Impugnazioni straordinarie. Revisione del giudicato ingiusto
L’accertata violazione del diritto ad un processo equo da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo genera un problema di revisione del giudicato nazionale, la cui soluzione − nella perdurante inerzia del legislatore − è stata scandita dagli interventi della Corte costituzionale. Dopo una prima, negativa pronuncia, con un nuovo scrutinio (sentenza 7.4.2011, n. 113) il Giudice delle leggi ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il denunciato art. 630 c.p.p., nella parte in cui esso non prevede un diverso caso di revisione della sentenza di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo. Numerosi, tuttavia, i problemi applicativi del principio affermato dalla Corte.
I fatti dai quali ha tratto origine l’innesto nel sistema processuale del nuovo «caso» di revisione introdotto dalla Corte costituzionale con la sentenza 7.4.2011, n. 113, sono adeguatamente – anche se non del tutto correttamente − descritti nella ordinanza di rimessione, oltre che nella ampia pubblicistica che il caso ha generato. Con sentenza del 3.10.1994, divenuta irrevocabile il 27.3.1996, la Corte di assise di Udine condannava Paolo Dorigo alla pena di anni tredici e mesi sei di reclusione, oltre a pena pecuniaria, quale imputato dei delitti di associazione con finalità di terrorismo, ricettazione, banda armata, detenzione e porto illegale di armi, attentato con finalità terroristiche e rapina: imputazioni, queste, elevate in relazione ad un attentato compiuto presso la base NATO di Aviano. Divenuta irrevocabile la condanna, il Dorigo ricorreva alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale – secondo quanto erroneamente puntualizzava il giudice a quo – con sentenza del 9.9.1998, accertava l’avvenuta violazione del diritto del ricorrente ad un equo processo, a norma dell’art. 6, §§ 1 e 3, lettera d), della CEDU. L’assunto si fondava infatti sul rilievo per il quale il Dorigo era stato condannato sulla base delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da tre coimputati non esaminati in dibattimento, perché si erano avvalsi della facoltà di non rispondere – come consentito dall’art. 513 c.p.p., nel testo all’epoca vigente – con la conseguenza che l’accusato non aveva potuto esercitare il proprio diritto, sancito dalla Convenzione, di interrogare o di far interrogare i testimoni a carico. In realtà, però, − come puntualizzato nella stessa sentenza Corte cost. 7.4.2011, n. 113 − la Corte europea non si era mai pronunciata sul caso Dorigo, giacché quella che il giudice rimettente qualificava come «sentenza» della Corte di Strasburgo, era, in realtà, un rapporto in pari data della Commissione europea dei diritti dell’uomo, il quale era stato poi recepito dal Comitato dei ministri nella Risoluzione interinale (99)258, adottata il 15 aprile 1999, la quale ultima costituiva la fonte del’obbligo dello Stato italiano, a norma dell’art. 32, § 4, CEDU, nel testo all’epoca vigente. Al di là di tale aspetto, che pur presenta una qualche incidenza sul piano delle fonti e degli organi da cui promana l’accertamento della infrazione e del conseguente obbligo di conformazione, è forse singolare riflettere sul fatto che la «non equità» del processo celebratosi nei confronti del Dorigo, si è fondata sulla applicazione della normativa processuale dell’epoca, non per come era stata coniata dal legislatore, ma quale era risultata «costituzionalmente manipolata» a seguito della sentenza della Corte costituzionale 30.6.1992, n. 254, la quale, appunto, aveva dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 513, co. 2 c.p.p., nella parte in cui tale norma non prevedeva che il giudice, sentite le parti, disponesse la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini o della udienza preliminare dalle persone indicate nell’art. 210, qualora queste si fossero avvalse della facoltà di non rispondere. Nel processo Dorigo, dunque, la «non equità» finiva per derivare, non già da una erronea applicazione della legge o da una legge in sé irrispettosa dei diritti, ma da un sistema normativo reputato, all’epoca, come