Impronte digitali
La cute, formata da una lamina profonda denominata derma e da una lamina superficiale chiamata epidermide, presenta sulla superficie più esterna di alcuni distretti (polpastrelli, palmo delle mani, pianta dei piedi) rilievi che corrispondono alla sporgenza delle sottostanti creste delle papille del derma. Questi rilievi, separati tra di loro da solchi (insieme ai quali formano i dermatoglifi), disegnano linee - dette appunto papillari - più o meno convolute che, sulla superficie dei polpastrelli, danno origine a un sistema di segmenti costituenti le impronte digitali. In base alla topografia dei disegni delle creste cutanee, oltre alle impronte digitali, riproducenti il disegno dei polpastrelli, possono essere individuate le impronte palmari, riproducenti il disegno delle creste papillari che ricoprono il palmo della mano, incluse quelle della prima e seconda falange, e le impronte plantari, riproducenti il disegno della pianta dei piedi.
I primi riferimenti storici sulla conoscenza delle impronte digitali risalgono alla Cina del 7° secolo d.C., dove era usanza apporre un'impronta digitale in sostituzione della firma su atti di divorzio, quando il coniuge richiedente (il marito) non fosse stato capace di sottoscrivere l'atto di proprio pugno. Lo studio scientifico delle caratteristiche delle creste cutanee papillari iniziò con M. Malpighi che, nel 1686, risalì alla struttura istologica della lamina superficiale della cute (epidermide) da lui classicamente distinta in cinque differenti strati sovrapposti (dalla superficie in profondità: strato corneo, trasparente, granuloso, spinoso o del Malpighi e basale); ogni strato riproduce a stampo il disegno di quello sottostante. Per questo motivo, le creste papillari risultano pressoché invariabili: ciò rappresenta la fondamentale caratteristica delle impronte digitali e fissa inoltre uno dei principi basilari della dattiloscopia (v. oltre). L'analisi del disegno delle creste papillari cutanee a fini identificativi venne intrapresa da J.E. Purkinje, il quale, nel 1823, teorizzò la possibilità di impiegare uno schema per la classificazione delle impronte digitali. Alla metà dell'Ottocento il governatore del Bengala, W.J. Hershell, introdusse la dattiloscopia a scopo identificativo-documentale, imponendo l'apposizione di un'impronta digitale, a guisa di firma, nei contratti stipulati da indigeni analfabeti, riprendendo in parte la consuetudine cinese cui si è fatto precedentemente cenno. In seguito, nel 1877, le autorità londinesi utilizzarono per la prima volta le impronte digitali al fine di identificare i detenuti provenienti da alcune regioni del Bengala. Erano gli anni nei quali si cominciava ad avvertire la necessità di classificare gli individui a fini di polizia e iniziava, inoltre, a diffondersi, a tale scopo, il metodo identificativo antropometrico proposto da A. Bertillon, impiegato della polizia di Parigi, fondato sulla tassonomia derivata da misure di alcune parti del corpo e definito, appunto, bertillonage. In quest'ottica, si rese subito evidente, anche grazie alle intuizioni di F. Galton (1892), che il sistema più agevole per la classificazione degli individui era incentrato proprio sul rilevamento e sulla lettura delle impronte digitali. Galton enunciò infatti i tre principi fondamentali sui quali è basata ancora oggi la moderna dattiloscopia: 1) variabilità individuale: non esiste un individuo che abbia le stesse impronte di un altro (anche i gemelli omozigoti, con identico patrimonio genetico, possiedono impronte digitali diverse); 2) immutabilità delle creste papillari: le impronte non si modificano per l'intera vita dell'individuo (a meno di traumi locali che provochino cicatrici); 3) classificabilità delle impronte: vi è possibilità di ripartire le impronte in una serie di categorie secondo uno schema prefissato.
