'colletti bianchi' dal suo ancoraggio alla prospettiva dei 'colletti blu': "La differenza tra operai e impiegati ha una rilevanza assai diversa nei vari paesi, e tali diversità hanno un notevole peso sia sociale che politico" (v. Kocka, 1977, pp. 334 s.).
Senza voler mettere in discussione l'impostazione di fondo dell'argomentazione di Kocka, secondo la quale le differenze di origine storica nella cultura politica e nella struttura sociale influenzano gli orientamenti politici più di quanto non faccia lo status professionale immediato, alla luce di studi più recenti o della riscoperta di studi anteriori, la premessa su cui si basa questa tesi, ossia che gli impiegati avrebbero costituito la vera e propria 'fanteria' del fascismo, appare eccessivamente generica e va anch'essa riveduta. I successivi studi empirici di Speier (v., 1977) e di Fromm (v., 1980), nonché le approfondite analisi elettorali di Hamilton (v. i contributi del 1981) inducono in effetti a operare una maggiore differenziazione. La ricerca di Speier dimostra in modo convincente che non è più lecito parlare di una compatta coscienza di categoria degli impiegati durante la crisi della Repubblica di Weimar; si osserva piuttosto un chiaro avvicinamento alla coscienza operaia nelle grandi aziende e tra gli impiegati meno qualificati dei grandi magazzini e delle industrie, che si riflette anche in un'attività politica organizzata di sinistra. L'immagine di una coscienza sociale compatta degli operai da un lato e degli impiegati dall'altro è messa in discussione anche dallo studio condotto da Fromm presso lo Institut für Sozialforschung di Francoforte. Egli dimostra che in entrambi i gruppi alla fine della Repubblica di Weimar esisteva solo una percentuale minima di persone che per sentimenti e modo di pensare poteva essere definita di sinistra (v. Fromm, 1980, pp. 251 s.). Si ha l'impressione che sarebbe più importante spiegare perché la tesi tradizionale delle tendenze fasciste del nuovo ceto medio si sia potuta associare per un tempo relativamente lungo alla categoria degli impiegati nella sua globalità, tanto da far postulare una particolare sindrome di tipo fascista. Secondo Hamilton alla base di questo mito vi sarebbe un errore metodologico, in quanto i sostenitori della tesi secondo cui il nazionalsocialismo sarebbe stato "una reazione disperata dei ceti medi meno abbienti" non hanno mai dato una chiara definizione sociostrutturale della categoria dei ceti medi, ma vi hanno incluso indistintamente gli impiegati e i funzionari di livello inferiore del commercio, i piccoli commercianti e i piccoli proprietari urbani nonché i contadini. Dall'analisi sui dati elettorali condotta da Hamilton risulta che tra i gruppi dei piccoli impiegati non vi fu affatto una preponderanza schiacciante di voti per Hitler (v. Hamilton, i contributi del 1981; v. Kadritzke, 1982). Mettere in discussione la tesi della particolare propensione al fascismo degli impiegati non significa volerli riabilitare o scagionare tardivamente: senza dubbio il nazionalsocialismo aveva un seguito anche tra gli impiegati, così come tra gli operai, i contadini, gli accademici e altri gruppi ancora, e forse nel complesso un seguito maggiore che non tra gli operai. Si tratta piuttosto di scalzare il mito dell'omogeneità e di una specificità sociale degli impiegati come categoria sociostrutturale; è un mito che si ripresenta anche in rapporto al terzo problema, quello relativo a un carattere sociale e a una cultura specifici degli impiegati.
