Imprese transnazionali e diritti umani
Il presente contributo ricostruisce il quadro essenziale delle norme di soft law e di hard law che regolano l’attività delle imprese transnazionali nella prospettiva della tutela dei diritti umani e della conseguente responsabilità che ne deriva.
Una delle principali questioni del diritto internazionale contemporaneo è quella della regolazione delle attività dei più importanti “attori non statali” ossia delle cd. “imprese multinazionali”1. Se i tentativi sono stati numerosi, le effettive realizzazioni lo sono state assai meno perciò le “potenze economiche transnazionali” hanno avuto mano libera ed hanno utilizzato la competizione (talvolta il sottosviluppo) degli ordinamenti giuridici nazionali per massimizzare i loro profitti invocando la legalità interna. Dall’epoca della creazione della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD), istituita nel 1964 dall’Assemblea generale dell’ONU, i nuovi Stati che emergevano dall’era coloniale tramite il Movimento dei paesi non allineati manifestavano la più forte ostilità contro le imprese transnazionali e rivendicavano un nuovo ordine economico internazionale. Erano i tempi di Fidel Castro e di Che Guevara o ancora del cileno Salvador Allende che pronuncerà un appassionato discorso in occasione della terza sessione della UNCTAD, tenutasi a Santiago del Cile nell’aprile del 1972. Erano anche i tempi in cui si discuteva di un trattato capace di regolare il comportamento delle imprese multinazionali giungendo all’istituzione del Centro delle Nazioni Unite sulle società transnazionali (UNCTC), con il compito di varare un Codice di condotta vincolante2.
Senonché quei negoziati, come pure quelli successivi volti all’approvazione di apposite Norme sulle Responsabilità delle società transnazionali ed altre imprese (2003), fallirono clamorosamente a causa di disaccordi inconciliabili tra i Paesi socialisti, quelli in via di sviluppo e i Paesi occidentali. A tale categoria di strumenti a vocazione universale si aggiunsero poi le Guidelines della Banca Mondiale sugli investimenti stranieri3. L’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), dal canto suo, si fece promotrice di una Dichiarazione tripartita di principi sulle imprese multinazionali e la politica sociale sin dal 19774. Anche in questo caso, tuttavia, il tentativo di regolare a livello intergovernativo gli aspetti fondamentali dei rapporti di lavoro transnazionali e delle relazioni industriali, non si è mai tradotto in uno strumento giuridico effettivamente vincolante5. Esistono, per contro, alcuni atti internazionali a portata regionale che si sono sviluppati in due direzioni diverse. In primis, alcune OIG come l’OCSE hanno varato un “codice di buona condotta”. L’OCSE ha così elaborato, tra il 1976 e il 1979, delle “linee guida” rivolte sia agli Stati membri che alle imprese multinazionali6. Ma anche tali linee guida, sebbene siano state ulteriormente rinnovate nel 2011, sono rimaste uno strumento giuridico a carattere non vincolante nonostante la creazione dei PCN (punti di contatto nazionale – National Contact Point)i quali si propongono di assicurare la diffusione e la corretta attuazione alle Linee Guida, sia rispondendo alle domande degli interessati, sia attraverso iniziative di vario genere che facilitino il confronto, il dialogo e la collaborazione fra istituzioni (ivi inclusi i PCN di altri Paesi) del mondo economico e della “società civile”7.
