Impresa pubblica
Esistono due definizioni di 'impresa pubblica' concettualmente diverse, anche se nei fatti non incompatibili tra loro.Secondo la prima definizione - che fa riferimento alla proprietà e alla gestione dell'impresa - un'impresa si definisce 'pubblica' in quanto è controllata da un'autorità di governo, centrale o locale.In base alla seconda - che fa riferimento alla natura del bene offerto - un'impresa si definisce 'pubblica' in quanto fornisce un bene pubblico.
Esistono imprese le quali, poiché sono soggette alla pubblica amministrazione e contemporaneamente forniscono beni pubblici, rispondono a entrambe le definizioni; d'altra parte, nella tradizione dei paesi europei, sono soggette alla pubblica amministrazione anche imprese che non forniscono beni pubblici (v. Stiglitz, 1989, pp. 12-20; v. Vickers e Wright, 1989, pp. 1-30).
Comunque la letteratura economica, nel trattare l'impresa pubblica, ha sempre fatto riferimento all'impresa fornitrice di beni pubblici, definendo i beni pubblici in base alla condizione tecnica di offerta di questi stessi beni.
Secondo l'impostazione tradizionale, l'offerta di un bene pubblico deve ritenersi, per definizione, un 'monopolio naturale', espressione di un fallimento del mercato imputabile a mancanza di concorrenza; tale monopolio dev'essere gestito dalla pubblica amministrazione, direttamente o tramite organismi pubblici di controllo.
Questa definizione si basa sull'assunzione che la tecnologia sia data e che nel contempo sia data la domanda e la curva di offerta sia decrescente. In questo caso vi è spazio per un solo operatore, del resto non necessariamente efficiente, se la dimensione della domanda è inferiore alla dimensione minima efficiente di offerta del bene stesso. Siamo dunque in presenza di un 'fallimento del mercato' e pertanto la gestione del bene pubblico deve essere regolata dallo Stato, non potendo essere regolata dal mercato attraverso la concorrenza.
L'ipotesi cruciale per dimostrare l'esistenza di un tale monopolio naturale è legata principalmente alla natura dei costi fissi necessari per attivare il processo di produzione del bene pubblico. Si assume che tutti i costi fissi servano a produrre quel solo bene e comportino rilevanti economie di scala, cosicché il costo unitario diminuisce all'aumentare della quantità offerta.
Una vasta letteratura ha analizzato, soprattutto negli anni cinquanta e sessanta, i diversi modi in cui un'autorità pubblica può gestire l'offerta di un tale bene, per il quale non esiste una concorrenza né effettiva né potenziale tra offerenti.
Assumendo l'impossibilità di disporre di entrate efficienti nel settore, a causa degli alti investimenti fissi specifici richiesti, la letteratura tradizionale individua la necessità che l'amministrazione pubblica gestisca direttamente o tramite organismi pubblici di controllo le attività di monopolio.
L'impresa che offre in via esclusiva un bene pubblico viene comunque gestita secondo criteri pubblicistici, cioè tali da non permettere al gestore di massimizzare le rendite monopolistiche. In tal caso l'autorità di governo stabilisce tariffe e modalità di esercizio dell'impresa che offre un bene pubblico, trasferendo le eventuali perdite a carico dell'erario.
La critica a tale impostazione è stata incentrata soprattutto sul fatto che l'impresa pubblica (cioè il monopolio gestito direttamente dalla pubblica amministrazione o controllato pubblicamente) non si pone più obiettivi di efficienza attraverso la minimizzazione dei costi, ma assume come obiettivo il sussidio pubblico compensativo delle maggiori spese sostenute in confronto alle entrate regolate pubblicamente. In un tal caso lo Stato non promuove l'efficienza ma sussidia l'inefficienza.
A questa concezione si è opposta negli anni ottanta una vasta letteratura teorica, che ha affrontato in termini differenti il problema della regolazione dei monopoli naturali. Questa diversa visione, proposta per la prima volta da Baumol, Panzar e Willig (v., 1982), è incentrata sull'analisi dell'effettiva accessibilità dei mercati (contestable market theory). Secondo questa teoria un monopolista sarebbe indotto comunque a comportarsi come se fosse in un mercato concorrenziale, cioè come se fosse possibile per un operatore esterno entrare nell'attività monopolizzata. Questa possibilità è garantita se i costi fissi necessari per lo svolgimento dell'attività sono recuperabili e riutilizzabili anche in altre attività. In questo caso ogniqualvolta il monopolista intendesse alzare i prezzi al di sopra di un livello competitivo, lucrando extraprofitti di monopolio, l'entrata, anche temporanea, di nuovi concorrenti regolerebbe la sua azione.
A partire da questa nuova prospettiva sono state avviate in tutti i paesi politiche di privatizzazione, volte non tanto (o non solo) a cedere la proprietà delle imprese pubbliche, quanto a porre il monopolista in concorrenza con altri operatori attraverso la deregolamentazione delle attività erogatrici di pubblici servizi.
Di recente si è inoltre rimessa in discussione la definizione stessa di bene pubblico, concentrando l'attenzione sulla natura della domanda anziché su quella dell'offerta (v. Stiglitz, 1988).
Per bene pubblico si intende, in questa diversa concezione, una merce o un servizio per la cui fruizione non vi può essere concorrenza tra i consumatori. Ciò significa che i consumatori non possono essere posti in condizioni di rivalità per l'acquisizione del bene in questione e quindi non vi può essere un'appropriazione del bene da parte di un consumatore a scapito di un altro.
L'indicazione di quali beni debbano essere considerati pubblici non è un fatto 'tecnico', ma il risultato di una scelta politica che spetta a chi detiene il potere legislativo e che qualifica la struttura sociale entro cui tale scelta si compie.
Adam Smith ha affrontato questo problema. Dopo aver attribuito la ricchezza delle nazioni alle interazioni fra individui liberati dai vincoli feudali, egli sostiene che lo sviluppo delle libere attività richiede un sovrano in grado di fornire alcuni beni che nessuno può individualmente offrire, non tanto perché il singolo non sia capace di farlo, ma perché questi beni non possono essere oggetto di negoziazione individuale. Tra questi beni compaiono, in primo luogo, la difesa interna e la difesa esterna, cioè la funzione pubblica di garanzia della libertà individuale, nel caso della difesa interna, e la funzione pubblica di garanzia della libertà collettiva, nel caso della difesa esterna (v. Smith, 1976, p. 689). Altri beni pubblici contemplati da Smith sono le infrastrutture destinate a facilitare i commerci e il sistema dell'istruzione elementare.
Il tipo di beni pubblici che un paese intende garantirsi denota il grado di democrazia del paese, in quanto indica i diritti che spettano ai cittadini, cioè quelli che Dahrendorf (v., 1988) chiama gli "entitlements".