3. Sia che si veda nell'espansione del terziario l'avvento di una nuova cultura postindustriale in cui i valori dell'autodeterminazione, della cultura e dell'individualità aboliranno le costrizioni materiali, o che invece, con l'ottica pessimistica della Kulturkritik, si consideri l'impiegato come un gourmet delle muse volgari, della cultura banale della paccottiglia, come un conformista privo di individualità: in tutti i casi i giudizi che si celano dietro queste posizioni valgono per determinati gruppi di impiegati, non per la categoria nel suo complesso. L'ipotesi di un 'mondo degli impiegati' è altrettanto fittizia quanto lo era quella di un 'mondo degli operai'. È del tutto plausibile invece che con la trasformazione della struttura sociale a lungo termine cambino anche i modelli di comportamento culturale e acquistino maggior peso gli orientamenti relativi al consumo, al tempo libero e alla politica dei gruppi predominanti nella struttura sociale. In che misura, con la progressiva riduzione del tempo di lavoro, gli orientamenti culturali siano ancora strettamente legati (e in che misura lo siano stati) a categorie di lavoratori quali operai e impiegati, è una questione ancora aperta. In ogni caso non esiste un modello dominante di comportamento culturale, bensì una disseminazione pluralistica di modelli, tra i quali rientrano anche quelli degli impiegati. Le ipotesi di una cultura della 'società dei servizi', sinora collegate alla categoria impiegatizia, possono fissare delle coordinate per misurare tale pluralismo, coordinate che hanno più un carattere ipotetico che non lo statuto di fatti accertati.
La prima delle due posizioni relative al carattere sociale degli impiegati cui abbiamo accennato risale ad autori che J. Gershuny (v., 1978) ha etichettato come 'teorici del miglioramento', considerandone D. Bell uno dei principali esponenti - forse non del tutto a ragione. Per la cultura della società postindustriale, secondo Bell, sono strutturalmente determinanti quelle frazioni dei 'colletti bianchi' che in qualità di accademici, scienziati e tecnici occupano posizioni professionali strategiche per il progresso economico e tecnologico, e che sulla base del loro sapere e delle loro cognizioni specialistiche sono in grado di condizionare anche le decisioni politiche. Da un lato essi incarnano i valori della cultura, del sapere, della libertà individuale, dell'autodeterminazione nel lavoro, della mentalità liberale e della partecipazione. Dall'altro lato sono la punta avanzata sul piano intellettuale di quell'etica sociale 'edonistica' basata sulla liberazione individualistica dal bisogno, che la fa finita una volta per tutte con l''etica protestante' e con i valori tradizionali della società borghese, e causerà alla fine la distruzione della comunità (qui emerge l'accento pessimistico, nient'affatto 'miglioristico' dell'analisi di Bell: v., 1973, ultimo capitolo, e 1976).
L'immagine opposta, quasi classica e sino a oggi non ancora del tutto superata del modello di comportamento culturale proprio della categoria impiegatizia, era già stata delineata da Mills: ingabbiato in una organizzazione gerarchica del lavoro, il piccolo e medio impiegato sviluppa come carattere dominante un desiderio di far carriera che impronta integralmente il suo comportamento politico, sociale e culturale. Ciò lo rende conformista e disposto a piegarsi di fronte a ogni forma di autorità, politicamente qualunquista e particolarmente sensibile agli idoli creati dai mass media, che gli propongono un esempio di successo economico e sociale col quale egli si identifica, restando prigioniero di sogni illusori, lontano da ogni sensibilità per la 'vera' cultura (v. Mills, 1951, in particolare cap. 15). A partire dal primo brillante studio di Kracauer (v., 1930) sino all'analisi altrettanto penetrante di Bourdieu (v., 1979), il 'piccolo impiegato' come tipo sociale è stato al centro di numerosi lavori sia sociologici che letterari.
È sorprendente che nelle analisi sociostrutturali menzionate sinora gli impiegati vengano trattati come esseri pressoché asessuati, o esclusivamente di sesso maschile. Il fatto che quasi la metà degli addetti, in alcuni settori del terziario addirittura i due terzi, siano donne non ha avuto pressoché alcuna eco.
