Impresa
di Franco Amatori
Impresa
sommario: 1. L'impresa all'alba del XXI secolo. 2. Le declinazioni 'regionali': a) gli Stati Uniti; b) l'Europa; c) il Giappone. 3. Conclusioni. □ Bibliografia.
1. L'impresa all'alba del XXI secolo
Chi voglia considerare l'impresa nella sua attuale realtà, e tuttavia in una prospettiva che ponga in luce la dimensione del cambiamento, non può che prendere quale termine di riferimento iniziale la classica sintesi messa a punto da Alfred Chandler (v., 1962, 1977 e Scale and ..., 1990) dopo il 1960. Nella elaborazione dello storico americano è la grande impresa industriale - definita occasione di investimento e di lavoro, luogo di apprendimento, nesso di un sistema di piccole imprese (v. Chandler e Hikino, 1997) - ad apparire il motore dello sviluppo economico. La grande impresa industriale sorge sul finire dell'Ottocento in seguito all'avvento della seconda rivoluzione industriale, un insieme di innovazioni caratterizzate da alta intensità di capitale, elevata applicazione di energia, processo produttivo continuo e veloce. Potendo usufruire di economie di scala - drastica caduta dei costi unitari all'aumento della produzione - e di diversificazione - fabbricazione di beni diversi con uno stesso impianto e un medesimo complesso di risorse umane - i settori investiti dalla seconda rivoluzione industriale (metallurgia, chimica, meccanica, industria elettrica) risultano in breve dominati da poche grandi imprese. Nei settori, invece, che restano ad alta intensità di lavoro (tessile, abbigliamento, calzature, mobili, meccanica di precisione) il vantaggio dei grandi stabilimenti non si rivela decisivo, e quindi la piccola impresa può ritenersi competitiva. L'elemento tecnologico non è però sufficiente a garantire i vantaggi della seconda rivoluzione industriale. Affinché le opportunità della tecnologia vengano colte è necessario un triplice investimento: in impianti che sfruttino al meglio le economie di scala e di diversificazione; nell'unione di produzione e distribuzione all'interno della stessa impresa, così da ottenere un fluido collegamento tra fabbrica e mercato che trasformi gli alti costi fissi in bassi costi unitari; infine, nella creazione di una estesa rete manageriale in grado di sovrintendere all'intero processo aziendale e di coordinarlo. Punto d'arrivo del triplice investimento è la formazione di capacità organizzative, ovvero di impianti e strutture materiali adeguate, di lavoratori tecnicamente abili e motivati, ma soprattutto di managers con una lunga esperienza nell'impresa o nel settore dove essa opera, in grado di padroneggiare tutte le funzioni aziendali nonché di valutare gli investimenti necessari e gli orizzonti temporali che ne consentano la realizzazione. Le capacità organizzative sono la vera e propria spina dorsale dell'azienda, la base dell'innovazione, ciò che rende possibile rispondere alle sfide competitive. E dal momento che la grande impresa domina settori decisivi dell'apparato produttivo, essa rappresenta una componente essenziale della ricchezza di una nazione (v. Chandler, 1992; v. Dosi e altri, 2000).
In questo quadro generale si possono individuare alcune variabili che permettono di caratterizzare le diverse situazioni nazionali o di macro-aree. Innanzitutto i mercati, considerati non solo nella loro ampiezza (popolazione, reddito pro capite), ma anche nella loro dinamicità. Di particolare rilievo, a questo riguardo, è il contrasto, a cavallo del Novecento, fra lo stagnante benessere britannico e la prepotente crescita statunitense. Un ruolo significativo assume, in secondo luogo, il rapporto fra impresa e Stato, in particolare, nel caso dei paesi avanzati, la regolamentazione della competizione (leggi anti-trust). Quanto più il movimento anti-trust è forte, tanto più l'impresa, non potendo controllare il mercato mediante accordi, è costretta a crescere autonomamente. Non a caso è negli Stati Uniti che la large corporation acquista particolare vigore. Altrettanto importanti sono le culture nazionali, soprattutto per ciò che concerne la disponibilità ad accettare i caratteri universalistici propri dell'impresa di vaste dimensioni, che richiede articolate burocrazie e canali di autorità e di comunicazione ben definiti. In ogni caso è universale la necessità di competere mediante il triplice investimento e le misure di vasta portata che esso comporta. In questo senso la distinzione fra settori 'centrali' (investiti dalla seconda rivoluzione industriale) e 'periferici' (ossia settori ad alta intensità di lavoro nei quali la piccola impresa è competitiva) appare in tutti i paesi. Si nota però una differenza fra quelli avanzati - Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania - nei quali la crescita dell'impresa avviene per ragioni squisitamente economiche (caduta dei costi unitari, aumento delle quote di mercato) e nazioni late comers - Russia, Italia, Giappone - per le quali è decisivo l'intervento dello Stato, che mette in campo protezionismo, sostegni, salvataggi, sino a farsi addirittura imprenditore. In questi casi la crescita è guidata da ragioni 'strategiche': la possibilità di acquisire più forti posizioni contrattuali nei confronti del potere politico, la capacità di quest'ultimo di porre vincoli, come l'obbligo di localizzare gli impianti in determinate aree del paese per motivi di carattere sociale (v. Toninelli, 2000).
