Abstract
Si esaminano la definizione e la disciplina riguardanti l’impresa agricola con particolare attenzione alle novità introdotte con la legislazione del 2001 che, modificando la normativa presente nel codice civile, ha ampliato l’area operativa dell’impresa agricola e, nel contempo, introdotto alcune modifiche nel suo “statuto” il quale resta pur sempre diverso da quello previsto per l’impresa commerciale.
1. L’impresa agricola nel codice civile del 1942 sino alla riforma del 2001
Il codice del 1942, oltre ad introdurre una definizione generale di impresa attraverso l’art. 2082 c.c., ha espressamente distinto, secondo un sistema binario, l’impresa agricola ex art. 2135 c.c. dalle imprese commerciali soggette a registrazione ex art. 2195 c.c. Pur se in forme nuove, si è così inteso ribadire il trattamento speciale che la codificazione civile dell’Ottocento aveva assicurato all’agricoltura rispetto a quello riservato dal codice di commercio del 1882 alle altre attività economiche. In particolare, l’impresa agricola non è stata assoggettata alle norme dettate per l’impresa commerciale con specifico riferimento sia all’obbligatoria tenuta delle scritture contabili ed alla registrazione, sia all’assoggettamento, in caso di insolvenza, alle procedure fallimentari. Nell’originaria stesura accolta nel codice del 1942, l’art. 2135 c.c. era composto da due commi. Il primo delineava il contenuto dell’attività esercitabile dall’impresa agricola e distingueva tra le attività agricole «principali», ossia quelle dirette alla coltivazione del fondo, silvicoltura e allevamento del bestiame e le attività «connesse» alle prime. Il successivo comma 2 si limitava a specificare che «si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli quando rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura».
Il singolare favor assicurato all’impresa agricola è stato alla base di un ampio dibattito della dottrina e della giurisprudenza che per molti decenni ha inciso in maniera significativa sull’interpretazione dell’art. 2135 c.c. In particolare, si sono fronteggiate a lungo due diverse letture della disposizione: l’una, molto restrittiva, in prevalenza suggerita dalla letteratura commercialistica, ha individuato nell’uso produttivo del fondo rustico, il cuore ed il limite dell’agrarietà dell’impresa, sino a negare addirittura che l’impresa agricola di cui parla il codice potesse ritenersi impresa in senso tecnico (Ferri, G., L’impresa agraria è impresa in senso tecnico?, in Atti del Terzo Congresso nazionale di diritto agrario, Palermo 19-23 ottobre 1952, Milano, 1954). L’altra, pur variegata al suo interno e in prevalenza suggerita dalla letteratura agraristica, ha, viceversa, prospettato un’interpretazione evolutiva dell’agrarietà, in linea con la progressiva modernizzazione ed industrializzazione del settore primario, e si è spinta sino al punto da individuare come fondamento dell’agrarietà il ciclo biologico (Carrozza, A., Problemi generali e profili di qualificazione del diritto agrario, Milano, 1975): in tal modo, pur nell’invarianza della scarna disciplina codicistica destinata all’impresa agricola, si intendeva da un lato far rientrare nell’ambito operativo dell’art. 2135 attività di coltivazione di vegetali e di allevamento esercitate senza l’utilizzazione produttiva del fondo rustico, dall’altro superare, a proposito dell’allevamento, il riferimento al solo bestiame, presente nel comma 1 dell’art. 2135, a favore della più ampia formula relativa agli animali.
Nell’assenza di una modifica dell’assetto disciplinare contenuto nel codice civile è così toccato alla legislazione speciale nazionale e alla disciplina di fonte comunitaria, sia registrare gli innegabili mutamenti intervenuti nel settore primario dell’economia, sia, anche a causa talora di pressioni lobbistiche e corporative, preparare il terreno per la riforma della disciplina del codice intervenuta appunto nel 2001. In particolare, è stata la legislazione speciale destinata ai contratti agrari, agli aspetti previdenziali del lavoro in agricoltura, al trattamento fiscale dell’impresa, a formalizzare, per la prima volta, la sostituzione del termine «bestiame» con il termine «animali», sì da favorire la revisione dell’impostazione tradizionale, fondata sulla centralità del fondo alla base dell’art. 2135 c.c. Quanto alle innovazioni legislative destinate ad incidere direttamente sull’art. 2135 c.c. ed intervenute a partire dalla metà degli anni ottanta, esse sono state tecnicamente ambigue. Si pensi, in particolare, alla l. 5.4.1985, n. 126 che ha ritenuto agricola a tutti gli effetti l’attività di coltivazione dei funghi, la quale, come è noto, può esercitarsi anche fuori dal legame con il fondo rustico; alla l. 5.2.1992, n. 102 che ha inquadrato tra le attività agricole ex art. 2135 c.c. anche l’attività di acquacoltura; alla l. 23.8.1993, n. 349, la quale ha qualificato come attività agricola ex art. 2135 c.c. l’attività cinotecnica, intesa come attività volta all’allevamento, alla selezione e all’addestramento delle razze canine; ed, infine, alla all’art. 9 del d.lgs. 30.4.1998, n. 173 secondo cui sono da ritenersi imprenditori agricoli ex art. 2135 c.c. «coloro che esercitano attività di allevamento di equini di qualsiasi razza in connessione con l’azienda agricola».