In Smith è anche chiaro il concetto che il bene pubblico permette ai singoli di svolgere attività che non potrebbero svolgere senza l'offerta del bene stesso da parte della collettività. Le strade, per esempio, facilitano gli spostamenti su lunghe distanze e quindi consentono di operare su un mercato più ampio. Anche l'istruzione di base allarga gli orizzonti operativi dell'individuo, poiché gli permette di realizzare beni più complessi e quindi di divenire più efficiente (v. Smith, 1976, p. 758). Pertanto la fornitura di beni pubblici incide anche sull'efficienza, in quanto agisce sulle capacità effettive dei cittadini di esercitare i propri diritti (le cosiddette "capabilities", secondo l'espressione di Sen: v., 1985).
In questa prospettiva l'indicazione di quali beni e servizi siano da considerarsi pubblici, cioè di quali beni e servizi debbano essere forniti senza che vi sia appropriazione individuale - ovvero concorrenza tra consumatori -, è rilevante per definire gli obiettivi di equità e di efficienza che la comunità vuole raggiungere. Diverso è il problema di come fornire i beni definiti pubblici. Vi sono beni che possono essere offerti da un solo soggetto, data la tecnologia richiesta e nell'ipotesi che concorrano a formare la domanda soltanto i cittadini amministrati dall'autorità di governo detentrice del monopolio. La domanda quindi è data solo perché dipende dall'estensione della sovranità dell'autorità che esercita il controllo. È la limitatezza stessa di questa sovranità che limita l'estensione della domanda e perciò genera una situazione di monopolio che è istituzionale e non naturale (cioè tecnica).
Affrontando il problema della privatizzazione delle imprese pubbliche ci si deve quindi interrogare, innanzitutto, sulle radici stesse della presenza pubblica nell'economia. In altri termini occorre dapprima domandarsi quali beni debbano essere considerati pubblici e come regolarli, e in un secondo tempo, ammesso che s'intenda ridurre la presenza diretta dello Stato nella proprietà di imprese che producono beni non ritenuti pubblici, come mutare la proprietà di queste attività.
Nel dopoguerra la presenza dello Stato nell'economia è stata massiccia in tutti i paesi occidentali, anche se in forme e con motivazioni diverse da caso a caso. In Francia e in Gran Bretagna, per esempio, i governi socialisti hanno sempre favorito la proliferazione delle imprese possedute dallo Stato o regolate pubblicamente. In alcuni paesi lo Stato è intervenuto per garantire la gestione di attività private, produttive e di servizio commerciale, in crisi. Ciò è accaduto, per esempio, in Spagna e in Gran Bretagna, dove sono stati costituiti, seguendo l'esempio italiano, enti pubblici per la gestione di imprese di diritto privato (l'Industrial Reorganization Corporation in Gran Bretagna e l'Instituto Nacional de Industria in Spagna).
Negli anni cinquanta, pertanto, l'impresa pubblica ebbe una vasta diffusione. In tale periodo le imprese pubbliche venivano costituite non tanto perché gestissero servizi essenziali, usualmente già gestiti direttamente dalla pubblica amministrazione, quanto per garantire il funzionamento di attività di servizio e di produzione che richiedevano grandi capitali non disponibili altrimenti nel paese, oppure per controllare direttamente settori ritenuti strategici per il governo, oppure semplicemente per evitare crisi occupazionali conseguenti a crisi di grandi complessi industriali privati.
Negli anni settanta si è verificato un ulteriore ampliamento dell'area pubblica in tutti i paesi industrializzati e in via di sviluppo. Nei primi anni ottanta il settore pubblico aveva così raggiunto, nella maggior parte dei paesi sviluppati, un'estensione senza precedenti: per esempio in tutti i paesi industrializzati, dall'Australia al Brasile, alla Corea del Sud, i servizi principali - le telecomunicazioni, la distribuzione dell'elettricità e del gas, le ferrovie, i servizi postali - erano gestiti direttamente dalla pubblica amministrazione o da società private regolate pubblicamente. In molti paesi la produzione dell'acciaio, quella delle automobili, i cantieri navali, le aerolinee, ecc. erano in mano a imprese pubbliche o largamente sussidiate pubblicamente. Fra le 100 maggiori imprese operanti nella Comunità Europea nel 1982 23 erano pubbliche, cioè possedute direttamente o indirettamente dallo Stato; tra queste alcune offrivano beni pubblici, altre beni di mercato.
Negli anni successivi in tutti i paesi, sia sviluppati che in via di sviluppo, sia a economia di mercato che a economia pianificata, sono state avviate iniziative per privatizzare le imprese pubbliche: in Gran Bretagna, per esempio, il governo conservatore ha trasformato le imprese che offrivano beni pubblici in società per azioni quotate in borsa e possedute da un gran numero di piccoli sottoscrittori. L'esperienza inglese ha però dimostrato che la cessione della proprietà azionaria, e quindi il venir meno del controllo diretto da parte dello Stato, non annulla la necessità di stabilire una regolazione adeguata per le imprese che, pur essendo private, offrono un bene pubblico. Nel settore delle telecomunicazioni, per esempio, è stata creata una società per azioni, la British Telecom, per offrire il servizio telefonico; d'altronde un'altra società, la Mercury, è stata abilitata a offrire lo stesso servizio; quindi è stata istituita un'autorità pubblica col compito di fissare le tariffe in modo efficiente e di garantire e controllare la qualità del servizio. D'altra parte le imprese che producevano beni di mercato, come le automobili, sono state cedute a imprenditori privati che hanno poi operato secondo le ordinarie norme antimonopolistiche vigenti nel paese.In Francia il governo neogollista giunto al potere nel 1986 ha avviato una politica di privatizzazione delle imprese nazionalizzate dal governo socialista pochi anni prima. Anche in questo caso la privatizzazione dei grandi gruppi industriali già posseduti dallo Stato ha implicato il mutamento degli assetti proprietari e delle modalità di gestione sia di imprese che offrivano beni pubblici (con la conseguente necessità di stabilire comunque strumenti indiretti di vigilanza e regolazione), sia di imprese che offrivano beni di mercato.
La cessione della proprietà delle imprese già possedute dallo Stato ha rappresentato, in Francia come in Gran Bretagna, l'occasione per riorganizzare i mercati finanziari. La proprietà per un quarto è stata ceduta a grandi istituti bancari e a gruppi finanziari nazionali, per un quarto è stata offerta sui mercati internazionali, e per il restante 50% è stata distribuita a migliaia di piccoli sottoscrittori nazionali.
