Imputato detenuto e garanzia della corrispondenza
Con una sentenza resa nell’anno di riferimento, le Sezioni Unite hanno tracciato i confini entro cui, nel nostro sistema processuale, è possibile apporre limitazioni alla libertà e alla segretezza della corrispondenza del detenuto a scopo di approvvigionamento probatorio. Il contributo che segue passa in rassegna le basi teoriche su cui riposa la pronuncia de qua per poi vagliarne in chiave critica gli esiti interpretativi. In particolare, la riflessione dà conto di come, sotto la superficie di una ricostruzione giuridica apparentemente solida e risolutiva dei molteplici problemi sollevati dalla prassi, molti siano, in realtà, le questioni rimaste aperte ed i nodi ancora da sciogliere nell’ottica di una regolamentazione finalmente soddisfacente delle intrusioni, investigative e non, nella corrispondenza del detenuto.
Nel costante bilico tra esigenze contrapposte che caratterizza il processo penale, non è infrequente assistere a tentativi di depotenziare – a volte, attraverso inopinate forzature interpretative1 ‒ cruciali congegni di garanzia in nome di una giustizia penale certamente non più affidabile o “illuminata” ma, di sicuro, dagli itinerari meno accidentati.
Problema atavico, stavolta a pagarne le conseguenze è stato il diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza, sub specie, del detenuto, la cui regolamentazione ex art. 18 ord. penit. è, peraltro, già stata in passato bersaglio di non poche critiche: numerose sono state, infatti, le condanne dell’Italia da parte della C. eur. dir. uomo per contrasto dell’originario art. 18 ord. penit. con l’art. 8 CEDU2, senza contare i moniti e le censure provenienti dalla Consulta per i difetti di raccordo tra la disciplina de qua e le garanzie di cui agli artt. 15 e 24, co. 1, Cost.3
Riordinata la materia dal punto di vista normativo (l. 8.4.2004, n. 95), sono, quindi, proliferate prassi investigative volte ad assicurare il monitoraggio e l’apprensione della corrispondenza, in entrata e in uscita, del detenuto in sostanziale elusione dei limiti e delle garanzie previste dalla legge per tali forme di controllo e di approvvigionamento probatorio.
Due, in sintesi, le strade battute: tramite ordine del p.m. al direttore della Casa Circondariale di esibire alla p.g. e di consentire l’estrazione di copia ex art. 256 c.p.p. dei flussi epistolari del detenuto ovvero previa autorizzazione del giudice preordinata al medesimo risultato. Il tutto, sia in un caso che nell’altro, da svolgersi all’oscuro del diretto interessato.
Approdata in Cassazione, la questione ha ricevuto soluzioni non univoche tanto in punto di inquadramento giuridico dell’attività investigativa de qua quanto nel tipo di garanzie che devono comunque assisterne l’espletamento; contrasto, questo, la cui risoluzione ha reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite il cui maggior pregio è però quello di aver messo a nudo le incongruenze e i troppi silenzi di una disciplina non ancora all’altezza delle aspettative4.
Il dibattito apertosi in seno alla giurisprudenza di legittimità circa le garanzie ed i limiti che presiedono all’apprensione ed all’utilizzo probatorio della corrispondenza del detenuto si è polarizzato attorno a due principali filoni di cui giova, quindi, dare contezza prima di passare all’analisi delle ragioni sottese al dictum delle Sezioni Unite.
2.1 Intercettazioni versus sequestro di corrispondenza
Secondo un indirizzo giurisprudenziale senza dubbio maggioritario, il principale elemento di criticità riscontrabile nelle manovre acquisitive della corrispondenza del detenuto invalse nella prassi si innesterebbe, in primis, sulla mancata osservanza delle garanzie previste dalla legge in materia di accesso a quelle particolari forme di comunicazioni qualificabili come “corrispondenza”.