Della grande impresa che nasce agli inizi del Novecento è possibile infine schematizzare le fasi della crescita. Nei primi vent'anni del secolo si afferma l'impresa unitaria, ovvero articolata per funzioni aziendali (produzione, marketing, finanza, ecc.) controllate e coordinate da un quartier generale. Negli anni venti, negli Stati Uniti, la saturazione dei settori iniziali e un surplus di risorse interne, dovuto soprattutto allo sviluppo di una sistematica attività di innovazione, provocano una strategia di diversificazione correlata (ovvero in settori limitrofi a quello originario). Questa finisce per portare all'affermazione dell'impresa multidivisionale, nella quale un quartier generale che utilizza adeguati staff funzionali si occupa di sovrintendere e coordinare divisioni strutturate per prodotto o per area geografica, dotate a loro volta di tutte le funzioni aziendali. La vicinanza fra i settori nei quali l'impresa si espande fa sì che non ci sia frattura fra le capacità organizzative operanti nelle divisioni e il quartier generale, che è in grado di dialogare con esse comprendendone esigenze e orizzonti temporali. Una frattura fra il livello imprenditoriale, che decide l'allocazione delle risorse per l'intero complesso, e il livello manageriale, che agisce nelle unità operative, si ha invece con la forma d'impresa che appare dopo il 1960, la 'conglomerata'. Essa unisce sotto lo stesso tetto societario settori non correlati, eppure, almeno nella versione statunitense, il suo quartier generale, avvalendosi dei diritti di proprietà, intende esercitare una funzione di stretto controllo e di coordinamento. Poiché non è possibile l'accumulo unitario di competenze gestionali per settori tanto diversi, tali funzioni vengono svolte essenzialmente tramite la valutazione di rapporti finanziari e a breve termine (v. Chandler, The enduring ..., 1990). Mentre l'impresa multidivisionale, quantomeno sino all'ultimo ventennio del XX secolo, appare la pietra angolare delle economie avanzate, la conglomerata ha esiti controversi (v. Kay, 2002; v. Whittington e Mayer, 2000). La strategia della diversificazione non correlata costituisce in ogni caso un dato di fondo dell'impresa contemporanea.
In definitiva, sino agli anni settanta del XX secolo la grande impresa integrata appare un protagonista di assoluto rilievo del panorama economico internazionale. Nel 1971 operano nelle economie di mercato 401 imprese che possono vantare più di 20.000 dipendenti (v. Chandler, 1984). Il prefisso 'multi' deve essere sovente adoperato per definire i connotati di queste organizzazioni. Esse sono infatti multiunitarie, in quanto possiedono una pluralità di uffici, stabilimenti, depositi, centri di distribuzione, laboratori di ricerca; multifunzionali, in quanto unificano al proprio interno produzione e distribuzione; multiprodotto, in quanto partendo da una produzione di base si espandono in settori affini ma anche, come si è visto, in rami non correlati; multinazionali, perché un solo mercato nazionale risulterebbe completamente inadeguato a contenerne le capacità produttive. Infine, occorre ribadire il fatto che l'esistenza di tali organizzazioni non sarebbe possibile se esse non fossero governate da estese gerarchie manageriali.
È alla metà degli anni settanta che per configurazioni organizzative di questo tipo si profilano mutamenti di non poco conto. Mentre il contesto generale presenta elementi di forte turbolenza (crisi petrolifera, disordine monetario), si amplia il fronte degli scambi internazionali in uno scenario competitivo sempre più agguerrito, all'interno del quale occorre far fronte a una domanda esigente, ostile a una standardizzazione omologante. Così come insofferente nei confronti di rigidi rapporti gerarchici si rivela una forza lavoro che ha acquisito più elevati livelli di istruzione e che si caratterizza per una maggiore presenza femminile. Al tempo stesso, quale potente spinta al cambiamento delle forme d'impresa opera l'innovazione tecnologica, che in diversi comparti - ad esempio la generazione di energia elettrica, o la telefonia, grazie all'impiego di semiconduttori - riduce nettamente la necessità di economie di scala. Sono soprattutto gli eccezionali progressi nell'elettronica e nelle telecomunicazioni, sino all'avvento di Internet, a segnare gli ultimi anni del secolo scorso. Se da un lato tali progressi permettono un controllo maggiore dei lavoratori e dei processi produttivi, dall'altro, rendendo possibile una capillare diffusione delle informazioni in azienda, consentono una vasta mobilitazione di risorse per funzioni progettuali e organizzative, oltre che una presenza sul mercato senza precedenti per tempestività e adesione alle peculiarità delle richieste (v. DiMaggio, 2001). Ne emerge un'impresa dai confini organizzativi più permeabili, con una struttura generale che tende all'appiattimento della gerarchia, un'impresa nella quale viene attribuita un'importanza di primo piano alla creatività, all'apprendimento, alla valorizzazione e allo scambio di conoscenze (v. Nonaka e Takeuchi, 1995). Affinché le potenzialità della rete informatica possano trovare adeguata concretizzazione sul versante economico, sembrerebbe quindi che esse debbano tradursi in un'analoga organizzazione a rete, in una struttura orizzontale in cui prevale il decentramento, l'autonomia delle unità, la convinta partecipazione di tutti i dipendenti al disegno strategico globale, così che il concetto precedentemente evocato di capacità organizzative oltrepassi senza riserve i confini del management per estendersi alla coralità della vita aziendale (v. Lazonick, 1991).
