Abstract
Si esamina il sistema delle impugnazioni nel processo amministrativo, connotato dal principio costituzionale del doppio grado di giurisdizione (art. 125 Cost.) e disciplinato dal d.lgs. 2.7.2010, n. 104, recante il codice del processo amministrativo. Secondo l’art. 91 c.p.a. costituiscono mezzi di impugnazione l’appello, la revocazione, l’opposizione di terzo e il ricorso per cassazione per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. Gli artt. 92-99 c.p.a. dettano disposizioni sulle impugnazioni in generale, gli articoli successivi disciplinano i singoli mezzi (artt. 100-105, l’appello; artt. 106-107, la revocazione; artt. 108-109, l’opposizione di terzo; artt. 110-111, il ricorso per cassazione). La disciplina si completa con altre disposizioni del codice del processo amministrativo, in virtù del rinvio interno disposto dall’art. 38 c.p.a., e con norme del codice di procedura civile, per effetto del rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a.
Il libro terzo del c.p.a. ha introdotto agli artt. 91 e ss. una disciplina delle impugnazioni contro le sentenze del giudice amministrativo prima solo accennata e fortemente lacunosa. Sebbene infatti con l’istituzione dei TAR quali organi di giustizia amministrativa di primo grado la legge 6.12.1971, n. 1034 avesse attuato anche nel processo amministrativo il principio del doppio grado di giudizio previsto dall’art. 125 Cost., e perciò trasformato il ricorso dinanzi al Consiglio di Stato nel principale mezzo di impugnazione, aveva affidato a poche e scarne disposizioni la disciplina del relativo giudizio. Ne era seguita una necessaria opera di integrazione col richiamo ad analoghi istituti del processo civile, ma anche con le inevitabili incertezze di un adattamento non sempre facile o possibile, comunque esposto alle oscillazioni della giurisprudenza civile sui relativi istituti (Gallo, C.E., Appello nel processo amministrativo, in Dig. disc. pubbl., I, 1987, 318; Stella Richter, P., Impugnazioni. Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., XVI, 1989, 1; Travi, A., Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2016, 315 ss.; Zito, A., Le Impugnazioni, in Scoca, F.G., a cura di, Giustizia amministrativa, Torino, 2014, 411).
Il titolo primo sulle «impugnazioni in generale» (artt. 91-99) individua i «mezzi di impugnazione delle sentenze» (art. 91) per i quali detta una disciplina generale (artt. 92-99), cui segue quella specifica per i singoli mezzi (titolo II «Appello», artt. 100-105; titolo III «Revocazione», artt. 106 e 107; titolo IV «Opposizione di terzo», artt. 108 e 109; titolo V «Ricorso per cassazione», artt. 110 e 111).
Si tratta di una disciplina essenziale, anche grazie alla clausola di “rinvio esterno” al c.p.c. prevista dall’art. 39 c.p.a. Sono pertanto pochi i casi in cui la mancanza di disciplina si possa riportare a una consapevole volontà di non importazione dei relativi istituti del processo civile, come sembra verificarsi nel caso del mancato richiamo all’art. 330, co. 2 e 3, c.p.c. sulle notifiche agli eredi della parte defunta (Travi, A., Lezioni di giustizia amministrativa, cit., 317).
La disciplina generale delle impugnazioni si rifà, con qualche significativo scostamento, al modello delineato dal c.p.c. agli artt. 323-328, Titolo III («Delle Impugnazioni»), Capo I («Delle Impugnazioni in generale»). Si apre con l’indicazione dei mezzi di impugnazione (art. 91) e prosegue con quella di specifici aspetti formali, quali i termini per proporre le impugnazioni (art. 92); il luogo di esecuzione delle notifiche (art. 93) e il termine per il deposito dopo la notifica (art. 94). Gli articoli da 95 a 99 disciplinano invece capitoli importanti della disciplina generale, quali le parti del giudizio di impugnazione (art. 95); l’impugnazione avverso la medesima sentenza (art. 96); l’intervento nel giudizio di impugnazione (art. 97); le misure cautelari (art. 98) e il deferimento all’adunanza plenaria (art. 99).
L’art. 91, c.p.a. indica nell’appello, nella revocazione, nell’opposizione di terzo e nel ricorso per cassazione per i soli motivi inerenti alla giurisdizione i mezzi di impugnazione delle sentenze. L’elencazione si ispira ai principi della tassatività e tipicità (Police, A., Il nuovo Codice del processo amministrativo. Le impugnazioni, in Giorn. dir. amm., 2010, 1118) propri della disciplina dei mezzi di impugnazione del processo ordinario di cognizione di cui all’art. 323, c.p.c. In base a tali principi, si ritiene di escludere dal novero dei mezzi di impugnazione il regolamento preventivo di giurisdizione di cui all’art. 41, c.p.c, per la sua natura straordinaria ed eccezionale, il regolamento di competenza d’ufficio di cui all’art. 45, c.p.c. e l’istanza di correzione della sentenza. Vi si accosta invece, secondo quanto prevede espressamente l’art. 323, c.p.c., il regolamento di competenza proposto nei confronti dell’ordinanza Tar che si pronunci sulla competenza ad istanza di parte previsto dall’art. 16, co. 3, c.p.a. (Travi, A., Lezioni di giustizia amministrativa, cit., 316; Meale, A., Le impugnazioni, in Caranta, R., a cura di, Il nuovo processo amministrativo, Bologna, 2011, 779; Ferrari, G., La competenza del giudice di primo grado. L’eccezione di incompetenza in Libro dell’anno del Diritto 2013, Roma, 2013).
