Abstract
In ambito investigativo e processuale la corretta individuazione dei parlatori assume una importanza crescente, stante anche la diffusione di dispositivi per la comunicazione a distanza e l’incremento di tecniche che hanno come obiettivo quello di rendere anonima l’identità. La cautela della comunità scientifica sull’attitudine identificativa della voce non sembra, tuttavia, correttamente percepita dalla giurisprudenza, che si mostra sempre più spesso incline ad un impiego disinvolto del riconoscimento vocale.
Nonostante si tratti di una caratteristica biometrica fondamentale a livello investigativo, grazie anche alla tendenzialmente ampia disponibilità di materiale utile a fini identificativi, la voce è variabile e tale variabilità non si presenta solo a livello interindividuale – cioè da persona a persona – ma anche a livello intraindividuale. La voce di un medesimo individuo, infatti, subisce variazioni in forza di una molteplicità di fattori (Albano Leoni, F.-Maturi, P., Fonetica sperimentale e fonetica giudiziaria, in Giust. pen., 1991, I, 316). Alla variabilità a breve termine, cioè connessa a situazioni contingenti – lo stato d’animo, lo stato di salute, il fumo di una sigaretta, l’assunzione di una bevanda – si affianca una variabilità a lungo termine, perché la voce cambia nel tempo. Determinante è poi il canale di trasmissione, perché la voce di un medesimo individuo è soggetta a modifica ove veicolata, ad esempio, da un telefono cellulare. Siamo al cospetto, dunque, di un «bioindicatore dotato di una capacità “caratterizzante” imperfetta» (Biral, M., L’identificazione della voce nel processo penale: modelli, forme di accertamento, tutela dei diritti individuali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2015, 1842 s.) non solo perché, a differenza di una impronta digitale o genetica, non è immutabile, ma anche in considerazione del fatto che non possiede caratteristiche sufficientemente univoche da consentire sempre e comunque la distinzione di una persona da un’altra (Nobile, E., Le comparazioni vocali, in AA.VV., La prova tecnica nel processo penale, Milano, 2016, 138). Oltre a non sussistere un preciso limite che imponga di non utilizzare il materiale sonoro che superi alcuni limiti qualitativi (Paoloni, A., Le indagini foniche, in www.ording.roma.it, 5), a differenza degli accertamenti aventi ad oggetto le impronte digitali, in materia di riconoscimento vocale non esiste neppure «una soglia limite superata la quale il livello di compatibilità possa considerarsi un valore tendenzialmente assoluto»; in altri termini, in questo settore, «la compatibilità è sempre un valore relativo» (Chimichi, S., Profili giuridici del riconoscimento del parlante, in Conti, C., a cura di, Scienza e processo penale. Nuove frontiere e vecchi pregiudizi, Milano, 2011, 386).
Non vi è dubbio, pertanto, che allo stato attuale l’indagine fonica non restituisca risultati paragonabili in termini di certezza a quelli conseguibili attraverso l’accertamento dattiloscopico. La cd. impronta vocale è, pertanto, un obiettivo della ricerca scientifica applicata in ambito investigativo. Un obiettivo che è perseguito per l’individuazione dell’insieme delle caratteristiche che conferiscono alla voce un’autentica attitudine identificativa, per il tramite di un «unicum idoneo a superare la dinamicità del fenomeno vocale» (Alesci, T., Il corpo umano fonte di prova, Padova, 2017, 99) (si veda Corpo dell'imputato fonte di prova).