La spinta verso una progressiva revisione dell’impostazione tradizionale che identificava l’agrarietà dell’impresa con la sola utilizzazione produttiva del fondo, ha rispecchiato l’indubbio progressivo avvento di una agricoltura moderna ed industrializzata destinata a sostituire sempre di più il fattore fondiario con mezzi meccanici, con la chimica, e con sofisticate strutture tecnologiche. Un significativo contributo in tale direzione, peraltro accentuatosi nel corso dei decenni, lo ha fornito anche la legislazione promozionale di fonte comunitaria. Infatti, a partire dallo stesso Trattato di Roma, essa ha prospettato una nozione ampia di agricoltura, fondata su basi merceologiche, in grado di abbracciare non solo i prodotti agricoli in senso stretto ma anche quelli derivanti dalla lavorazione industriale dei primi. A causa del suo crescente impatto operativo sulle esperienze giuridiche nazionali la legislazione comunitaria ha pesato in senso evolutivo, anche in termini interpretativi, sull’art. 2135 c.c., a partire dalla rivisitazione del ruolo da riconoscere al fondo rustico nella ricostruzione delle attività agricole principali.
2. Il ciclo biologico e le attività agricole «principali»
La parabola sin qui sinteticamente illustrata ha portato all’innovazione legislativa intervenuta con l’art. 1 del d.lgs. 18.5.2001, n. 228 che ha riguardato sia la stessa definizione dell’impresa agricola di cui all’art. 2135, sia il suo statuto disciplinare (sul punto si v. Casadei, E., La nozione di impresa agricola dopo la riforma del 2001, in Riv. dir. agr., 2009, I, 309 ss.).
Il nuovo testo dell’art. 2135 c.c., oggi composto di tre commi, ha ribadito la fondamentale distinzione tra attività agricole principali e attività agricole per connessione. Spetta pur sempre al criterio della connessione il compito di delineare quel confine “mobile” in grado di attrarre nella sfera disciplinare prevista per l’impresa agricola l’esercizio di alcune attività economiche organizzate in forma di impresa, le quali, in mancanza della connessione, resterebbe assoggettate allo statuto dell’impresa commerciale.
Il nuovo comma 1 dell’art. 2135 c.c., nel riprendere il contenuto del comma originario, dispone che «È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse». Ebbene, anche a tener conto della fondamentale sostituzione del termine bestiame con quello di animali, il nuovo testo solo in apparenza riproduce quello originario del codice del 1942. Infatti, esso svolge una funzione meramente ricognitiva dell’agrarietà, all’insegna addirittura dell’incompiutezza (si pensi all’acquacoltura). Più precisamente, esso è soltanto introduttivo al successivo comma, del tutto nuovo, in cui è il legislatore stesso a specificare il senso da attribuire alle formule linguistiche – coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento degli animali – enunciate in precedenza.
Il nuovo comma 2 dell’art. 2135 c.c. dispone, infatti, che «Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine». È qui, dunque che si rinviene un compiuto quanto unitario criterio di individuazione dell’agrarietà. Le tradizionali attività agricole principali (con la sostituzione del termine animali al termine bestiame) risultano “degradate” a semplici quanto descrittive articolazioni esteriori, ovvero manifestazioni applicative, del solo fondamentale criterio, quello cd. “biologico” introdotto dal legislatore nel comma 2 della disposizione in esame. Peraltro, la comparsa del bosco, delle acque dolci, salmastre e marine accanto al fondo ed il riconoscimento di un’implicita equivalenza dei primi al secondo evidenziano che le formule contenute nel nuovo comma 1 dell’art. 2135 c.c. sono semplicemente allusive di quella ben più complessa realtà fenomenica cui si riferisce il nuovo comma 2. Ebbene, questa disposizione risulta chiaramente ispirata ed in parte riproduce la disposizione L 311-1 presente dal 1997 nel code rural francese e che aveva fatta propria la tesi del “ciclo biologico” avanzata dalla dottrina giuridica italiana.