Nel processo ordinario di cognizione il tema delle impugnazioni ha dato origine a molteplici distinzioni: fra error in procedendo ed error in iudicando, a seconda che la violazione riguardi una norma processuale o sostanziale; fra vizio del provvedimento e sua ingiustizia, a seconda che si faccia valere la violazione di norme o la sua ingiustizia (come ad es. la mancata valutazione dei fatti), con l’ulteriore qualificazione del mezzo come di impugnazione in senso proprio nel primo caso o di gravame nel secondo caso; tra mezzi a critica vincolata e libera (Nigro, M., L'appello nel processo amministrativo, Milano, 1960, 120 ss.).
Sotto il profilo strutturale rileva la distinzione fra mezzi di impugnazione ordinari e quelli straordinari: i primi, dati contro la sentenza non passata in giudicato, al fine di impedirne la formazione; i secondi, invece svincolati dal giudicato. Sono mezzi di impugnazione ordinari il regolamento di competenza, l’appello (v. Appello [dir. amm.]), il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione e la revocazione ordinaria prevista dai nn. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c. Sono mezzi straordinari l’opposizione di terzo di cui all’art. 404, c.p.c. (v. Opposizione di terzo [dir. amm.]) e la revocazione straordinaria di cui ai nn. 1,2,3,6 dell’art. 395, c.p.c.
Sempre al profilo strutturale attiene la distinzione, questa volta interna allo stesso giudizio, fra fase rescindente e fase rescissoria. In particolare nel giudizio di appello il Consiglio di Stato è chiamato di norma ad accertare sia il vizio della sentenza impugnata, al fine di privarla di effetti in caso di accoglimento del ricorso nel merito (parte rescindente), che a decidere la controversia con una nuova sentenza che sostituisca quella impugnata (parte rescissoria). Esistono tuttavia ipotesi in cui il giudizio d’appello si limita alla sola fase rescindente: ciò si verifica quando sia mancato il contraddittorio o sia stato leso il diritto di difesa di una delle parti, o sia stata dichiarata la nullità della sentenza, riformata la sentenza che ha declinato la giurisdizione, pronunciato sulla competenza o dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio. In queste ipotesi infatti il giudice d’appello, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., deve rinviare la causa al giudice di prime cure senza poter decidere la controversia, così consentendo la piena operatività del doppio grado di giudizio (Sanino, M., Le impugnazioni nel processo amministrativo, Torino, 2012, 140).
Si tratta però di distinzioni non rigide, almeno riguardo ai profili funzionali. Nel giudizio ordinario si ritiene ad esempio che nell’appello – che pure si considera il mezzo a critica libera o il rimedio di giustizia per eccellenza – si possano dedurre anche vizi del provvedimento e persino che si debba eccepire la nullità della sentenza, pena il suo passaggio in giudicato, e ciò per il principio tratto dall’art. 161, c.p.c. dell’assorbimento dei motivi di nullità in quelli di gravame: principio applicabile anche nel processo amministrativo, tanto più perché in questo processo il ricorso in Cassazione è dato solo per motivi inerenti alla giurisdizione, secondo le previsioni dell’art. 111, Cost.
Espressione della stessa regola dell’assorbimento tra i motivi di impugnazione di profili non di merito, appare la previsione dell’art. 92, co. 5, c.p.a., secondo cui la sentenza o l’ordinanza che decidendo la questione si siano pronunciate anche implicitamente sulla competenza, sono appellabili nei modi ordinari e nei termini di cui, rispettivamente, agli artt. 62 e 92, co. 1, 3 e 4, c.p.a. La necessità del regolamento preventivo di competenza resta pertanto limitata all’ipotesi, espressamente richiamata, dell’art. 16, co. 3, c.p.a. di ordinanza che espressamente si pronunci sulla competenza.
Le impugnazioni si propongono con ricorso e devono essere notificate entro un termine che varia a seconda che la sentenza sia stata notificata (termine breve) o meno (termine lungo). Nel caso di termine cd. breve, l’art. 92, co. 1, c.p.a. stabilisce che le impugnazioni devono essere notificate «entro il termine perentorio di sessanta giorni decorrenti dalla notificazione della sentenza», da effettuarsi ai sensi dell’art. 170, c.p.c. presso il procuratore costituito. Il co. 3 dello stesso articolo disciplina invece il cd. termine lungo di impugnazione, prevendendo che «in difetto della notificazione della sentenza, l’appello, la revocazione di cui ai numeri 4 e 5 dell’art. 395 del codice di procedura civile e il ricorso per cassazione devono essere notificati entro il termine di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza». Si tratta di un termine che va computato in mesi e non in giorni e al riguardo «si osserva il calendario di diritto comune», secondo quanto dispone l’art. 155, co. 2, c.p.c.: con la conseguenza che «non si tiene conto del numero dei giorni che compongono i mesi da considerare, sicché il termine viene a scadenza nel giorno del mese e dell’anno numericamente corrispondente a quello di decorrenza del termine iniziale» (Cons. St., sez. V, 8.8.2014, n. 4250). L’art. 92, co. 4, c.p.a., analogamente all’art. 327, co. 2, c.p.c., stabilisce infine che il termine lungo per l’impugnazione non è opponibile alla parte che, non costituitasi in giudizio, «dimostri di non aver avuto conoscenza della decisione, a motivo della nullità del ricorso o della sua notificazione» (Cons. St., sez. III, 22.12.2014, n. 6351): l’eccezione alla regola, riguardando solo l’ignoranza incolpevole della conoscenza di un processo, non si applica all’ipotesi di non conoscenza di un singolo atto di un processo di cui la parte conosca invece l’esistenza (Cons. St., sez. VI, 16.9.2016, n. 3896).