Infatti, al di là delle belle intenzioni dei redattori, a causa delle profonde divergenze tra gli Stati membri, tali strumenti hanno continuato a ribadire l’idea che solo gli Stati sono i destinatari diretti degli obblighi di diritto internazionale nel campo dei diritti umani (inclusi i diritti sociali ed ambientali) evitando con cautela di fondare qualunque responsabilità internazionale delle multinazionali in senso tecnico giuridico. Pertanto, dopo cinquant’anni di dibattiti, non è stato possibile pervenire ad alcun risultato normativo cogente di diritto internazionale: meglio uno strumento giuridico a carattere vincolante (un trattato tra Stati) o invece meglio affidarsi a strumenti internazionali a carattere non vincolante? A ben vedere, le proposte di strumenti di soft law continuano ad eclissare qualunque proposta di strumento di regolazione internazionale di hard law. Un primo e famoso esempio di tali strumenti di soft law è il Global Compact. Nel 1999, presso il World Economic Forum di Davos, il Segretario Generale delle Nazioni Unite – a quel tempo – Kofi Annan, si è rivolto non agli Stati bensì, per la prima volta, direttamente ai leader dell’economia mondiale presenti all’incontro chiedendo loro di sottoscrivere con le Nazioni Unite un “Patto Globale”, al fine di affrontare in una logica di collaborazione gli aspetti più critici della globalizzazione. Si tratta quindi di un’iniziativa volontaria volta a conseguire l’adesione di ciascuna impresa a dieci principi fondamentali8 che promuovono i valori della sostenibilità nel lungo periodo attraverso azioni politiche, pratiche aziendali, comportamenti sociali e civili che siano responsabili e tengano conto anche degli interessi delle generazioni future. Pertanto, essendo finalizzato a perseguire un modello di economia globale sostenibile, tale “Patto” richiede alle imprese un maggiore rispetto dei diritti umani e del lavoro, della salvaguardia dell’ambiente e della lotta alla corruzione. Il Global Compact delle Nazioni Unite ha avuto una larga diffusione – oltre che aspre critiche da parte degli attivisti sui diritti umani – ed è, tuttora, l’iniziativa di “cittadinanza d’impresa” più diffusa giacché, da allora, vi hanno aderito oltre 18.000 imprese provenienti da 161 Paesi nel mondo9. La sanzione per le imprese che non rispettano i dieci Principi del Global Compact è il de-listing, ossia la radiazione dalla lista delle imprese “virtuose” visualizzabile su internet. Il ché ha un effetto dissuasivo in quanto si colloca nell’ambito delle cd. market sanctions.
Altra importante iniziativa che ha avuto la più ampia diffusione ed accettazione è quella che ha portato all’elaborazione dei Principi Guida dell’ONU sulle imprese e i diritti umani (UN Guiding Principles on Business and Human Rights) del 24 marzo 2011, i quali sono stati adottati all’unanimità dal Consiglio per i diritti umani dell’ONU. Detti principi si articolano su tre pilastri: i) l’obbligo dello Stato di tutelare i diritti umani contro gli abusi commessi (anche) dalle imprese; ii) la “responsabilità” delle imprese di rispettare i diritti umani e iii) l’obbligo di garantire una maggiore accessibilità a rimedi efficaci, di carattere giurisdizionale e non, per le vittime degli abusi. Tali Principi Guida costituiscono oggi lo standard di riferimento generalmente accettato (tanto dagli Stati, quanto dalle imprese) e prevedono un processo di recepimento a livello degli ordinamenti nazionali (e la creazione di un “piano di azione nazionale impresa e diritti umani”, come ha fatto l’Italia, il 1° dicembre 2016, al fine di gestire le relative politiche ad esso collegate10), nonché, in particolare, la trasformazione della CSR (cd. responsabilità sociale d’impresa – Corporate Social Responsibility) in un insieme di strumenti di prevenzione e minimizzazione del rischio di violazioni di diritti umani (cd. due diligence)11. In nome della due diligence le imprese devono effettuare una valutazione dei rischi prima di investire o di stipulare contratti, poi prendere ogni misura necessaria per ridurre questi rischi e prevedere strumenti a cui ricorrere in caso di violazione dei diritti umani. Si tratta di un’evoluzione che, a livello internazionale, si è sviluppata per rimediare agli scandali che hanno coinvolto imprese come la Shell nel Mare del nord, l’inquinamento della foresta amazzonica in Ecuador da parte della Chevron o, ancora, famosi imprenditori del tessile ed abbigliamento che producevano in condizioni di sfruttamento disumano, come testimonia il recente disastro di Rana Plaza in Bangladesh12. Perciò, alcune imprese hanno compreso il valore e i vantaggi di immagine che una seria politica di CSR comportano agli occhi dei consumatori. Sulla base dei Principi guida dell’ONU e sotto pressione dell’opinione pubblica, gli Stati occidentali hanno adottato delle leggi più vincolanti sulla responsabilità sociale e ambientale delle imprese e delle loro filiali. Si può citare l’esempio della Francia che adotta nel 2017 il dovere di vigilanza, includendo le relazioni dei gruppi francesi con tutti gli attori nella loro catena di produzione, permettendo il ricorso ai tribunali in caso di violazioni. Nel Regno Unito invece è il Modern Slavery Act del 2015 a dare un giro di vite sul lavoro forzato sul suolo britannico e nelle catene di approvvigionamento.