Anche in Spagna si è proceduto a privatizzare larga parte del patrimonio industriale pubblico, già concentrato nell'Instituto Nacional de Industria. Seguendo una linea d'azione raccomandata dai grandi organismi internazionali - come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale -, anche in molti paesi in via di sviluppo si sono avviate, e in taluni casi portate a termine, importanti privatizzazioni: per esempio in Argentina e in Messico sono state realizzate massicce operazioni di dismissione sia di imprese che offrivano beni e servizi pubblici, sia di imprese che offrivano beni di mercato. In Argentina, in particolare, sono stati avviati nei primi anni novanta processi di privatizzazione di imprese pubbliche; pure in questo caso ci si è resi conto che la cessione a privati di imprese fornitrici di servizi pubblici richiede la contestuale costituzione di organismi pubblici che garantiscano l'accesso a tali servizi e la loro qualità (v. Gerchunoff, 1992).
Anche in tutti i paesi già a economia pianificata sono state tentate politiche di privatizzazione, peraltro coronate da successo solo in pochi casi.Nella maggior parte dei casi, sia nei paesi avanzati che in quelli in via di sviluppo, il ruolo dello Stato si era espanso a tal punto, negli anni settanta, che di fatto non solo tutti i servizi pubblici e molti servizi commerciali erano gestiti direttamente dalla pubblica amministrazione, ma anche diverse attività industriali dipendevano direttamente o indirettamente dal bilancio pubblico. Così più che a privatizzazioni di specifiche attività si è proceduto in molti casi a una vera e propria destatalizzazione dell'economia.Il processo di integrazione europea ha offerto un contesto normativo utile per ridefinire il ruolo dello Stato nelle economie dei paesi europei, come si vedrà per sommi capi nel prossimo capitolo.
La Comunità Europea distingue tra impresa pubblica in quanto fornitrice di beni pubblici e impresa pubblica in quanto posseduta da organi centrali o periferici dello Stato. Nel primo caso richiede che si isoli esattamente il bene pubblico offerto e se ne precisino le modalità di finanziamento a carico dello Stato. Nel secondo caso ritiene che le imprese in questione, in quanto operanti in regime di mercato - anche se di proprietà pubblica -, debbano soggiacere alle regole della concorrenza e quindi considera sovvenzioni pubbliche anche le erogazioni fornite dallo Stato. Pertanto, con riferimento alla situazione italiana, anche i contributi pubblici alle imprese a partecipazione statale erogati sotto forma di aumenti dei fondi di dotazione a ripianamento delle perdite aziendali sono considerati dalla Commissione delle Comunità Europee come aiuti illegittimi, perché tali da falsare la concorrenza.
Questa delicata materia è disciplinata dall'art. 90 del Trattato di Roma - che precisa che gli Stati non possono emanare né mantenere nei confronti delle imprese pubbliche misure contrarie al Trattato - e dalla direttiva 723 del 25 giugno 1980 ("Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea" del 29 luglio 1980), completata dalla direttiva 413 ("Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea" del 28 agosto 1985) sulla trasparenza delle relazioni finanziarie tra Stati e imprese pubbliche. La direttiva 723 del 25 giugno 1980 specifica, in particolare, che per impresa pubblica si intende "ogni impresa nei confronti della quale i poteri pubblici possono esercitare direttamente o indirettamente un'influenza dominante per ragioni di proprietà, di partecipazione finanziaria o della normativa che la disciplina" e che per poteri pubblici si devono intendere "lo Stato nonché altri enti territoriali" (art. 2). La Commissione pertanto ritiene che le imprese pubbliche, così come sono definite dall'art. 2 della direttiva 723, debbano rispondere agli stessi criteri di efficienza delle imprese private e perciò in occasione di perdite dovrebbero farvi fronte con mezzi propri. Più in generale la proprietà pubblica di un'impresa non deve avvantaggiare l'impresa in questione nei confronti delle altre imprese introducendo un sostanziale pregiudizio sul mercato.
Questa posizione della Commissione ha un notevole significato politico, in quanto permette alle autorità comunitarie di intervenire sulle modalità di gestione delle imprese pubbliche. Per quanto riguarda l'Italia, per esempio, ciò significa che il tradizionale intervento basato sui cosiddetti 'oneri impropri' - cioè l'attribuzione alle imprese a partecipazione statale di compiti di salvaguardia occupazionale o di sviluppo, a prescindere dai criteri di economicità degli investimenti - deve ora considerarsi oggetto di controllo da parte della Commissione. Inoltre tutti gli enti centrali e locali che gestiscono attività 'pubbliche' debbono dichiarare se effettivamente i beni forniti abbiano o meno natura pubblica e in caso affermativo debbono specificare la natura dei trasferimenti a copertura dei costi di erogazione dei beni. In questo senso l'azione comunitaria non si pone pregiudizialmente contro l'esistenza di imprese pubbliche, ma richiede un'azione di trasparenza che non ha mai contraddistinto, nel nostro paese, l'intervento pubblico diretto nell'economia.Dato questo quadro, verifichiamo ora il ruolo dell'impresa pubblica in Italia.
In Italia la presenza pubblica nell'economia è massiccia. Questa presenza si è sviluppata fin dagli inizi del secolo con caratteristiche peculiari, dando luogo a un complesso intreccio tra le diverse forme di intervento pubblico nell'economia. In Italia, di conseguenza, anche la politica di privatizzazione assume caratteristiche ben più complesse che in altri paesi europei.In Italia lo Stato controlla, direttamente o indirettamente, la maggior parte dei servizi pubblici - sanità, trasporti, istruzione, acqua, gas ed energia elettrica (quindi le imprese pubbliche in senso stretto) - ma anche la quasi totalità del settore bancario e larga parte delle attività industriali. Questa vasta rete di interessi è governata in forme molto diverse. Esistono tre distinte categorie di imprese pubbliche: a) le aziende di Stato; b) gli enti pubblici; c) le imprese a partecipazione statale.
In Italia le aziende di Stato sono amministrazioni autonome all'interno della pubblica amministrazione centrale, le quali gestiscono direttamente, per conto del ministero competente, specifiche attività di servizio o di produzione, che rientrano nell'ambito di attività primario dello Stato, ma che non possono essere gestite tramite gli organi ordinari della pubblica amministrazione. Dal punto di vista organizzativo un'azienda autonoma dello Stato è gestita da una commissione amministratrice presieduta dal ministro titolare del ministero cui fa capo l'azienda e composta dai responsabili degli uffici più importanti dell'azienda stessa e da altri membri designati dal governo. La gestione delle attività dipende da un direttore generale nominato dal governo.
Attualmente le aziende autonome dello Stato sono l'ANAS (costruzione e manutenzione delle strade di competenza statale), l'AIMA (interventi nel settore agricolo), l'ASFD (foreste demaniali), l'ASST (telefoni) e i Monopoli di Stato (produzione e distribuzione di sali e tabacchi). A queste si aggiungevano la Cassa depositi e prestiti, le Ferrovie dello Stato, l'Azienda per l'assistenza al traffico aereo, il cui assetto organizzativo è stato cambiato recentemente (v. Commissione per il riassetto del patrimonio mobiliare e per le privatizzazioni, 1990, p. 33).