Esiste una bipartizione fondamentale relativamente ai metodi per l’attribuzione dell’identità a partire dalla voce (La Regina, K., L’identificazione della voce nel processo penale, Padova, 2018, 77). Innanzitutto viene in rilevo il metodo soggettivo, ovvero la tecnica che sfrutta la capacità di ciascun individuo di riconoscere una persona sentendola parlare. I metodi generalmente utilizzati si possono fondare (Paoloni, A., Le indagini, cit., 6) sul reiterato ascolto, da parte di un esperto, di campioni di voce al fine di individuare eventuali elementi di natura linguistica, fonatoria o acustica comuni alle due voci. Queste ultime possono essere ascoltate sia in sequenza sia alternativamente a discrezione dell’operatore che, sulla base degli elementi recepiti, esprimerà un giudizio sulla attribuzione o meno ad uno stesso parlatore delle voci ascoltate. Una ulteriore tecnica si basa sul confronto delle voci effettuato da una squadra di ascoltatori, anche non esperti. Il materiale fonico in questo caso è costituito da un insieme di voci comprendenti la voce da identificare, le voci sospette ed eventualmente alcune voci estranee prelevate da parlatori aventi caratteristiche fonatorie simili a quelle delle voci in esame; si formano così dei test vocali costituiti da coppie di frasi ottenute raggruppando due a due, in tutte le possibili combinazioni, le voci dell’insieme. Ciascun operatore dopo l’ascolto di ogni coppia dovrà esprimere un giudizio di attribuzione o meno delle voci a uno stesso parlante. La principale obiezione che si muove contro l’impiego di questi tipi di tecniche in ambito forense «è proprio la loro soggettività: i risultati ed i giudizi che da esse derivano, non possono essere quantificati con delle metriche riproducibili ed indipendenti dal soggetto che li ha espressi» (Bove, T.-Giua, P.E.-Forte, A.-Rossi, C., Un metodo statistico per il riconoscimento del parlatore basato sull’analisi delle formanti, in Statistica, LXII, n. 3, 2002, 479).
I metodi cd. oggettivi, invece, fondano l’identificazione sulla base di analisi strumentali del segnale acustico. In questo contesto si distingue ulteriormente tra metodi automatici e semi-automatici a seconda che si effettui esclusivamente ricorso ad un software per confrontare i campioni vocali oppure sia necessario l’intervento di un esperto per selezionare il materiale, controllare e valutare i risultati. Quanto al tipo di comparazione effettuata, in campo internazionale si suggerisce di procedere valutando il rapporto tra la probabilità che i campioni siano riconducibili alla medesima persona e la probabilità che appartengano a soggetti diversi (Grimaldi, M.-D’Apolito, S.-Gili Fivela, B.-Sigona, F., Illusione e scienza nella fonetica forense: una sintesi, in Mondo digitale, 2014, 4). Si tratta di un approccio di tipo bayesiano che non restituisce una percentuale di compatibilità ma un rapporto di verosimiglianza, il cd. likelihood ratio (LR), ovvero un rapporto tra la probabilità che i campioni confrontati appartengano al parlante e la probabilità che appartengano a soggetti diversi (Paoloni, A., op. cit., 10).
Lo spettrografo fu il primo strumento ad essere impiegato nel laboratorio di fonica del Racis, costituito intorno agli inizi degli anni Ottanta, soprattutto per procedere ad una azione di contrasto dei sequestri di persona e del terrorismo eversivo. La analisi spettrografica – un tempo ampliamente utilizzata in campo internazionale soprattutto a seguito della formulazione da parte di Kersta (Kersta, L.G., Voiceprint identification, in Nature, 1962, 1253 ss.) e Tosi (Tosi, O., Voice identification. Theory and legal applications, Baltimore, 1979, passim) di ipotesi di riconoscimento e di identificazione del parlatore attraverso prove strumentali basate sul trasferimento in un foglio di carta termosensibile delle caratteristiche fisiche della voce – si basava sulla asserita similitudine tra impronte digitali ed impronte vocali e sul fatto che i sonogrammi permettono di individuare le somiglianze tra voci attraverso una comparazione visiva dei tracciati. I limiti di questa metodica, tuttavia, erano decisamente consistenti. A venire in rilievo, innanzitutto, era la variabilità intraparlatore e cioè il fatto che una stessa parola pronunciata in tempi diversi dal medesimo individuo può dar luogo a differenti rappresentazioni grafiche. In secondo luogo, l’impiego ad uso forense dello spettrografo risultava fortemente condizionato dalla necessità di acquisire un saggio fonico dell’indagato che non solo recasse le stesse frasi del campione di voce anonima ma che ricreasse anche le stesse condizioni ambientali presenti al momento in cui era stata registrata la voce.
Alla luce di queste forti limitazioni, che peraltro hanno condotto l’International Association for forensic phonetics and acoustic a raccomandare di non fare ricorso al metodo spettrografico in ambito giudiziario (IAFPA Resolution, UK, 24th July 2007), l’investigazione fonetica, almeno fino agli anni Novanta, si è concentrata su forme di riconoscimento basate su esami linguistici. Questi consistevano in:
a) prove di ascolto basate sulla ripetizione delle stesse frasi;
b) esami fonetici condotti per capire le caratteristiche della pronuncia;
c) esami lessicali effettuati per comprendere il tipo di registro linguistico usato;
d) esami prosodici, attraverso i quali si analizzano la cadenza e la velocità delle parole.