Se i giganti dell'automobile - Ford e General Motors - con la catena di montaggio e la struttura multidivisionale sono l'epitome dell'impresa nell'età della seconda rivoluzione industriale, al termine del secondo millennio è un produttore di infrastrutture per la Rete, la Cisco Systems, a rappresentare il modello dell'economia di Internet. Fondata nel 1985 da alcuni docenti dell'Università di Stanford con un modesto investimento in venture capital, l'azienda è aperta all'azionariato pubblico nel 1990, anno in cui fattura 69 milioni di dollari. Nove anni dopo il fatturato ammonta a 12 miliardi, con più di 2 miliardi di utili e un valore sul mercato azionario di 220 miliardi (quattro volte superiore a quello della General Motors) che fa della Cisco Systems la quinta società al mondo. Certo questi esiti sono dovuti all'enorme successo di Internet, ma è altrettanto vero che la Cisco non è l'unica azienda del settore. Il suo speciale vantaggio deriva dalla capacità di sfruttare pienamente le potenzialità della Rete, che vengono applicate sia alle relazioni interne con i dipendenti, sia al rapporto con clienti e fornitori che la Cisco, avvalendosi del suo sito web - vero e proprio cuore dell'attività -, pone a contatto diretto. In questo modo essa riduce al minimo l'apparato produttivo - dei trenta stabilimenti che utilizza ne possiede solo due - e il numero degli addetti - poco più di 20.000, per la maggior parte dotati di elevata qualificazione (ingegneri, ricercatori, venditori). Ciò consente notevoli risparmi, valutati in 500 milioni di dollari l'anno nell'arco di tempo che va dal 1997 al 1999, mentre i ricavi sono dovuti al continuo sviluppo tecnologico, all'assistenza tecnica, al coordinamento e al controllo dell'affidabilità dei fornitori, al marketing. Analogamente, un sistema di intra-net consente che il personale, spesso in tutto il globo, sia ampiamente informato sulle più importanti attività aziendali - un elemento che indubbiamente incide su una produttività fuori del comune, considerato che nel 1999 le entrate per dipendente raggiungevano i 650.000 dollari, contro una media di 396.000 per le prime 500 aziende della classifica Standard and Poor's e i 253.000 dollari di un concorrente significativo quale la Lucent. Del resto, il medesimo spirito di condivisione delle informazioni e di interazione sulla Rete contraddistingue le alleanze strette con altre protagoniste dell'informatica e delle telecomunicazioni - Microsoft, Intel, Hewlett Packard, Alcatel.
Il 'modello Cisco' all'inizio del XXI secolo parrebbe irresistibile, tanto che viene imitato da aziende di frontiera, come la Dell e la Hewlett Packard, ed è riecheggiato anche in comparti tradizionali quali la meccanica agricola, la grande distribuzione, la fornitura di energia. L'intero settore manifatturiero potrebbe risultare trasformato mediante la Rete, così che è immaginabile la produzione e la vendita di uno dei beni standardizzati per eccellenza, l'automobile, in modi del tutto rispondenti alle preferenze del singolo acquirente (v. Castells, 2000; tr. it., pp. 195-199). L'impresa a rete pone in discussione il modello chandleriano della 'mano visibile' (v. Chandler, 1977), ovvero dell'azienda integrata e governata dalla gerarchia manageriale. Nelle nuove condizioni l'impresa si impegna nella progettazione, nel coordinamento generale e nella collocazione sul mercato del prodotto finale, delegando il più possibile all'esterno l'attività produttiva, affidata a fornitori che si concentrano su ben definiti moduli del processo di fabbricazione e sono quindi 'specialisti', ma nel contempo anche 'generalisti', in quanto al servizio di diversi committenti. La 'mano visibile' del management si dissolve così nelle regole del disegno modulare della struttura a rete, nell'affidarsi a capacità esterne, a 'economie di sostituzione' (v. Langlois, 2002). Questi elementi non riescono tuttavia a mettere in ombra il fatto che nell'economia contemporanea l'impresa resta un attore insopprimibile, conservando attributi legali - diritti di proprietà, trasferibilità delle azioni, responsabilità limitata - che non possono essere ceduti alla rete (v. Kraakman, 2001), mentre il ruolo del management, seppure più delimitato, si conferma cruciale per l'ideazione e l'attuazione di strategie competitive, oltre che per il collegamento fra i membri del sistema allargato e per l'attenuazione delle inevitabili frizioni che vengono a determinarsi fra di essi (v. Robertson, 2003).
2. Le declinazioni 'regionali'
a) Gli Stati Uniti
In nessun paese il cambiamento è stato tanto profondo quanto negli Stati Uniti. È qui infatti che negli ultimi anni si sono sperimentati nuovi assetti fra diversi portatori di interesse all'interno dell'impresa e nuove strategie le cui conseguenze, anche sul piano sociale, si sono rivelate di ampia portata (v. Kaysen, 1996; v. Nohria e altri, 2002). All'indomani della seconda guerra mondiale la potenza economica degli Stati Uniti sembrava incontenibile, eppure già negli anni cinquanta si potevano notare i segni di un certo rallentamento: bassi volumi di investimenti patrimoniali netti, scarso aumento della produttività e del reddito pro capite rispetto alle altre nazioni. In realtà, si andava delineando un nuovo scenario, caratterizzato da una intensa competizione alla quale la maggior parte delle imprese statunitensi, avvezze a incontrastati successi, non era abituata. All'interno del paese la domanda dei consumatori sembrava avere raggiunto una certa stabilità e le innovazioni determinate dalla guerra parevano aver toccato il loro limite, mentre investimenti senza precedenti in aree correlate a quella originaria incrementavano nettamente la concorrenza fra aziende appartenenti a settori diversi. Allo stesso tempo, la ripresa dell'economia europea e la rinascita giapponese - entrambe, del resto, sostenute da massicci aiuti e trasferimenti di tecnologia da parte statunitense - provocavano il riapparire di rivali stranieri quanto mai agguerriti.