Nel corso degli ultimi decenni nella sociologia degli impiegati le analisi sociostrutturali hanno lasciato il posto a studi empirici sulla situazione lavorativa e professionale della categoria. Sebbene non esista una linea di demarcazione precisa tra i due approcci al tema, e i problemi di definizione nonché i riferimenti teorici generali tendano a sovrapporsi, sussiste tuttavia una differenza significativa: nel primo caso (analisi sociostrutturale) si tratta di un approccio macroanalitico, nel secondo caso (situazione lavorativa e professionale) di un approccio microanalitico incentrato sui rapporti di lavoro aziendali. La vicinanza e la sovrapposizione dei due tipi d'analisi scaturiscono da una duplice intersezione: in misura maggiore di quanto non avvenga nel settore produttivo, nel settore terziario i rapporti di lavoro dipendono direttamente da alcune tendenze generali di mutamento sociale nella struttura dei bisogni e nelle forme di comunicazione; le trasformazioni al macrolivello si ripercuotono sulle attività terziarie, in quanto queste per la maggior parte sono dirette alla soddisfazione di bisogni personali, comunicativi e culturali (v. Baethge e Oberbeck, 1986, pp. 385 ss.). Viceversa, proprio a causa di questo nesso funzionale l'organizzazione del lavoro di tipo aziendale influenza anche il macrolivello, improntando la cultura sociale attraverso i servizi e le forme comunicative che essa crea, nonché attraverso i modelli comportamentali della categoria impiegatizia.Il dibattito delle scienze sociali sulle tendenze di sviluppo delle attività terziarie è caratterizzato dalla polarizzazione tra due posizioni teoriche.
La prima è rappresentata da quelle teorie che si rifanno all'interpretazione 'miglioristica' - derivata da Fourastié - della trasformazione strutturale nella società dei servizi. Eminente esponente di questo orientamento è A. Schaff (v., 1985), secondo il quale con l'avvento della 'società postindustriale' tenderanno a scomparire le gravose condizioni del lavoro salariato e il valore di scambio non eserciterà più il suo dominio impietoso; un nuovo orientamento verso il valore d'uso - determinato dal peso crescente del settore terziario - creerà dei rapporti di lavoro umani, i quali, inoltre, sul piano quantitativo occuperanno solo uno spazio marginale nella vita dell'uomo, mentre sul piano qualitativo saranno caratterizzati dalla trasformazione del lavoro manuale (che di regola diverrà maggiormente qualificato) in lavoro intellettuale. Sulla base del carattere eminentemente comunicativo e 'personale' delle attività terziarie, altri autori concludono che queste saranno meno soggette alla razionalizzazione e alle leggi dell'efficienza economica, e renderanno necessarie forme di lavoro più umane, contraddistinte da un livello minimo di divisione del lavoro e da una cooperazione assai più equilibrata (v. Gartner e Riessmann, 1978; v. Offe, 1983).
Al polo opposto si collocano i teorici della razionalizzazione di tradizione marxista. L'esponente più influente di questo indirizzo in epoca recente può essere considerato H. Braverman, che con l'opera Labor and monopoly capital ha suscitato (o meglio resuscitato) un dibattito a tutt'oggi non ancora esaurito. Secondo Braverman, a seguito della sua espansione quantitativa, anche il lavoro impiegatizio - sia negli uffici che nel settore delle vendite - è destinato a soggiacere alla legge della razionalizzazione e del controllo capitalistici. La meccanizzazione e la taylorizzazione - che consiste sostanzialmente in una separazione sistematica tra lavoro esecutivo e lavoro direttivo - caratterizzano anche lo sviluppo del lavoro d'ufficio, rendendolo alla fine altrettanto monotono, eteronomo e dequalificato quanto il lavoro in fabbrica: 'Per quanto riguarda le condizioni lavorative gli impiegati hanno perduto tutti i precedenti vantaggi rispetto al lavoro in fabbrica, e per quanto riguarda il trattamento retributivo sono scesi quasi al livello minimo' (v. Braverman, 1974, cap. 15).
Sono queste le due posizioni sulle quali si è orientata, e si è esaurita, la sociologia empirica del lavoro e dell'industria, quando si è occupata degli impiegati. Anche per quanto riguarda la ricerca empirica, infatti, c'è da rilevare che l'attenzione per la situazione lavorativa degli impiegati è del tutto inadeguata alla crescente importanza che questi hanno assunto. Nelle società economicamente avanzate sono state bensì condotte nel frattempo alcune ricerche empiriche sulle attività impiegatizie e, a seguito della computerizzazione negli uffici dell'amministrazione pubblica e privata, negli esercizi commerciali e negli istituti finanziari, si è notevolmente accresciuto l'interesse per questo tema, soprattutto per quel che riguarda il rapporto tra le nuove tecnologie e le trasformazioni nella qualificazione del lavoro; tuttavia non si può ignorare il fatto che mancano analisi approfondite su aspetti importanti della situazione professionale degli impiegati, ad esempio sull'intera problematica relativa alla definizione e alla valutazione delle mansioni nonché degli oneri che comportano.