Per i casi di revocazione straordinaria di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 del primo comma dell’art. 395 c.p.c., l’art. 92, co. 2, c.p.a., con disposizione omologa a quella generale processualistica di cui all’art. 126, co. 1, c.p.c., prevede che il termine generale d’impugnazione, sia esso breve o lungo, decorre dagli eventi ivi individuati come dies a quo e, rispetto all’ipotesi ex art. 395, n. 3, c.p.c., dalla data in cui è stato recuperato il documento decisivo (Cons. St., sez. VI, 12.2.2014, n. 697).
L’art. 92, co. 1, c.p.a. fa espressamente salvo «quanto diversamente previsto da speciali disposizioni di legge». È questo il caso delle “speciali controversie” – fra cui le cause inerenti le «procedure di affidamento di lavori pubblici, servizi e forniture» – che l’art. 119, co. 1, c.p.a. assoggetta al rito abbreviato con dimezzamento dei termini processuali: applicabile, secondo la previsione del successivo co. 7, «anche nei giudizi di appello, revocazione e opposizione di terzo». L’unitaria lettura delle relative disposizioni (art. 92, co. 1 e 3 e art. 119, co. 1 e 7, c.p.a.) porta perciò alla conclusione che il termine cd. lungo per proporre appello in caso di mancata notificazione della sentenza è di tre mesi decorrenti dalla sua pubblicazione (Cons. St., sez. V, 1.8.2012, n. 4399; Cons. St., sez. V, 8.8.2014, n. 4250), mentre il termine cd. breve è pari a trenta giorni decorrenti dalla sua notificazione.
Anche in presenza di “speciali controversie”, tuttavia, la regola della dimidiazione dei termini di impugnazione non riguarda il ricorso in cassazione per i soli motivi inerenti alla giurisdizione di cui all’art. 92 c.p.a.: il relativo mezzo, infatti, non è incluso nella previsione, tassativa in quanto speciale, dell’art. 119, co. 7, c.p.a: si tratta dei casi (notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti) in cui, non applicandosi la regola speciale, torna a valere quella generale e la sua proposizione resta perciò sottoposta agli ordinari e generali termini previsti dal c.p.c. (Cass., S.U., 22.4.2013, n. 9688).
Per le stesse e opposte ragioni, risultanti dalla lettura combinata degli artt. 87, co. 3, 92 e 114, co. 9, c.p.a. l’appello contro la sentenza di ottemperanza va proposto nel termine dimidiato rispetto a quello dell’art. 92, co. 3, c.p.a., non rientrando il mezzo nell’elenco tassativo dell’art. 119 c.p.a. (CGA Sicilia, 13.9.2013, n. 743; Cons. St., sez. V, 18.3.2015, n. 1403). Identico regime si applica anche all’ ipotesi di revocazione di sentenza resa in un giudizio di ottemperanza (CGA Sicilia, 23.4.2015, n. 356). Infine, egualmente dimidiato è il termine per la notificazione dell’appello contro i provvedimenti dei TAR che hanno declinato la giurisdizione, come risulta dalla lettura combinata degli artt. 87, co. 3, 92, co. 3 e 105 c.p.a. (Cons. St., sez. V, 31.12.2014, n. 6452).
L’impugnazione deve essere notificata alla controparte e depositata nella segreteria del giudice, con la prova dell’avvenuta notifica. In questo modo trova attuazione anche in sede di impugnazione il principio strutturale del contraddittorio (Scoca, F.G., I principi del giusto processo, in Id. (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 161), espressione del diritto inviolabile alla difesa da assicurarsi «in ogni stato e grado del procedimento» (art. 24, co. 2, Cost.) a partire dalla fase incoativa del processo di impugnazione (Perongini, S., Le impugnazioni del processo amministrativo, Milano, 2011, 39).
Con riferimento al luogo di notificazione delle impugnazioni, l’art. 93 c.p.a. ricalca la disciplina dell’art. 330 c.p.c. e prevede che l’impugnazione deve essere notificata nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto dalla parte nell’atto con cui questa ha notificato la sentenza. In mancanza, la notificazione dell’impugnazione va fatta presso il difensore oppure presso la residenza dichiarata o il domicilio eletto nel corso del giudizio di primo grado, quali risultano dalla sentenza oggetto di impugnazione. Con riguardo alla forma, il c.p.a. non prevede quella della notificazione personale in mani proprie del destinatario, prevista invece dall’ art. 330, co. 3, c.p.c. per i casi in cui non vi è stata la notifica della sentenza o quando manca la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio, residuando così il dubbio se la modalità si possa tuttora ammettere, in quanto forma di conoscenza più chiara (Perongini, S., Le impugnazioni del processo amministrativo, cit., 39).