Questi elementi causarono un certo disorientamento fra imprenditori e managers, un gruppo formato in larga misura da individui che vantavano il titolo di master in business administration e si consideravano in grado, sulla scorta dell'insegnamento harvardiano basato sul metodo dei casi, di padroneggiare qualsiasi situazione aziendale. Abituati ad alti ritorni sugli investimenti, essi non mostrarono reazioni univoche: alcuni intensificarono la ricerca di processi e prodotti migliori, altri cercarono opportunità di investimenti e profitti in campi per i quali le loro imprese non possedevano capacità tecnico-organizzative. Si verificarono quindi fusioni e acquisizioni prive di criteri razionali dal punto di vista industriale, mentre mutavano i sistemi gestionali e di controllo così come i rapporti fra management e comunità finanziaria. C'erano anche altre ragioni che spingevano alla diversificazione non correlata. Nel 1950, dopo l'approvazione della legge Celler-Kefauver, l'azione anti-trust si era fatta severa contro le operazioni di integrazione orizzontale e verticale, mentre la normativa fiscale appariva più benevola verso fusioni e acquisizioni. Ma non c'è dubbio che il motivo principale fosse la ricerca di crescita e profitti al riparo da una competizione esasperata, e d'altra parte la rivoluzione informatica rafforzava il convincimento che fosse possibile controllare i settori più disparati. Alla fine degli anni sessanta il fenomeno della crescita attraverso fusioni e acquisizioni assunse proporzioni imponenti: il numero di operazioni di questo genere passò da 2.000 nel 1965 a più di 6.000 nel 1969. Ma il dato più importante è che nel decennio 1963-1972 i tre quarti delle fusioni e acquisizioni erano effettuati per arrivare a una diversificazione che nella metà dei casi (fra il 1973 e il 1977 addirittura la metà del totale) non risultava correlata.
Una conseguenza importante del fenomeno fu la separazione fra il top management e il middle management, quello che combatte in prima linea per mercati e profitti, a detrimento delle funzioni tipiche dell'alta direzione, vale a dire il controllo, il coordinamento, l'allocazione delle risorse per lo sviluppo futuro. Di fatto il top management poteva vantare esigue conoscenze delle nuove imprese acquisite, il cui numero, inoltre, era tale da rendere impossibile un accurato processo decisionale. Era abbastanza comune che una grande impresa si espandesse fino a creare 75 divisioni. I capi di tali complessi potevano deliberare solo affidandosi ad analisi statistiche che, però, non davano conto della complessità di un'impresa decentralizzata, multisettoriale e multidivisionale. Eppure la crescita era continua e le stesse divisioni si diversificavano: società come la General Electric e la International Telephone and Telegraph (ITT) giunsero a contare più di 150 centri di profitto. A questo punto il ROI (Return On Investment), la stella polare della direzione aziendale americana, si trasformò da base per la discussione fra managers in obiettivo imposto dall'alto, inderogabile. Si elaborarono nuovi sistemi previsionali che, ponendo in relazione tempo atteso per il 'ritorno' e rischio, accorciavano l'orizzonte temporale del management. Ma neanche queste metodologie potevano incorporare aspetti non quantificabili della gestione in un ambiente competitivo, e il deficit di conoscenze finì per enfatizzare la separazione fra il vertice della conglomerata e il management che operava nelle imprese.
Tutto ciò condusse all'inusitato fenomeno del disinvestimento. Se nel 1965 se ne aveva uno ogni 11 fusioni, dieci anni dopo il rapporto era di uno a due. La compravendita di aziende o delle loro maggiori divisioni divenne un business fiorente che, sperimentato inizialmente dagli industriali, avvantaggiò soprattutto il mondo della finanza. La febbre dei take overs degli anni ottanta ebbe fra le sue cause più rilevanti la presenza di nuovi investitori e dei loro managers. Fino al 1950 solo il 4,2° della popolazione statunitense possedeva azioni industriali. Tra gli azionisti figuravano anche assicurazioni e banche, il cui atteggiamento però era molto prudente. Negli anni venti erano apparsi fondi pensione e fondi comuni che, pur avendo sofferto le conseguenze della grande crisi, dopo la guerra si erano ripresentati in tutta la loro forza, investendo massicciamente nell'industria. Le abilità del management erano misurate dalla capacità di superare con i titoli in portafoglio l'indice Standard and Poor's basato sulle prestazioni delle prime 500 aziende presenti a Wall Street. Per ottenere questo risultato occorreva vendere e comprare in continuazione cospicui blocchi di azioni. Nel 1950 gli investitori istituzionali detenevano l'8° delle azioni quotate, percentuale che saliva al 55-60° nel 1990, mentre i singoli investitori si attestavano sul 30-35°. Il volume totale delle transazioni passava da mezzo milione nei primi anni cinquanta a 27 miliardi e mezzo nel 1985 (v. Chandler, 1994). Nasceva per la prima volta un mercato per il controllo di aziende acquisite da compratori che non avevano alcun legame con esse. Diversificazioni, disinvestimenti, compravendita e mercato per il controllo delle corporations portarono a un notevole processo di ristrutturazione. Aziende e parti di aziende venivano comprate, vendute, separate e ricombinate in modo impensabile in precedenza. Negli anni settanta il fenomeno riguardò soprattutto le società che si erano diversificate, e le decisioni in questo senso erano attuate dal loro management. Nel decennio successivo questo genere di operazioni raggiunse un picco ma si caratterizzò per un orientamento più speculativo, soprattutto per l'azione di banche e di intermediari finanziari che portavano a lauti profitti nell'immediato senza preoccuparsi della sorte delle imprese (v. Donaldson, 1994).