L’apprensione di plichi coinvolti in una attività di spedizione dovrebbe essere, infatti, condotta secondo le forme proprie del sequestro di corrispondenza ex art. 254 c.p.p. con conseguente obbligo di deposito dei relativi verbali presso la segreteria del pubblico ministero ai fini dell’esercizio, entro cinque giorni dal deposito – o, se del caso, dalla notifica dell’avviso dello stesso – da parte del difensore della facoltà di prenderne visione ed estrarne copia.
La disciplina de qua, applicabile in via generale, dovrebbe poi integrarsi, nei casi di corrispondenza del detenuto, con quanto in materia previsto dall’ordinamento penitenziario.
In particolare, l’art. 18 ter ord. penit., così come novellato nel 2004, stabilisce che il contenuto della corrispondenza del detenuto può essere conosciuto dalle autorità previa sottoposizione della stessa a «visto di controllo» ex co. 1, lett. b), della medesima disposizione; provvedimento, questo, la cui competenza grava: in capo al giudice che procede ex art. 279 c.p.p., prima che sia stata emessa la sentenza di primo grado; al magistrato di sorveglianza, successivamente.
Facendo leva su tali coordinate teoriche, la giurisprudenza prevalente stigmatizza in toto ogni pratica volta ad acquisire i contenuti dei flussi epistolari che transitino negli istituti di pena all’insaputa dei detenuti essendo la captazione occulta incompatibile sia con la disciplina generale vigente in materia di sequestro di corrispondenza sia con le regole appositamente dettate a salvaguardia dei diritti del detenuto: egli, infatti, ex art. 18 ter, co. 5 (e già ex art. 38, co. 10, reg. ord. penit. così come novellato ex d.P.R. 30.6.2000, n. 230) ha diritto di essere immediatamente informato nel caso la sua corrispondenza sia stata trattenuta.
La soluzione giuridica accolta dalla giurisprudenza maggioritaria ha ceduto, però, il passo, in alcune pronunce, ad una diversa costruzione. In particolare, l’alveo nel quale legittimamente ricondurre l’apprensione occulta della corrispondenza del detenuto sarebbe quello dell’art. 266 c.p.p.5
L’attività investigativa de qua giustificherebbe, infatti, una applicazione analogica della disciplina delle intercettazioni di cui rappresenterebbe un’ipotesi atipica tollerata dal sistema perché non vietata dalla legge ed idonea a garantire i diritti fondamentali della persona. Nessuna valenza assumerebbe, invece, l’apposizione del «visto di controllo» ex art. 18 ter ord. penit. trattandosi di istituto ispirato a finalità di prevenzione dei reati e, pertanto, inconferente rispetto alle esigenze proprie del processo penale. Né con ciò si eluderebbe la copertura giurisdizionale necessaria per l’apertura dei plichi, essendo la stessa assicurata dal potere autorizzativo che la disciplina ex art. 266 c.p.p. riserva al giudice.
2.2. La soluzione accolta dalle Sezioni Unite
La posizione assunta dalla giurisprudenza prevalente ha ricevuto l’avallo delle Sezioni Unite che negli artt. 254 c.p.p. e 18 ter ord. penit. hanno, infatti, individuato l’esatta cornice giuridica entro cui convogliare le attività di indagine implicanti in un’intrusione nella corrispondenza del detenuto. Egli, infatti, proprio in ragione del suo stato di costrizione, necessita di un regime di tutela più stringente e rigoroso che nel visto giurisdizionale di controllo e nell’obbligo di informativa trova i suoi pilastri fondanti e inalienabili.
Rileva il Supremo Collegio che il contrario assunto per cui l’art. 18 ter non opererebbe in questa sede non è condivisibile emergendo chiaramente dalla contrapposizione tra indagini investigative e di prevenzione dei reati presente nel dettato normativo la funzionalizzazione di tale disciplina anche al soddisfacimento di esigenze susseguenti e connesse all’emersione di una notitia criminis.