Innovativa rispetto al codice di rito è stata invece ritenuta la previsione di cui all’art. 93, co. 2, che prevede, per evidenti ragioni di equità sostanziale (Police, A., Il nuovo Codice del processo amministrativo, cit.), la possibilità che la notificazione sia fatta entro il termine perentorio fissato dal giudice per il suo completamento o rinnovazione, nelle ipotesi in cui non sia stato possibile procedervi con le modalità ordinarie, poiché il difensore domiciliatario della controparte ha trasferito il proprio domicilio professionale senza notificare una formale comunicazione (Sanino, M., Le impugnazioni nel processo amministrativo, cit., 63; Cons. St., sez. IV, 7.6.2012, n. 3388; Cons. St., sez. V, 15.11.2010, n. 8042). Sussiste tuttavia un onere di individuazione del luogo di notificazione che «non si pone in contrasto con i canoni di ragionevolezza e del diritto di difesa posti dagli articoli 3 e 24 della Carta Costituzionale in quanto l’attività di ricerca, posta a carico della parte, può essere svolta agevolmente» (Cons. St., sez. III, 21.2.2012, n. 917; Cass., S.U., 18.2.2009, n. 3818): come nel caso in cui la modifica dell’indirizzo del domiciliatario sia stata comunicata all’Albo professionale di appartenenza e al Consiglio di Stato, cui segue l’onere del notificante di porre in essere una ricerca finalizzata a individuare il luogo di notificazione, agevolmente attuabile per via informatica o telematica, il cui adempimento non arreca un significativo pregiudizio temporale o impedendo di fruire dei termini di impugnazione. La violazione di quest’onere determina pertanto la declaratoria di irricevibilità dell’appello notificato fuori termine nel nuovo domicilio.
L’art. 94 c.p.a., all’evidente fine di razionalizzare la procedura, prevede una disciplina unitaria per l’appello, la revocazione e l’opposizione di terzo, stabilendo che il ricorso deve essere depositato nella segreteria del giudice adito entro trenta giorni dall’ultima notificazione ai sensi dell’art. 45 c.p.a (Saitta, N., Sistema di Giustizia Amministrativa, Milano, 2011, 693). Per “ultima notificazione” deve intendersi l’ultima fra le notifiche utili per la proposizione dell’impugnazione, con conseguente irrilevanza dell’eventuale notifica compiuta dopo la scadenza del termine per impugnare. Il rinvio all’art. 45 c.p.a. consente fra l’altro di applicare la tecnica per il computo del termine nel caso in cui la notificazione sia effettuata dal difensore a mezzo di servizio postale, con la positivizzazione della regola di origine giurisprudenziale (Cons. St., sez. V, 29.11.2005, n. 6774) secondo cui il dies a quo per il decorso del termine di deposito decorre dal perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario, con la ricezione dell’atto da parte di questo ultimo. Il chiarimento è rilevante in quanto il termine per il deposito è prescritto «a pena di decadenza», con la conseguenza che la sua inosservanza determina «l’intempestività del deposito medesimo, che dà luogo alla non valida instaurazione del rapporto processuale e pertanto alla irricevibilità del ricorso (art. 35, co. 1, lett. a, c.p.a.)», rilevabile anche d’ufficio (Cons. St., sez. III, 13.7.2011, n. 4217).Nessuna incertezza vi è invece per il computo del termine entro il quale il deposito va effettuato, ritenendosi non applicabile al deposito, per diversità di ratio, il principio proprio degli atti giudiziari secondo cui la notifica si considera perfezionata per il notificante con la consegna dell'atto al pubblico ufficiale deputato ad eseguirla (C. cost., 26.11.2002, n. 447; Cons. St., sez. V, 28.6.2016, n. 2895; Cons. St., sez. III, 30.10.2015, n. 4984).
Il deposito del ricorso, per la sua ritualità, va fatto unitamente a una copia della sentenza impugnata e alla prova delle eseguite notificazioni (art. 94 c.p.a.). Poiché si tratta di un triplice, sebben unitario adempimento (deposito del ricorso, di copia della sentenza impugnata e delle eseguite notificazioni), la mancata effettuazione anche di uno solo dei tre, determina l’inammissibilità dell’impugnazione. In contrasto con l’art. 369 c.p.c., l’art. 94 c.p.a., con previsione innovativa, consente ora il deposito di copia di sentenza anche non autentica (Perongini, S., Le impugnazioni del processo amministrativo, cit., 44), conformemente però alle conclusioni cui era già giunto in passato il g.a. secondo cui l’inammissibilità dell’impugnazione seguiva solo al caso di mancato deposito della sentenza, non anche della sua copia autentica (Cons. St., sez. V, 28.5.2014, n. 2773).
L’onere di deposito può essere assolto anche dalle altre parti in quanto finalizzato a consentire al giudice d’appello di prendere cognizione della sentenza gravata (Cons. St., sez. IV, 25.3.2014, n. 1455; Cons. St., sez. III, 14.6.2011, n. 3619).