In questo quadro gli Stati Uniti persero terreno in settori cruciali, come il siderurgico, l'automobilistico, l'elettronica di consumo e le macchine utensili, tanto che già nel 1971 si registrò il primo deficit commerciale del secolo. Emerse così la consapevolezza delle conseguenze negative per l'economia del paese della strategia mirata alla creazione di conglomerate. È del 1982 la pubblicazione di un libro che ottenne un enorme successo, In search of excellence (v. Peters e Waterman, 1982), nel quale si dimostrava che le migliori aziende americane erano quelle che si concentravano sulle attività legate a un nucleo originario per il quale possedevano competenze distintive (v. anche Prahalad e Hamel, 1990). Con pari vigore si impose una vasta corrente d'opinione secondo la quale rispetto ai diversi portatori di interesse che ruotano attorno all'impresa - dipendenti, fornitori, distributori, abitanti dei luoghi dove sorgono gli stabilimenti più importanti - vanno privilegiati gli azionisti e il valore che per essi l'impresa è in grado di creare (v. Blair, 1995): solo la disciplina imposta dagli investitori al management può garantire competitività all'azienda e al sistema nel suo complesso (v. Jensen, 1989). Certo non si può affermare che in precedenza negli Stati Uniti venissero negati i diritti della proprietà; tuttavia, dal dopoguerra si era affermato di fatto un capitalismo manageriale che poneva in primo piano la crescita e l'impatto sociale dell'impresa (v. Ruffolo, 1971). Alla pressione degli azionisti per una riduzione dei costi si aggiungevano gli effetti della rivoluzione informatica, con la possibilità di collegare fra loro i personal computers. Se a ciò si sommano le nuove possibilità di informazione a cui dà accesso Internet, si comprende agevolmente come le burocrazie manageriali ordinate gerarchicamente venissero poste in seria discussione.
Nel 1993 usciva un altro volume destinato a segnare un'epoca nella storia dell'impresa statunitense, Reengineering the corporation: a manifesto for business revolution, di Michael Hammer e James Champy - quest'ultimo un esperto di scienze informatiche -, i quali promettevano bassi costi e alti profitti a chi, utilizzando i legami organizzativi resi possibili dalle nuove tecnologie dell'informazione, avesse saputo rendere l'azienda 'agile e aggressiva' (lean and mean; v. Harrison, 1994), affidando all'esterno tutte le attività non strettamente collegate al nucleo centrale dell'impresa. Le maggiori società di consulenza organizzativa furono conquistate da queste indicazioni, un elemento che avrebbe contribuito alla loro grande diffusione. Già nel 1994 una ricerca della società di revisione contabile Price Waterhouse sulle prime 500 imprese della classifica di "Fortune" rivelava che il 78° di esse era impegnato in forme di reengineering, una 'filosofia' destinata ad acquistare sempre maggiore popolarità anche fra le piccole imprese, le banche, le società di distribuzione, e nella stessa pubblica amministrazione (v. Becker, 2002). È significativo il fatto che a fine secolo il maggiore datore di lavoro privato negli Stati Uniti non fosse più la General Motors, ma l'agenzia di impiego temporaneo Manpower Inc. (v. Sturgeon, 2000). È evidente come questo esteso processo di ristrutturazione rappresentasse un duro attacco alla stabilità dell'occupazione, sia di lavoratori sia di dirigenti, con gravi costi non solo sul piano sociale, ma anche su quello dell'efficienza economica: il prezzo della flessibilità era non di rado pagato con il depotenziamento di consolidate capacità organizzative (v. Powell, 2001). Del resto, la ricerca esasperata di valore per gli azionisti - fra cui gli stessi managers, grazie alla diffusione del meccanismo delle stock options - può portare a comportamenti, anche illegali, tali da incrinare la fiducia in meccanismi essenziali per l'intero sistema economico con grave rischio per la sua solidità, come dimostra la vicenda che ha portato alla bancarotta la Enron, una grande impresa attiva in campo energetico (v. Borzi, 2002). Nell'ultimo decennio gli Stati Uniti hanno ripreso a galoppare. Le 346.000 corporations del 1920 sono diventate 4 milioni e mezzo nel 1999, mentre la popolazione nello stesso periodo è aumentata di 2,6 volte, passando da 105 a 270 milioni (v. McCraw, 2000). La 'sindrome vittoriana' che sembrava attanagliare il paese negli anni ottanta è ormai alle spalle, anche se gli oneri della 'distruzione creatrice' sono tutt'altro che lievi.
b) L'Europa
Se si confrontano le nazioni del nucleo forte del Vecchio Continente, ossia la Gran Bretagna, la Germania e la Francia, con il grande paese d'oltreoceano bisogna riconoscere che nell'ultimo mezzo secolo si è registrata una convergenza solo parziale verso il modello statunitense relativamente ai valori e agli assetti istituzionali del capitalismo. Sotto questo profilo il punto di partenza non può che essere il fortunatissimo pamphlet di Michel Albert, Capitalisme contre capitalisme (v. Albert, 1991; v. anche Hall e Soskice, 2001) che, come è noto, contrappone un capitalismo 'renano', caratterizzato da relazioni a lungo termine fra imprese, azionisti e dipendenti, a uno 'neoamericano', che privilegia la competizione senza riguardi per i costi sociali e la massimizzazione del profitto a breve termine. Se la Germania di Helmut Kohl appare l'emblema del modello renano, la Gran Bretagna di Margaret Thatcher è il 'cavallo di Troia' dell'America in Europa, mentre la Francia, con il Reno da un lato e l'Atlantico dall'altro, con le sue oscillazioni degli anni ottanta fra nazionalizzazioni e privatizzazioni, sembra collocarsi nel mezzo, pur con una certa inclinazione per la prima tipologia.