La prima azienda di Stato risale all'inizio del secolo, quando venne costituita l'azienda autonoma per le ferrovie. Fino ad allora le ferrovie erano state gestite da imprese private operanti localmente sulla base di concessioni già rilasciate dai singoli Stati preunitari e poi rinnovate dal nuovo Regno d'Italia. Dopo un lungo dibattito, con la legge n. 137 del 22 aprile 1905 le ferrovie locali vennero nazionalizzate e la loro gestione fu affidata a un unico organismo cui fu assegnato il compito di unificare la rete e migliorare l'efficienza del servizio. Si ritenne opportuno accentrare la gestione del servizio nell'ambito del ministero, ma riconoscendo nel contempo all'amministrazione delle ferrovie un carattere speciale rispetto all'organizzazione ministeriale e conferendole una struttura organizzativa più snella, procedure contabili semplificate, personale pagato in base a contratti diversi da quelli dei lavoratori statali (v. Cassese, 1983, p. 34).
All'inizio del secolo la pubblica amministrazione si presentava organizzata nei rigidi termini che circa cinquant'anni prima Cavour aveva delineato per il piccolo Regno di Sardegna e che Crispi nel 1888 aveva riformato per poter gestire un regno di grandi dimensioni, sorto dall'unificazione di regni piccoli e medi aventi organizzazioni amministrative e strutture economiche e sociali molto diverse tra loro.
Risale ad allora quella sorta di schizofrenia dell'amministrazione statale che porta lo Stato a organizzarsi in maniera tanto rigida da controllare ogni attività economica e nel contempo a predisporre organizzazioni parallele per gestire quelle attività che la pubblica amministrazione non è in grado di amministrare. Il sistema di gestione delle ferrovie divenne il modello di riferimento secondo cui organizzare la gestione di tutti i servizi di pubblica utilità: veniva dichiarata l'attribuzione in via esclusiva della gestione di questi servizi allo Stato centrale, che tuttavia li amministrava attraverso aziende autonome, che altro non sono che amministrazioni speciali nell'ambito del ministero di competenza.
Questa disciplina di riserva monopolistica allo Stato venne estesa nel 1907 ai telefoni (nel 1916 anche alle linee interurbane), nel 1909 ai trasporti terrestri su gomma, nel 1922 ai trasporti marittimi, nel 1923 ai trasporti aerei, nel 1927 alle attività estrattive, nel 1933 ai servizi radiofonici, nel 1936 alle poste e telecomunicazioni. Dopo la seconda guerra mondiale questo regime venne esteso alle attività di trattamento degli idrocarburi (1953 e 1957) e alla produzione e distribuzione dell'energia elettrica nel 1962 (v. Cassese, 1992).
Il modello in questione prevedeva dunque il monopolio pubblico di questi servizi e contestualmente la loro gestione attraverso aziende autonome costituite nell'ambito della stessa pubblica amministrazione. Questo modello è stato però modificato progressivamente: in virtù delle modifiche apportate le stesse aziende autonome potevano, a loro volta, affidare in concessione i servizi o parte di essi a soggetti privati, ai quali venivano comunque imposti in termini molto precisi non solo le modalità di realizzazione dei servizi e i sistemi tariffari, ma anche i modelli organizzativi e gestionali interni.
Oltre alle aziende autonome nell'ambito dell'amministrazione centrale, esistono le aziende autonome nell'ambito delle amministrazioni locali (comuni, province, regioni), anch'esse istituite per l'attuazione di servizi ritenuti pubblici per finalità e gestione, ma non ordinabili nell'ambito dell'amministrazione pubblica ordinaria. Così pressoché tutti i comuni hanno istituito aziende autonome per la gestione dei trasporti urbani, l'erogazione dell'acqua e del gas, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, addirittura la produzione e la distribuzione del latte, ecc.
Alla vasta rete delle aziende autonome centrali e locali si aggiunge un gran numero di enti pubblici, preposti, almeno in linea di principio, alla gestione monopolistica di specifiche attività di servizio. Agli inizi degli anni ottanta si stimavano in circa 54.000 gli enti pubblici presenti in Italia. Con la legge n. 70 del 20 marzo 1975 si stabilì che non potessero essere più creati enti pubblici se non per legge nazionale, e nel contempo si dispose di porre in liquidazione gli 'enti inutili'; dopo 15 anni ne sono stati soppressi solo 200 (v. Cassese, 1989, p. 149). Anche gli enti pubblici sono stati istituiti onde poter gestire secondo modalità proprie dell'impresa privata attività considerate di carattere pubblico, ma, contrariamente alle aziende autonome, che restano nell'ambito della pubblica amministrazione - sia pure come amministrazioni speciali -, gli enti pubblici si considerano esterni alla pubblica amministrazione in senso stretto. D'altronde gli organi dirigenti di un ente pubblico sono nominati direttamente dal governo e solo al governo rispondono. Si ottiene così il risultato che gli enti pubblici da una parte sfuggono alle regole della pubblica amministrazione (per esempio alla rigida normativa sui compiti degli impiegati pubblici, o al contratto di lavoro del pubblico impiego), mentre, dall'altra, non debbono neppure rispondere a regole di mercato (per esempio quella che prescrive il fallimento in caso di morosità). Si sviluppa così una amministrazione parallela frammentata e scoordinata, che risponde solo al potere politico.Il primo ente pubblico, l'INA - Istituto Nazionale delle Assicurazioni -, fu istituito nel 1912 per gestire il monopolio delle assicurazioni sociali; fu tuttavia durante il periodo fascista che si creò una miriade di enti pubblici.
Gli enti pubblici hanno modalità organizzative e gestionali interne estremamente diversificate, e perciò non è possibile fornire uno schema univoco della loro attività. Quel che si può dire è che interi settori della vita economica del paese sono dominati dagli enti pubblici, che vanno dagli enti di promozione settoriale agli enti sportivi, alle fiere, ai teatri dell'opera. È inoltre da ricordare che le maggiori banche (ad eccezione delle banche dell'IRI) sono enti pubblici, mentre le casse di risparmio sono enti morali, i cui dirigenti sono anch'essi di nomina governativa (v. Cassese, 1989, p. 136).
Si è così stratificato nel tempo un vasto settore 'parastatale', che incide sul bilancio pubblico e sulle stesse modalità di funzionamento della vita civile, ma che nel contempo sfugge sia alle regole della pubblica amministrazione sia a quelle del mercato.Nel 1933 gli enti pubblici contavano già 50.000 dipendenti (v. Cassese, 1983, p. 37).