Nella formulazione del nuovo comma 2 dell’art. 2135 c.c., il dato centrale su cui riposa l’agrarietà è indubbiamente rappresentato da quella materia “vivente” a cui soltanto si può legittimamente collegare la configurabilità stessa di un ciclo biologico nel segno di quella ricorsività di fenomeni scandita da leggi “naturali”: ciclo biologico da identificarsi, in prima approssimazione, con quel complessivo processo che si snoda nel tempo e che segna sul piano naturalistico la singolare parabola per effetto della quale entità materiali dotate di vita “organica” nascono crescono e muoiono e sono anche in grado di riprodursi, ossia di generare, a loro volta, altre entità materiali dotate anch’esse di vita.
Il ricorso al «ciclo biologico», «di carattere vegetale o animale», quale criterio cui legare l’applicazione della disciplina di cui all’art. 2135 c.c., non solo ridisegna l’area stessa dell’agrarietà riferita all’impresa, ma assegna un significato ormai puramente “convenzionale” all’attributo «agricolo», quale indice normativo indirizzato nel libro V del codice civile a delineare uno autonomo statuto disciplinare per quei soggetti economici e per quelle strutture imprenditoriali sottratte all’applicazione della disciplina dettata per le imprese commerciali: la conservazione unitaria della qualifica di «agricole» per tutte queste attività risponde esclusivamente all’esigenza di non alterare l’originaria architettura definitoria del codice civile e fornire un ossequio formale ad una tradizione culturale che ha fatto riferimento per secoli all’ager.
Nel nuovo art. 2135, co. 2, c.c. il ciclo biologico, di carattere vegetale o animale, assume per il legislatore rilevanza centrale ai fini della ricorrenza dell‘impresa agricola: la cura e lo sviluppo del ciclo sono necessari ai fini della qualificazione dell’attività quale attività agricola. Al tempo stesso, però, la presenza del ciclo biologico non è da sola sufficiente. Infatti, la qualifica agricola è esclusa per tutte quelle attività, pur sempre legate alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico, la cui attuabilità non risulta possibile secondo un modulo operativo “tradizionale”, ossia attraverso l’impiego di quei supporti “naturali” rappresentati dal fondo, dal bosco ecc. In definitiva, l’agrarietà si riferisce esclusivamente a tutte quelle attività di cura e sviluppo del ciclo biologico che sono in grado di attuarsi mediante l’impiego sia del fondo sia di altri supporti naturali quali il bosco, le acque dolci o salmastre, a prescindere dal fatto che l’operatore abbia sostituito tali supporti naturali con altre soluzioni tecnologicamente diverse. A titolo esemplificativo, la coltivazione di vegetali o l’allevamento di animali in grado di attuarsi soltanto in laboratorio, ovvero in ambienti artificiali ed in presenza di condizioni complessive che non ricorrono in natura, né possono ivi riprodursi, si collocano fuori dall’area dell’agrarietà.
In ogni caso, al cuore dell’agrarietà dell’attività, il legislatore ha inteso collocare pur sempre l’azione dell’uomo direttamente in grado di incidere sul ciclo biologico degli organismi animali o vegetali, ossia quell’azione che si manifesta in termini di «cura» e «sviluppo» del ciclo biologico. Ciò non ricorre nell’impresa ittica: in questo caso, infatti, si è di fronte soltanto ad un’attività di mera cattura e raccolta di organismi acquatici, per cui, ai fini della sua disciplina, il legislatore (si v. infatti l’art. 2 d.lgs. 18.5.2001, n. 226, come modificato dall’art. 6 d.lgs. 26.5.2004, n. 154) ha parlato di sola «equiparazione» all’impresa agricola (sul punto v. per tutti Bruno, F., L’impresa ittica, Milano, 2004).