Ai diversi modelli di capitalismo corrispondono forme diverse di proprietà, di controllo gestionale, di carattere delle élites manageriali. Così in Francia e in Germania sono diffuse la proprietà dello Stato, della banca e delle famiglie, mentre tra i managers prevale un percorso formativo orientato alla padronanza degli aspetti tecnologici. In Gran Bretagna è largamente diffusa, invece, la dispersione della proprietà tipica del modello statunitense, e al vertice delle imprese e dei consigli d'amministrazione si trovano soprattutto specialisti in finanza. Tutto ciò sembrerebbe portare a una via britannica che, indifferente alle esigenze dell'economia reale, non disdegna le forme estreme della diversificazione, a cui si contrappone la strategia continentale a questa ostile per ragioni politiche e culturali - essenzialmente per il timore di perdere il controllo dell'impresa (v. Amatori, European business ..., 1999). In realtà, una vasta ricerca sulle maggiori società dei tre paesi nella prima metà degli anni novanta (v. Whittington e Mayer, 2000) approda a risultati notevolmente diversi da quelli attesi dai sostenitori della centralità delle differenze culturali e istituzionali. L'impresa multidivisionale delineata da Chandler è di gran lunga dominante in Europa - sia nella Gran Bretagna ormai americanizzata, sia nella Francia degli 'enarchi' e dei 'noccioli duri', sia nella Germania degli ingegneri e delle banche universali. Ciò che sorprende, piuttosto, è il successo e la persistenza, proprio in Germania, della forma d'impresa conglomerata, un assetto organizzativo più consono al capitalismo anglosassone che cerca scorciatoie rispetto alle durezze della 'economia reale'. Il fatto è che anche la conglomerata può rivelarsi una forma d'impresa efficace se il quartier generale sa mobilitare risorse imprenditoriali e manageriali accogliendone le necessità di investimento e rifuggendo quindi da atteggiamenti speculativi basati sul breve periodo. I casi particolarmente significativi della Mannesmann e della Krupp dimostrano che questo è possibile: la diversificazione non correlata del modello statunitense, pur così biasimata oltreoceano, appare in Europa un fenomeno resistente e da non sottovalutare. E si intravede anche un altro protagonista, la cosiddetta network multidivisional, una tipologia d'impresa a cui le nuove tecnologie dell'informazione permettono un disegno organizzativo più orizzontale e flessibile che non nega però il principio chandleriano della decentralizzazione operativa e dell'accentramento della funzione strategica. Tale tipo di impresa si affianca a quella multidivisionale senza soppiantarla. Ciò è evidente, ad esempio, nell'evoluzione della Unilever, colosso anglo-olandese del settore alimentare, che nel 1996 ha lanciato una profonda riforma organizzativa: al vertice un comitato esecutivo composto di soli 7 membri a cui fanno riferimento tredici presidenti di gruppi di imprese 'regionali' dotati di larga autonomia. Ma l'aspetto più interessante è costituito dall'esistenza, sotto questa struttura formale, di numerosi networks formali e semiformali che grazie alla posta elettronica e alle tecnologie di rete aziendale assicurano il coordinamento internazionale (v. Pettigrew e Fenton, 2000). In definitiva, le pressioni congiunte della tecnologia e dei mercati fanno di una struttura capace di coniugare flessibilità e coordinamento, vigore imprenditoriale e sistematicità manageriale, qual è la multidivisionale apparsa negli Stati Uniti negli anni fra le due guerre, un modello organizzativo a cui è difficile non aderire se non si vogliono subire gravi sconfitte nell'arena competitiva.
Rispetto agli altri grandi paesi europei, caratteristiche diverse presenta il caso dell'Italia, dove all'inizio del nuovo secolo si registra una vera e propria crisi della grande impresa. Nel 2001 fra le prime duecento società mondiali della classifica "Fortune" trovavano posto solo 4 italiane: oltre alla FIAT (in 47a posizione) tre aziende (ENI, ENEL e Olivetti, quest'ultima in quanto controllante della Telecom) operanti in settori ancora protetti dalle pressioni della concorrenza. Eppure la grande impresa era stata protagonista di primo piano dei 'gloriosi' anni cinquanta e sessanta, quando il reddito nazionale era cresciuto di un tasso medio di poco inferiore al 6°. La crescita impetuosa veniva trainata dal settore automobilistico e con esso dall'acciaio, dal petrolio, dalla gomma, dal cemento, tutti rami dominati da aziende di vaste dimensioni. Sembrava che questo slancio potesse condurre il paese su posizioni di prima fila dell'economia mondiale, alla maniera delle due altre nazioni sconfitte nella seconda guerra mondiale, la Germania e il Giappone. Gli anni settanta vedevano invece un notevole rallentamento, causato in larga misura da una serie di sconfitte subite dalle imprese dei settori in precedenza menzionati e che da allora hanno segnato il percorso del capitalismo italiano. Si è trattato essenzialmente di un fallimento politico-istituzionale, con lo Stato quale attore determinante anche se in senso negativo. Mentre infatti si rilevava la crescente degenerazione dello Stato-imprenditore, avviluppato in logiche politico-clientelari estranee a una corretta gestione, si era ben lontani dal costruire quell'appropriato contesto di regole - anti-trust, efficace tutela dell'azionariato diffuso, creazione di investitori istituzionali o di condizioni per un'adeguata interazione fra banca e impresa - senza le quali per la grande impresa diventa difficile sostenere la crescita. È vero che questi ostacoli politico-istituzionali sono stati in larga parte eliminati nell'ultima decade del Novecento dalla piena adesione dell'Italia all'Unione Europea, ma ciò è avvenuto probabilmente con ritardo. Ne è risultato in definitiva un contenitore idoneo - lo Stato non più proprietario ma regolatore - privo però di contenuto, ovvero di imprese competitive nei grandi oligopoli internazionali (v. Amatori, La grande ..., 1999).