Un'ulteriore carenza che caratterizza il campo della ricerca nel suo complesso è legata al fatto che l'eterogeneità funzionale delle attività terziarie, sia in senso orizzontale che in senso verticale, è assai maggiore di quella che sussiste nelle attività produttive: la gamma delle mansioni va dalla semplice contabilità ed elaborazione dati ad attività di ricerca o decisioni di investimento altamente complesse nelle imprese industriali; dalle mansioni di cassiere nel commercio all'assistenza ai malati, o alla consulenza ai clienti nelle banche, nelle assicurazioni o negli uffici tributari. Ne consegue che - a parte alcune eccezioni, come ad esempio il nostro studio sulla Repubblica Federale Tedesca (v. Baethge e Oberbeck, 1986) - nei singoli paesi mancano per lo più ricerche empiriche di ordine generale, che non siano circoscritte a branche o settori professionali specifici. I risultati di questi studi settoriali però non possono essere estesi alle attività impiegatizie nel loro complesso, e sono inoltre difficilmente comparabili, date le specificità dei singoli settori del terziario (come si può istituire un raffronto tra il lavoro in una banca e il lavoro in un ospedale o in un laboratorio di ricerca?). Le conclusioni empiriche generalizzanti vanno quindi prese con cautela, ed è sempre opportuno accertare l'ambito di ricerca in rapporto al quale sono state elaborate.
Dai singoli risultati della ricerca empirica svolta negli ultimi decenni, nonostante l'eterogeneità del campo d'indagine, è comunque possibile trarre una conclusione generale: l'ipotesi secondo la quale il lavoro nel settore dei servizi sarebbe anche solo relativamente refrattario alla razionalizzazione si è dimostrata del tutto infondata, e non solo a seguito del trionfo del computer negli uffici e nelle amministrazioni. Su questo punto Braverman aveva ragione: anche il lavoro d'ufficio ha subito precocemente processi di razionalizzazione sia sul piano tecnico che sul piano dell'organizzazione del lavoro, a partire dall'introduzione della macchina da scrivere sino alla progressiva standardizzazione del sistema dei formulari, all'introduzione del self-service, dei grandi uffici e del sistema del 'timbro del cartellino' per controllare l'orario di lavoro. Il fatto che la tesi della refrattarietà alla razionalizzazione, formulata per la prima volta da Fourastié, sia rimasta accreditata per tanto tempo si può spiegare con la tendenza a identificare le attività terziarie con i servizi alle persone - ad esempio l'assistenza pediatrica e ospedaliera - che in effetti hanno un potenziale di razionalizzazione assai limitato. Un'altra ragione potrebbe essere individuata nel fatto che gli effetti della razionalizzazione nelle attività commerciali e amministrative non sono misurabili attraverso indici di produttività precisi; inoltre sino all'introduzione del computer la tecnologizzazione negli uffici ha avuto effetti relativamente poco vistosi e fino a oggi si è accompagnata quasi sempre a un aumento quantitativo del lavoro da svolgere nonché a una trasformazione qualitativa delle prestazioni.
L'errore di Braverman non sta quindi nell'aver affermato la razionalizzabilità del lavoro impiegatizio. Il punto debole della sua tesi sta piuttosto nel fatto che egli considera dequalificanti sia le forme che le conseguenze della razionalizzazione nel settore terziario, equiparandole a quelle della razionalizzazione del lavoro produttivo. Sembra che qui Braverman generalizzi un determinato stadio, peraltro molto primitivo, della razionalizzazione degli uffici, allorché negli Stati Uniti si cercò di applicare al lavoro d'ufficio i principî della gestione aziendale scientifica. Riassumendo i risultati della ricerca sociologica dell'ultimo decennio, si può affermare che a seguito della computerizzazione e delle trasformazioni nella politica commerciale si va delineando un nuovo tipo di razionalizzazione nelle organizzazioni amministrative e commerciali del settore terziario (commercio, amministrazione nell'industria, banche, assicurazioni, amministrazione pubblica, servizi legati alle imprese).