contrastante con i principi costituzionali e conseguentemente «modificato» dal Giudice delle leggi nell’unico modo reputato costituzionalmente compatibile. Dunque, una singolare divergenza, per così dire assiologica, tra i valori posti a base della richiamata sentenza della Corte costituzionale, e quelli invece puntualizzati ed esaltati in base alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che finisce per evocare, da un lato, aree di ipotetiche frizioni tra Carte e Corti, e, dall’altro, possibili «aggiustamenti» in chiave diacronica – come l’ultima decisione della Consulta starebbe a testimoniare – al punto da rendere non più monoliticamente intangibile lo stesso giudicato costituzionale. L’iter che contrassegnò l’andamento della procedura di controllo sull’adempimento della richiamata decisione, si snodò per un lungo arco di tempo – dal 1998 al 2007 – e fu contrassegnato da diversi atti con i quali, non soltanto il Comitato dei ministri, ma anche la stessa Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, censurarono, in termini sempre più stringenti, la perdurante inerzia dell’Italia nel rimuovere le «gravi e persistenti» conseguenze delle violazioni accertate, a causa della assenza, nell’ordinamento interno, di rimedi che prevedessero la riapertura della procedura, ove il processo celebrato fosse stato riconosciuto come «non equo». Tali, fra i diversi atti, la Risoluzione interinale ResDH (2002)30 del 19.2.2002; la Risoluzione interinale ResDH (2004)13 del 10.2.2004; nonché la Risoluzione interinale (2005)8 del 12.10.2005, nella quale fu espressamente ribadito come la riapertura del procedimento rappresentasse lo strumento migliore per assicurare la restituito in integrum per quello specifico «affare». L’inottemperanza del nostro Paese venne, come si è accennato, vivacemente stigmatizzata anche dalla Assemblea parlamentare, la quale, specie con la Risoluzione n. 1516 (2006) del 2 ottobre 2006, ebbe nuovamente a «deplorare » il fatto che, malgrado i ripetuti inviti del Comitato dei ministri e della stessa Assemblea, non fosse stata ancora adottata alcuna misura ripristinatoria del diritto del ricorrente ad un processo equo.
L’affaire Dorigo e la complessa problematica che esso agitava, ha ricevuto un primo «esame» di costituzionalità nella sentenza C. cost. 30.4.2008, n. 129, con la quale la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 630, co. 1, lett. a), c.p.p., sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10 e 27 Cost., nella parte in cui – secondo il petitum articolato dal giudice a quo – la disposizione censurata escludeva «dai casi di revisione, l’impossibilità che i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto di condanna si concilino con la sentenza della Corte europea che abbia accertato l’assenza di equità del processo, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo». Pur dando atto degli insistiti «moniti» pressantemente rivolti al nostro Paese dagli organismi deputati a verificare l’attuazione di misure riparatorie a fronte di riscontrate violazioni al principio del «processo equo», come nel caso della vicenda Dorigo, la Corte disattese la fondatezza delle censure, anche – e forse soprattutto – in ragione dell’angusto perimetro entro il quale la questione le era stata devoluta dal giudice rimettente. Con riferimento, infatti, alla pretesa violazione dell’art. 3 Cost., la Corte ritenne non condivisibile la premessa da cui aveva preso le mosse il rimettente, e cioè che fossero assimilabili i casi disciplinati dall’art. 630, co. 1, lett. a), c.p.p. − il quale fa riferimento al contrasto tra i fatti stabiliti da due diverse sentenze – e la peculiare situazione oggetto della quaestio, intendendo per «fatto», suscettibile di generare il contrasto fra giudicati, anche l’accertamento da parte del giudice sovranazionale della invalidità della procedura, per violazione dei principi della Convenzione in tema di «processo equo». Secondo la prospettiva del codice, infatti, il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili, di cui al richiamato art. 630, co. 1, lett. a), non può essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni, ma deve assumere i connotati di una oggettiva incompatibilità tra i «fatti» su cui si fondano le diverse sentenze, giacché, ove così non fosse, la revisione si trasformerebbe in un improprio strumento di controllo della «correttezza» di giudizi, ormai irrevocabilmente conclusi. Ugualmente non fondata è stata ritenuta la prospettata violazione dell’art. 10 Cost., dedotta sul presupposto che alcune fra le garanzie fondamentali enunciate dalla CEDU – fra le quali il principio di presunzione di non colpevolezza – coincidono con altrettante norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, che trovano adattamento automatico nell’ordinamento interno. Il parametro invocato, ha infatti osservato la Corte, si riferisce alle norme consuetudinarie, mentre la disciplina convenzionale evocata dal giudice a quo, in quanto pattizia, esula dal relativo campo di applicazione e non può avere, rispetto ad esso, funzione integratrice. Non senza rilevare, d’altra parte, come la presunzione di non colpevolezza – posta a fondamento del richiamato profilo di illegittimità costituzionale – accompagni lo status di processando, impedendo di operare sfavorevoli anticipazioni del giudizio di responsabilità, ma si dissolve necessariamente allorché il processo è giunto al proprio epilogo: la revisione, al contrario, mira a riparare un ipotetico errore di giudizio alla luce di fatti nuovi, e non a rifare un processo iniquo. Ugualmente infondata è stata ritenuta dalla Corte anche la pretesa violazione dell’art. 27, co. 3, Cost., dedotta sul rilievo che la funzione rieducativa della pena presupporrebbe, secondo il giudice a quo, «istanze etiche che trovano contrappunto in regole processuali non inique». In realtà, osservò infatti la Corte, se si assegnasse alle regole del giusto processo una funzione strumentale alla rieducazione, si assisterebbe ad una paradossale eterogenesi dei fini, che vanificherebbero la stessa presunzione di non colpevolezza, dal momento che «giusto processo» e «giusta pena» sono categorie fra loro eterogenee e non confondibili; «se non al prezzo, come si è già accennato, di una inaccettabile trasfigurazione dello «strumento » (il processo) nel «fine» cui esso tende (la sentenza irrevocabile e la pena che da esso può conseguire». Pur dovendo dunque pervenire ad una declaratoria di infondatezza della questione, la Corte – caso non unico, ma certo non frequente – ritenne «di non potersi esimere dal rivolgere al legislatore un pressante invito ad adottare i provvedimenti ritenuti più idonei, per consentire all’ordinamento di adeguarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbiano riscontrato, nei processi penali, violazioni ai principi sanciti dall’art. 6 della CEDU».
2.1 Il nuovo scrutinio della Consulta e la novatio dell’istituto della revisione
La perdurante inerzia del Parlamento ed il nuovo «perimetro» della quaestio sollevata sempre dalla Corte di appello di Bologna, stavolta focalizzato tutto sull’art. 117, co. 1 Cost., assumendo quale norma interposta l’art. 46, in riferimento all’art. 6, della CEDU, hanno finito per «far breccia» nelle scelte della Consulta, chiamata a dover comunque «creare» uno spazio processuale all’interno del quale iscrivere la ormai ineludibile esigenza di conformare il sistema domestico alla esigenza di assegnare un meccanismo «restitutorio» al condannato a seguito di processo riconosciuto come «non equo» dalla Corte di Strasburgo. Pur nella consapevolezza, infatti, della sostanziale «eccentricità» della sede nella quale iscrivere il nuovo «caso», la Corte – con la sentenza 7.4.2011, n. 113 − ha infatti ritenuto di dover dichiarare costituzionalmente illegittimo il denunciato art. 630 c.p.p., proprio nella parte in cui esso non prevede «un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, § 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo». La Corte, nella ritenuta impossibilità di mantenere immune il sistema a fronte del riscontrato vulnus costituzionale, finisce per «traslare» sui giudici (chiamati a «trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione») e