Alle aziende di Stato e agli enti pubblici si affiancano le società per azioni il cui capitale è interamente o in termini maggioritari controllato dallo Stato o da enti pubblici. Il sistema delle partecipazioni statali si basa sull'esistenza di enti pubblici (IRI, ENI ed EFIM) che controllano le maggioranze azionarie di imprese di diritto privato. Com'è noto queste imprese sono finite sotto il controllo dello Stato non per una scelta ideologica, ma in seguito al collasso del sistema delle banche miste. Dopo che lo Stato ebbe acquisito banche e imprese industriali in crisi, si costituì nel 1933 un ente temporaneo - l'IRI - per provvedere alle privatizzazioni di queste attività; apparve però subito chiaro che nel paese non vi erano capitali in grado di acquisire un così vasto patrimonio industriale. Già nel 1937 l'ente istituito per gestire le privatizzazioni si trasformò in ente permanente per gestire le imprese industriali finite in mano pubblica. A posteriori, per giustificare la presenza di tali imprese e il loro controllo da parte dello Stato, si sostenne dapprima che esse servivano a produrre beni in sostituzione di beni già importati e sottoposti a blocco internazionale e poi, nel dopoguerra, che esse erano destinate a produrre beni di base per permettere alle imprese private di produrre beni di consumo finale. Nel dopoguerra la crescita delle imprese a partecipazione statale aumentò rapidamente secondo due modalità: soprattutto per via interna durante gli anni cinquanta e sessanta, quando l'obiettivo primario era la creazione di occupazione e di nuove attività, e principalmente per via esterna nel decennio successivo, quando si trattò di salvare imprese in crisi. Il risultato fu la formazione di un nutrito gruppo di piccole e medie imprese sostanzialmente operanti nel ristretto mercato italiano, gruppo continuamente esteso e diversificato attraverso acquisizioni casuali di imprese in dissesto.Il tasso di occupazione nell'IRI continuò a crescere a ritmo accelerato negli anni sessanta e settanta, durante i quali gli addetti, dopo gli aumenti del 6,3% e del 17,7% fatti registrare dal 1938 al 1950 e dal 1951 al 1960, crebbero rispettivamente del 49,3% e del 56%.In quegli anni molti autori valutarono positivamente il sistema delle partecipazioni statali ritenendo che in un paese relativamente arretrato l'intervento dello Stato nell'economia potesse garantire la produzione di beni, come l'acciaio, necessari allo sviluppo industriale (v. Shonfield, 1965; v. Posner e Woolf, 1967; v. Vernon, 1974).
Negli anni settanta gli enti a partecipazione statale furono indotti a compiere salvataggi di imprese private in crisi e giunsero essi stessi al collasso (v. Ministero delle Partecipazioni Statali, 1981; v. Bianchi, 1987). Il giudizio sui risultati conseguiti dalle imprese pubbliche non può comunque essere disgiunto dalla considerazione che le imprese a partecipazione statale sono state usate come strumenti di politica economica. A tali imprese, infatti, sono stati assegnati dall'autorità pubblica diversi compiti; esse hanno dovuto contemporaneamente: a) svolgere un'azione anticongiunturale di investimento e garanzia occupazionale, controciclica rispetto ai comportamenti privati; b) promuovere lo sviluppo territoriale, in particolare attraverso iniziative di promozione industriale nel Mezzogiorno, in sostituzione di attività svolte da privati; c) gestire direttamente attività di base in alternativa a iniziative private, nazionali o straniere; d) gestire in concessione pubblica attività definibili di monopolio naturale, ovvero entrare in settori nei quali i produttori esistenti mostravano, attraverso accordi o fusioni, di mirare a conquistare posizioni monopolistiche; e) produrre svariati beni in sostituzione di beni importati (v. Ministero delle Partecipazioni Statali, 1981 e 1987; v. Senato della Repubblica, 1987).
Questa molteplicità di compiti sta a indicare che l'impresa a partecipazione statale italiana è stata impiegata come strumento di politica economica particolarmente versatile per attuare l'intera gamma degli interventi pubblici in tema di attività industriali e di regolazione dei mercati, dall'azione di investimento diretto a fini anticongiunturali alle attività di regolazione della concorrenza e dei monopoli. Di fatto questa molteplicità di funzioni nascondeva la difficoltà di definire e di attuare strumentazioni pubbliche di regolazione amministrativa, in un paese che rimaneva caratterizzato da un esiguo numero di soggetti indipendenti.Questo modello è stato del resto ampiamente utilizzato per creare a livello regionale e municipale società possedute da enti pubblici - come banche e associazioni ed enti locali - volte a sviluppare l'economia locale o settori specifici di attività.
Come si è già detto, i principali servizi pubblici furono assegnati in monopolio all'amministrazione statale, che, a sua volta, li assegnò ad aziende autonome create nell'ambito degli specifici ministeri. Queste stesse aziende autonome, però, divennero ben presto organi rigidamente burocratizzati, cosicché le gestioni dei servizi furono affidate in concessione a privati. Di fatto poi queste concessioni furono attribuite in larga parte alle imprese a partecipazione statale, e perciò lo Stato si trovò implicato nella faccenda come ente regolatore (attraverso il ministero), come ente gestore (attraverso l'azienda autonoma) e come concessionario (attraverso l'impresa a partecipazione statale).
Un chiaro esempio di questo intricato sistema è offerto dalla gestione del servizio telefonico: l'esclusività del servizio spetta al Ministero delle Poste e Telecomunicazioni, il quale, però, la attribuisce amministrativamente all'ASST (Azienda di Stato per i Servizi Telefonici); a sua volta l'ASST dà in concessione la gestione delle comunicazioni urbane alla SIP e la gestione delle comunicazioni intercontinentali alla Italcable, entrambe imprese a partecipazione statale. Di recente si è comunque pensato di semplificare il sistema sciogliendo l'ASST e attribuendone i compiti alla SIP. È stato riattivato nell'ambito del Ministero un ufficio di ispettorato preposto al controllo della qualità del servizio dato in concessione, ma non si è rimossa la contraddizione di uno Stato che è nel contempo ente regolatore e concessionario attraverso un'impresa controllata. È stata pertanto avanzata la richiesta di istituire anche in Italia, come in Gran Bretagna, autorità indipendenti col compito di garantire il controllo sulle modalità di erogazione del servizio pubblico.In conclusione il proliferare delle imprese pubbliche, occasionato da necessità di gestione dei servizi pubblici, ha dato luogo a un nebuloso intreccio tra attività politiche e attività economiche, contribuendo a rendere sempre più confuso il ruolo dello Stato nell'economia del paese. La presenza pubblica (più precisamente politico-partitica) nelle diverse aree della vita economica e sociale si è andata espandendo pervasivamente attraverso l'istituzione di soggetti pubblici gestiti privatisticamente (come le aziende autonome e gli enti pubblici) e di soggetti privati gestiti pubblicisticamente (come le imprese a partecipazione statale) e ciò rende difficile individuare linee di confine precise tra pubblico e privato.