Nonostante non sia su posizioni di frontiera, l'Italia resta tuttavia fra i paesi più industrializzati e ricchi. Gran parte del merito va alla piccola impresa, vivacissima in campi quali il tessile, l'abbigliamento, le calzature, l'industria del mobile (in generale le produzioni dedicate alla persona e alla casa) che negli ultimi decenni, in connessione con l'imponente crescita del commercio mondiale, hanno sperimentato uno strabiliante balzo in avanti (v. Colli, I volti ..., 2002). Questi settori traggono la loro forza da una spessa sedimentazione di esperienze e abilità. Soprattutto nell'Italia centro-settentrionale emergono la grande tradizione artigiana, l'abitudine al commercio cosmopolita, la raffinata domanda dei centri urbani, l'etica del lavoro del mondo rurale trapiantata in ambiente industriale. Tutti questi sono elementi essenziali del fiorire di 'distretti', ossia territori omogenei al cui interno si realizzano complesse forme di integrazione orizzontale e verticale: il distretto non si concentra solo sulla produzione di un bene, ma anche sulla preparazione di sofisticati macchinari per la sua fabbricazione. È questo il terreno di coltura di un 'quarto capitalismo': né grandi imprese private o pubbliche, né piccole imprese, bensì aziende con un fatturato compreso fra 150 milioni e un miliardo e mezzo di euro, a controllo familiare, che spesso tendono a occupare una nicchia, ma su scala globale, tanto da essere definite 'multinazionali tascabili' (v. Colli, Il quarto ..., 2002). Distretti industriali e 'quarto capitalismo' consentono attualmente all'Italia di oscillare fra il quinto e il settimo posto nel mondo per prodotto interno lordo, ma non certo di svolgere una parte di rilievo nei settori decisivi per la supremazia economica mondiale del XXI secolo.
c) Il Giappone
L'impresa giapponese storicamente ha molti elementi che la mettono in condizione di cogliere le opportunità offerte dalle nuove tecnologie informatiche. L'idea della rete ben si presta a caratterizzare sia l'organizzazione interna della fabbrica, sia i rapporti fra imprese, sia anche i fitti legami associativi e gli intrecci con il potere politico. In effetti, è stato giustamente osservato che se attorno al 1990 (ossia prima del periodo di crisi e stagnazione che ha colpito il paese del Sol Levante e che non sembra ancora concluso) si fossero dovute formulare delle previsioni sulle caratteristiche dell'impresa del XXI secolo, si sarebbe senz'altro preso come riferimento il modello giapponese (v. Westney, 2001). Le strutture a rete nascono in Giappone da un'esigenza di solidarietà fra i diversi attori per superare, in un clima di forte coesione sociale, una condizione di arretratezza (v. Fruin, 1992). La ricostruzione delle vicende del capitalismo giapponese non può infatti non tener conto del ritardo con cui la nazione asiatica muove i primi passi verso l'industrializzazione, un avvenimento quasi contemporaneo alla seconda rivoluzione industriale in Europa e negli Stati Uniti. Si consideri ad esempio il settore automobilistico. Alla metà degli anni trenta gli Stati Uniti producevano 2 milioni di vetture l'anno, l'Inghilterra 286.000, la Germania 150.000, il Giappone appena 25.000, incluse quelle prodotte in fabbriche giapponesi dalla Ford e dalla General Motors e i veicoli a tre ruote. È solo dopo la seconda guerra mondiale che le condizioni economiche del paese consentono l'affermarsi di una struttura industriale in cui la grande azienda opera in modo simile a quelle delle nazioni occidentali più sviluppate, tanto da poter entrare negli oligopoli internazionali.