Il terzo pilastro dei Principi Guida, ossia l’obbligo di garantire una maggiore accessibilità a rimedi efficaci, di carattere giurisdizionale e non, per le vittime degli abusi non si è però (ancora) tradotto in una effettiva espansione della competenza giurisdizionale dei giudici statali salvo rare eccezioni. Al riguardo, una questione cruciale resta quella di determinare se le vittime di violazioni di diritti umani in un Paese in via di sviluppo possano rivolgersi al giudice dello Stato in cui ha sede la società holding in caso di violazioni commesse da una filiale nel Paese ospite dell’investimento. Per oltre trent’anni i giudici statunitensi decidendo sulla base, inter alia, dell’Alien Tort Statute o dell’Anti-Terrorist Act si sono dichiarati competenti a conoscere di tali azioni legali esercitando una vera e propria giurisdizione civile universale. Ma negli ultimi anni la Corte Suprema ha effettuato una clamorosa marcia indietro come evidenziano i casi Kyobel v. Royal Dutch Petroleum Co.13 e Jesner v. Arab Bank del 24 aprile 201814. Al livello dell’Unione europea, invece, nonostante gli auspici espressi durante i lavori di redazione del reg. Bruxelles I bis15, non si è pervenuti ad un efficace strumento di tutela dei diritti umani rispetto alle violazioni commesse dalle filiali di imprese stabilite in Stati terzi, né tale strumento ha previsto speciali titoli di giurisdizione universale o basati sul forum necessitatis16. Resta fermo ovviamente lo spazio di regolazione nazionale a scapito, però, dell’uniformità europea. Pertanto, e per limitarci solo all’esperienza giuridica della UE e degli Stati Uniti, il terzo pilastro dei Principi Guida ONU ha prodotto – per il momento – lo sviluppo progressivo di meccanismi non giurisdizionali di soluzione di tali tipi di controversie senza accedere al livello della competenza giurisdizionale (civile o penale) dei giudici dello Stato di origine di un’impresa transnazionale. Alla luce di tali sviluppi assai deludenti, durante la 26ª sessione del Consiglio dei Diritti Umani tenutasi a Ginevra nel giugno 2014, l’Ecuador e il Sudafrica hanno presentato una risoluzione al Consiglio diretta ad istituire un gruppo di lavoro intergovernativo con il mandato di elaborare un trattato giuridicamente vincolante sulle imprese multinazionali ed altre imprese commerciali in relazione ai diritti umani. Appare evidente che l’entrata in vigore di un siffatto trattato renderebbe obsoleti i Principi Guida dell’ONU del 2011, tant’è che il prof. John Ruggie, che ne fu il principale estensore, milita ancora una volta tra i più convinti avversari di tale strumento vincolante. Nonostante tali perplessità, il 16 luglio 2018 è stato presentato il “Draft Zero”17, ossia la prima bozza ufficiale dello strumento giuridicamente vincolante per regolare le attività delle multinazionali e di altre imprese che adesso passerà alla fase della negoziazione tra Stati. Lo scopo di tale trattato, come viene previsto all’art. 2, è quello di «rafforzare il rispetto, la promozione, la protezione e la realizzazione dei diritti umani» ed «assicurare un accesso effettivo alla giustizia e porre rimedio alle