Quanto alla prova delle “eseguite notificazioni” va distinto il caso della mancata prova dell’effettiva esecuzione della notificazione da quello del suo perfezionamento anche per il destinatario. Nel primo caso, il ricorso è inammissibile al decorso del termine decadenziale di trenta giorni; nel secondo invece la pronuncia di inammissibilità è solo eventuale. Ai sensi dell’art. 45, co. 2, c.p.a., infatti, è fatta salva la facoltà della parte di effettuare il deposito dell’atto, anche se non ancora pervenuto al destinatario, sin dal momento in cui la notificazione del ricorso si perfeziona per il notificante. In questo caso però il notificante è tenuto a depositare, prima del passaggio della causa in decisione, la documentazione comprovante la data in cui la notificazione si è perfezionata anche per il destinatario (co. 3). La mancanza di prova entro quel termine, insieme alla mancata costituzione del destinatario della notifica, comporta l’inesaminabilità – e quindi l’inammissibilità – del gravame (Cons. St., sez. VI, 2.5.2016, n. 1678).
Per proporre un’impugnazione occorre che sussista l’interesse all’impugnazione, mancando il quale il giudice deve dichiararla anche d’ufficio inammissibile. Si tratta del requisito proprio della parte che, insoddisfatta dal provvedimento, ne chiede l’eliminazione in tutto o in parte. Per questa ragione, si sostanzia in presenza di un interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. (Salvaneschi, L. L’interesse ad impugnare, Milano, 1990, 38) che a sua volta si accompagna e presuppone un pregiudizio causato dalla soccombenza (Picozza, E., Il processo amministrativo, Milano, 2008, 404). È questo il nomen che descrive il fenomeno per cui la pronuncia del giudice non corrisponde in tutto o in parte a ciò che aveva chiesto la parte (Mandrioli, C., Corso di diritto processuale civile, Vol. II, Torino, 1989, 367 ss.), con la conseguenza che è soccombente colui che non abbia visto accogliere la domanda proposta in primo grado, o nei cui confronti sia stata accolta quella proposta dalla controparte (Liebman, T., “Parte” o “capo” di sentenza, in Riv. dir. proc., 1964, 57). Si ritiene peraltro che si possa prescindere dal criterio della soccombenza e che sussista in ogni caso l’interesse a impugnare la sentenza che abbia dichiarato d’ufficio l’incompetenza del giudice adito o la sentenza di cui si possa eccepire l’inesistenza (Attardi, A., Sulla legittimazione a proporre il regolamento di competenza, in Giur. it., 1975, 1357-60). La soccombenza, che può essere anche parziale, deve consistere in un pregiudizio pratico (compreso quello provocato dalla pronuncia sulle spese processuali) per la parte che ha proposto il gravame al fine di conseguire un risultato giuridicamente apprezzabile, in relazione all’ utilità giuridica o concreta che mira a ottenere dal suo eventuale accoglimento (Iaria, D., I mezzi di impugnazione, in Cassese, S., a cura di, Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale, V, Milano, 2003, 4584; Cons. St., sez, VI, 21.11.1992, n. 925; Cass., 14.12.1996, n. 11180). Pertanto può essere soccombente anche la parte vittoriosa, quando esista un effettivo contrasto fra il contenuto del provvedimento emesso dal giudice e la richiesta, ma non il convenuto in presenza di una pronuncia che, invece di rigettare la domanda, la dichiari inammissibile o nulla (Attardi, A., Sentenze di rito e soccombenza del convenuto, in Giur. it., 1976, 492). L’esito del gravame favorevole o meno è quello che si ricava dal dispositivo della sentenza: pertanto non vi è interesse a impugnare argomentazioni contenute nella parte motiva della sentenza, quando le stesse non abbiano spiegato alcuna influenza sul dispositivo.
Possono assumere la qualità di parti del giudizio di impugnazione le stesse parti del giudizio di primo grado, sia quelle evocate in giudizio (parti in senso formale), a nulla rilevando la loro eventuale mancata costituzione; sia quelle che, pur avendone diritto, non sono state intimate e per questa ragione sono restate assenti nel giudizio di primo grado (parti in senso sostanziale) (Mignone, C.-Vipiana, P.M., Manuale di giustizia amministrativa, Padova, 2012, 277). In quest’ultimo caso la giurisprudenza è però concorde nel ritenere che i controinteressati pretermessi o sopravvenuti possano proporre non appello – la cui legittimazione è riservata ai sensi dell’art. 102, co. 1, c.p.a. solo a coloro che abbiano rivestito la qualità di parte nel giudizio in cui è stata resa la sentenza impugnata – ma solo opposizione di terzo, mezzo ormai espressamente previsto nel c.p.a. dopo la sentenza cd. “additiva” di C. cost., 17.5.1995, n. 177. Si supera così l’indirizzo formatosi prima dell’entrata in vigore del codice che sposava una nozione estesa della legittimazione ad appellare, includendovi anche i controinteressati sopravvenuti, un’ampia possibilità di intervento nel giudizio di secondo grado, e la chiamata di terzo iussu iudicis: rimedi ritenuti ormai privi di ragione in presenza delle nuove disposizioni codicistiche che non lasciano oggettivamente spazio per l'appello del terzo, per ragioni di ordine sia testuale che sistematico, in presenza di una disposizione codicistica preordinata proprio a superare il pregresso orientamento (Cons. St., sez. IV, ord. 28.10.2016, n. 330; Cons. St., sez. IV, 28.1.2016, n. 331; Cons. St., sez. V, 20.2.2014, n. 9401).