Questo nuovo tipo di razionalizzazione può essere definito 'razionalizzazione sistemica'. Nel passato la razionalizzazione del lavoro d'ufficio riguardava singoli settori o determinate funzioni, in quanto si trattava di tecnologizzare o di perfezionare tecnicamente singoli processi di lavoro, come ad esempio la scrittura di testi, e/o di ottimizzare sul piano organizzativo le prestazioni lavorative del personale (ad esempio con l'allestimento di copisterie); ciò comportava per lo più una maggiore parcellizzazione del lavoro. La razionalizzazione sistemica viceversa integra o - più precisamente - congloba i singoli processi di razionalizzazione in un piano aziendale complessivo che stabilisce il tipo e l'ordine di importanza di ogni specifico intervento di razionalizzazione. La razionalizzazione sistemica nel settore terziario significa che le aziende perseguono un'organizzazione integrata sul piano tecnico-sociale ed economico tra le strutture del lavoro, dell'azienda e del mercato. In base al programma di razionalizzazione ciò accade uno actu, ed è reso possibile dall'introduzione di tecnologie elettroniche di informazione e comunicazione che offrono alle aziende nuove possibilità per quanto riguarda l'elaborazione delle informazioni, il collegamento in rete di diversi processi funzionali e la trasmissione dei dati. L'aumento di efficienza viene quindi perseguito a vari livelli contemporaneamente: al livello del mercato attraverso una maggiore trasparenza e una migliore previsione delle tendenze del mercato stesso e delle esigenze dei clienti; al livello aziendale attraverso l'ottimizzazione della comunicazione e della cooperazione tra i diversi settori collegati attraverso un centro di elaborazione dati; al livello dei reparti o dei gruppi di lavoro con una migliore pianificazione delle mansioni e un'organizzazione più rigorosa dei tempi di lavoro per il personale. L'esempio forse più evidente di questo tipo di razionalizzazione sistemica è rappresentato dai sistemi elettronici di gestione delle merci, con i quali si cerca di collegare attraverso un centro di elaborazione dati tutte le funzioni del commercio per poter reagire in tempo reale, con una certa flessibilità e riducendo i costi, all'andamento del mercato nella compravendita e nello stoccaggio delle merci (v. Baethge e Oberbeck, 1986).
Non v'è dubbio che programmi di razionalizzazione così complessi e ambiziosi, che del resto sinora si sono potuti realizzare raramente nell'estensione prevista, presuppongono una precisa corrispondenza tra impiego della tecnologia e forza lavoro qualificata. Il principio guida della razionalizzazione negli uffici non è la computerizzazione e la riduzione quasi a ogni costo della manodopera; domina piuttosto una selezione delle tecnologie in base alla manodopera, la quale non ha la funzione di una mera appendice della tecnologia che domina il processo lavorativo, ma è in condizione di organizzare attivamente i rapporti con la clientela e il mercato con l'aiuto di programmi tecnologici di appoggio e di guida. Esiste quindi una correlazione tra le risorse tecnologiche e il livello di qualificazione degli impiegati - quello esistente e quello raggiungibile attraverso l'istruzione e la specializzazione. Tale correlazione è messa in luce anche da alcuni studi comparativi su scala internazionale, i quali dimostrano che i programmi operativi per computer variano notevolmente a seconda della qualificazione del personale a disposizione (v. Bertrand e Noyelle, 1988).
Molti elementi indicano che il futuro del lavoro degli impiegati nei principali settori del terziario dipenderà dallo sviluppo e dal perfezionamento dei programmi di razionalizzazione sistemica (v. Baethge e altri, 1991; v. Bertrand e Noyelle, 1988), e ciò comporterà una trasformazione della situazione lavorativa e delle prospettive professionali di gran parte degli impiegati. Le tendenze di fondo di questi mutamenti e il loro significato per le interpretazioni tradizionali della posizione professionale degli impiegati sono già individuabili; in ogni caso occorre tener presente che le specificità dei singoli paesi possono determinare una notevole variabilità, e che la strada della razionalizzazione delineata in precedenza riguarda più la situazione europea che non quella statunitense.