violazioni dei diritti umani» nel contesto delle attività delle imprese transnazionali, promuovendo la cooperazione internazionale in questo senso. L’art. 8 afferma il diritto delle vittime ad un «accesso equo, efficace e rapido alla giustizia e ai rimedi» conformemente al diritto internazionale, tra cui: la restitutio in integrum, il risarcimento, la non ripetizione, il risanamento ambientale ed il ripristino ecologico. A tal fine, gli Stati dovranno: i) garantire il diritto delle vittime di presentare reclami al proprio tribunale; ii) indagare sulle violazioni dei diritti umani e agire contro gli autori di tali illeciti; iii) fornire assistenza legale alle vittime; iv) istituire un fondo internazionale per le vittime; v) fornire meccanismi efficaci per l’applicazione dei rimedi; e vi) proteggere le vittime, i loro rappresentanti, le famiglie e i testimoni da interferenze illecite con la loro privacy e da intimidazioni e ritorsioni. Per quanto riguarda il controllo dell’applicazione delle norme contenute in tale progetto di Trattato, si prevede che sarà istituito un apposito comitato di esperti internazionali. Inoltre, gli Stati nell’attuazione del trattato (art. 15) dovranno prestare una particolare attenzione alle attività commerciali svolte nelle aree colpite da conflitti armati nonché ai soggetti sottoposti a rischi elevati di violazione dei diritti umani, come ad esempio donne, bambini, persone con disabilità, popolazioni indigene, migranti e rifugiati. Il trattato de quo non pare di contenuto rivoluzionario e qui sta, paradossalmente, la sua forza. La sua entrata in vigore, tuttavia, segnerebbe il passaggio dalla soft law alla hard law aumentando il livello di tutela effettiva dei diritti umani in rapporto alle attività delle imprese transnazionali. Inoltre, lungi dal cancellare la CSR e le soluzioni identificate dal secondo pilastro dei Principi ONU del 2011, incoraggerebbe le imprese a rafforzare le loro procedure di due diligence. In conclusione, se ampiamente ratificato, detto trattato darebbe maggiore forza vincolante ai Principi ONU del 2011 migliorando la coerenza delle leggi nazionali in materia (primo pilastro), inducendo le imprese ad affinare gli strumenti CSR di prevenzione e minimizzazione delle violazioni dei diritti umani (secondo pilastro) nonché, in caso di violazioni, dovrebbe contribuire a migliorare l’accesso alla giustizia da parte delle vittime dilatando la competenza giurisdizionale degli Stati contraenti (terzo pilastro). Ma la strada, al momento in cui scriviamo, appare ancora in salita.
1 In arg. cfr. Carreau, D.Marrella, F., Diritto internazionale, II ed., Milano, 2018, p. 36 ss. nonché, amplius, Marrella, F., Protection internationale des droits de l’homme et activités des sociétés transnationales, RCADI, vol. 385, 2017, pp. 33-435 ove riferimenti.
2 Su cui v. Di Blase, A., Il progetto NU di codice di condotta per le società multinazionali, in Giardina, A.Tosato, G.L., Diritto del commercio internazionale, Milano, 1996, p. 421 s.
3 Su cui v. Giardina, A., Le guidelines della Banca Mondiale sugli investimenti stranieri, in Giardina, A.Tosato, G.L., Diritto, cit., p. 459 s.