Secondo quanto prevede l’art. 95, co. 1, c.p.a., se la sentenza è stata pronunciata in una causa inscindibile ai sensi dell’art. 331 c.p.c., sono parti necessarie del giudizio di impugnazione tutti coloro che sono stati parti del precedente giudizio di primo grado (litisconsorzio necessario). Negli altri casi invece, quando le cause siano scindibili (ancorché trattate unitariamente in primo grado in quanto connesse oggettivamente), l’impugnazione deve essere notificata alle parti che hanno interesse a contraddire. In questa seconda ipotesi, la necessità del contraddittorio è perciò ristretta a quei soli soggetti che dall’accoglimento della nuova impugnativa potrebbero ricevere un pregiudizio, e non si estende a coloro che, pur essendo stati parti del giudizio di primo grado, dall’accoglimento dell’appello potrebbero ottenere solo un vantaggio, rivestendo in pratica una posizione di sostanziale cointeresse all’impugnazione (Cons. St., A.P., 24.3.2004, n. 7; Cons. St., sez. V, 1.12.2014, n. 5928). È questo il caso dei controinteressati cui non venga notificato l’appello proposto dall’Amministrazione soccombente. In questa ipotesi, va pertanto respinta l'eccezione di improcedibilità in quanto, per consolidato indirizzo giurisprudenziale affermatosi già prima dell'entrata in vigore del codice del processo amministrativo, «nel giudizio di appello proposto dall'Amministrazione soccombente in primo grado i controinteressati, avendo una posizione coincidente con essa, sono privi di interesse a contraddire e, in quanto in realtà cointeressati, non devono essere evocati in giudizio (Cons. St., sez. IV, 12.2.2010, n. 807; Cons. St., sez. IV, 15.3.2012, n. 1450; Cons. St. sez. IV, 8.10.2013, n. 4930; Cons. St., sez. IV, 17.2.2014, n. 735; Cons. St., sez. V, 5.9.2014, n. 4521; Cons. St., sez. V, 1.12.2014, n. 5928; Cons. St., sez. III, 23.12.2014, n. 6363; Cons. St., sez. V, 7.7.2015, n. 3342)» (Cons. St., sez. IV, 27.10.2016, n. 4510).
L’art. 95, co. 2, 3 ,4 e 5, c.p.a. detta una serie di regole in funzione del soddisfacimento dell’interesse a contraddire. Nel caso in cui la notificazione dell’impugnazione, nei termini di cui all’art. 92, non sia stata effettuata nei confronti di tutte le parti di cui al co. 1, ma solo nei limiti necessari a evitare la declaratoria di inammissibilità ai sensi del co. 2 («L’impugnazione deve essere notificata a pena di inammissibilità […] ad almeno una delle parti interessate a contraddire»), il giudice dovrà ordinare l’integrazione del contraddittorio, fissando il termine entro cui la notificazione deve essere eseguita, nonché la successiva udienza di trattazione (co. 3): prescrizione cui potrà adempiere ogni parte, pena la dichiarazione di improcedibilità dell’impugnazione (co. 4). Ragioni di economia processuale, legate al venir meno di ogni interesse a contraddire, spiegano la regola del co. 5, secondo cui in presenza di un’impugnazione manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata il giudice non può ordinare l’integrazione del contraddittorio quando l’impugnazione delle altre parti è preclusa o esclusa (Cons. St., sez. VI, ord. 12.11.2013, n. 5393).
Nel ricorso in appello l’interesse a contraddire, che si soddisfa con la notifica del ricorso, assume una particolare configurazione (Follieri, E., Il contraddittorio in condizioni di parità nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2006, 495 ss.): così come l’appellante deve riproporre nell’atto di appello le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, se non vuole che in mancanza si intendano rinunciate, allo stesso onere sono tenute «le parti diverse dall’appellante» che devono provvedervi «con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio» (art. 101, co. 2, c.p.a.): così introducendosi uno dei pochi termini perentori a carico delle parti intimate che conosca il processo amministrativo.
Nei giudizi di impugnazione la parte può stare in giudizio solo col ministero di un difensore, salvo che la parte stessa o la persona che la rappresenta abbia la qualità necessaria per esercitare l’ufficio di difensore con procura presso il giudice adito (art. 95, co. 6 e art. 22 c.p.a.).
La medesima considerazione vale anche per l’appello avverso sentenza in materia di accesso e trasparenza amministrativa, in materia elettorale e nei giudizi relativi al diritto di soggiorno e circolazione dei cittadini dell’Unione Europea. L’art. 95, co. 6, c.p.a. ha infatti previsto l’inapplicabilità alle impugnazioni dell’art. 23, co. 1, c.p.a., così circoscrivendo le ipotesi di difesa personale ai soli giudizi di primo grado. (Cons. St., sez. IV, 12.7.2013, n. 3760)
Al fine di salvaguardare i principi di concentrazione e di unicità del processo di impugnazione e della relativa decisione, funzionali ad esigenze di economia processuale e di prevenzione di conflitti tra giudicati, l’art. 96, co. 1, c.p.a. prevede che tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite in un solo processo. Nel processo ordinario si qualificano impugnazioni incidentali tutte quelle che seguono alla prima, detta principale, vigendo la regola per cui «le parti alle quali siano state fatte le notificazioni previste negli articoli precedenti debbono proporre, a pena di decadenza, le loro impugnazioni in via incidentale nello stesso processo» (art. 333 c.p.c.), con la conseguenza che l’impugnazione che sia stata proposta per prima determina la costituzione del processo, nel quale devono confluire le impugnazioni di altri soccombenti. In presenza di due impugnazioni contemporanee, pertanto, la seconda – che pure si qualifichi come principale – potrà essere convertita in incidentale, se proposta entro i 40 gg. dalla notificazione del primo ricorso principale, e ciò sulla base dei principi generali in materia di nullità, applicabili per l’assenza di una espressa previsione normativa sull’essenzialità delle forme del ricorso incidentale (Cass., Sez. III, 7.11.2013, n. 25054; Cass., S.U., 7.7.2009, n. 15843). Solo nel caso di mancata riunione delle due impugnazioni autonome, a seguito della decisione della prima impugnazione, la seconda dovrà essere dichiarata improcedibile «risultando ormai impossibile il simultaneus processus» (Cass., n. 25054/2013).