Peraltro, il riferimento nel comma 2 dell’art. 2135 c.c. tanto al ciclo biologico nella sua interezza quanto ad una fase necessaria dello stesso ben registrano il fatto che la specializzazione produttiva, ormai presente anche nell’ambito dell’agricoltura, può indurre le imprese a dedicarsi esclusivamente ad una sola fase, pur sempre necessaria, dell’intero ciclo produttivo senza per questo perdere la qualifica di imprese agricole: si pensi, ad es., all’impresa avicola che si specializzi esclusivamente nella produzione delle uova, rispetto a quella che provveda alla nascita e vendita dei pulcini, ovvero a quella che si occupi soltanto della fase relativa alla loro trasformazione in polli adulti pronti per la macellazione. Ciò significa, tra l’altro, che può ricorrere l’impresa agricola anche quando la sua attività consista soltanto nel fornire il servizio relativo alla cura e allo sviluppo del ciclo biologico riguardanti animali o vegetali che restano nel corso del processo in proprietà di terzi. Infine, ai fini della qualifica, resta del tutto indifferente la destinazione finale della produzione non necessariamente alimentare, come ha confermato, del resto, la disposizione di cui al comma 13 quater dell’art. 14 del d.lgs. 29.3.2004, n. 99 introdotto dall’art. 4 del d.lgs. 27.5.2005, n. 101.
Le considerazioni sin qui svolte sul ciclo biologico esimono da un’analisi puntuale delle singole attività agricole principali relative appunto alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, e all’allevamento di animali, per le quali è possibile rinviare alla trattazione tradizionale che vi ha incluso tutte le attività, anche preparatorie, esercitate dalle medesima impresa. Va rammentato, per completezza, che la cattiva qualità della legislazione, in particolare il sovrapporsi sempre più frequente della disciplina regolativa, propria del codice civile, con quella promozionale ha modificato la configurazione dell’impresa di acquacoltura originariamente ricompresa in quella agricola, proprio sulla scorta del criterio biologico introdotto nel nuovo testo dell’art. 2135. Infatti, l’art. 3 del d.lgs. 27.5.2005, n. 100, nel modificare, per la seconda volta, l’art. 2 del d.lgs. n. 226/2001 relativo all’imprenditore ittico, vi ha aggiunto un comma 5 secondo cui le imprese di acquacoltura sono equiparate all’imprenditore ittico il quale è a sua volta equiparato a quello agricolo.
3. Le attività agricole per connessione
Nel confermare il sistema binario costruito intorno alla distinzione tra l’impresa agricola e l’impresa commerciale, la nuova versione dell’art. 2135 c.c. ha ribadito il riferimento alle attività da qualificarsi agricole in quanto esercitate in connessione con le attività agricole principali. Al riguardo, la nuova disciplina ha fatto tesoro, in chiave di consolidazione, di alcuni indirizzi interpretativi accolti in passato dalla giurisprudenza. Al contempo, ha introdotto innovazioni di non poco momento che rispecchiano, anche sul versante di queste attività, alcuni mutamenti significativi intervenuti nella realtà socio-economica e nella politica economica relativa allo sviluppo del territorio rurale.
Prima della novella, l’interpretazione del testo originario dell’art. 2135 c.c. aveva condotto a distinguere le attività connesse innominate e atipiche, ossia le attività non richiamate espressamente dalla norma, da quelle tipiche menzionate nel medesimo art. 2135, co. 2, c.c. Ebbene, anche nella disposizione novellata, le attività agricole per connessione richiamate espressamente nel comma 3, già più numerose di quelle indicate ab origine, non ne esauriscono certo la categoria.
In realtà, questo nuovo comma ha introdotto alcune modifiche di sostanza in ordine al criterio di selezione delle attività da qualificare agricole per connessione. Nel 1942, il legislatore aveva puntato sul criterio della “normalità” che da un lato appariva di agevole applicazione, dall’altro si presentava oltremodo duttile. Per il suo tramite, infatti, veniva lasciato un confine mobile tra impresa commerciale ed impresa agricola: solo in presenza di una pratica diffusa e ormai acquisita al livello della “normalità della condotta” degli imprenditori agricoli, attività economiche esercitare da imprenditori in connessione con attività agricole principali avrebbe potuto godere della qualifica di attività agricola ed essere dunque sottratte dalla sfera della commercialità. Nella nuova stesura, è venuto meno ogni riferimento al criterio della “normalità” per cui, in linea di principio, la semplice presenza della connessione è sufficiente ad attrarre nella sfera dell’agrarietà attività svolte da imprenditori agricoli che siano oggettivamente collegate con quella agricola principale esercitata dal medesimo operatore economico.