La vasta rete delle imprese pubbliche italiane - aziende autonome, enti pubblici e imprese a partecipazione statale agenti come concessionarie delle imprese precedenti - fu istituita nel primo trentennio del secolo per gestire in modo monopolistico attività di servizio pubblico. Negli anni trenta questo sistema di gestione fu esteso a svariati settori e attività nell'ambito di un'economia 'corporativa' in cui non solo lo Stato si arrogava la gestione monopolistica delle attività di interesse pubblico, ma ogni categoria rivendicava la gestione in esclusiva di specifiche attività.
Questo immenso apparato di protezione interna tipico di un'economia chiusa si è protratto nel periodo postbellico, malgrado fosse subentrata una fase di grande apertura internazionale. Pur essendo progressivamente venuto meno il carattere di esclusività delle gestioni delle specifiche attività settoriali cui erano preposti gli enti pubblici, l'apparato degli enti pubblici ha continuato a costituire una sorta di protezione istituzionale contro le entrate di concorrenti stranieri, ma anche un ostacolo che ha impedito alle imprese italiane di operare a livello internazionale. Per esempio le banche pubbliche e le casse di risparmio non godono certamente di diritti di esclusività territoriale, e tuttavia hanno sempre ritenuto che il loro mercato e la loro funzione sociale fossero limitati allo stretto ambito locale entro cui godevano di una posizione dominante e in cui agivano come tesorieri degli enti pubblici locali.
Solo parzialmente diverso è il caso delle imprese a partecipazione statale concessionarie di servizi in esclusiva (telecomunicazioni, autostrade, aerolinee, linee marittime, ecc.): il loro ambito di azione è sempre stato nazionale e protetto da un accordo pluriennale di servizio. Tuttavia anche le imprese a partecipazione statale che offrivano beni non pubblici sono state costrette per lungo tempo a operare all'interno del paese: infatti, dato che la loro funzione pubblica consisteva essenzialmente nel sostenere l'industria e l'occupazione nazionale, il loro spazio d'azione era limitato al mercato interno. Inoltre sia il governo sia il parlamento hanno sempre esercitato su queste imprese forti pressioni perché rinunciassero non solo ad attuare investimenti diretti all'estero (tranne che nel caso delle estrazioni petrolifere e in quello dei grandi lavori), ma anche a contrarre alleanze con imprese straniere.
In Italia in materia di privatizzazioni non si è affrontato subito il problema della destatalizzazione dell'economia, ma ci si è limitati a prendere in considerazione - come dimostra il decreto del 23 gennaio 1992 e i successivi atti del Ministero del Tesoro - la possibile vendita della proprietà azionaria delle imprese a partecipazione statale e del patrimonio immobiliare pubblico.
Questa mossa italiana ha fatto seguito, e con grave ritardo, a una serie di operazioni che negli anni ottanta tutti i paesi industrializzati hanno attuato per privatizzare imprese giunte a diverso titolo sotto controllo pubblico (v. Vickers e Wright, 1989). In Italia, però, l'attenzione non si è concentrata su tutte quelle imprese nazionalizzate che gestiscono direttamente i servizi pubblici, cioè le ferrovie, la posta, i telefoni, le autostrade, ecc.: per queste attività si è preferito escogitare formule che ne migliorassero l'efficienza gestionale, senza contemplare la possibilità di una loro cessione a privati (eccezion fatta per servizi marginali). Citiamo a titolo d'esempio il caso delle Ferrovie dello Stato: questa azienda di Stato è stata trasformata in un ente avente una propria autonomia gestionale nei confronti del ministero competente (legge del 17 maggio 1985), ma non si è ritenuto opportuno trasformarla in società per azioni da collocare sul mercato dei capitali. Per quel che riguarda l'ASST, invece, si è deciso di trasferirne le competenze gestionali (la gestione delle comunicazioni interurbane) alla società a partecipazione statale già concessionaria del servizio urbano (cioè la SIP del gruppo IRI).
I Monopoli di Stato sono stati trasformati da azienda autonoma in società per azioni, ma da attribuire all'IRI. Si è quindi imposta la tendenza a chiudere le aziende autonome, trasferendone le attività a imprese a partecipazione statale da mantenere comunque nell'ambito del controllo pubblico.Per quanto riguarda le casse di risparmio si è deciso di trasformarle in società per azioni, ma controllate da fondazioni che di fatto sono enti pubblici. Analogamente con la legge n. 142 del 1990 si è provveduto a riformare i comuni e a ridefinire il ruolo delle aziende speciali da essi dipendenti, senza tuttavia allentare il vincolo di dipendenza che lega queste aziende ai comuni.
Si è dunque affermata la tendenza a trasformare le aziende autonome e le aziende speciali - e talvolta anche gli enti pubblici - in società di diritto privato, le cui azioni sono però possedute da enti pubblici centrali o locali; perciò ancora una volta si è attuata l'attribuzione alla pubblica amministrazione di attività aventi finalità pubbliche, ma che si vogliono gestire in forma privatistica.
L'attenzione principale è stata comunque rivolta alla vendita delle imprese a partecipazione statale, cioè di imprese che operano essenzialmente sul mercato, per le quali non esistono - tranne che in casi particolari - i problemi connessi con la produzione di beni pubblici.
Le partecipazioni statali costituivano uno strumento di intervento utilizzabile per diversi fini 'pubblici' senza modifiche sostanziali nell'organizzazione amministrativa dello Stato. L'accumulo di oneri impropri imputabili a obiettivi di carattere non aziendale aveva portato, alla fine degli anni settanta, a una situazione finanziaria gravissima, che il governo decise di affrontare nominando nuovi presidenti a capo dei tre enti (IRI, ENI ed EFIM) e avviando una fase di riorganizzazione che effettivamente ha portato le partecipazioni statali a risultati positivi in pochi anni. La nuova fase di riassetto organizzativo dell'impresa pubblica, avviata nel 1982, doveva basarsi, oltre che sulla riorganizzazione interna, anche su un massiccio ricorso alle privatizzazioni, da realizzarsi essenzialmente attraverso la vendita di imprese considerate non strategiche: paradigmatico è il caso dell'Alfa Romeo (v. Bianchi, 1988). D'altra parte, poiché le imprese controllate dai tre enti pubblici, IRI, ENI ed EFIM, erano società per azioni, la privatizzazione poteva avvenire semplicemente attraverso la vendita totale o parziale sul mercato borsistico o direttamente ad altre imprese, così come la 'nazionalizzazione' era avvenuta semplicemente attraverso acquisizioni o fusioni operate sul mercato (v. Bianchi e Gualtieri, 1989).