Nonostante risultino ancora largamente utilizzati, il freno all’impiego investigativo di questa tipologia di esami è rappresentato dalla lunghezza del tempo occorrente per gli accertamenti e dal fatto che l’operatore deve necessariamente conoscere la lingua o il dialetto in cui la voce da riconoscere si esprime.
A partire dagli anni Novanta, e ancora oggi, il metodo più diffusamente impiegato per il riconoscimento del parlatore è il cd. metodo parametrico cioè una tecnica basata sull’estrazione, dai campioni di voce posti a confronto, di particolari parametri acustici – la frequenza fondamentale (FF0) e le formanti (FF1, FF2, FF3, FF4) – che per le loro «intrinseche caratteristiche di robustezza, poca variabilità inter-parlante e buona misurabilità» vengono utilizzati ai fini dell'identificazione del parlatore (Federico, A.-Paoloni, A., Riconoscimento del parlante, in I quaderni di Teléma, 2007, suppl. al n. 250, 50).
Nonostante il progressivo ricorso a tecniche di riconoscimento automatico, resta il fatto che, allo stato attuale della conoscenza, anche le più sofisticate metodologie non utilizzano, al fine del riconoscimento del parlante, tutte le caratteristiche di una voce; caratteristiche – talvolta decisive ai fini dell’identificazione – che, invece, possono essere valutate mediante la percezione di un ascoltatore. Per questa ragione, è attualmente prevalente l’inclinazione all’impiego combinato di metodi soggettivi ed oggettivi di riconoscimento (Paoloni, A.-Todisco, M., Calcolo del rapporto di verosimiglianza tra parlanti in prove soggettive di ascolto, in www.aisv.it, 417).
Notevoli, ad ogni modo, sono le possibili evoluzioni della materia. Tra queste si segnala il progetto di biometria vocale dell’Arma dei Carabinieri, esposto dal Generale Angelo Santo in occasione della conferenza sulla «Biometrica vocale nelle investigazioni» (Roma, 13 luglio 2017). Si tratta di un programma articolato su tre fasi. La prima fase ha comportato l’individuazione di alcuni nuclei investigativi che verranno dotati di sistemi di riconoscimento cd. 1 a molti; ottenuto un risultato di score in tutto simile a quello che restituisce l’AFIS (ad esempio: l’impronta vocale somiglia a quella di cinque persone), si passa il risultato al Ris competente per territorio. Questo ha in dotazione un sistema che procede ad effettuare il confronto 1 ad 1 e, dunque, ad indicare quale tra le voci selezionate sia quella ricercata.
La seconda fase, che si svilupperà nel corso del prossimo biennio, è finalizzata alla condivisione dei dati e alla verifica delle modalità di interscambio; si pensa alla creazione di una repository centrale presso il Ris di Roma nella quale convogliare e depositare tutte le impronte vocali che sono tratte dalle singole attività. Il Ris di Roma dovrà mettere a disposizione i dati a favore degli altri reparti.
L’obiettivo ultimo del progetto, la terza fase, prevede il coinvolgimento delle altre forze di polizia per l’adozione delle impronte vocali come ulteriore mezzo di identificazione personale e, dunque, la creazione di una banca dati da adottare secondo il modello giuridico già previsto per la banca dati del DNA.