Quanto alle attività connesse espressamente qualificate come tali dal comma 3 dell’art. 2135, la nuova disposizione risulta da un lato ridondante, nella parte in cui rimarca che la connessione esige l’identità del centro di imputazione cui riferire l’esercizio sia dell’attività agricola principale, sia di quella connessa, dall’altro presenta un’articolazione nel segno dell’indubbia espansione dell’area delle attività da assoggettare allo statuto dell’impresa agricola, che va ben oltre quella legata alla sola scomparsa del filtro rappresentato dal criterio della “normalità”.
In primo luogo, la norma prende in considerazione le attività che riguardano direttamente i prodotti ottenuti dai processi produttivi svolti nell’impresa agricola e che si collocano a valle della loro originaria realizzazione: per le attività relative alla «manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione» dei prodotti che l’impresa ha ottenuto direttamente dalla coltivazione e dall’allevamento, la norma considera sufficiente, ai fini della connessione, che i prodotti agricoli provenienti dalla medesima azienda siano prevalenti rispetto a quelli eventualmente acquistati da terzi.
In secondo luogo, la norma prende in considerazione altre attività economiche che risultano connesse all’utilizzazione, non già dei prodotti agricoli conseguiti, ma fondamentalmente della struttura aziendale e delle sue attrezzature e che, per il tramite del loro impiego, risultino dirette alla fornitura sia di beni sia di servizi al mercato. Per questa seconda tipologia di attività connesse, il limite per ammettere la connessione è affidata ad un criterio composito. Da una parte si richiede che tali attività vedano impegnate in prevalenza attrezzature e risorse dell’azienda: così ad es., nel caso di fornitura di servizi nell’area del cd. contoterzismo, è possibile anche l’impiego di macchinari extraziendali sempre che, però, nell’esercizio di tali attività risultino prevalenti quelli propri dell’azienda. Dall’altra, si richiede altresì che le attrezzature e le risorse di provenienza aziendale debbano essere quelle normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata (si pensi, ad es., all’«attività agromeccanica» di cui parla l’art. 5 del d.lgs. n. 99/2004).
Tra le attività connesse all’utilizzazione delle attrezzature e delle risorse dell’azienda, l’inciso finale dello stesso comma 3 dell’art. 2135 c.c. richiama altresì, considerandole comprese, anche le «attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge». In ordine alle prime, il legislatore ha molto probabilmente inteso fare riferimento a quell’indeterminata gamma di attività volte a fornire beni e servizi ambientali alla collettività: si pensi, ad es., alle visite guidate nelle aziende da parte di scolaresche, ad escursioni naturalistiche ecc. In ordine, infine, alle attività di ricezione e di ospitalità, la disposizione ha fatto esplicito rinvio alla normativa dettata in materia di agriturismo per cui è necessario attualmente richiamare la legge quadro 20.2.2006, n. 96.
Va segnalato, infine, che l’area delle attività agricole per connessione è quella in cui più si riflette la prospettiva di politica agricola di fonte comunitaria volta a promuovere la multifunzionalità delle aziende agricole al fine di favorire l’aumento dei redditi degli operatori agricoli. Questa è la ragione per la quale il criterio della tipicità sociale è stato progressivamente sacrificato a vantaggio della tipicità legale, come del resto evidenzia il comma 3 dell’art. 2135 c.c. Inoltre, l’individuazione esplicita da parte del legislatore di nuove attività connesse ha continuato a svilupparsi nella legislazione speciale successiva alla novella del 2001 (si pensi alla l. 24.12.2004, n. 313 che ha considerato agricola l’apicoltura ed in particolare all’art. 9 che ha ritenuto agricola per connessione l’attività di impollinazione) sino a stravolgerne il criterio logico alla base. Invero, l’art. 1, co. 423, l. 23.12.2005, n. 266, come sostituito dall’art. 1, co. 369, l. finanziaria 27.12.2006, n. 296 ha stabilito che «ferme restando le disposizioni tributarie in materia di accisa, la produzione e la cessione di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali e fotovoltaiche nonché di carburanti ottenuti da produzioni vegetali provenienti prevalentemente dal fondo e di prodotti chimici derivanti da prodotti agricoli provenienti prevalentemente dal fondo effettuate dagli imprenditori agricoli, costituiscono attività connesse ai sensi dell'art. 2135 c.c., co. 3, del codice civile e si considerano produttive di reddito agrario». Ebbene, nel caso di impianti fotovoltaici, manca ogni nesso tra la presenza e l’utilizzo di questi con l’uso agricolo del terreno e l’esercizio di attività agricola.
