Imprese multinazionali
di Fabrizio Onida
Imprese multinazionali
sommario: 1. Introduzione. 2. Imprese multinazionali e investimenti diretti esteri (IDE): definizioni. 3. Crescita e tipologia degli IDE: alcune tendenze recenti. 4. Perché un'impresa diventa multinazionale?: a) l'approccio OLI; b) l'approccio basato su economie di scala e mercati imperfetti. 5. Effetti degli IDE sul paese investitore: a) occupazione e competitività; b) scambi commerciali con l'estero. 6. Effetti degli IDE sul paese ricevente: a) mercato del lavoro: occupazione, produttività, salari; b) trasferimenti di tecnologia e struttura produttiva. 7. Conclusioni e implicazioni per le politiche di attrazione degli IDE. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Le scelte caratteristiche e l'impatto socio-economico delle imprese multinazionali (IM) o transnazionali rappresentano uno dei temi a proposito dei quali si incorre più frequentemente in pregiudizi e fraintendimenti che rivelano una scarsa conoscenza della realtà. In questo articolo ci soffermeremo sulle principali spiegazioni circa la nascita e la crescita delle IM, per poi discutere i più importanti effetti delle scelte di localizzazione delle IM sullo sviluppo economico dei paesi investitori e riceventi, nonché sull'integrazione economica internazionale (scambi internazionali di merci e servizi, frammentazione dei processi produttivi, occupazione, diffusione di innovazioni tecnologiche e organizzative nel tessuto socio-economico dei paesi riceventi, concorrenza e concentrazione industriale). Infine, svolgeremo qualche considerazione sulle politiche dei governi nei confronti delle IM.
2. Imprese multinazionali e investimenti diretti esteri (IDE): definizioni
L'IM differisce dalla semplice impresa che svolge attività di scambio internazionale (esportatrice o importatrice) in quanto realizza parte del suo processo produttivo, inclusa la funzione di marketing e distribuzione, in uno o più paesi diversi dal paese d'origine, generando quindi reddito anche al di fuori di quest'ultimo. Così facendo, l'IM dà origine a movimenti internazionali di capitali che nella contabilità della bilancia dei pagamenti prendono nome di investimenti diretti esteri (IDE), distinti dai movimenti di portafoglio e altre transazioni puramente finanziarie (investimenti in titoli, crediti commerciali, prestiti, ecc.). Secondo la definizione statistica prevalente, gli IDE si distinguono dagli investimenti di portafoglio, che comprendono anche l'acquisto di titoli azionari, in quanto danno all'investitore un certo grado di controllo (totale, maggioritario o minoritario: almeno il 10° del capitale sociale) sul capitale sociale dell'impresa. Il valore contabilizzato degli IDE può crescere anche senza l'apporto di nuovo capitale fresco dalla casa madre, bensì tramite reinvestimento degli utili della società affiliata estera o, più raramente, tramite raccolta di capitale di rischio sul mercato stesso del paese ospite.
Gli IDE possono essere 'a prato verde' (greenfield) quando danno origine a impianti e capacità produttiva del tutto nuovi, oppure possono nascere da operazioni di fusione o acquisizione (F&A) con imprese locali preesistenti, che possono essere conseguenza, ad esempio, di programmi di privatizzazione di imprese pubbliche da parte dei governi locali e/o di piani di ristrutturazione o cessione proprietaria di imprese private. In questo secondo caso, a differenza degli IDE greenfield, non si determina un aumento della capacità produttiva di beni e servizi nel paese ricevente.
Il valore degli IDE viene misurato in termini di flussi annuali, al lordo o al netto dei disinvestimenti, oppure di flussi netti cumulati nel tempo, sulla cui base vengono calcolate le stime di consistenza (stock). Queste ultime normalmente includono effetti derivanti da inflazione, variazioni nei tassi di cambio e guadagni-perdite in conto capitale delle affiliate estere, e per questo motivo tali stime sono soggette a elevati gradi di discrezionalità e incertezza.
3. Crescita e tipologia degli IDE: alcune tendenze recenti
Nell'ultimo ventennio del secolo scorso gli IDE hanno registrato una dinamica eccezionalmente elevata, anche se caratterizzata da una forte 'bolla speculativa' che si è gonfiata e sgonfiata tra il 1998 e il 2002. Fra il 1982 e il 2002 le vendite delle affiliate estere delle IM sono cresciute in termini nominali del 546°, mentre a livello mondiale le esportazioni sono cresciute del 281°, gli investimenti fissi lordi del 181%, il Prodotto Interno Lordo (PIL) del 198°. Tra il 1980 e il 2002 lo stock degli IDE in entrata è salito dal 6,0% al 22,3° del PIL mondiale (v. tab. VI). Rapportato agli investimenti fissi lordi, il flusso annuale degli IDE in uscita tra il 1982 e il 2002 è passato dal 1,2° al 10,1° (v. tab. I).
L'espansione delle attività delle IM è stata stimolata dalle politiche di apertura e liberalizzazione dei mercati e di privatizzazione (in particolare delle aziende di pubblica utilità) in un crescente numero di paesi, dal moltiplicarsi degli accordi bilaterali di protezione degli IDE, dal diffondersi delle tecnologie dell'informazione nei servizi. Nel 2000, all'apice della bolla speculativa sulle borse, il flusso degli IDE in entrata aveva raggiunto 1.271 miliardi di dollari, il fatturato delle affiliate estere delle IM aveva superato il doppio del valore delle esportazioni di beni e servizi (15.680 contro 7.036 miliardi di dollari), il valore aggiunto delle affiliate estere era pari a circa il 10° del PIL mondiale (v. tab. I). Con lo sgonfiarsi della bolla speculativa, il 2001 e il 2002 hanno fatto registrare una caduta vertiginosa dei flussi di IDE, quasi tutta concentrata sulle operazioni di F&A nei paesi avanzati, Stati Uniti in particolare (v. tabb. I e II). Secondo le prime stime ufficiali, il flusso degli IDE si è attestato nel 2002 intorno ai 500 miliardi di dollari. Nello stesso periodo gli IDE nei paesi in via di sviluppo (PVS) hanno mostrato una flessione assai minore, il che ha riportato al 25% la loro quota come paesi di destinazione, che nel 2000 era scesa al 15% dal 36% registrato nella media della prima metà degli anni novanta (v. UNCTAD, 2003, p. 249). Le operazioni F&A sono arrivate nel 2000 a pesare l'86° del totale degli IDE, ma il loro peso storico negli ultimi 20 anni si aggira tra il 40° e il 60°.