Nel processo amministrativo la regola della necessaria incidentalità sembra subire un’attenuazione. L’art. 96 c.p.a. da una parte infatti, a somiglianza del processo civile, non prevede sanzioni dirette a carico della parte soccombente che non abbia proposto appello in forma incidentale, ma in forma autonoma (Cons. St., sez. V, ord. 16.1.2015, n. 93; identico orientamento si è formato nella giurisprudenza amministrativa prima dell’avvento del codice del processo amministrativo: Cons. St., sez. IV, ord. 26.9.2007, n. 4970; Cons. St., sez. VI, ord. 24.2.2011, n. 1166), ma stabilisce solo la regola per cui «tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite in un solo processo» (co. 1); dall’altra, attenua il rigore della necessaria incidentalità, con la previsione che non devono (come invece prevede l’art. 333 c.p.c.) ma solo «possono essere proposte impugnazioni incidentali, ai sensi degli articoli 333 e 334 del codice di procedura civile» (co. 2): possibilità che pertanto spiega la regola posta dal co. 6 dello stesso articolo, secondo cui «in caso di mancata riunione di più impugnazioni ritualmente proposte contro la stessa sentenza, la decisione di una della impugnazioni non determina l’improcedibilità delle altre». La regola – anche se riferita alle sole ipotesi in cui più soggetti siano tutti egualmente legittimati a impugnare in via principale e autonoma la stessa sentenza (Zito, A., Le Impugnazioni, cit., 437) –, non perde per questo la sua portata derogatoria rispetto alla previsione della necessaria incidentalità anche in questi casi posta dall’art. 333 c.p.a. e trova la sua ratio nella garanzia del diritto di azione e di difesa di cui all’art. 24 Cost. (Cons. St., sez. VI, ord. 15.3.2013, n. 1541), la cui tutela prevale nel processo amministrativo sulle esigenze processuali, proprio per il giudizio sul potere che vi si svolge: e ciò, anche a costo del conseguente rischio di pluralità di giudicati, su cui però l’art. 96 c.p.a. tace. Il problema dell’eventuale formazione del giudicato sulle questioni investite dalle impugnazioni separate, di cui una non ancora decisa, è stato peraltro risolto dal g.a. (Cons. St., n. 1541/2013) col richiamo ai principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’improcedibilità dell’impugnazione proposta separatamente si produce in ogni caso in seguito al passaggio in giudicato della sentenza che abbia deciso sull’appello proposto in via separata, scaturendo dal giudicato formatosi su una causa inscindibile la preclusione di un riesame delle stesse identiche questioni già decise con autorità di cosa giudicata, onde evitare un conflitto, teorico e pratico, tra giudicati (Cass., 4.3.2008, n. 5846; Cass., 6.3.2004, n. 4617; Cass., 11.5.2001, n. 6578): tanto più che il mancato rilievo dell’intervenuto giudicato esterno esporrebbe la seconda sentenza, adottata in contrasto col precedente giudicato, all’impugnazione revocatoria ex art. 395, n. 5, c.p.c., sicché anche sotto tale profilo se ne impone il rilievo d’ufficio.
L’art. 96, co. 4, c.p.a. disciplina per rinvio all’art. 334 c.p.c. l’istituto dell’impugnazione incidentale tardiva, proponibile dalle parti contro le quali è stata proposta impugnazione o chiamate a integrare il contraddittorio nelle cause inscindibili a norma dell’art. 331, anche quando per esse è decorso il termine (breve o lungo) o hanno fatto acquiescenza alla sentenza. La norma, recependo consolidato indirizzo, prevede che l’impugnazione incidentale tardiva è ammissibile senza alcun limite di natura oggettiva: può perciò investire qualunque capo, anche autonomo, della sentenza che abbia deciso in senso sfavorevole alla parte che propone impugnazione incidentale (Cass., S.U., 23.1.1998, n. 652; Cass., 9.12.2014, n. 25848). Simmetricamente la norma riproduce il secondo comma dell’art. 334 c.p.c., stabilendo che «se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione incidentale perde efficacia»: solo dal momento dell’impugnazione principale, infatti, è minacciato l’assetto degli interessi derivante dalla sentenza impugnata (Cons. St., sez. IV, 23.2.2012, n. 983). In presenza di identità di ratio si ritiene che l’istituto riguardi sia l’appello incidentale dipendente (cd. proprio) che quello autonomo (cd. improprio): il primo – proposto dalla parte anche parzialmente vittoriosa in primo grado che intende preservare il risultato a sé favorevole rivolgendo impugnazione nei confronti del medesimo capo della sentenza gravata dall’appello principale, o di un capo connesso o dipendente – in ogni caso geneticamente collegato al principale, di cui segue le sorti (Cons. St., sez. VI, 4.12.2012, n. 6210; Cons. St., A.P, 16.12.2011, n. 24); il secondo, incidentale sol perché proposto dopo quello principale, per il principio di concentrazione delle impugnazioni ex art. 333 c.p.c. (Cons. St., sez. IV, 18.3.2013, n. 1574), ma in realtà autonomo gravame. La distinzione ha perso però di rilievo: il c.p.a. infatti, aderendo alla ratio dell’art. 334 c.p.c., ha previsto in modo espresso e senza limiti oggettivi l’impugnazione incidentale tardiva, col contestuale effetto, però, di prevederne in ogni caso la dipendenza da quella principale, con la perdita d’efficacia nel caso della sua inammissibilità (Cons. St., sez. III, 10.1.2013, n. 97; Cons. St., sez. VI, 4.10.2011, n. 5435).