Nell'ambito delle apparenti incongrue involuzioni del disegno dell'impronta, si possono individuare tre sistemi di linee che corrispondono ad altrettante zone (fig. 1): sistema (o zona) basale, più prossimo alla piega tra la seconda falange e il polpastrello, costituito da alcune linee che corrono pressoché parallele all'articolazione della falange terminale; sistema (o zona) marginale, formato da linee che provengono da un lato del polpastrello e che, dopo una voluta, fuoriescono dal lato opposto dello stesso, contornandolo nella sua parte radiale, ulnare e superiore; sistema (o zona) centrale (detto nucleo dell'impronta) che, delimitato dai sistemi basale e marginale, rappresenta la parte variabile dell'andamento delle linee, tale da far assumere al disegno le configurazioni caratterizzanti il tipo di impronta. Questi sistemi di linee si intersecano variamente dando luogo a quattro tipi principali di figure che si differenziano in base alla presenza dei 'delta', specie di triangoli che si formano nei punti di convergenza delle linee del sistema basale e marginale. Si distinguono quindi le seguenti figure: adelta, con disegno ad arco, quando le linee, da un margine all'altro del polpastrello, definiscono curve arcuate, in genere con convessità distale (fig. 2A); monodelta, con disegno ad ansa, quando le linee lasciano il margine del dito, raggiungono il centro del polpastrello e tornano indietro allo stesso margine di provenienza (l'ansa è denominata radiale o ulnare, a seconda che il margine interessato sia rivolto verso il lato dell'ulna o del radio; fig. 2B); bidelta, con disegno a verticillo, o vortice, e due delta (detto anche a figura chiusa, quando le linee sono racchiuse su sé stesse al centro del polpastrello; fig. 2C); composta, avente cioè due centri di figura e due delta (fig. 2D). Approfondendo inoltre l'esame di un'impronta digitale, ma anche palmare o plantare, sono facilmente rilevabili, nel quadro complesso dei vari sistemi descritti, alcuni elementi particolari (sdoppiamenti o biforcazioni in alto o in basso, deviazioni, convergenze, tratti di linee, uncini, isolotti, interruzioni, punteggiature ecc.) che, frequenti soprattutto nelle impronte dei polpastrelli, possono creare un cospicuo numero di punti caratteristici, molto utili per la differenziazione tra impronte (fig. 3). Non da ultimo vi è anche la possibilità di osservare nell'ambito delle singole linee papillari, con opportuno ingrandimento dell'immagine, alcuni piccoli fori che corrispondono all'emergenza cutanea delle ghiandole sudoripare, definiti come particolarità poroscopiche (fig. 4). È dall'insieme di tutti questi elementi - generali e particolari - che deriva dunque la capacità di differenziare e, di conseguenza, classificare ciascuna impronta. In Italia viene utilizzata da tempo la classificazione decadattiloscopica delle impronte digitali, ideata agli inizi del 20º secolo da G. Gasti, funzionario di polizia, e tuttora in uso presso il Casellario centrale di identità della Polizia di Stato. Essa si basa fondamentalmente sul numero di sistemi di linee che compongono la figura, sulla direzione e numero delle linee del sistema centrale, sul numero e configurazione dei delta. Gasti elaborò così nove tipi di figure alle quali associò nove cifre, da 1 a 9, con l'aggiunta del numero 0 come ulteriore possibilità di classificazione in casi di mancanza dell'impronta, di sua indecifrabilità, o di irrimediabile alterazione del suo disegno ecc. Più in dettaglio, al numero 1 sono attribuite le figure adelta, cioè ad arco semplice o triangolare ovvero ad anse ulnari con un solo laccio (il laccio solo è sia l'ansa semplice, sia l'ansa in cui sia compreso un punto o una linea); al numero 2, le figure monodelta radiali. Ai numeri 3, 4 e 5 corrispondono tutte le figure monodelta ad ansa ulnare; in particolare, quando le linee tra il delta e il centro di figura non sono più di dieci si ottiene il simbolo 3; il 4, quando il numero delle linee è tra dieci e quindici; il 5, quando le linee sono più di quindici. I numeri 6, 7 e 8 coincidono con le figure chiuse o bidelta, a prescindere dal tipo di disegno del terzo sistema di linee papillari (spirale, concentrica, circolare o allungata); se la linea inferiore del delta sinistro decorre verso destra, terminando più di due linee al di sopra del delta destro, si ottiene il simbolo 6; se finisce più di due linee al di sotto, si ha il numero 8; negli altri casi il 7. Il numero 9 comprende le impronte composte, aventi cioè due centri di figura e due delta. Una volta che sia stata stabilita l'entità numerica da assegnare al singolo polpastrello, si ottengono necessariamente dieci cifre che, opportunamente suddivise in serie (indice, pollice, anulare sinistri), sezione (indice, pollice, anulare destri) e numero (medio, mignolo sinistri e medio, mignolo destri), definiscono la formula dattiloscopica. Quando questa formula viene attribuita a un determinato individuo, crea un suo codice dattiloscopico pressoché unico, tenuto conto dei circa dieci miliardi di combinazioni numeriche possibili (fig. 5).