È evidente che tutto ciò non porterà a quella diffusa dequalificazione delle attività impiegatizie temuta da molti. Al contrario, potrebbe verificarsi piuttosto un innalzamento del livello medio di qualificazione degli impiegati nei settori commerciali e amministrativi, determinato dalle tendenze a una progressiva razionalizzazione. In primo luogo le mansioni scarsamente qualificate (scrittura di testi, contabilità e mansioni di controllo) vengono ulteriormente sostituite dalla tecnologia e quantitativamente ridotte. In secondo luogo le altre mansioni di medio livello (consulenza, analisi e programmazione) richiedono una maggiore qualificazione, data la crescente complessità delle funzioni. In terzo luogo, infine, aumenta nettamente la richiesta di personale dotato di preparazione scientifica e di capacità strategiche per le attività di pianificazione e di sviluppo nei reparti direttivi delle organizzazioni terziarie. Per gli impiegati le conseguenze di questa evoluzione nella struttura della qualificazione non sono solo positive. Per tenere il passo con la velocità delle innovazioni tecnologiche e delle trasformazioni del mercato tutti gli impiegati sono sottoposti, in misura maggiore o minore, a una notevole pressione per acquisire ulteriori qualificazioni. D'altra parte la crescente specializzazione e professionalizzazione del lavoro determina un progressivo isolamento tra i vari livelli di qualificazione nell'azienda nonché tra il mercato del lavoro interno e quello esterno. Diventa sempre più difficile passare da una posizione di livello inferiore a una di livello medio, così come passare da questa a una posizione di livello superiore o direttiva senza aver acquisito ulteriori qualificazioni attraverso processi di specializzazione talora lunghi e complessi (v. Noyelle, 1987; v. Baran e Gold, 1988). Aumenta la segmentazione tra le professioni impiegatizie, e a subirne le conseguenze sono principalmente le donne (v. Appelbaum e Albin, 1990), che a causa degli obblighi familiari spesso non riescono a tenere il passo nella competizione per la maggiore qualificazione. Poiché il desiderio di carriera tradizionalmente attribuito agli impiegati presumibilmente continua a sussistere ora come prima (v. Baethge e Oberbeck, 1986, pp. 312 ss.), si creano crescenti discrepanze tra le aspettative e le opportunità effettive di carriera. Se ciò comporti un consolidamento o una erosione dell'ideologia della carriera, che persiste ostinatamente soprattutto tra gli impiegati di medio livello, è una questione ancora aperta.
Per il numero ancora considerevole di impiegati semplici, che si concentrano soprattutto nel settore commerciale e in quello turistico-alberghiero, la crescente segmentazione dei mercati del lavoro e l'isolamento del mercato del lavoro interno da quello esterno sbarrano l'accesso - prima sempre possibile - a impieghi più interessanti, meglio retribuiti e più ricchi di prospettive in altri settori del terziario, inchiodandoli - e ancora una volta ciò riguarda soprattutto le donne - ai loro bad jobs.
Un altro elemento che determinava in passato una certa esclusività e una posizione di privilegio degli impiegati di livello medio-alto è stato spazzato via dalla razionalizzazione: la controllabilità del lavoro. In quanto lavoro intellettuale, le attività impiegatizie erano agevolmente controllabili nei risultati, ma non nel processo di svolgimento della prestazione lavorativa. Ridurre la latenza del lavoro era uno degli scopi preminenti dei dirigenti, che per raggiungerlo erano disposti a pagare discreti premi di produttività. Oggi il controllo delle prestazioni lavorative è ottenuto quasi automaticamente dai dirigenti come sottoprodotto della computerizzazione. La memorizzazione elettronica dei dati e la tendenziale estensione a tutta l'azienda dell'accesso a tali dati spingono a una maggiore efficienza in termini di velocità e accuratezza delle prestazioni lavorative a tutti i livelli, consentendo una trasparenza inimmaginabile in passato. Il lavoro intellettuale diventa in questo modo sempre più misurabile e controllabile. Anche sotto questo aspetto gli impiegati di livello medio-alto perdono in esclusività e finiscono con l'essere equiparati ad altre categorie di prestatori d'opera.
(V. anche Burocrazia; Classi e stratificazione sociale; Classi medie; Industria; Organizzazione).
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