Al di là delle forti variazioni cicliche, tendenzialmente i paesi avanzati della Triade (Nordamerica, Europa occidentale, Giappone) continuano ad avere un ruolo dominante con oltre il 90° degli IDE in uscita e più di due terzi degli IDE in entrata (v. tab. III). Sui flussi cumulati 1992-2001 dei paesi industrializzati membri dell'OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development), gli Stati Uniti occupano una posizione preminente, assai superiore al loro peso sul PIL mondiale, più ancora come paese di destinazione (quasi il 30°) che come paese investitore (22°). Va ricordato che, su un più lungo arco di tempo del recente dopoguerra, gli Stati Uniti hanno ridotto la propria importanza come paese investitore (pesavano il 44° dello stock mondiale a metà degli anni settanta), ma sono divenuti più importanti come paese di destinazione (v. Dunning e Stopford, 1982; v. UNCTC, 1988). Gli Stati Uniti sono seguiti a distanza dai maggiori paesi europei, oltre che da Belgio-Lussemburgo e Paesi Bassi dove operano molte sedi legali delle IM per motivi essenzialmente fiscali. In questo periodo l'Italia è risultato il 15° paese di destinazione e il 12° paese investitore (v. tab. IV). Di tutti gli IDE diretti ai paesi emergenti, che pesavano il 31,3° sullo stock a fine 2000, Cina e Hong Kong ne hanno da soli assorbito più di un terzo, anche in vista dell'imminente ingresso della Repubblica Popolare Cinese nella WTO (World Trade Organization).
Benché diversi nuovi paesi asiatici e dell'Europa centro-orientale siano stati recentemente interessati dalla crescita delle IM, permane ancora oggi una forte concentrazione geografica del fenomeno. I primi 30 paesi di destinazione pesano per il 93° dei flussi e per l'89° dello stock degli IDE in entrata. Nel 2000 i primi 30 paesi investitori pesano per l'89° dei flussi e per il 98° dello stock degli IDE in uscita (v. tab. V). Vi è tuttavia da notare che molti paesi di minore dimensione, che necessariamente hanno un peso limitato sul valore totale degli IDE mondiali, presentano spesso un elevato 'indice di transnazionalità'. Questo è calcolato dall'UNCTAD come media di quattro rapporti: tra flussi di IDE in entrata e investimenti fissi lordi, tra stock di IDE in entrata e PIL, tra valore aggiunto delle affiliate di imprese estere operanti nel paese e PIL, tra occupati nelle medesime affiliate e occupati totali (v. UNCTAD, 2001, p. 38).
In rapporto al PIL dei paesi riceventi, lo stock degli IDE in entrata è più che triplicato in 20 anni, e per i PVS risulta ancor più importante che per i paesi sviluppati (v. tab. VI).
Un indice simile al precedente (Inward FDI Index) - calcolato dall'UNCTAD come rapporto tra la quota del paese sugli IDE mondiali in entrata e le rispettive quote dello stesso paese su PIL, occupazione ed esportazioni mondiali - viene suggerito come misura di attrattività relativa dei paesi di destinazione. La classifica basata su questo indice nel 1998-2000 vede fra i primi 30 paesi non solo, com'è da attendersi, quasi tutti i paesi europei avanzati di minore dimensione (oltre a Hong Kong e Singapore), ma anche Regno Unito, Francia, Germania, Stati Uniti, Canada, Brasile, Cile. Nella parte bassa della classifica troviamo invece, assieme a Italia, Grecia e Turchia in Europa, anche Giappone, India, Indonesia, Corea, Russia e larga parte dei paesi africani (v. UNCTAD, 2001, pp. 41 e 254-255). La medesima classifica calcolata sul periodo 1999-2001 vede qualche limitata variazione (v. UNCTAD, 2003, pp. 10-13).
Una notevole concentrazione emerge anche dal lato della dimensione delle IM. I primi 100 gruppi, rapportati al totale delle circa 65.000 IM stimate nel mondo, pesavano nel 2000 l'11° sullo stock di attività all'estero, il 14° sul fatturato e il 14° sugli occupati. Di questi 100 gruppi, l'Italia ne contava solo 4 (ENI, FIAT, Compart, Montedison), tanti quanti la Svizzera, contro 26 americani, 18 giapponesi, 13 francesi, 12 tedeschi, 8 britannici.
Quanto alla composizione degli IDE in entrata per grandi settori, va notato che negli anni recenti il terziario complessivamente pesa più della metà del totale per i paesi riceventi in via di sviluppo e più di due terzi per i paesi riceventi avanzati (ibid., p. 192). Questa quota è cresciuta nel tempo, anche in relazione al diffondersi delle privatizzazioni nei settori di pubblica utilità.
Fra i settori manifatturieri, quelli maggiormente caratterizzati da elevati volumi di attività transnazionale sono apparecchiature elettriche-elettroniche, autoveicoli, chimica, farmaceutica, petrolio-gas, alimentari-bevande-tabacco. Sulla base di un indice di transnazionalità delle prime 100 IM, calcolato dall'UNCTAD come media di rapporti tra attività, fatturato e occupazione all'estero e totali per l'impresa, nettamente sopra la media troviamo alimentari, chimica e farmaceutica, mentre sotto la media si trovano collocati autoveicoli e componenti (pur cresciuti molto nell'ultimo decennio), metallurgia, meccanica-ingegneria (v. tab. VII). In tutti questi settori, l'attrattività dei mercati emergenti come localizzazione delle IM sembra basarsi sempre meno su fattori quali il basso costo della manodopera non qualificata e le barriere protezionistiche a difesa del mercato locale, mentre contano sempre più, anche all'interno dei paesi sviluppati, condizioni legate, più che alla situazione generale del paese, all'esistenza di aree e sub-aree a forte vocazione produttiva, dotate di infrastrutture tecniche adeguate e di clusters di fornitori, secondo vere e proprie 'economie di agglomerazione' (v. UNCTAD, 2001, p. 72).
