Imposte dirette. L'Ace
Con l’acronimo Ace si individua un istituto che permette a taluni soggetti passivi dell’Ires, nonché ai soggetti Irpef in contabilità ordinaria di dedurre dal reddito d’impresa un importo pari al rendimento figurativo degli incrementi di capitale proprio. Non è chiaro se si tratti di un’agevolazione, in quanto l’introduzione dell’Ace risponde sia a obiettivi di politica economica e, segnatamente, di stimolo alla capitalizzazione delle imprese nazionali, che a esigenze di natura sistematica, intendendo equiparare, sotto il profilo fiscale, il ricorso al capitale proprio e l’indebitamento. La disciplina non costituisce comunque una vera e propria novità nell’ordinamento tributario, poiché la sua struttura è per molti versi simile a quella della previgente Dual Income Tax.
Con l’art. 1 del d.l. 6.12.2011, n. 201, convertito con modificazioni nella l. 22.12.2011, n. 214, è stata istituita una particolare disciplina denominata «Aiuto alla crescita economica» ovvero, in breve, Ace, al fine di equiparare, sotto il profilo fiscale, il ricorso al capitale proprio con l’indebitamento.
Prima dell’introduzione dell’Ace il sistema delle imposte sui redditi ammetteva infatti, seppur non incondizionatamente, soltanto la deduzione delle remunerazioni corrisposte sui prestiti (i.e. interessi passivi): da qui l’esigenza di ristabilire una condizione di eguaglianza sostanziale tra imprese aventi pari capacità contributiva, ma con una diversa struttura delle fonti di finanziamento. Se da un lato, l’Ace intende quindi ristabilire una situazione di coerenza sistematica nella determinazione dei redditi d’impresa, dall’altro non si possono nemmeno ignorare le indubbie finalità di politica economica della disciplina e, segnatamente, di incentivo alla capitalizzazione delle imprese. Non è chiaro, pertanto, se l’istituto costituisca un’agevolazione. Simili obiettivi paiono comunque ridimensionati alla luce della scelta legislativa di premiare non già l’intero valore del capitale proprio, ma solo i suoi incrementi postumi ad una certa data1. Nei suoi contenuti la novella normativa presenta numerosi punti in comune con la previgente Dual Income Tax (Dit) – istituita dal d.lgs. 18.12.1997, n. 446 e poi soppressa dal d.lgs. 12.12.2003, n. 344 – sebbene il funzionamento dei due istituti poggi su principi di base diversi. L’Ace consiste infatti in una variazione in diminuzione dal reddito imponibile pari al rendimento figurativo degli incrementi di capitale proprio. La Dit consentiva invece di tassare con un’aliquota ridotta la parte del reddito imputabile idealmente all’uso del capitale proprio. Per il resto, il funzionamento dell’Ace richiede, così come avveniva per la Dit, l’individuazione del capitale investito ad una certa data – ovverosia del patrimonio netto contabile risultante alla data di chiusura dell’esercizio in corso al 31.12.2010 – e la determinazione delle sue successive variazioni in aumento ed in diminuzione. Ai sensi dell’art. 5, co. 2 e 3, del decreto attuativo (i.e. d.m. 14.3.2012), le variazioni “in aumento” sono in particolare costituite dai conferimenti in denaro e dagli utili accantonati a riserve, purché disponibili, mentre le variazioni “in diminuzione” consistono nelle riduzioni di patrimonio netto cui corrispondono attribuzioni, a qualsiasi titolo, ai soci o partecipanti. Il rendimento nozionale deducibile dal reddito d’impresa è infine determinato mediante applicazione dell’aliquota prevista con apposito decreto ministeriale all’incremento di capitale proprio registrato nell’anno. Potenziali destinatari della disciplina in commento sono i soggetti passivi dell’Ires di cui all’art. 73, co. 1, lett. a), b), del t.u.i.r., le stabili organizzazioni di società ed enti commerciali non residenti, nonché i soggetti Irpef in contabilità ordinaria. Sono invece escluse le imprese in stato di fallimento, liquidazione coatta amministrativa ed amministrazione straordinaria, in quanto la loro capitalizzazione, quand’anche possibile nell’ambito delle procedure, non sarebbe ovviamente finalizzata alla continuazione dell’attività2.
La disciplina poc’anzi descritta nelle sue linee essenziali risolve taluni dubbi sorti a proposito della Dit, di cui, come detto, mutua diversi aspetti.