4. Impresa agricola individuale e collettiva
Nell’originaria versione del codice del 1942, l’attenzione del legislatore era fondamentalmente concentrata sull’esercizio individuale dell’attività economica organizzata in forma di impresa. Anche la disciplina di cui all’art. 2135 c.c. rifletteva il modello dell’imprenditore individuale, il quale era per di più preso in considerazione in una situazione di assoluto isolamento dal contesto economico in rispondenza del resto con l’individualismo proprio del mondo tradizionale agricolo. Sul piano dell’esercizio collettivo dell’impresa, il codice civile del 1942 aveva previsto espressamente per l’impresa agricola soltanto il modello rappresentato dalla società semplice. Ciò, ovviamente, non precludeva alle imprese agricole la possibilità di avvalersi dei modelli propri delle società commerciali previsti dallo stesso codice civile, soggiacendo, ovviamente, a tutte le prescrizioni richieste dalla disciplina, ivi compresi i relativi costi, ad eccezione del solo assoggettamento al fallimento: e ciò in ragione appunto della prevalenza accordata all’oggetto sociale, la materia agricola, sulla forma commerciale della società.
In questo quadro, è spettato in primo luogo alla giurisprudenza fornire una risposta al problema relativo alle ipotesi di cooperazione e di associazionismo economico tra imprenditori agricoli finalizzato appunto alla trasformazione, lavorazione e vendita dei prodotti agricoli: si pensi, ad es., ai caseifici sociali ovvero alle cantine cooperative destinate alla lavorazione e trasformazione del prodotto agricolo di base costituito dal latte ovvero dalle uve conferiti dai soci. Per tali ipotesi si trattava di verificare se l’attività economica svolta dal soggetto collettivo potesse qualificarsi come agricola per connessione, ancorché tale attività fosse svolta ed imputata ad un soggetto giuridico diverso e distinto rispetto ai singoli produttori della materia prima conferita, qualificabili in termini di imprenditori agricoli.
La giurisprudenza, sin dalla metà degli anni settanta del Novecento ha sostenuto che nel caso della cooperativa o del consorzio di cooperative, l’attività dell’ente collettivo si presenterebbe come meramente sostitutiva di quella che i singoli soci potrebbero direttamente compiere per realizzare la migliore redditività delle loro aziende. Sicché, nella sostanza, tale attività risulterebbe connessa con quella agricola primaria svolta dai singoli imprenditori agricoli associati: di qui la qualifica di agricola per connessione, ai sensi dell’art. 2135 c.c., anche di siffatta impresa cooperativa persino nell’ipotesi in cui essa avesse operato su prodotti provenienti da terzi estranei alla cooperativa sempre che non prevalenti su quelli provenienti dagli associati.
Questa soluzione di origine giurisprudenziale è stata definitivamente avallata dal legislatore con il l’art. 1, co. 2, d.lgs. n. 228/2001, il quale, però, è andato oltre l’indirizzo ermeneutico emerso in precedenza. Infatti, la disposizione, attraverso il criterio della connessione, ha attratto nell’orbita dell’agrarietà anche le attività, pur sempre svolte soltanto da cooperative e consorzi di cooperative di imprenditori agricoli, che si collocano a monte della produzione agricola e che si traducono appunto nella fornitura, sempre in prevalenza ai soci, di beni e di servizi strumentali all’esercizio dell’attività agricola primaria diretta alla cura e allo sviluppo del ciclo biologico.
In definitiva, con il venir meno del criterio della normalità e con l’espansione della connessione per i soggetti collettivi, la nuova disciplina ha portato ad un significativo ampliamento dell’area dell’agrarietà dell’impresa di non poco momento che potrebbe favorire un’espansione incontrollata della agrarietà.