Come è facile immaginare, nei comparti a massimo tasso di innovazione tecnologica (semiconduttori, biotecnologie) la localizzazione delle IM è fortemente concentrata in un piccolo numero di paesi e, all'interno di tali paesi, in poche aree regionali che presentano maggiori capacità e infrastrutture di sviluppo tecnologico (ibid., pp. 68-72).
La dispersione geografica della localizzazione multinazionale, cioè il numero medio dei paesi in cui le IM operano con proprie affiliate, tende invece a crescere con l'importanza delle attività puramente commerciali e di marketing rispetto al valore aggiunto industriale. È il caso dei settori più orientati al consumo finale, come farmaceutica, chimica, elettronica, alimentare-bevande (ibid., pp. 103-104).
4. Perché un'impresa diventa multinazionale?
Secondo la teoria neoclassica, basata sull'assunzione che i mercati operino in un regime di concorrenza perfetta, gli IDE, come gli investimenti di portafoglio, si muovono tra i paesi in risposta a differenziali di rendimento-rischio del capitale investito, a loro volta riconducibili a maggiore o minore dotazione relativa di capitale-lavoro (v. Mundell, 1957; v. Aliber, 1970). Nel 1960 Stephen H. Hymer, nella sua tesi di dottorato al MIT con Charles P. Kindleberger, fu il primo a riprendere lo schema teorico di Ronald Coase (v., 1937) sull'impresa e i suoi costi di transazione in mercati di concorrenza imperfetta, suggerendo una visione dell'IM che si muove nel mondo per ottenere vantaggi competitivi, acquisire potere di mercato, perseguire strategie di rivalità oligopolistica (v. Hymer, 1976).
a) L'approccio OLI
A seguito dell'apporto di numerosi studiosi - tra i quali ricordiamo Richard E. Caves (v., 1982), Mark Casson (v., 1986), Frederik T. Knickerbocker (v., 1973), Alan M. Rugman (v., 1981), David J. Teece (v., 1977 e 1982), ma soprattutto John H. Dunning (v., 1985; v. Dunning e Stopford, 1982) - oggi facciamo riferimento a un quadro di sintesi che riassume nella triade OLI (Ownership, Location, Internalisation) le ragioni determinanti - o sarebbe meglio dire i prerequisiti, come si capirà meglio tra poco - della scelta di un'impresa di diventare IM.
Il primo prerequisito è rappresentato dal possedere dei 'vantaggi proprietari' (ownership advantage) di conoscenza ed esperienza, sotto il profilo tecnologico e/o organizzativo, per il migliore sfruttamento dei quali l'impresa trova conveniente servire il mercato mondiale potenziale non producendo tutto nel paese d'origine, bensì costituendo unità produttive (o almeno inizialmente commerciali) direttamente su uno o più mercati di sbocco, combinando esportazioni e produzione diretta sui mercati locali. Parliamo chiaramente di un mondo di informazioni incomplete e asimmetriche, concorrenza imperfetta od oligopolistica, tecnologie non liberamente disponibili e accessibili a tutti come un 'bene gratuito'. Un mondo dove gli invisible assets e il knowledge capital contano più del capitale fisico e della ricchezza finanziaria.
La seconda variabile in gioco è rappresentata dai vantaggi di localizzazione (locational advantage), come qualità e costo del lavoro e dell'energia, disponibilità di materie prime, costo di trasporto dei prodotti, disponibilità e qualità delle infrastrutture. Essi determinano in quali paesi, al di fuori dal paese d'origine, sia conveniente trapiantare il processo produttivo mantenendo il ruolo centrale della casa madre.
Il terzo prerequisito è che vi sia convenienza a internalizzare (internalisation) lo sfruttamento dei vantaggi proprietari, ponendo in essere una vera e propria strategia di IM, anziché 'esternalizzarli' sotto forma di cessione di licenza o simili accordi contrattuali con partners esteri indipendenti. Come suggerisce la teoria dell'innovazione e dello sviluppo tecnologico, molti vantaggi proprietari non sono 'codificabili' in standard e blueprint (e pertanto cedibili sul mercato), bensì sono taciti, informali, segreti, e come tali possono essere efficacemente sfruttati solo entro un'organizzazione gerarchica, tipica dell'impresa verticalmente integrata, piuttosto che attraverso relazioni contrattuali di mercato.
Come si vede, questo schema OLI poggia su una combinazione di variabili caratteristiche di impresa, di settore e di paese, non tutte facilmente misurabili per essere sottoposte a verifica empirica, ma certo tutte rilevanti per una visione 'micro-fondata' delle strategie di internazionalizzazione produttiva. Siamo quasi agli antipodi della teoria neoclassica basata su meccanismi di arbitraggio su mercati finanziari trasparenti: "The modern multinational company is primarily a vehicle for the transfer of entrepreneurial talent rather than financial resources" (v. Dunning, 1970).
Tra le variabili di impresa (firm specific) troviamo: dimensione aziendale e potere di mercato, stock di competenze acquisite (Ricerca e Sviluppo, brevetti, segreti industriali, esperienza, età), configurazione organizzativa più o meno gerarchica, grado di specializzazione o diversificazione produttiva, strategia competitiva, orizzonte più o meno lungo di valutazione della redditività degli investimenti.
Le classiche variabili di settore (industry specific) sono costituite da: economie di scala statiche (di impianto, di distretto) e dinamiche (di impresa, di apprendimento), forma di mercato (concentrazione dell'offerta, barriere all'entrata, peso e complessità della fase distributiva lungo la catena del valore, differenziazione dei prodotti, peso della domanda pubblica, ecc.), incidenza dei costi di trasporto, grado di opportunità tecnologica (velocità di avanzamento della frontiera innovativa) e condizioni di 'appropriabilità del vantaggio innovativo' da parte dell'impresa innovatrice. In questa categoria rientrano le fasi del cosiddetto ciclo di vita dei prodotti (decollo, sviluppo, maturità, declino) che concorrono a determinare la convenienza di IDE mirati al risparmio dei costi nelle fasi di maturità e declino (v. Vernon, 1966).