Restano tuttavia significativi retaggi del passato, fra cui il sistema di impiego a vita per gli occupati nei settori centrali dell'economia del paese. Su questa base si sviluppa all'interno delle fabbriche un'organizzazione del lavoro anti-fordista, il cui tratto dominante è la costituzione di gruppi caratterizzati da deverticalizzazione gerarchica, autonomia operativa, integrazione delle funzioni. È confidando su questa rete di abilità tecniche e organizzative che i capi di grandi aziende come la Toyota, la Toshiba, la Kawasaki si lanciano, dopo il 1950, in una politica di investimenti sproporzionata rispetto alle risorse di partenza, sicuri che tecnici e operai si sarebbero impegnati allo stremo per sfruttare al meglio le nuove attrezzature e le moderne tecnologie (v. Morikawa, 1997). La garanzia di impiego permanente va di pari passo con la configurazione a gruppo, che distingue nettamente la grande impresa giapponese da quella statunitense. In particolare, nei gruppi (keiretsu) verticali i lavoratori si spostano dalla casa madre alle aziende affiliate senza che l'intero complesso debba subire traumatiche ristrutturazioni. In questo modo, all'inizio degli anni novanta, mentre la General Motors dava lavoro a 700.000 dipendenti, la Toyota ne impiegava direttamente 65.000, un numero inferiore a quello - 90.000 - dei lavoratori che nello stesso periodo la casa di Detroit era costretta a licenziare. In effetti, il rapporto di gruppo verticale può essere ben esemplificato dai legami esistenti nell'industria automobilistica fra fornitori e società principale: quest'ultima si concentra sull'attività fondamentale beneficiando della forte competizione fra i primi, i quali mirano a cementare una stabile relazione senza che necessariamente sussista un vincolo legale (v. Shiba e Shimotani, 1997). Il gruppo orizzontale (kinyuu keiretsu) sembra invece offrire un'efficace soluzione ai problemi posti dalla strategia della diversificazione non correlata. I keiretsu orizzontali sorgono nel dopoguerra dalle ceneri degli zaibatsu, gigantesche conglomerate a controllo familiare che riuniscono al proprio interno attività commerciali, industriali e finanziarie e che vengono sciolte dagli occupanti americani che le identificano con il militarismo nipponico. Le azioni delle famiglie proprietarie risultano distribuite fra i dipendenti e gli abitanti delle aree dove sorgono gli stabilimenti più importanti, o sono acquistate dalla banca principale del gruppo. Ne affiora una struttura acefala al cui interno le aziende perseguono strategie proprie con adeguati orizzonti temporali, ma che sono anche in grado di attuare forme di intensa cooperazione. È quanto avviene, ad esempio, negli anni cinquanta, quando vengono creati numerosi complessi petrolchimici da imprese che da sole non avrebbero avuto le risorse per avviare un così imponente investimento, mentre in questo modo sono in grado di affrontare un rischio 'frazionato'. Il tutto cementato da partecipazioni incrociate che, rendendo impossibili scalate ostili, offrono al management la stabilità necessaria per attuare politiche di ampio respiro (v. Molteni e Pecorari, 1993).
Se intensa è la vita associativa fra le imprese giapponesi - dai consorzi per la ricerca e dai comitati per la produttività ai cartelli che controllano settori in crisi, dalle unioni industriali nazionali alle Camere di commercio - un robusto spirito di cooperazione è visibile nel rapporto fra grandi aziende e burocrazie statali, in particolare il Ministero delle Finanze e il Ministero dell'Industria e del Commercio Internazionale (generalmente noto con la sigla MITI). Le politiche industriali non vengono attuate mediante 'comandi', bensì attraverso 'raccomandazioni', che in cambio di protezionismo, sostegno dei prezzi e sovvenzioni chiedono impegno nella costruzione di impianti capaci di realizzare la più radicale razionalità produttiva e di competere sul mercato globale. In questo contesto il maggior successo è probabilmente quello del settore siderurgico, al cui interno le maggiori società mostrano non solo una scarsa preoccupazione per i costi nel breve periodo, ma anche una capacità di disinvestire, in una lotta senza quartiere contro l'obsolescenza che non ha eguali nelle altre economie di mercato. I risultati non lasciano adito a interpretazioni ambigue. Nel 1943 la produzione del Giappone nel settore siderurgico ammontava a 8,5 milioni di tonnellate, quella degli Stati Uniti a 89. Quarant'anni più tardi i due paesi sono alla pari con 115 milioni di tonnellate annue, ma gli Stati Uniti importano il 20° del loro fabbisogno interno mentre il Giappone, grazie alle dimensioni delle unità produttive che consentono i costi minori del mondo, esporta più di 22 milioni di tonnellate (v. McCraw, 1986). Punto d'arrivo dell'interazione dei fattori sino a ora menzionati è il raggiungimento di posizioni all'avanguardia a livello globale in settori quali quello siderurgico, automobilistico, dell'elettronica di consumo, delle macchine per ufficio, della componentistica elettronica, delle apparecchiature per elaborazione dati e per le telecomunicazioni.
Una decina d'anni fa questa macchina formidabile si è inceppata. L'impiego a vita, i legami all'interno dei gruppi, le protezioni statali si sono rivelati inadatti a reggere i ritmi della globalizzazione. Gli Stati Uniti, a seguito di una politica di feroci ristrutturazioni ma anche grazie a una imprenditorialità di stampo schumpeteriano, sono tornati a primeggiare. Tuttavia la direzione del cambiamento non è chiara. L'impresa nipponica, che ha saputo coniugare cooperazione e competizione, Stato e mercato, se efficacemente riformata nella direzione di un maggior spazio ai valori della meritocrazia e dell'innovazione potrà tornare a reggere il confronto. Del resto il Giappone è a tutt'oggi la seconda potenza economica del pianeta, mentre vanta un reddito pro capite superiore a quello degli Stati Uniti.
3. Conclusioni
Non è ancora possibile delineare un quadro d'insieme dell'evoluzione dell'impresa negli ultimi anni analogo a quello proposto relativamente all'età della seconda rivoluzione industriale. Diversi elementi di quella fase risultano operanti ai nostri giorni, anche se il cambiamento nei sistemi di trasporto e soprattutto di comunicazione potrebbe avere un impatto di proporzioni analoghe a quelle che ebbero le innovazioni tecnologiche nell'ultimo ventennio dell'Ottocento. Ma siamo ancora lontani dal poter compiere affermazioni precise, per le quali sono necessarie più numerose e sistematiche ricerche.
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