L’indubbio ampliamento dell’area della agrarietà contenuto nella riforma della disciplina ripropone in forme nuove le questioni relative da un lato alla distinzione tra l’impresa agricola e l’impresa commerciale, dall’altro all’adeguatezza e ragionevolezza, alla luce di tutti gli interessi coinvolti, della differenza di trattamento giuridico che attualmente è dato di riscontrare tra i rispettivi statuti disciplinari. Entrambe le questioni appaiono oggi tanto più legittime rispetto passato ove si consideri che: a) dal punto di vista esclusivamente tecnico i processi produttivi che coinvolgono il ciclo biologico possono emanciparsi del tutto da quello ambientale e da quello atmosferico, tradizionalmente evocati a “discarico” dell’imprenditore agricolo; b) dal punto di vista del rischio giuridico gravante sui terzi creditori, l’impresa agricola prospetta per i terzi rischi non diversi da quelli che caratterizzano l’impresa commerciale, soprattutto nei casi in cui essa è più industrializzata. È il caso di osservare che, se la distinzione tra impresa commerciale ed impresa agricola non può dunque continuare a prospettarsi nei termini tradizionali, le ragioni della differenziazione permangono. È sufficiente osservare che l’art. 42 del Trattato istitutivo della Comunità europea, oggi art. 42 del TFEU ribadisce che in linea di principio la disciplina europea sulla concorrenza trova applicazione al settore agricolo nei soli limiti disposti dal Consiglio. Ed invero, pur con una indubbia attenuazione, la differenziazione disciplinare risalente al 1962 tuttora persiste nelle disposizioni contenute nei regg. 1184/2006 e 1234/2007 che hanno inteso favorire l’associazionismo degli agricoltori, quale rimedio alla loro debolezza negoziale. Ed, invero, non può negarsi che un riflesso di questa debolezza sia da rinvenirsi nella recentissima disposizione di cui all’art. 62 del d.l. 24.1.2012, n. 1, conv. in l. 24.3.2012, n. 27. Questa norma, infatti, sulla scia di una disciplina francese, per la verità più meditata e tecnicamente più calibrata, ha disposto tra l’altro che «i contratti che hanno ad oggetto la cessione dei prodotti agricoli ed alimentari conclusi tra operatori economici, sono stipulati obbligatoriamente in forma scritta e indicano a pena di nullità la durata, le quantità e le caratteristiche del prodotto venduto, il prezzo, le modalità di consegna e di pagamento. I contratti devono essere informati a principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni, con riferimento ai beni forniti» (co. 1).
Ebbene, la riforma italiana del 2001, relativa all’impresa agricola, ha confermato il sistema binario fondato sulla distinzione tra impresa commerciale e impresa agricola e, però, ha avviato al contempo un processo di rivisitazione dello statuto disciplinare dell’impresa agricola storicamente assai scarno. I risultati restano modesti e non in grado di compensare l’ampliamento conseguito dall’area dell’agrarietà, soprattutto se si considerano le imprese agricole più tecnologicamente avanzate e coinvolte nei processi produttivi connessi a monte ed a valle con la produzione agricola primaria. Invero, l’unica novità introdotta dal decreto legislativo del 2001 ha riguardato l’iscrizione nel registro delle imprese degli imprenditori agricoli, dei coltivatori diretti e delle società semplici. Con l’art. 2 d.lgs. n. 228/2001, l’iscrizione nelle sezioni speciali, già introdotta in precedenza e però avente funzione soltanto di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia, oltre agli effetti previsti dalle leggi speciali, si è vista riconoscere anche «l'efficacia di cui all'articolo 2193 del codice civile». In tal modo, anche l’iscrizione nella sezione speciale degli imprenditori agricoli, dei coltivatori diretti e delle società semplici consegue l’efficacia dichiarativa propria delle iscrizione nel registro delle imprese (sul punto si Belviso, U., Il regime pubblicitario dell’imprenditore agricolo (la riforma d’inizio secolo), in Abriani N.-Motti, C., a cura di, La riforma dell’impresa agricola, Milano, 2003, 147 ss., in part. 164 ss., e da Tamponi, M., Impresa agricola e registro delle imprese alla luce del d.lgs 18 maggio 2001, n.228, in Dir. giur. agr. amb., 2001, 523 ss.). All’infuori della disposizione ora richiamata, lo statuto dell’imprenditore agricolo è rimasto sostanzialmente invariato. Ciò ha riguardo soprattutto la legislazione fallimentare, novellata di recente con il d.lgs. 9.1.2006, n. 5, secondo la quale le disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo si applicano solo agli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici. Nella sua drasticità, la soluzione ora richiamata appare irragionevole soprattutto se si considera che con la riforma la funzione delle procedure fallimentari non è più sanzionatoria, bensì terapeutica per cui è discutibile sul piano della stessa legittimità costituzionale impedire alle imprese agricole, soprattutto quelle più industrializzate ed intorno alle quali ruota un ceto creditorio di non poco rilievo, di avvalersi delle opportunità offerte dalla recente disciplina fallimentare. Ed infatti, a correzione di tale discutibile chiusura, l’art. 23, co. 43, l. 15.7.2011, n. 111, «in attesa di una revisione complessiva della disciplina dell’imprenditore agricolo in crisi e del coordinamento delle disposizioni in materia» ha ammessa la possibilità per gli imprenditori agricoli in stato di crisi o di insolvenza di avvalersi, sia degli accordi di ristrutturazione dei debiti, sia della transazione fiscale di cui parlano rispettivamente gli artt. 182 bis e 183 ter l. fall. A sua volta, la recentissima l. 27.1.2012, n. 3 nell’intervenire a proposito delle crisi di sovraindebitamento ha previsto una particolare ipotesi di accordo di ristrutturazione dei debiti da attuarsi secondo uno specifico procedimento a favore di debitori non soggetti e non assoggettabili alle procedure concorsuali tra cui rientrano senza dubbio gli imprenditori agricoli.