Infine, le variabili di paese-territorio (country specific) includono una lunga serie di aspetti economici e istituzionali come i seguenti: dimensione del mercato, crescita del reddito e sua distribuzione per fasce di potere d'acquisto, costo e qualità della manodopera variamente qualificata, costo dell'energia, disponibilità e costo delle materie prime, distanza dagli altri mercati di sbocco e relativi costi di trasporto, 'economie esterne' legate a disponibilità e qualità dei fornitori locali, grado di protezione doganale (dazi, quote, procedure e varie barriere invisibili), incentivi e vari aspetti di legislazione locale, regime fiscale, regime brevettuale, distanza linguistico-culturale.
b) L'approccio basato su economie di scala e mercati imperfetti
Fermo restando il merito dell'approccio OLI nel suggerire una teoria degli IDE strettamente legata alla teoria dell'impresa e dei mercati imperfettamente concorrenziali, negli ultimi vent'anni gli economisti sono andati alla ricerca di modelli di 'equilibrio economico generale', in cui l'interazione stilizzata tra variabili di impresa e di mercato può spiegare il passaggio da impresa esportatrice a IM, alla luce delle 'nuove teorie' del commercio internazionale. Questi modelli sono più chiaramente mirati a descrivere le vere e proprie variabili (le determinanti) che causano la scelta dell'impresa di intraprendere un IDE in un particolare settore e in un determinato paese. Sulla scia originariamente suggerita dal modello di Seev Hirsch (v., 1976) circa la scelta tra esportazioni e IDE, si segnalano i primi articoli di Elhanan Helpman (v., 1984; v. Helpman e Krugman, 1985), Wilfred J. Ethier (v., 1986), James R. Markusen (v., 1984), fino ai contributi più recenti dello stesso Markusen (v., 1995; v. Markusen e Venables, 1998; v. Markusen e Maskus, General-equilibrium... e A unified..., 2001) e di Bruce A. Blonigen (v., 2001).
In un mondo a due paesi (A e B) e di prodotti soggetti a economie di scala di impianto, l'impresa del paese A troverà tanto più conveniente andare direttamente a produrre e vendere nel paese B quanto: a) più elevate sono le economie di scala a livello di impresa, derivanti dai vantaggi proprietari che possono essere sfruttati in un assetto multinazionale (economie di scala che attengono all'impresa nel suo assieme, non al singolo impianto, riflettendo costi sostenuti in passato e come tali 'irrecuperabili'); b) meno elevate sono le economie di scala a livello di singolo impianto, per cui l'impresa non deve sopportare rilevanti costi fissi aggiuntivi se decide di frammentare la produzione tra due impianti in A e in B, piuttosto che mantenerla entro l'unico impianto originario del paese A; c) più elevate sono le barriere allo scambio internazionale (dazi, costi di trasporto) che aumentano i costi per esportare il prodotto da A a B anziché produrre in B il prodotto destinato al mercato locale. Tutto ciò prescinde da differenze nel costo dei fattori di produzione (paesi A e B molto dissimili per dotazione fattoriale e livello di sviluppo): infatti, la convenienza a sfruttare costi del lavoro inferiori in B rispetto ad A costituisce un'ulteriore ragione perché l'impresa di A delocalizzi almeno una parte di produzione in B, magari anche per importarla in A, compatibilmente con i costi di trasporto.
La definizione un po' ambiziosa di 'equilibrio economico generale' attribuita a questo approccio riflette la sua natura stilizzata, per cui l'interazione di un numero relativamente limitato di variabili di impresa, di settore e di paese giunge a spiegare l'esistenza sia di imprese puramente esportatrici che di imprese a produzione multinazionale.
Una distinzione frequente in questa letteratura è quella tra IDE 'orizzontali' e 'verticali'. I primi si caratterizzano per motivazioni di 'accesso al mercato', in presenza di prodotti anche molto simili che devono però essere adattati a gusti differenziati dei consumatori-utilizzatori, standard tecnici, regolazioni e altre 'barriere invisibili' che caratterizzano mercati di concorrenza imperfetta e oligopolistica. I secondi sono i classici IDE di delocalizzazione di intere fasi di produzione (componenti, ma anche prodotti finiti) verso aree a più basso costo, che consentono pertanto di affrontare costi marginali inferiori a quelli dell'impianto della casa madre.
Gli IDE orizzontali sono quelli in cui l'IM è orientata a servire i mercati locali (che possono includere paesi diversi appartenenti a una stessa zona di libero scambio o in generale a un'area regionalmente integrata) e tendono a costituire unità operative distinte in paesi diversi in funzione di vantaggi localizzativi per prodotti differenziati per qualità, marchio, segmento di mercato. Si pensi ai vari impianti in Europa e fuori Europa dei maggiori produttori automobilistici europei: ad esempio la Volkswagen in Spagna, Turchia, Messico; la FIAT in Polonia, Cina, Argentina e Brasile. Casi simili sono frequenti nell'industria degli elettrodomestici, dei detersivi, dei prodotti alimentari. Un caso classico - specialmente negli anni cinquanta e sessanta, quando molti paesi emergenti praticavano politiche protezionistiche mirate a sostituire le importazioni - è costituito dagli IDE tariff jumping, con i quali l'IM riesce a crearsi uno spazio di mercato locale altrimenti non accessibile a causa di dazi proibitivi sulle importazioni. Esempi noti sono molti investimenti nel settore automobilistico, come quelli della FIAT in America Latina, in Russia e in Spagna (con l'acquisizione della SEAT, poi ceduta alla Volkswagen).
Come evidenziato più sotto (v. capp. 5 e 6), molti di questi IDE orizzontali finiscono per generare flussi di commercio tra paesi per prodotti differenziati entro lo stesso settore merceologico, il cosiddetto commercio 'intra-industriale'. Questo orientamento degli IDE alla crescita del mercato di sbocco è tanto più evidente nel settore dei servizi (banche e assicurazioni, telecomunicazioni, alberghi e turismo, comunicazione e media, servizi professionali, ingegneria e progettazione, pubblicità, ecc.). Infatti, nei servizi in genere, nonostante la crescente commerciabilità internazionale in rete telematica, il rapporto col cliente presuppone una presenza diretta, una vicinanza fisica, culturale e linguistica, spesso legami stretti con le autorità di governo locale.