Fin dalla fine degli anni ottanta non sono state più realizzate massicce acquisizioni di imprese in dissesto, ma solo poche, caute operazioni connesse con la ridefinizione dei comportamenti strategici di gruppi industriali di proprietà pubblica ma operanti in mercati molto più estesi di quello nazionale. Nel quadro di tale riorganizzazione industriale sono state anche realizzate alcune - poche - cessioni. Non sono state però compiute cessioni del controllo azionario di attività di gestione di servizi pubblici (aerolinee, telecomunicazioni, autostrade, ecc.).
L'azione di privatizzazione avviata fin dagli anni ottanta dai vertici dell'IRI e dell'ENI ha comunque incontrato molti ostacoli, proprio per la molteplicità degli obiettivi assegnati alle partecipazioni statali: ciascuno di questi obiettivi poteva infatti essere invocato per porre il veto a una data cessione pubblica.
Le partecipazioni statali sono state, negli anni dello sviluppo, uno strumento molto flessibile e innovativo per un sistema nazionale sostanzialmente chiuso e caratterizzato da scarsità di capitali interni. L'entrata dello Stato nel ruolo di azionista non ha solo reso possibile il salvataggio di soggetti esistenti, ma ha anche garantito l'entrata di soggetti nuovi in settori e in aree in cui i privati non intendevano entrare. Da ciò ha avuto origine l'ambigua condizione delle partecipazioni statali, nello stesso tempo soggetto di mercato e strumento di politica utilizzabile per diversi e talvolta contrastanti obiettivi.
Nel documento approvato dalla V Commissione permanente a conclusione dell'indagine conoscitiva sull'assetto delle partecipazioni statali si rivendicava al governo un compito di indirizzo, specificando addirittura che "le decisioni strategiche spettano all'autorità politica" (v. Senato della Repubblica, 1987, p. 16).
Dopo una fase di rilancio, coincidente con la gestione Prodi all'IRI e la gestione Reviglio all'ENI (1983-1989), le imprese pubbliche hanno conosciuto una nuova fase di progressiva diminuzione di efficienza, con l'accumularsi di notevoli perdite e di un pesante indebitamento. Nel complesso la crisi fiscale e finanziaria dello Stato, connessa con l'accumularsi di un debito pubblico di eccezionale dimensione, e ancor più la crescente delegittimazione politica dello stesso intervento dello Stato hanno spinto il governo a promuovere un'azione di privatizzazione delle imprese pubbliche.
Tramite la legge n. 359 dell'8 agosto 1992 è stata avviata la procedura di privatizzazione con la trasformazione degli enti a partecipazione statale in società per azioni e con l'indicazione, all'art. 16, della necessità di definire un programma di valorizzazione delle partecipazioni azionarie in mani pubbliche. In effetti con la stessa legge si è provveduto a trasferire la proprietà dei titoli azionari al Ministero del Tesoro, che pertanto è divenuto l'autorità competente in materia di privatizzazioni, mentre al titolare del Ministero dell'Industria è stato lasciato il compito di sovrintendere alla riorganizzazione interna delle imprese già a partecipazione statale.
Nei casi francese e inglese le privatizzazioni sono state il mezzo per rinnovare ampiamente i mercati finanziari nazionali e permettere a milioni di cittadini di convertire il proprio portafoglio sostituendo i titoli pubblici con azioni di imprese già possedute direttamente dal Tesoro. In Italia, invece, la questione degli strumenti finanziari è rimasta completamente in ombra.
Con il rilancio del progetto di integrazione europea la Commissione delle Comunità Europee ha intensificato il proprio ruolo di vigilanza sull'intervento pubblico nazionale, al fine di evitare comportamenti distorsivi da parte dei governi nazionali nella fase di completamento del mercato unico. La severa applicazione delle norme comunitarie sopra indicate (v. cap. 3) in materia di imprese pubbliche si è tradotta in una forte pressione esercitata dalla Comunità perché si attuassero politiche di privatizzazione di imprese pubbliche o, comunque, politiche nazionali e regionali volte a garantire condizioni di efficienza e trasparenza alle imprese controllate a qualunque titolo da pubbliche amministrazioni.
Nella XXIII Relazione annuale sulla politica della concorrenza (1993) - la prima successiva al Trattato di Maastricht - la Commissione ha precisato che una linea fondamentale di realizzazione del mercato unico consiste proprio nell'armonizzazione e nella "messa in rete" dei servizi offerti a livello nazionale dalle diverse imprese, così da permettere a un cittadino della Comunità di accedere direttamente non solo ai servizi offerti dall'impresa nazionale, ma anche a quelli offerti da un gestore di un altro paese. Creando grandi reti transnazionali si estenderebbe la domanda e si porrebbero in concorrenza le imprese nazionali, superando le condizioni di monopolio naturale legate essenzialmente alla chiusura dei mercati locali. D'altra parte la Commissione ha insistito perché fosse ridotta al minimo l'area dei servizi regolati pubblicamente e tutti gli altri servizi 'di rete' fossero assoggettati alla concorrenza. Per esempio, nel settore dei telefoni i servizi di trasmissione dati sono considerati attività in concorrenza e quindi nuovi operatori privati possono entrare nel mercato e gli stessi operatori pubblici debbono agire secondo le regole del mercato.
Questo atteggiamento della Commissione ha favorito i processi di riorganizzazione delle imprese pubbliche in tutti i paesi europei, inducendo i governi a specificare quali siano i servizi e i beni da assicurare a tutti i cittadini - a prescindere dal loro prezzo - e quindi da considerare pubblici - a prescindere dalla forma proprietaria della loro gestione.
Ciò che più preoccupa la Commissione è la possibile distorsione apportata al funzionamento del mercato dall'esistenza di imprese - intese in senso molto lato - che operino sottraendosi ingiustificatamente al meccanismo della concorrenza. Così, se un'impresa, pur di proprietà pubblica, svolge un'attività di mercato, essa deve agire sul mercato come un'impresa privata. Se invece l'impresa è pubblica nel senso che fornisce un bene pubblico, e quindi non può operare in concorrenza (o perché vi può essere un solo fornitore del bene considerato, o perché si ritiene che quel bene debba essere reso disponibile a un prezzo accessibile a tutti i cittadini, a prescindere dal suo costo medio), allora l'autorità di governo deve definire esplicitamente la natura dei beni offerti ed eventualmente precisare come intenda finanziare questa attività. Insomma l'obiettivo della Comunità Europea è stabilire un principio di trasparenza nel funzionamento del mercato e quindi far sì che l'ambiguità insita nella definizione di impresa pubblica sia superata, in modo da salvaguardare il meccanismo della concorrenza. Quindi anche in tema di privatizzazioni bisogna assumere una visuale più ampia di quella che si limita a contemplare la sola alienazione di beni - in special modo di imprese - da parte della pubblica amministrazione. Si tratta più propriamente di definire gli obiettivi e i modi della regolazione pubblica dell'economia. Innanzitutto si deve decidere ex novo quali beni ritenere pubblici, cioè quali beni debbano essere offerti ai cittadini non in virtù della loro capacità di spesa ma in ragione della loro appartenenza allo Stato. L'esercizio del diritto alla giustizia, alla difesa, alla tutela della salute, all'istruzione, ecc. da parte del singolo cittadino dipende dall'attivazione da parte dello Stato di servizi pubblici che rendano effettivo il diritto formale. Le spese per la gestione di questi servizi sono a carico del bilancio pubblico, perché altrimenti il singolo cittadino sarebbe discriminato nell'esercizio effettivo di un proprio diritto. D'altronde questi beni pubblici debbono essere esplicitamente definiti, per evitare che sul bilancio pubblico vadano a gravare attività che sono solo a favore di taluni, alterando in questo modo il rapporto di eguaglianza che deve esistere tra i cittadini.
