impronta ecologica
Strumento che permette di stimare l’impatto, in termini di consumo di risorse e accumulazione di rifiuti, delle attività economiche di produzione o di consumo di un individuo o di una collettività. Può quindi essere visto come un possibile contributo verso il superamento del prodotto interno lordo quale unica misura di sviluppo economico.
Il metodo, originariamente formulato da M. Wackernagel e W.E. Rees (Our ecological footprint, 1996), mette in relazione le quantità di beni e servizi prodotti e consumati con la porzione di territorio necessaria a garantire la disponibilità delle risorse naturali essenziali alla produzione di tali beni e servizi e allo smaltimento dei connessi rifiuti. Quindi, per es., l’i. e. di un Paese sarà data dalla superficie di territorio (terra e acqua) che è necessaria a fornire le materie prime e l’energia per la produzione dei beni e servizi consumati in tale Paese, oltre a quella necessaria ad assorbire tutti gli scarti che ne derivano.
L’i. e. può essere considerata come complementare al concetto di capacità di carico (carrying capacity), intesa come il massimo di popolazione di una certa specie che un determinato territorio può sopportare senza che venga permanentemente compromessa la produttività del territorio stesso. Mettendo a confronto i. e. e capacità di carico relativa alla popolazione umana in un determinato territorio, si può ottenere un’indicazione del grado di sostenibilità delle attività produttive e di consumo in quel territorio. Una grandezza collegata alla capacità di carico è la cosiddetta biocapacità, utilizzata dal WWF come unità di misura delle capacità di rigenerazione di una determinata area.
Si ottiene sommando le i. e. di tutti i beni o servizi prodotti e/o consumati in un dato territorio. A sua volta, l’i. e. di ciascun bene o servizio è data dal prodotto tra il relativo consumo (per es. espresso in kg) e un fattore di conversione (per es. ha/kg) che indica quanti ettari di terreno sono necessari per produrre una unità del bene o servizio preso in considerazione. Un discorso simile vale per gli impatti non legati al prelievo fisico di risorse ma alle emissioni di rifiuti e sostanze inquinanti. In questo caso il fattore di conversione informa su quanto terreno è necessario per assorbire l’inquinamento emesso dalla produzione di ciascuna unità del bene o servizio. Il metodo è ovviamente più complesso di quanto qui presentato (per es., è indispensabile considerare anche i flussi derivanti dalle importazioni e dalle esportazioni, dal momento che non tutti i beni prodotti in un dato territorio sono consumati nella stessa area) e soffre di importanti limitazioni, che hanno portato nel tempo a sue modifiche ed estensioni (una trattazione approfondita è disponibile nella rivista «Ecological Economics»).
Il WWF utilizza dal 2000 l’i. e. nel suo rapporto biennale Living Planet Report (http://www.wwf.it/lpr2010.sh). Nel rapporto del 2010 il confronto tra l’i. e. e la biocapacità della Terra e dei diversi Paesi, misurate in ‘ettari globali’ (gha), porta a conclusioni preoccupanti. La misura dell’i. e. mondiale più recente (2007) risulta essere pari a 2,7 gha pro capite, mentre la biocapacità della Terra è pari a 1,8. I Paesi a più elevato impatto risultano essere gli Stati membri OCSE, ma i Paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) sembrano in rapido recupero. Questi risultati negativi sono confermati per l’Italia, caratterizzata da un’i. e. di 5 gha pro capite a fronte di una biocapacità di appena 1,1 gha pro capite. Questi numeri suggeriscono, con tutte le cautele del caso, forti dubbi in merito alla direzione intrapresa per garantire la sostenibilità dello sviluppo economico.
Alessio D’Amato