Come esempi di IDE verticali, si pensi innanzitutto ai classici investimenti nell'industria estrattiva e nelle piantagioni agricole: sono IDE mirati alla sicurezza dell'approvvigionamento di materie prime. Purtroppo, in molti casi questi investimenti presentano ancora oggi caratteristiche negative di sfruttamento coloniale e ambientale. Ma si pensi anche alla delocalizzazione della produzione di beni di consumo e di beni intermedi a forte incidenza del costo del lavoro meno qualificato - ad esempio, molte produzioni italiane e tedesche di tessile, abbigliamento, calzature, mobilio - verso paesi dell'Europa orientale, nordafricani e asiatici. Altri esempi: le produzioni farmaceutiche di materie prime (i cosiddetti principî attivi) presso imprese controllate in paesi diversi da quelli dove la casa madre concentra sia le fasi a monte, come la ricerca, sia le fasi a valle, come il confezionamento; l'approvvigionamento di parti e componenti di autoveicoli da proprie affiliate o joint ventures concentrate in determinate zone a forte vocazione meccanica-elettronica; la prima trasformazione di petrolio e gas presso i paesi produttori di fonti energetiche; la delocalizzazione di funzioni di servizio (call centre, contabilità, design, engineering) in paesi dove la manodopera qualificata per questi servizi è meno costosa e può regolarmente operare in rete anche stando a migliaia di chilometri di distanza. Un caso particolare, ma assai rilevante nei settori ad alta tecnologia, è quello degli IDE in unità di Ricerca e Sviluppo localizzate nei paesi leaders e nelle aree a più forte concentrazione di capitale umano e tecnologico: in questo caso, la determinante è la ricerca e conquista di nuovi vantaggi competitivi, più che lo sfruttamento di vantaggi proprietari ereditati dal passato. Casi emblematici sono gli IDE negli Stati Uniti da parte di imprese europee operanti nei settori in cui gli Stati Uniti occupano posizioni di leadership tecnologica, come informatica e software, farmaceutica, biotecnologie, biomedicale, aerospaziale (IDE nella Silicon Valley, sulla Boston Route 128, nell'area dell'aerospaziale di Seattle, ecc.).
Ricorrendo allo schema di equilibrio economico generale di cui sopra, è possibile identificare alcune condizioni caratteristiche alternativamente degli IDE orizzontali e verticali.
Gli IDE orizzontali saranno tanto più frequenti tra i paesi A e B quanto: a) più simili sono i paesi per dimensione, poiché vi è minor incentivo a sfruttare economie di scala di impianto concentrando la produzione nel paese più grande, sostenendo poi il costo dell'esportazione verso il paese-mercato più piccolo; b) più simile è la dotazione fattoriale dei paesi, cioè minori sono i differenziali di costo che rendono conveniente spostare l'intera produzione in A o in B; c) maggiori sono i costi del commercio internazionale (dazi, trasporto) e quindi maggiore l'incentivo a produrre vicino al mercato di sbocco; d) minori sono i costi fissi di impianto (economie di scala di impianto) e quindi minore l'incentivo a concentrare l'intera gamma di produzione in un'unica località.
Gli IDE verticali saranno invece tanto più frequenti quanto: a) più dissimili sono i paesi per dimensione e dotazione fattoriale relativa e quindi maggiore è la convenienza a specializzare le produzioni in funzioni di strategie cost saving; b) minori sono i costi del commercio internazionale e quindi minori gli incentivi a produrre vicino al mercato di sbocco; c) minori sono i costi fissi di impianto e quindi (come per gli IDE orizzontali) minore è l'incentivo a concentrare la produzione presso il solo paese d'origine.
La distinzione tra IDE 'a prato verde' e IDE di F&A ha più rilevanza sotto il profilo degli effetti sul paese ricevente (v. sotto, cap. 6) che sotto quello delle determinanti dell'investitore. Le motivazioni principali di una crescita multinazionale tramite F&A sono comunque riconducibili a: a) la velocità della mossa strategica per acquisire una fetta di mercato e battere la concorrenza, poiché l'investimento 'a prato verde' richiede un certo periodo di gestazione e avviamento; b) la ricerca di vantaggi proprietari strategici, attraverso la rapida acquisizione di patrimoni conoscitivi e tecnologici, capitale umano, brevetti, marchi, licenze locali di produzione, rete di fornitori e distributori (v. UNCTAD, 2000). Il medesimo rapporto dell'UNCTAD segnala la notevole crescita di importanza degli IDE di F&A negli anni novanta, in particolare nei servizi, concentrata naturalmente nei paesi più avanzati.
5. Effetti degli IDE sul paese investitore
L'evoluzione dell'impresa da impresa domestica esportatrice a IM produce una serie di effetti, molti dei quali di segno incerto, specialmente nel medio periodo. Ci soffermeremo su occupazione, competitività e scambi commerciali con l'estero.
a) Occupazione e competitività
A contrastare il luogo comune che investire all'estero significa tagliare posti di lavoro in casa propria e 'fuggire' dal proprio paese sta una certa evidenza empirica a livello di paese e di singole imprese, per cui l'effetto netto dell'IDE sulla crescita e sulla competitività del paese investitore tende a essere positivo o almeno incerto (v. Baldwin, 1995; v. WTO, 1996). La stima empirica degli effetti occupazionali è spesso condotta guardando agli effetti sugli scambi commerciali, su cui ci soffermeremo nel paragrafo seguente.