L'utilità pratica dell'intuizione di Gasti, e degli studi precedenti, è di notevole rilevanza ai fini dell'attività di polizia, in particolar modo nel campo specifico dell'identificazione personale, cui attiene il complesso di operazioni volte a stabilire la reale identità di una persona. Distinguiamo un'identità preventiva, che si realizza indipendentemente dall'aver commesso un reato, nei casi previsti dal TULPS (Testo unico leggi di Pubblica sicurezza) e un'identità giudiziaria, allorché vi sia la necessità di raffrontare impronte rinvenute sul luogo di un reato con quelle del suo eventuale autore. Ai fini dell'identità preventiva, le impronte digitali, agevolmente ottenute mediante l'inchiostrazione delle superfici cutanee e l'apposizione del dito inumidito su un foglio dattiloscopico, contribuiscono a comporre una parte del cartellino segnaletico utilizzato, fin dai primi del Novecento, dal Casellario centrale di identità della Polizia di Stato presso il Servizio polizia scientifica, dove vengono raccolte tutte le notizie relative alla persona sottoposta a segnalamento (dati anagrafici, statura, corporatura, eventuali contrassegni, come malformazioni, anomalie ecc.) e una sua fotografia di fronte e di profilo. In questo modo, una volta segnalato un individuo, si conserva sempre l'opportunità di confronti successivi. Per quanto riguarda l'identità giudiziaria, orientata all'identificazione degli autori di un reato attraverso le impronte digitali che questi possono aver lasciato sul luogo o sull'oggetto del reato stesso, si deve anzitutto procedere all'esame dell'impronta rinvenuta per stabilire la sua utilità a scopi identificativi, cioè la presenza in essa di un numero sufficiente di punti caratteristici, tali da consentire una discriminazione - per l'attribuzione o l'esclusione - nell'ambito dei circa tre milioni di cartellini segnaletici fino a oggi raccolti nel casellario. Il numero dei punti caratteristici necessari per un confronto esaustivo è stato individuato in 16-17, come riconosciuto dalla Suprema corte di cassazione penale fin dai primi anni Cinquanta del 20° secolo e confermato nelle sentenze degli anni Ottanta. Infine, presso il Casellario centrale di identità è attualmente in opera il sistema AFIS (Automated fingerprints identification system), recente acquisizione tecnologica dedicata all'automazione delle procedure di memorizzazione del cartellino segnaletico, di ricerca dei punti caratteristici, di classificazione decadattiloscopica delle impronte e di comparazione tra impronte differenti, con evidenti vantaggi in termini tanto di velocità nelle procedure di individuazione personale ed eventuale trasmissione delle informazioni, quanto di semplicità di impiego.
bibl.: g. arcudi, s. montanaro, La identificazione del vivente e le impronte digitali, in g. giusti, Trattato di medicina legale e scienze affini, 2° vol., parte 7, cap. 71, Padova, CEDAM, 1998; g. canuto, s. tovo, Medicina legale e delle assicurazioni, Padova, Piccin-Nuova libraria, 199211; f. galton, Fingerprints, London, Macmillan, 1892; g. gasti, Sui disegni papillari in normali e delinquenti, "Atti della Società Romana di Antropologia", 1907, 13, pp. 187 e segg.; c. gerin, f. antoniotti, s. merli, Medicina legale e delle assicurazioni, Roma, SEU, 1996; r. paceri, s. montanaro, La polizia scientifica, Roma, Laurus Robuffo, 1991.