sul legislatore (invitato a «provvedere eventualmente a disciplinare nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione») la creazione di un modello alternativo di revisione, non più destinata a purgare una sentenza di condanna «ingiusta», ma a riaprire un processo «non equo», secondo i dicta della Corte europea dei diritti dell’uomo ed alla cui pronuncia occorre conformarsi. La Corte fornisce alcune coordinate utili a tracciare i binari entro i quali iscrivere il nuovo modello, pur nella consapevolezza della sostanziale labilità della traccia indicata: necessaria, forse, per rendere la pronuncia additiva «autoapplicativa» e non di mero principio, ma certo insufficiente a colmare i numerosi e delicati problemi cui il nuovo «istituto» andrà incontro nella sua (certo rara) attuazione. Si tratta, anzitutto, di un rimedio destinato a «riaprire» il processo, con la conseguenza che, avuto riguardo alle specifiche «censure» additate dalla Corte di Strasburgo, al giudice domestico spetterà qualificare la natura dei «vizi» degli atti processuali «incriminati » (nella vicenda de qua si tratterà, evidentemente, di inutilizzabilità), procedere alla conseguente verifica di «resistenza», nel panorama delle acquisizioni processuali già compiute (sempre che la stessa, come non di rado accade, sia stata già operata dalla Corte europea), e disporre eventualmente la rinnovazione della attività reputata non in linea con i principi del «giusto processo». Il tutto, non senza considerare che sarà soltanto alla luce dei dicta del giudice della Convenzione e delle esigenze di «riparazione» in forma specifica da esso additate che potrà rendersi attivabile la nuova figura di revisione, non potendosi certo pretendere la «riapertura » del processo in presenza di violazioni della CEDU che non comportino (l’esempio emblematico è la durata non ragionevole del processo) la necessità di un siffatto epilogo «restitutorio».
In mancanza di un salutare intervento normativo, la revisione «straordinaria», introdotta (ma necessariamente non disciplinata) dalla Corte, lascia sul campo una intricata matassa di nodi interpretativi che possono soltanto essere qui accennati. Se da un lato, infatti, è evidente che spetti soltanto alla Corte di Strasburgo «interpretare» la Convenzione e conseguentemente accertare se, in concreto, in un determinato procedimento, si sia realizzata – ed in che modo – una specifica violazione, e se, ancora, è sempre alla decisione di quella Corte che occorre rifarsi per individuare il relativo rimedio in executivis per lo Stato chiamato a conformarsi a quella pronuncia, a norma dell’art. 46, § 1, della Convenzione, resta nel vago quali siano le attribuzioni del giudice del «rescissorio», ponendosi ante portas un problema di «interpretazione» dei punti e dei limiti che caratterizzano la decisione «rescindente». Ci si potrà infatti chiedere se il «giudicato» di Strasburgo ammetta effetti estensivi; se possano residuare capi o punti della originaria sentenza che restano immuni alla portata demolitoria di quel giudicato; se il giudice della «revisione» possa o meno liberamente apprezzare la incidenza, ai fini della decisione sul merito, degli atti da «eliminare » in quanto causa della ritenuta non equità del precedente giudizio; se sia possibile ipotizzare un effetto di «contaminazione » tra quegli atti ed altri che da quelli dipendano, sulla falsariga della mai sopita problematica dei «frutti dell’albero avvelenato». In sostanza, se il richiamo all’istituto della revisione si atteggia alla stregua di mero riferimento al genus del rimedio straordinario, evocato soltanto perché reputato come il più «assonante» alla esigenza di riaprire il processo, ciò non toglie che la obiettiva opinabilità del «percorso processuale» cui il giudice del nuovo giudizio dovrà attenersi, e la corrispondente vaghezza che ne caratterizza lo stesso perimetro decisorio (salvo il divieto di reformatio in peius), finiscano per collocare il nuovo istituto «coniato» dalla Consulta, agli estremi confini di compatibilità con il principio di riserva di legge che vige in materia di processo penale.