Nel caso degli IDE di delocalizzazione verso paesi a basso costo del lavoro, si tratta di una strategia difensiva (razionalizzazione dei costi), in assenza della quale l'occupazione domestica sarebbe molto probabilmente destinata a cadere ancor più rapidamente. L'effetto netto sull'occupazione spesso comporta una perdita di posti di lavoro meno qualificati, o anche un calo dell'occupazione puramente manifatturiera, ma anche un contemporaneo aumento di occupazione più qualificata in mansioni terziarie interne all'impresa industriale, come progettazione, design, marketing, supervisione, amministrazione e controllo, finanza. Per limitarci all'Italia, si pensi all'esperienza di gruppi assai dinamici nel tessile-abbigliamento e nel calzaturiero, che in tempi più o meno recenti hanno optato per strategie di presenza multinazionale, come Miroglio, Zegna, Marzotto, Benetton, Della Valle, Geox, Tecnica.
Nel caso degli IDE orientati alla penetrazione dei mercati, l'effetto positivo sull'occupazione (anche dal punto di vista quantitativo, non solo qualitativo) è ancor più evidente, poiché l'IDE agisce da moltiplicatore degli affari e mira all'allargamento della quota di mercato estero complessivamente detenuta dall'IM, e ciò vale tanto più per le IM operanti nei vari settori dei servizi citati in precedenza. Non mancano esempi, in Italia e all'estero, di crescita occupazionale che ha accompagnato strategie di internazionalizzazione produttiva di un gruppo: dai grandi gruppi multinazionali americani, francesi e tedeschi a gruppi italiani come ENI, Pirelli, Merloni, Marazzi, Pininfarina, Menarini, Riva, Italcementi, Mapei e altri ancora. Semmai, si può in molti casi ritenere che la mancanza o la debolezza nell'intraprendere una strategia di investimenti multinazionali sia stata la causa della perdita di competitività e del successivo declino industriale del gruppo, come si è riscontrato nella storia della chimica, della termomeccanica, dello hardware nelle telecomunicazioni e dell'informatica italiana.
Non si possono poi trascurare, anche se sono difficilmente misurabili da un punto di vista empirico, effetti positivi indiretti sulla competitività dell'IM investitrice, effetti che passano attraverso processi di apprendimento organizzativo e commerciale incentivati proprio dal mettersi a confronto con culture manageriali e di mercato diverse da quelle dominanti nel paese d'origine, con riflessi sulla formazione della propria manodopera e sulla qualità della propria struttura dirigenziale. L'argomento vale a maggior ragione nel caso degli IDE di apprendimento tecnologico, mirati alla conquista di nuovi vantaggi proprietari.
b) Scambi commerciali con l'estero
Un'ampia messe di lavori econometrici condotti su dati di paese, di settore e su dati di campioni di imprese giunge a concludere che IDE ed esportazioni siano piuttosto complementari che alternativi, almeno nel breve e medio periodo, a conferma delle ipotesi suggerite dalle recenti teorie e anticipate in molti rapporti conoscitivi (v. UNCTC, 1988). Altrettanto si può dire dei rapporti tra IDE e importazioni del paese investitore. Nel lungo periodo è molto probabile che l'espansione multinazionale generi un effetto di sostituzione rispetto alla bilancia commerciale del paese investitore, anche se al minore avanzo (o maggiore disavanzo) delle merci corrisponde un aumento dell'attivo nei servizi (redditi da licenze di fabbricazione cedute alle affiliate estere, altri servizi resi dalla casa madre) e soprattutto nei redditi da capitali (dividendi e interessi dagli utili maturati all'estero). Sul caso degli Stati Uniti, che nel tempo hanno perso quota nelle esportazioni mondiali di merci, ma hanno mantenuto una certa quota del mercato mondiale grazie anche alla produzione delle proprie affiliate estere, si veda l'articolo pubblicato da I. B. Kravis e R. E. Lipsey nel 1992.
Con poche eccezioni, la sequenza temporale storica vede l'impresa prima diventare esportatrice, e successivamente investitrice e/o titolare di accordi cooperativi e contratti di licenza con clientela estera (v. UNCTAD, 1996, p. 78). Ciò fa pensare agli IDE come sostituti delle esportazioni, almeno nel caso degli IDE tariff jumping, finalizzati a superare barriere protezionistiche che rendono molto difficile esportare nel paese di destinazione. Ma anche questi IDE che possono rimpiazzare precedenti esportazioni di un singolo prodotto tendono spesso a generare domanda aggiuntiva di importazioni di altri prodotti che ampliano la gamma resa disponibile sul mercato locale; inoltre, lo stesso IDE comporta l'importazione di attrezzature e impianti, componenti, servizi.
La considerazione di fondo è comunque che, da un certo stadio di sviluppo in poi, IDE ed esportazioni sono due modi complementari, non alternativi, per realizzare strategie di internazionalizzazione delle imprese, entrambi riflettendo la distribuzione settoriale dei vantaggi comparati del paese nel contesto mondiale.
Evidenza empirica di tutto ciò è rintracciabile, dopo il famoso Reddaway Report (v. Reddaway e altri, 1968) sul caso degli investimenti all'estero del Regno Unito, già nei lavori di R. E. Lipsey e M. Weiss (v., 1981 e 1984) su dati statunitensi, e di M. Blomstrom (v. Blomstrom e altri, 1988) e B. Swedenborg (v., 1979) su dati svedesi, fino ai lavori più recenti su dati di molti paesi (v. Mori e Rolli, 1998; v. Brainard, 1997; v. Fontagné, 1999; v. Head e Ries, 2001; v. Blonigen, 2001; per una rassegna sintetica dei lavori empirici su IDE ed esportazioni, v. Onida, 2003).
La complementarità fra IDE ed esportazioni è efficacemente illustrata dall'esempio della Toyota in Francia (v. CEPII, 1998, cap. 9). A fronte dell'effetto di sostituzione di precedenti esportazioni, peraltro soggette alle limitazioni quantitative negoziate anteriormente in sede europea, si verificano i seguenti effetti: a) maggiori esportazioni della Toyota-Francia verso altri paesi della UE (non più soggette a quote, trattandosi di produzione intra-UE); b) importazione di componenti dalla casa madre giapponese per concorrere al processo di assemblaggio in Francia; c) esportazioni della Toyota in Francia di altri modelli che prima risultavano totalmente esclusi dalle menzionate quote; d) sostituzione di produzione di altre marche francesi e/o di importazioni francesi di altre marche estere. In alcuni casi estremi di IDE nei PVS, in cui la casa madre giapponese fornisce quasi tutte le componenti essenziali del veicolo, si parla di 'fabbriche cacciavite'.