Nonostante le prospettive aperte dalla ricerca tecnologica possano lasciar presagire importanti sviluppi nel campo dell’indagine fonica e della identificazione vocale, sul settore sembra incombere un’ipoteca di non poco momento che investe il tema della formazione degli esperti. Innanzitutto, a differenza di quanto accade in altri Paesi, come in Inghilterra e negli Stati Uniti, non c'è una disciplina di linguistica forense in Italia e non esiste neppure un albo dei periti fonici. Non sorprendono, dunque, i risultati di una ricerca condotta in materia (Romito, L.-Galatà, V., Speaker recognition: stato dell’arte in Italia, valutazione dei corpora, dei metodi e delle professionalità coinvolte, in Scienze vocali e del linguaggio, III, Rimini, 2007, 223) dai quali emerge una grande varietà nel percorso di formazione degli esperti (statistica, ingegneria, medicina, lettere) ed un consequenziale approccio profondamente diverso nell’accertamento dell’identità. Dalla ricerca, e a partire dall’assenza di una disciplina di riferimento, emerge anche tanta approssimazione nella cd. speaker identification, perché – sul campione di esperti intervistati – accanto a coloro che non lasciano comprendere il metodo utilizzato per la perizia, l’11% dei soggetti consultati utilizza, per l’identificazione, il confronto tra sonogrammi che, come evidenziato in precedenza, è dichiaratamente considerato un metodo inaffidabile a livello internazionale e, dunque, non utilizzabile a fini processuali; emerge anche un 13% che utilizza il solo metodo auditivo, la cui affidabilità è fortemente limitata dalla già sottolineata dose di soggettivismo che lo caratterizza. Emerge anche che laddove si utilizzi il metodo parametrico, ritenuto il più affidabile, la mancanza di solide basi culturali, possa rendere profondamente incerti i risultati dell’identificazione. Nella ricerca si riporta come esempio una perizia fatta dinanzi al tribunale di Perugia in cui è stato utilizzato per l’esecuzione dell’accertamento il software Voicenet, effettuando la comparazione tra una voce anonima, di durata 1,76 secondi, e una voce nota, di durata di 1,91 secondi. Tuttavia il manuale di questo software spiega che per effettuare una comparazione tra voci che abbia una valenza scientifica è necessario che i secondi ascoltati o analizzati siano almeno 16 e che la voce da comparare sia lunga almeno 96 secondi. In altri termini, pur se il metodo è scientificamente riconosciuto come valido, la gestione del metodo condiziona inesorabilmente l’attendibilità del risultato.
Alla luce di queste considerazioni non può non rilevarsi come il primo e più serio investimento in materia di identificazione del parlatore andrebbe effettuato nel campo della formazione, con il supporto delle associazioni scientifiche che, come accade in altri Paesi, dovrebbero coadiuvare l’azione degli esperti predisponendo apposite risoluzioni e linee guida, di ausilio anche per l’attività di controllo del giudice, da esplicare non solo sulle metodologie impiegate per l’accertamento ma anche, e prima ancora, sulla qualificazione dell’esperto da chiamare per effettuarlo.
Accanto alla perizia, il legislatore ha delineato un ulteriore itinerario funzionale all’ingresso dell’identificazione vocale sulla scena del processo, annoverando la voce tra le percezioni sensoriali suscettibili di ricognizione. L’introduzione dell’art. 216 c.p.p. ha colmato una lacuna rispetto al codice previgente, cristallizzando la tendenza giurisprudenziale ad affermare l’ammissibilità di ricognizioni diverse da quelle personali (Cass. pen., sez. II, 27.7.1984, Pritignano, in Cass. pen., 1985, 1177) attraverso il ricorso all’interpretazione analogica (Melchionda, A., sub art. 216 c.p.p., in Comm. c.p.p. Chiavario, II, Torino, 1990, 552).
Dal punto di vista delle finalità, la ricognizione vocale non si differenzia dall’omologo utilizzabile per riconoscere il volto, l’aspetto di una persona (art. 213 c.p.p.); l’obiettivo, infatti, è sempre quello di far emergere una identità, ancorché sia diverso il contrassegno utilizzato per risalire al “riconoscendo” e «l’abilità impiegata dal ricognitore» per procedere all’identificazione, che è l’udito anziché la vista (Biral, M., L’identificazione della voce, cit., 1852). Tuttavia, la scelta di procedere ad una consistente riduzione del «tasso di tipicità» (Felicioni, P., Riconoscimento vocale condotto dalla polizia giudiziaria, in Scalfati, A., a cura di, Le indagini atipiche, Torino, 189) dello strumento disciplinato dall’art. 216 c.p.p. rispetto alla ricognizione di persone (213 c.p.p.), se è da ritenere rispondente ad intuibili difficoltà di tipizzazione delle modalità esecutive, ha inesorabilmente prestato il fianco a disinvolture interpretative che si nutrono dell’assenza di precise coordinate operative in materia di riconoscimento vocale.
