IMPRESSIONISMO
− Il termine i., che talvolta si trova usato per taluni aspetti dell'arte dell'antichità, è entrato nell'uso della critica artistica nel 1874 a seguito della mostra organizzata da un gruppo di pittori antiaccademici riuniti nella Société anonyme des peintres sculpteurs et graveurs (C. Monet, A. Sisley, A. Renoir, E. Degas e altri). La mostra fu recensita da L. Leroy, critico del giornale Charivari, con un articolo dal titolo, intenzionalmente derisorio, Exposition des impressionnistes, che prendeva lo spunto da un quadro di Claude Monet presentato dall'artista come Impression: soleil levant. Il nome di impressionisti fu poi assunto dagli artisti stessi.
Questi, partendo da una concezione veristica, si proponevano appunto di fissare sulla tela le impressioni coloristiche ottiche ed emotive che la natura dava all'artista in un determinato momento e ciò mediante una pittura rapida, abbreviata, che desse l'illusione ottica e soprattutto luministica della realtà. Tale pittura apparve quale cosa nuova nella tradizione della pittura europea e soprattutto scandalizzò i tradizionalisti per il suo sprezzo verso la forma curata, levigata, verso il chiaroscuro ottenuto mediante velature, il disegno anatomicamente corretto per la figura e analitico per il paesaggio, che costituivano i capisaldi del "buon dipingere" invaso nell'insegnamento delle accademie pittoriche della metà dell'Ottocento. Un elemento non trascurabile, per tacere qui delle implicazioni sociali di tale pittura, è che la forma e la qualità pittorica divengono nettamente prevalenti sul soggetto, che perde ogni interesse e ogni valore gerarchico. I pittori impressionisti sostenevano di rifarsi a modelli di tecnica pittorica scorti nelle opere di Frans Hals, del Velàzquez, del Tiepolo, del Goya o addirittura nella maniera tarda di Tiziano. In realtà operarono quella svolta decisiva dalla quale sono conseguite tutte le altre successive problematiche dell'arte contemporanea.
Che una tecnica "impressionistica" fosse esistita anche nella pittura dell'antichità, e anche in quella fosse avvenuto il passaggio da una pittura con chiaroscuro plastico retto dal disegno a una forma più liberamente coloristica, abbreviata e ottenuta con rapide pennellate e con l'accostamento dei massimi chiari ai massimi scuri senza passaggi di tonalità intermedie, fu osservato da F. Wickhoff (v.) che fu uno dei primi storici dell'arte in cattedra che si interessasse al nuovo movimento della pittura a lui contemporanea. E questo interesse ebbe notevole parte nella nuova impostazione che egli intese dare alla storia dell'arte romana, alla quale attribuì l'ingresso, nell'arte antica, di quello che egli chiamò "illusionismo pittorico", considerandolo "stile nazionale romano": asserzione, questa, oggi vivamente controbattuta (v. illusionismo; romana, arte).
Il Wickhoff osserva che "l'apparenza nella quale si manifestano gli oggetti non ha nulla a che fare con l'artificiosa e minuta analisi della loro forma, ma che un corpo, veduto nella casualità della illuminazione e dei colori che esso presenta, non mostra affatto una forma continua modellata come lo mostra un rilievo di gesso illuminato artificialmente nella scuola di disegno, ma che la sua immagine si compone di valori di luce diversi, che si giustappongono, e risulta dai riflessi fisiologici che ne derivano sull'occhio, e che quindi l'immagine che un oggetto ci mostra non è simile a un rilievo dolcemente modellato, ma è costituita da macchie poste una accanto all'altra e da punti di diversa colorazione e di diversa luminosità, che non costituiscono una forma continua, ma dal cui insieme ricaviamo la nozione di forme determinate solo in base a impulsi mnemonici incoscienti; e che, soprattutto, non tutti gli oggetti di una immagine sono percepiti nello stesso tempo con la stessa nitidezza, ma solo quelli che noi fissiamo con lo sguardo, mentre gli altri, che stanno più indietro o più in avanti, si perdono in forma e in contorni più o meno sfuocati, e tutto ciò anche senza tener conto dell'abbassamento di tono prodotto dall'atmosfera che vi sta posta frammezzo. Sicchè la forma non è tanto modellata e descritta col pennello, quanto, come avviene nell'atto del guardare, suggerita dall'azione mnemonica dello spettatore".
Il termine i. non fu tuttavia usato dal Wickhoff per l'arte antica, ma fu applicato ad essa solo più tardi, verso gli anni venti del secolo corrente. (Esso manca ancora nell'opera di E. Pfuhl, Malerei und Zeichnung der Griechen, Monaco 1923). Lo si trova specialmente collegato col problema della pittura "compendiaria" (v. pittura). Più tardi fu usato anche per la scultura ellenistica, ma soprattutto per certi aspetti del bassorilievo di età flavia e traianea nel quale si manifestano aspetti di pittoricismo, cioè forme accennate anzichè del tutto plasticamente eseguite, che si completano per mezzo dell'effetto ottico prodotto dallo sbattere della luce sulla superficie plastica. In seguito il termine i. fu usato particolarmente per l'arte del III sec. d. C., dove esso si accompagna sovente a ciò che fu detto espressionismo (v.), sia nella scultura, sia nella pittura. Di questa, i resti più numerosi si trovano conservati, per questa età, nelle catacombe (v.), il che poté condurre alla erronea opinione che l'i. fosse una caratteristica specifica dell'arte cristiana, mentre lo si trova indistintamente in tutte le manifestazioni pittoriche del tempo.
La correttezza dell'uso di questo termine nell'arte antica può esser posta in discussione; e certo è bene non abusarne. L'uso ne è ammissibile soltanto come un termine tecnico, col quale si intende una forma pittorica sciolta, che suggerisce l'aspetto delle cose mediante la macchia anziché mediante il disegno e il chiaroscuro degradante, restando sempre ben chiaro che la problematica complessiva resta sostanzialmente diversa nell'arte antica da quella dell'i. moderno (v. tavole a colori).
Bibl.: F. Wickhoff, Die Wiener Genesis, Vienna 1895, introduzione ristampata col titolo Römische Kunst, Berlino 1912, p. 135 (passo riportato); traduz. italiana, L'Arte Romana, Venezia 1949, p. 156.