Per quel che riguarda, in particolare, gli interventi pubblici a favore delle imprese, alcuni di tali interventi servono effettivamente a sostenere l'offerta di beni pubblici necessari per lo sviluppo generale delle attività di tutte le imprese, altri si riducono a un finanziamento occulto delle attività di un soggetto economico a discapito del corretto funzionamento del mercato.
La Comunità Europea ha quindi chiesto ai singoli governi di indicare con precisione quali attività ritengano 'pubbliche' in quanto fornitrici di beni pubblici, stabilendo che solo queste attività - chiaramente circoscritte e finanziate in maniera trasparente - possano essere sostenute da trasferimenti dello Stato. Tutte le altre attività, anche se gestite da imprese controllate da enti pubblici, debbono essere ritenute attività di mercato e come tali regolate dalle norme della concorrenza.Questa chiara posizione contrasta con quella tradizionalmente assunta in Italia, incentrata su rapporti ambigui tra amministrazione dello Stato e imprese pubbliche. La progressiva stratificazione di obiettivi pubblici e soggetti formalmente privati ha generato un intreccio di relazioni che ha reso straordinariamente confuso il confine tra pubblico e privato in Italia. Se il sistema delle partecipazioni statali ha costituito nell'Italia degli anni ottanta il luogo di più intensa interrelazione fra interessi economici e presenza politica, sino a delineare elementi di vera degenerazione istituzionale, sarebbe però ingiusto e storicamente sbagliato non sottolineare come la cosiddetta 'formula IRI' abbia rappresentato in una particolare fase della vita del paese una via originale per sostenere uno sviluppo accelerato e un processo di rapida industrializzazione, che ha avuto molti emuli e non pochi estimatori. (V. anche Comunità Europea; Finanza pubblica; Imprenditori; Nazionalizzazioni).
Baumol, W., Panzar, J., Willig, R., Contestable markets and the theory of industrial organization, New York 1982.
Bianchi, P., The IRI in Italy: strategic role and political contraints, in "West European politics", 1987, X, 2, pp. 269-290.
Bianchi, P., Privatization of industry: the Alpha Romeo case, in Italian politics (a cura di R. Y. Nannetti, R. Leonardi e P. G. Corbetta), London 1988.
Bianchi, P., Denazionalizzazioni e privatizzazione dell'impresa pubblica in Italia, in Scritti in onore di A. Mortara (a cura di G. Bognetti e altri), Milano 1990.
Bianchi, P., The restructuring of the Italian State holding companies' portfolios, in "Annals of public and cooperative economics", 1990, n. 1, pp. 35 ss.
Bianchi, P., Cassese, S., Della Sala, V., Privatization in Italy, in The politics of privatization in Western Europe (a cura di J. Vickers e V. Wright), London 1989, pp. 87 ss.
Bianchi, P., Gualtieri, G., Mergers and acquisitions in Italy and the debate on competition policy, in "The antitrust bulletin", 1989, XXXIV, 3, pp. 601-624.
Cassese, S., Il sistema amministrativo italiano, Bologna 1983.
Cassese, S., Le basi del diritto amministrativo, Torino 1989.
Cassese, S., La regolamentazione dei servizi di pubblica utilità in Italia, in "L'industria", 1992, nuova serie, XIII, 2, pp. 167-174.
Commissione Comunità Europee, Il completamento del mercato interno, Bruxelles 1986.
Commissione per il riassetto del patrimonio mobiliare e per le privatizzazioni (Commissione Scognamiglio), Rapporto al ministro del Tesoro, Roma 1990.
Dahrendorf, R., The modern social conflict, New York 1988.
Gerchunoff, P. (a cura di), Las privatizaciones en la Argentina, Buenos Aires 1992.
Kay, J. A., Thompson, D. J., Privatization in search of a rationale, in "The economic journal", 1986, XCVI, pp. 18-32
Ministero della Costituente, Rapporto della Commissione economica: appendice alla relazione, Roma 1946.
Ministero delle Partecipazioni Statali, Relazione annuale sulle Partecipazioni Statali, Roma 1981.
Ministero delle Partecipazioni Statali, Relazione programmatica sulle Partecipazioni Statali, Roma 1987.
Nomisma, Rapporto 1991 sull'industria italiana, Bologna 1992.
Pera, A., Financial aspects of the privatization of public enterprises: the case of Italy, in The Italian financial system (a cura di A. Pennati), Amsterdam 1987.
Posner, V., Woolf, J., Italian public enterprise, London 1967.
Robbins, L., The theory of economic policy in English classical political economy, London 1978.
Sen, A., Commodities and capabilities, Amsterdam-New York 1985.
Senato della Repubblica, Documento approvato dalla V Commissione permanente a conclusione dell'indagine conoscitiva sull'assetto delle partecipazioni statali. Atti parlamentari, doc. XVII, 4, comunicato alla Presidenza il 17-2-1987.
Shonfield, A., Modern capitalism. The changing balance of public and private power, Oxford 1965.
Smith, A., An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776), in The works and corrispondence of Adam Smith (ed. critica a cura di R. H. Campbell, A. S. Skinner e W. B. Todd), vol. II, Oxford 1976 (tr. it.: Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano 1973).
Stiglitz, J. E., The economics of public sector, New York 1988.
Stiglitz, J. E., The economic role of the State, Oxford 1989.
Vernon, R., Big business and the State, Cambridge, Mass., 1974.
Vickers, J., Wright, V. (a cura di), The politics of privatization in Western Europe, London 1989.
Vickers, J., Yarrow, G., Privatization and the natural monopoly, London 1985.
Vickers, J., Yarrow, G., Privatization: an economic analysis, Cambridge, Mass., 1985.
Waterson, M., Regulation of the firm and natural monopoly, Oxford 1989.
Yarrow, G., Privatization in theory and practice, in "Economic policy", 1986, II, pp. 324-377.