6. La piccola impresa agricola
La riforma del 2001 non ha introdotto mutamenti nella disciplina codicistica destinata a fissare distinzioni di ordine dimensionale tra le imprese, che sono pertanto rimaste ancorate alla normativa originaria del 1942. Per quanto riguarda l’impresa agricola, la distinzione è tuttora quella legata alla figura del coltivatore diretto quale richiamata nell’art. 2083 c.c., fatta salva la recente novella relativa all’iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese. L’art. 2083 c.c., pur se destinato – in linea con l’ossequio formale al criterio soggettivo – ad individuare il piccolo imprenditore, ha da sempre ancorato tale qualifica ad una precisa modalità organizzativa della struttura produttiva. L’impresa agricola coltivatrice diretta esige, in particolare, da un lato il diretto coinvolgimento dell’imprenditore agricolo anche nel lavoro esecutivo/materiale destinato a svolgersi nell’impresa, dall’altro la presenza anche del lavoro dei componenti la famiglia di tale soggetto ed in misura prevalente quanto alla complessiva forza lavoro ivi impiegata. La qualifica di coltivatore diretto, originariamente unitaria nella prospettiva propria del codice civile del 1942, ha conosciuto nel tempo una differenziazione per cui essa registra tuttora la presenza di una pluralità di parametri di riferimento che ne hanno ampliato l’area operativa (ad es., che nell’area dei contratti di affitto di fondo rustico a coltivatore diretto, per la qualifica soggettiva non si richiede più la prevalenza del fabbisogno di lavoro, ma è sufficiente soltanto il terzo). Ad ogni modo, è indubbio che l’articolazione dimensionale dell’impresa agricola, tuttora consegnata alla disposizione di cui all’art. 2083 c.c., attende una rivisitazione che sia adeguata, quanto meno, ai significativi mutamenti che l’area dell’agrarietà ha già registrato con la riforma del 2001.
Fonti normative
Artt. 2083, 2135 c.c.; dd.lgss. 18.5.2001, nn. 226, 227 e 228.
Bibliografia essenziale
Per la letteratura prima della riforma del 2001 si rinvia per tutti a: Adornato, F., L'impresa forestale, Milano, 1996; Alessi, R., L'impresa agricola, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 1990; Francario, L.-Paoloni, L., L'impresa agrituristica, Napoli, 1989; Romagnoli, E., L'impresa agricola, in Tratt. Rescigno, 15, Torino, 2001.Sulla nuova disciplina, Abriani N.-Motti, C., a cura di, La riforma dell’impresa agricola, Atti del Convegno di Foggia (25-26 gennaio 2002), Milano, 2003; Alessi R.-Pisciotta, G., L’impresa agricola, in Il Codice Civile. Commentario, diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2010; Casadei, E., Commento agli artt. 1 e 2 d. lgs. 228/01, in Nuove leggi civ., 2001, 724 ss.; Costato, L., Corso di diritto agrario, Milano, 2004; Costato, L., Imprenditore agricolo,novità codicistiche e polemiche retro, in Riv. dir. civ., 2006, I, 89 ss.; Ferri, G.B., La “nuova” impresa agricola, in Dir. giur., 2005, 1 ss.; Galloni, G., Impresa agricola Disposizioni generali, art. 2135-2139, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2003; Goldoni, M., L'articolo 2135 del Codice civile (§§ 18-21), in Trattato breve di diritto agrario, diretto da L. Costato, III ed., Padova, 2003; Jannarelli, A.-Vecchione, A., L’impresa agricola, in Tratt. Buonocore, Torino, 2008; Petrelli, L., Studi sull’impresa agricola, Milano, 2007.