4 Cfr. www.ilo.org. In argomento cfr. Morgenstern, F., Déclaration tripartite dell’OIT sur les entreprises multinationales et la politique sociale. Nouveaux problèmes, nouvelles méthodes, in JDI, 1983, p. 61 s., nonché Maupain, F., «L’OIT, la justice sociale et la mondialisation», RCADI, 1999, p.45 ss. La Dichiarazione tripartita di principi sulle imprese multinazionali e la politica sociale e la Dichiarazione dell’ILO sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro sono i principali strumenti dell’OIL per orientare le imprese nell’assumere comportamenti responsabili in materia di lavoro. Per ragguagli v. il sito www.ilo.org.
5 Santa Maria, A., Il diritto internazionale dell’economia, in Carbone, S.M.Luzzatto, R.Santa Maria, A., a cura di, Istituzioni di diritto internazionale, Torino, 2016, V ed., p. 555 ss.
6 In arg. cfr. Fatouros, A., Les principes directeurs de l’OCDE à l’intention des entreprises multinationales: perspectives actuelles et possibilitées futures, in Etudes Pierre Lalive, p. 231 e ss.; Pagani, F., La revisione delle linee guida per le multinazionali dell’Ocse, in Dir. comm. int., 2000, p. 967 ss.
7 In Italia il PCN è stato istituito tramite la l. 12.12.2002, n. 273 (art. 39) e con un successivo decreto ministeriale. I PCN ricevono eventuali reclami riguardo condotte non rispettose delle linee guida OCSE e presentano dei rapporti periodici.
8 Aderendo al “Patto” ciascuna impresa si impegna a condividere, sostenere e attuare, all’interno della propria sfera di influenza, tali principi: «A) in materia di diritti umani: –1. ciascuna impresa deve sostenere e rispettare le norme internazionali in materia di diritti umani; – 2. ciascuna impresa deve assicurarsi di non essere corresponsabile nelle violazioni dei diritti umani; B) in materia di lavoro: – 3. ciascuna impresa deve sostenere la libertà di associazione e il riconoscimento dei diritti di contrattazione collettiva; – 4. ciascuna impresa sostiene l’eliminazione di tutte le forme di lavoro forzato e obbligatorio; – 5. ciascuna impresa sostiene l’abolizione del lavoro minorile; – 6. ciascuna impresa sostiene l’eliminazione delle discriminazioni in materia di lavoro e occupazione; C) in materia di ambiente: – 7. ciascuna impresa applica il principio di prevenzione nelle sfide ambientali; – 8. ciascuna impresa intraprende delle iniziative per la promozione della responsabilità ambientale; – 9. ciascuna impresa incoraggia lo sviluppo e la diffusione di tecnologie ecocompatibili; D) in materia anticorruzione: – 10. ciascuna impresa deve lottare contro la corruzione in tutte le sue forme».
9 Ragguagli in Marrella, F., Protection internationale des droits, cit., pp. 33-435, nonché al sito www.unglobalcompact.org.
11 Per approfondimenti si rinvia a Marrella, F., Lex mercatoria e diritto del lavoro, in Riv. giur. lav. e prev. soc., 2015, p. 691 ss., nonché Id., Protection internationale des droits, cit., pp. 33-435 e riferimenti ivi cit.
12 V. ad es. WernerLobo, K., Il libro che le multinazionali non ti farebbero mai leggere, Roma, 2009 o ancora Gallino, L., L’impresa irresponsabile, Torino, 2005.
13 569 U. S. 108. Cfr. Bucher, A., «La compétence universelle civile», RCADI, 2015, v. 372, p.21 ss. ed in Marrella, F., Protection internationale des droits de l’homme et activités des sociétés transnationales, cit., pp. 33 ss.
14 https://supreme.justia.com.
15 Regolamento (UE) n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12.12.2012 , concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, in GUUE L 351, 20.12.2012, p. 132.
16 Ragguagli in Marrella, F., op. loc. ultt. citt., nonché al sito www.unglobalcompact.org.
17 www.ohchr.org.