Di certo c’è che, ai fini dell’assunzione del mezzo di prova, «non si richiede una valutazione desunta da canoni tecnico-scientifici» ma più semplicemente un apprezzamento «permeato di soggettivismo» (Melchionda, A., sub art. 216 c.p.p., cit., 553) il quale, in una maniera non troppo dissimile rispetto ai già esaminati metodi soggettivi di riconoscimento del parlatore (cfr., supra, § 2.1), limita l’ambito di esercizio di un effettivo contraddittorio che risulta esplicabile non tanto sul risultato, quanto piuttosto sulla attendibilità del ricognitore (cfr., Chimichi, S., Profili giuridici, cit., 384). Si tratta di un profilo, che in ultima analisi evoca un limite di contenuta attendibilità intrinseco al mezzo di prova ricognizione, che è sistematicamente agganciato al recupero di una percezione sensoriale. Tuttavia, mentre in materia di ricognizioni personali il legislatore si è preoccupato di definire il rapporto tra cadenze acquisitive e attendibilità del risultato, indicando un percorso funzionale a contenere il rischio di errori nel riconoscimento (art. 214 c.p.p.), in materia di riconoscimento vocale, e più in generale rispetto alle «altre ricognizioni» (art. 216 c.p.p.), l’unico percorso di salvaguardia è tracciato con riferimento alle operazioni da compiere per sondare l’attendibilità del ricognitore. L’applicabilità delle disposizioni dettate in materia di atti preliminari alla ricognizione (art. 213 c.p.p.), in quanto compatibili, non consente, tuttavia, di neutralizzare l’elevatissimo tasso di soggettivismo connaturato all’operazione; ferma l’incidenza inquinante di una previa individuazione o di una ulteriore occasione di ascolto della voce successiva al fatto per cui si procede, il ricognitore – che in questa fase deve essere invitato dal giudice a descrivere la voce da riconoscere, indicando tutti i particolari che ricorda – rievocherà le proprie impressioni uditive attraverso il ricorso a descrizioni – voce bassa, stridula, profonda, acuta, baritonale e così via – difficilmente decodificabili attraverso parametri oggettivi e, in quanto tali, verificabili.
Nulla, poi, è disposto con riferimento alle modalità acquisitive del risultato probatorio, con la conseguenza di lasciare aperta la possibilità di derogare allo schema esecutivo tipico delle ricognizioni di persone (art. 214 c.p.p.) o di cose (art. 215, co. 2, c.p.p.) che fa leva proprio sul giudizio comparativo per scongiurare il rischio di distorsioni e di mistificazioni connesso alla rievocazione richiesta. Certamente, ove si faccia leva sul fatto che l’essenza della ricognizione riposa non solo sulla stimolazione di un ricordo ma anche «nella sua messa alla prova tramite il confronto con quid simili a quello da riconoscere» (Cavini, S., Le ricognizioni e i confronti, Milano, 2015, 100), pur nel silenzio normativo, l’unico percorso acquisitivo concepibile è quello basato sulla comparazione di voci che presentino caratteristiche simili a quella oggetto di riconoscimento. Il tenore letterale dell’art. 216 c.p.p. – e soprattutto l’espresso riferimento solo al terzo comma dell’art. 214 c.p.p. – suggerisce, tuttavia, la volontà di svincolare il riconoscimento non soltanto da modalità esecutive predeterminate ma, più specificamente, proprio da quel giudizio di comparazione che – laddove si controverta di voci, suoni, odori e qualunque altra percezione sensoriale – può risultare di difficile esecuzione, proprio in virtù della difficoltà di una aprioristica decodificazione della similitudine, o comunque impraticabile quantomeno nelle esatte scansioni disegnate dal legislatore data la peculiarità dell’oggetto del riconoscimento; così, ad esempio, è chiaro che anche laddove si proceda ad un esame vocale di tipo comparativo non è immaginabile procedere ad un contemporaneo ascolto dei campioni messi a confronto. Nella disciplina del mezzo di prova si scorge, pertanto, quella «atipicità interna» (Dominioni, O., La prova penale scientifica, Milano, 2005, 109; Bontempelli, M., La ricognizione, in Ferrua, P.-Marzaduri, E.-Spangher, G., a cura di, La prova penale, Torino, 2013, 523), che risulta evocata anche nella Relazione al Progetto preliminare del codice (in Gazz. Uff., 24.10.1988, serie generale, n. 250, 65) quando, rispetto all’art. 216 c.p.p., si «sottolinea l’inevitabilità di particolari accorgimenti nel modus procedendi che il giudice dovrà fissare prima del compimento della ricognizione, ispirandosi ai criteri enunciati dall’art. 189 c.p.p., applicabile in via analogica ad un mezzo di prova che conosce solo una semiplena regolamentazione del dettato legislativo».