La complementarità fra IDE e commercio internazionale è poi del tutto evidente nel caso degli investimenti nell'industria estrattiva, che danno origine a esportazioni di attrezzature e materiali e a importazioni di materie prime: si pensi al caso dell'ENI, in particolare ad AGIP e SNAM.
6. Effetti degli IDE sul paese ricevente
Per gli effetti sugli scambi commerciali, valgono simmetricamente le considerazioni fatte per il paese investitore. Concentriamoci dunque sugli effetti che riguardano il mercato del lavoro e la diffusione di tecnologie e capacità produttive.
a) Mercato del lavoro: occupazione, produttività, salari
Occupazione, produttività e salari riflettono direttamente e indirettamente la presenza di imprese a capitale estero nel tessuto produttivo del paese ricevente. L'effetto positivo sulla quantità dell'occupazione è incontrovertibile nel caso degli IDE 'a prato verde', in quanto si tratta di nuova capacità produttiva che si installa nel paese. Nel caso degli investimenti di F&A, l'effetto tende a essere negativo nel breve termine, poiché l'investitore estero di norma apporta tecnologie più efficienti, che permettono di risparmiare lavoro, e spesso realizza un programma di ristrutturazione e riconversione produttiva concepito già quando valutava la convenienza dell'operazione. Tuttavia, si possono ragionevolmente intravedere effetti positivi netti nel medio termine, nella misura in cui l'IDE consente all'impresa acquisita di evitare il declino, se non la totale scomparsa, per mancanza di competitività. Nel caso di ingresso di capitali stranieri in imprese privatizzate dal governo locale vengono spesso negoziate tra le parti condizioni di temporaneo mantenimento dei livelli occupazionali, in attesa degli effetti di riconversione previsti nei piani di sviluppo dell'impresa.
L'impatto occupazionale complessivo riflette inoltre gli effetti indiretti dei nuovi piani di produzione sui fornitori locali, che a loro volta possono essere spiazzati dall'importazione esterna di componenti, o al contrario valorizzati e potenziati dall'investitore (v. sotto, § b).
Quanto agli effetti sulla qualità della forza lavoro e sul capitale umano in genere, l'evidenza empirica disponibile non fornisce supporto alle tesi 'antiglobal' che denunciano lo sfruttamento dei lavoratori dei paesi poveri da parte dei nuovi padroni. Al contrario, fermo restando che l'IDE cost saving nei paesi meno sviluppati insegue costi del lavoro inferiori a quelli del paese d'origine, la presenza del capitale estero tende ad associarsi a produttività e salari più elevati non solo rispetto al livello medio nel paese ricevente (il che può semplicemente riflettere la situazione dei settori relativamente moderni in cui investe l'IM), ma anche con riferimento allo specifico settore e a dimensioni d'impresa comparabili, almeno nell'ambito del sistema privato (v. Lipsey, 2002). Complessivamente, si ritiene che gli investitori esteri paghino salari più elevati rispetto al paese ospite in quanto scelgono per le proprie operazioni nel paese settori, impianti e manodopera a più elevata produttività, scelta che a sua volta riflette i 'vantaggi proprietari' dell'investitore. Alcuni studi, come quello di R. C. Feenstra e G. H. Hanson (v., 1997) sul Messico, hanno cercato di stimare anche eventuali effetti indiretti (spillovers) degli IDE sul salario medio dell'economia ospite, o almeno del settore, riscontrando prevalenti effetti positivi. Questi possono essere spiegati sia dalla maggior domanda di lavoro creata dall'IDE 'a prato verde', sia da un effetto di trascinamento sull'indotto locale.
Ciò vale a maggior ragione quando si tratti di IDE in paesi relativamente avanzati, in cui l'investitore cerca nuovi spazi di mercato e così facendo contribuisce allo sviluppo di nuove vocazioni produttive. Si pensi, ad esempio, all'industria elettronica in un'Irlanda inizialmente a vocazione prevalentemente agricola, o anche a molti investimenti giapponesi a Singapore, Taiwan, Hong Kong, Corea. O anche a casi in cui l'IDE svolge ruoli di supplenza rispetto al capitale locale nei settori in cui il paese ricevente registra svantaggi comparati: è il caso, in Italia, di settori come informatica, telecomunicazioni, chimica, farmaceutica.
Va detto che numerosi dubbi metodologici minano l'attendibilità di queste stime econometriche basate su dati orizzontali cross section di imprese, settori e/o paesi diversi anziché su serie storiche (non disponibili), in quanto le relazioni di causa-effetto possono essere confuse dalla presenza di variabili economiche e istituzionali non specificate nel modello. Si ritiene tuttavia che gli IDE esercitino prevalentemente un effetto positivo sulla produttività, e quindi sui salari e sui redditi, del paese ricevente attraverso diversi canali: a) diffusione tecnologica e conseguente effetto di imitazione, per cui le imprese locali sono sollecitate a un uso più efficiente delle risorse e all'adozione di nuove pratiche di management; b) maggior concorrenza, che spinge alla riduzione della 'inefficienza-X'; c) superamento di strozzature nell'offerta locale; d) addestramento di manodopera e management; e) miglior accesso ai mercati esteri per l'industria locale. Non mancano tuttavia casi in cui l'IDE tende più a formare una enclave che a generare effetti diffusivi sull'economia locale (v. Gorg e Greenaway, 2001; v. Lipsey, 2002).
In ogni modo, gli effetti diffusivi più virtuosi tendono a emergere nei PVS a medio reddito piuttosto che in quelli più poveri. Infatti, un grave ritardo tecnologico e istituzionale del paese, lungi dall'accrescere gli spazi per consistenti guadagni di produttività, impedisce una efficace diffusione dello sviluppo, la quale presuppone una adeguata 'capacità di assorbimento' nel paese ricevente.
b) Trasferimenti di tecnologia e struttura produttiva
Strettamente legato al precedente, come si è già visto, è il tema degli effetti di trasferimento tecnologico e produttivo dall'investitore al sistema produttivo locale, con particolare riferimento (ma non solo) ai PVS. Un paese dotato di sufficiente 'capacità di assorbimento' può accelerare i propri processi di inseguimento tecnologico non solo tramite l'importazione di beni intermedi e strumentali avanzati da parte delle imprese locali, ma anche attirando IDE, tanto meglio se in joint venture tra investitore estero e imprenditori locali. Da questi investimenti si possono attendere effetti diretti e indiretti di diffusione tecnologica e aumento della produttività totale dei fattori.