L’art. 99, co. 1, c.p.a. prevede la possibilità per la sezione cui è assegnato il ricorso di rimettere con ordinanza all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione, se questa ha dato o può dar luogo ad un contrasto giurisprudenziale: o tra decisioni delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato (compreso il CGA Sicilia in sede giurisdizionale), o tra la decisone di una sezione giurisdizionale e un parere reso da una sezione consultiva su un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (CGA Sicilia, 10.5.2013, n. 464). Il deferimento di qualunque ricorso può avvenire prima della sua decisione a opera del presidente del Consiglio di Stato, su richiesta delle parti o d’ufficio per risolvere «questioni di massima di particolare importanza ovvero per dirimere contrasti giurisprudenziali» (co. 2). L’adunanza plenaria è investita del potere decisorio sull’intera controversia, salvo che ritenga di enunciare un principio di diritto e di restituire per il resto il giudizio alla Sezione remittente (co. 4). Qualora ritenga la questione di particolare importanza, può enunciare il «principio di diritto nell’interesse della legge» anche quando non possa decidere nel merito la controversia e debba limitarsi a dichiarare il ricorso irricevibile, inammissibile, improcedibile o estinto (co. 5, c.p.a.): in questo caso, però, la pronuncia dell’adunanza plenaria non ha effetto sul provvedimento impugnato.
Speciale e ulteriore ipotesi di deferimento che non trova alcun riscontro nella disciplina previgente (Figorilli, F., Il giudice amministrativo, in Scoca, F.G., a cura di, Giustizia amministrativa, Torino, 2014, 46) è quella del co. 3 con cui il codice persegue «l’obiettivo di assicurare una maggiore omogeneità nella giurisprudenza amministrativa» quale fattore di garanzia per la certezza del diritto (Travi, A., Lezioni di giustizia amministrativa, cit., 330), in espressa e tassativa deroga al principio dell’art. 101, co. 2, Cost., secondo il quale «i giudici sono soggetti soltanto alla legge», con la conseguenza che l’ordinamento processuale amministrativo, come quello processualcivilistico, non attribuisce efficacia panprocessuale a pronunce rese in separati giudizi (Cons. St., sez. V, 16.4.2014, n. 1942). La norma – che costituisce applicazione del principio dello stare decisis in correlazione alla funzione nomofilattica attribuita all’adunanza – prevede che, nel caso in cui la sezione non condivida un principio enunciato dalla plenaria (evidentemente in un processo diverso da quello trattato dalla sezione) dovrà rimettere alla stessa la decisione, con ordinanza motivata. L’autorità dello stare decisis è invece “cedevole” in caso di sospetto contrasto della sentenza dell’Adunanza Plenaria con il diritto euro-unitario (C. Giust. UE., Grande Sezione, 5.4.2016, C-689/13), sicché la sezione sarà tenuta al rinvio pregiudiziale ex art. 267, TFUE senza provocare una nuova decisione dell’Adunanza Plenaria per la revisione del principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria. Il quale potrà essere disatteso ove sia in manifesto contrasto con una interpretazione del diritto dell’Unione già fornita in maniera chiara ed inequivoca dalla giurisprudenza comunitaria (Cons. St., AP., 27.7.2016, n. 20): e ciò anche nel caso in cui il principio di diritto sia ormai munito di efficacia di giudicato interno (Cons. St., sez. VI, ord.17.1.2017, n. 168).
Artt. 24, 101, 111, 125 Costituzione; artt. 16, 22, 23, 39, 45, 55, 62, 87, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 101, 105, 111, 114, 119, d.lgs. 2.7.2010, n. 104 (Codice del processo amministrativo); artt. 41, 45, 126, 155, 161, 323, 324, 325, 326, 327, 328, 330, 331, 333, 334, 395, Regio Decreto 28.10.1940, n. 1443 (Codice di procedura civile); art. 1424, R. d. 16 marzo 1942, n. 262 (Codice civile); art. 310, D. Lgs. 3.4.2006, n. 152 (Norme in materia ambientale); art. 139, D. Lgs. 6.9.2005, n. 206 (Codice del consumo); L. 6.12.1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali).
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