Dalla atipicità interna al mezzo di prova alla disinvoltura interpretativa, tuttavia, il passo è breve e, quando si tratta dell’impiego processuale di un risultato probatorio connesso al riconoscimento di una voce, diventa brevissimo. Così, ad esempio, laddove si tratti di acquisire un saggio fonico dall’indagato per consentire l’esecuzione di una perizia, non paiono esistere limiti, divieti o questioni inerenti alla tutela della libertà morale dell’interessato. Sul punto è emblematica, tra le molte, la decisione che, muovendo dal presupposto secondo cui il divieto di controllo auditivo dei colloqui dei detenuti con i congiunti è finalizzato a garantire la riservatezza dei contenuti di detti colloqui, ha ritenuto consentita la registrazione fonetica delle voci degli interlocutori e, dunque, utilizzabile la consulenza fonica del p.m. con cui si era effettuata la comparazione tra la voce risultante da comunicazioni telefoniche oggetto di intercettazione e la voce dell’imputato registrata durante il colloquio (Cass. pen., sez. VI, 28.11.2008, n. 3932, in CED rv. 242524, Martinelli). Non meno significativa è, poi, la pronuncia con cui – a fronte del rifiuto dell’imputato di fornire un saggio fonico – è stata ritenuta legittima l’utilizzazione della sua voce registrata nel corso di una conversazione telefonica con il suo difensore, a nulla rilevando l’illegittimità di detta registrazione (Cass. pen., sez. II, 18.1.1993, n. 2611, in CED rv. 193579, Bergamaschi).
In questo campo, inoltre, non è infrequente trovarsi di fronte a vere e proprie scorciatoie probatorie e a motivazioni di provvedimenti giudiziari del tutto insoddisfacenti, che non tengono nella giusta considerazione i principi fondamentali in materia di prova. Sul punto, basta prendere le mosse dalle affermazioni della giurisprudenza di legittimità in materia di cd. riconoscimento informale, cioè effettuato nel corso della testimonianza, bypassando il ricorso allo strumento disciplinato dall’art. 216 c.p.p. Si afferma, in particolare, che ai fini dell’identificazione il giudice può utilizzare le dichiarazioni di colui che abbia asserito di aver riconosciuto la voce dell’imputato quando sia accordata attendibilità alla deposizione del testimone che, avendo ascoltato la voce dell’imputato, afferma di identificarlo con sicurezza. Ove si tratti, poi, di un riconoscimento vocale effettuato dagli ufficiali o dagli agenti di polizia giudiziaria addetti all'ascolto delle intercettazioni l’approccio diventa autenticamente “fideistico”, tanto che è proprio in relazione a siffatte modalità di identificazione che si è consolidato l’orientamento teso ad escludere – qualora sia contestata l’identificazione – la necessità di disporre perizia fonica (Cass. pen., sez. VI, 28.2.2012, n. 18453, in CED rv. 252712, Cataldo).
Colpisce la disinvoltura dell’operazione interpretativa, non nuova invero sulla scena delle ricognizioni. La prassi dei riconoscimenti informali, infatti, è ben radicata in materia di identificazione personale con la differenza, tuttavia, che in quel contesto ci si preoccupa quantomeno di giustificare l’ardimento ermeneutico tentando di inquadrare il riconoscimento a forma libera nel principio di non tassatività dei mezzi di prova (art. 189 c.p.p.) o, in alternativa, qualificando il riconoscimento diretto come oggetto di una ordinaria prova testimoniale (art. 194 c.p.p.). Nulla quaestio, invece, in materia di riconoscimento vocale, che pare autolegittimarsi sulla scorta di un’unica condizione di impiego: l’affidabilità del ricognitore.
Approdi di questo genere costituiscono innanzitutto un segnale di scarso livello di conoscenza della materia perché, come si è cercato di evidenziare in precedenza, si tratta di un contesto in cui non possono azzardarsi presunzioni di attendibilità considerato che, tanto sui metodi quanto e soprattutto sui risultati, incombe sempre l’ipoteca dell’errore derivante dalla inaffidabilità intrinseca della voce come parametro biometrico funzionale al riconoscimento.