Viene innanzitutto definitivamente sancita dall’art. 5, co. 2, lett. a), del decreto attuativo la rilevanza degli incrementi di capitale derivanti dalle rinunce ai crediti vantati dai soci, grazie all’espressa equiparazione di tali apporti ai conferimenti in denaro. La precisazione costituisce una novità di rilievo, in quanto ai fini della Dit taluni3 assimilavano invece le rinunce in questione ai conferimento in natura, decretandone così l’inefficacia ai fini agevolativi. Con riferimento alle variazioni in aumento di patrimonio derivanti da accantonamenti di utili, l’art. 5, co. 5, del decreto attuativo chiarisce, poi, che per «riserve non disponibili» devono intendersi sia le riserve costituite per effetto di meri processi di valutazione, che quelle formate con utili realmente conseguiti, ma che per prescrizione di legge, non sono distribuibili, né altrimenti utilizzabili. Vengono così escluse dalle variazioni in aumento di capitale le riserve costituite in ossequio all’art. 2357 ter c.c. a fronte dell’acquisto di azioni proprie, le quali sembravano al contrario poter rilevare ai fini della Dit, pur riflettendo incrementi di patrimonio puramente nominali, in quanto neutralizzati dalla azioni proprie in portafoglio.
Numerosi sono comunque ancora i punti da chiarire anche con riferimento alla nuova forma di incentivo.
Tra le varie questioni aperte, le più spinose sono probabilmente quelle che riguardano l’applicazione dell’Ace alle stabili organizzazioni. Nei confronti di tali soggetti si pone infatti il duplice problema di individuarne il patrimonio netto iniziale, nonché le variazioni di esso rilevanti ai fini dell’Ace. Quanto al primo aspetto, prendendo spunto dalle indicazioni contenute nella relazione di accompagnamento al decreto attuativo, sembrerebbe doversi assumere il fondo di dotazione idealmente attribuibile alla branch secondo l’analisi funzionale suggerita dalla prassi internazionale4, a prescindere quindi dalle effettive evidenze contabili. Con riferimento invece all’identificazione delle variazioni del fondo di dotazione, se si facesse anche qui riferimento agli incrementi di patrimonio “virtuali” determinati secondo la predetta analisi funzionale, sarebbero ininfluenti ai fini dell’Ace tutte le attribuzioni intra-soggettive di patrimonio. La soluzione, oltre a tradire probabilmente lo spirito della normativa (la quale si pone l’obiettivo di favorire l’effettiva immissione di risorse finanziarie nelle imprese nazionali) creerebbe anche delle ingiustificate disparità di trattamento. Sarebbe infatti difficile comprendere per quale motivo per le stabili organizzazioni costituite dopo il 31.12.2010 si dovrebbero invece considerare non gli incrementi “virtuali” del fondo di dotazione, ma gli apporti di denaro effettivamente eseguiti dalla casa madre estera, così come stabilito dall’art. 5, co. 6, del decreto attuativo. Onde evitare simili inconvenienti, si è dunque proposto di determinare in ogni caso le variazioni patrimoniali delle branch attraverso un metodo “analitico”, considerando quindi gli apporti di capitale effettivamente affluiti alla sede fissa italiana ovvero gli utili da essa prodotti e non “distribuiti” alla casa madre5. La tesi sembra tuttavia creare dei problemi in fase di controllo, visto che questi rapporti intra-soggettivi non sempre vengono regolati in denaro.
1 Considerando l’attuale percentuale di remunerazione del capitale proprio (pari al 3%), la deduzione dal reddito operata in applicazione dell’Ace produce in definitiva un risparmio d’imposta per i soggetti passivi dell’Ires pari, ogni anno, allo 0,825% dell’incremento di capitale.
2 Cfr. relazione illustrativa al d.m. 14.3.2012.
3 Di tale avviso era Di Tanno, T., Dual income tax (Dit), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1998, 3, nonché l’Amministrazione finanziaria con la C.M. 6.3.1998, n. 76; contra Stevanato, D., Dual income tax: aspetti problematici, in Rass. trib., 1998, I, p. 180.
4 L’art. 7, par. 2, del Modello Ocse prevede, infatti, che gli utili debbano essere ripartiti tra casa madre e stabile organizzazione secondo il separate entity approach, dopo aver eseguito un’analisi delle funzioni esercitate dalla sede fissa d’affari.
5 In tal senso circ. Assonime n. 17 del 7.6.2012.