Tra gli effetti diretti vi è l'addestramento di manodopera locale (con processi di apprendimento formali e informali), così come un mutamento del mix dei prodotti sul mercato. I canali del trasferimento tecnologico dall'IM all'impresa locale sono innanzitutto il know-how di prodotto (design, specifiche, standard di qualità ecc.), il know-how di processo (macchinario, organizzazione dell'impianto, testing e controlli di qualità, assistenza tecnica) e la cultura manageriale (gestione delle scorte, controlli di qualità, marketing, distribuzione, ecc.). Fra i numerosi esempi citati, si può ricordare quello della Volvo, che ha trasformato la Divisione macchine per costruzione della Samsung coreana da azienda in crisi in centro di eccellenza, o l'addestramento del personale effettuato dalla Motorola in Cina.
Altrettanto, se non più importanti nel medio periodo, sono gli effetti indiretti (economie esterne) che già nella tradizionale teoria dello sviluppo economico prendono il nome di backward and forward linkages, cioè attivazione di rapporti produttivi con fornitori e subfornitori a monte (backward) e con clienti a valle (forward). In tal modo la presenza della IM produce effetti di diffusione tecnologica e organizzativa nel più vasto tessuto produttivo del paese. La UNCTAD (v., 2001) documenta casi come Nestlé in Cina, Unilever in Vietnam, Toyota Motor in Tailandia, Intel in Malesia. Naturalmente l'entità e la pervasività di queste economie esterne del produttore dipendono da molte variabili di impresa, settore e paese: disponibilità di manodopera tecnica e qualificata locale, standardizzazione del prodotto (che facilita la diffusione tecnologica), divisibilità del processo produttivo (che facilita la diffusione rispetto al caso di processi verticalmente integrati).
La struttura produttiva del paese ricevente può anche risentire della presenza di una o più IM sotto il profilo del grado di concorrenza. A seconda dei casi, un IDE può (specie se in forma di F&A) accrescere il grado di concentrazione nel settore interessato, ma al contrario può anche spaccare monopoli locali con benefici effetti sulla concorrenza, come sta avvenendo in molti PVS nei settori della telefonia e delle banche.
A questi effetti diretti di trasferimento tecnologico va aggiunto l'impatto di interventi sociali esplicitamente finanziati dall'IM in accordo con il governo locale, in campi che vanno dall'alfabetizzazione di base all'addestramento professionale, dagli standard nutrizionali alla salute. Molti di questi casi sono illustrati nei citati World Development Report predisposti annualmente dall'UNCTAD (ma scarsamente letti dai militanti 'no global').
7. Conclusioni e implicazioni per le politiche di attrazione degli IDE
L'immagine delle IM come soggetti capitalistici della peggior specie, che estraggono profitti da rapina dallo sfruttamento delle ricchezze naturali e della popolazione lasciata in povertà, è fortunatamente sempre più un retaggio storico dell'età coloniale e - con poche eccezioni oggi rintracciabili nei settori estrattivo, energetico e di alcune piantagioni tropicali - ampiamente contraddetta dalla storia recente. L'IM va sempre più analizzata e valutata come protagonista dell'internazionalizzazione dei sistemi produttivi, motore e diffusore di conoscenze, tecnologie e cultura di mercato nei paesi in ritardo di sviluppo. IDE ed esportazioni si autoalimentano in un circolo potenzialmente virtuoso per cui l'apertura verso l'estero del sistema economico induce una più efficiente allocazione delle risorse del paese, accrescendo così la produttività e il reddito reale della popolazione, promuovendo imprenditorialità e capitale umano.
Non stupisce, pertanto, che un numero crescente di paesi (inclusi Cina, Russia, Vietnam, Cuba e altri, fino a tempi recenti piuttosto chiusi alla presenza straniera) aprano oggi le porte al capitale estero e cerchino di adottare politiche diattrazione degli IDE. L'analisi di queste politiche condotta da numerosi studi e negli annuali World Investment Report dell'UNCTAD porta a concludere che, assai più dei tradizionali strumenti come incentivi fiscali e finanziari e della modulazione dei vincoli operativi all'IM, contanofattori ambientali generali, quali le infrastrutture di base, la qualità della manodopera, il livello tecnologico del tessuto produttivo locale, l'affidabilità del quadro istituzionale e delle regole di base entro cui il governo interferisce col mercato.
Gli impegni presenti e futuri della WTO, confermati dalla Quarta conferenza ministeriale di Doha del 2001, prevedono ulteriori negoziati multilaterali intorno al trattamento degli IDE e alle cosiddette TRIMs (Trade Related Investment Measures) e già oggi scoraggiano dall'adottare misure restrittive specifiche che rischiano di distorcere gravemente la concorrenza e compromettere uno sviluppo sostenibile delle vocazioni produttive del paese ospite, come i requisiti troppo stringenti di 'contenuto locale' e le 'regole d'origine' dei beni intermedi scambiati all'interno delle Aree di integrazione regionale. Si moltiplicano comunque le esperienze di agenzie nazionali e appositi programmi finalizzati a favorire forme di collaborazione tecnica fra imprese locali e IM, a promuovere la nascita di distretti produttivi locali, a innalzare la cultura di base e la qualità dei fornitori locali: esempi recenti sono segnalati in paesi assai diversi come Cina, India, Malesia, Singapore, Tailandia, Brasile, Ungheria, Repubblica Ceca, Irlanda (v. UNCTAD, 2001). Qualche utile lezione può essere tratta anche per l'Italia, onde invertire la tendenza che, come ricordato all'inizio, ha visto il nostro paese negli ultimi anni restare relativamente trascurato dalle più attive IM.
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