In secondo luogo, si tratta di operazioni poco giustificabili sotto il profilo dei principi fondamentali in materia di prova. Proprio con riferimento ai riconoscimenti informali, del resto, la dottrina ha enucleato dal sistema un principio di infungibilità (Rafaraci, T., Ricognizione informale dell’imputato e (pretesa) fungibilità delle forme probatorie, in Cass. pen., 1998, 1743) che discende dal dovere del giudice «di osservare l’ordine normativo che fa corrispondere ad ogni tipo di esigenza probatoria uno specifico mezzo per soddisfarla». Qui la forma – come correttamente osservato – è «parte integrante della sostanza» (Conti C., Accertamento del fatto e inutilizzabilità nel processo penale, Padova, 2007, 276): rispetto ad ogni mezzo di prova il legislatore ha espresso un giudizio di utilità per l’accertamento dei fatti che deve ritenersi tipico. Questo giudizio è stato espresso anche rispetto alla ricognizione di voce perché, sia pure rinunciando alla predeterminazione delle scansioni operative, il legislatore ha tracciato le caratteristiche essenziali del mezzo di prova, disegnando un perimetro di garanzie riferibile alla attendibilità dell’accertamento (art. 213 c.p.p.) e, conseguentemente, a salvaguardia dell’imputato. L’incompletezza della previsione non legittima operazioni ermeneutiche tese alla modifica del modello predisposto dal legislatore (Nobili, M., sub art. 189 c.p.p., in Comm. c.p.p. Chiavario, II, Torino, 1990, 398); essa giustifica, semmai, una integrazione dello schema normativo secondo il paradigma dell’art. 189 c.p.p. Un completamento, dunque, ma non una deroga allo schema. Di conseguenza, il riconoscimento vocale svolto secondo il modulo procedimentale della testimonianza deve considerarsi inutilizzabile ex art. 191 c.p.p., in quanto acquisito eludendo le garanzie pretese dall’art. 216 c.p.p.
Fonti normative
Art. 189 c.p.p.; art. 191 c.p.p.; art. 194 c.p.p.; artt. 213-216 c.p.p.
Bibliografia essenziale
Albano Leoni, F.-Maturi, P., Fonetica sperimentale e fonetica giudiziaria, in Giust. pen., 1991, I, 316; Alesci, T., Il corpo umano fonte di prova, Padova, 2017, 97; Biral, M., L’identificazione della voce nel processo penale: modelli, forme di accertamento, tutela dei diritti individuali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2015, 1842 s.); Bove, T.-Giua, P.E.-Forte, A.-Rossi, C., Un metodo statistico per il riconoscimento del parlatore basato sull'analisi delle formanti, in Statistica, LXII, n. 3, 2002, 475; Chimichi, S., Profili giuridici del riconoscimento del parlante, in Conti, C., a cura di, Scienza e processo penale. Nuove frontiere e vecchi pregiudizi, Milano, 2011, 383; Conti C., Accertamento del fatto e inutilizzabilità nel processo penale, Padova, 2007, 274 ss.; Dominioni, O., La prova penale scientifica, Milano, 2005, 109; Felicioni, P., Riconoscimento vocale condotto dalla polizia giudiziaria, in Scalfati, A., a cura di, Le indagini atipiche, Torino, 189; Kersta, L.G., Voiceprint identification, in Nature, 1962, 1253 ss.; La Regina, K., L’identificazione della voce nel processo penale, Padova, 2018; Paoloni, A., Le indagini foniche, in www.ording.roma.it, 5; Melchionda, A., sub art. 216 c.p.p., in Comm. c.p.p. Chiavario, II, Torino, 1990, 552; Nobili, M., sub art. 189 c.p.p., in Comm. c.p.p. Chiavario, II, Torino, 1990, 398; Rafaraci, T., Ricognizione informale dell’imputato e (pretesa) fungibilità delle forme probatorie, in Cass. pen., 1998, 1739; Romito, L.-Galatà, V., Speaker recognition: stato dell’arte in Italia, valutazione dei corpora, dei metodi e delle professionalità coinvolte, in Scienze vocali e del linguaggio, III, Rimini, 2007, 223; Tosi, O., Voice identification. Theory and legal applications, Baltimore, 1979, passim.