Il rilievo è indicato come pregiudicante anche la possibilità di legittimare tali manovre captative invocando il concetto di prova atipica: l’art. 189 c.p.p. ne circoscrive la legittimità alle prove non vietate dalla legge, laddove, invece, le intercettazioni epistolari integrano proprio una attività vietata dall’ordinamento penitenziario e pertanto priva dei necessari requisiti di ammissibilità richiesti per le prove innominate.
L’aggiramento di tale specifica disciplina non è, peraltro, giudicato realizzabile neppure facendo leva sull’applicazione analogica dell’art. 266 c.p.p.: tale disposizione, infatti, incidendo su una materia presidiata da riserva di legge e riserva di giurisdizione, è per sua natura sottratta dal campo d’azione dell’analogia.
Ma, rilevano le Sezioni Unite, una diversa conclusione non è veicolabile neppure attraverso un’interpretazione estensiva del concetto di «comunicazioni» ex art. 266 c.p.p.
Suggerisce tale conclusione, innanzitutto, il dato letterale che, precisamente, allude a forme di comunicazione implicanti l’utilizzo di strumenti tecnologici alieni al meccanismo epistolare.
Che una diversa lettura non sia ammessa sarebbe, però, dimostrato anche da una disamina dei lavori preparatori al codice di procedura penale del 1988. Nelle sue osservazioni, il Governo, delegato all’emanazione del codice, dichiarò, infatti, di non poter accogliere la proposta delle Commissione Parlamentare di introdurre nell’art. 266 c.p.p. un riferimento all’art. 353 c.p.p.: tale emendamento avrebbe contrastato con quanto affermato nella direttiva 41 della legge-delega ove, invece, veniva individuata una specifica ratio di garanzia soltanto per quelle forme di intercettazioni che presuppongono la «comunicazione orale e in itinere, non per forme che si traducono in intercettazioni statiche e cioè dei risultati delle comunicazioni». Senza contare il disegno di legge presentato nella XV legislatura per estendere anche alle intercettazioni di corrispondenza postale non interruttive il corso della spedizione la disciplina degli artt. 266 c.p.p. dal quale, argomentando a contrario, la Corte ricava ulteriore conferma dell’impossibilità di accogliere un’esegesi estensiva del concetto di comunicazioni ivi contenuto.
La soluzione sviluppata dalle Sezioni unite in tema di limitazioni alla corrispondenza del detenuto, sebbene improntata ad un giustificato garantismo, sembra prestare il fianco a non poche considerazioni critiche.
Innanzitutto, privo di pregio appare l’assunto per cui la attività di fotocopiatura delle missive troverebbe nella disciplina del sequestro di corrispondenza di cui all’art. 254 c.p.p. la propria normativa di riferimento. La sola estrazione di copia, specie se condotta senza bloccare l’iter delle missive, non può, infatti, essere ricondotta nel paradigma del sequestro, essendo sprovvista delle conseguenze ablative tipiche del mezzo di ricerca della prova invocato6; il codice, del resto, dedica a tale specifica modalità di acquisizione della prova una disposizione apposita ‒ l’art. 258 c.p.p. – che, dunque, sembra destinata a trovare applicazione anche quando coinvolga documenti integranti corrispondenza. Ciò precisato, che ai fini dell’estrazione di copia delle missive sia comunque indispensabile il preliminare sequestro delle stesse ai sensi dell’art. 254 c.p.p., si ricava argomentando come, altrimenti, difficilmente potrebbe giustificarsi la sospensione dell’inoltro delle lettere per il tempo necessario a fotocopiarne il contenuto.
Inquadrata l’attività di copia della corrispondenza nella sua esatta cornice giuridica, occorre a questo punto soffermarsi sul se l’emissione di un decreto ex art. 254 c.p.p. sia o meno idoneo a legittimare l’apprensione pro futuro della corrispondenza del detenuto. Ad avviso della dottrina e di parte della giurisprudenza, l’obbligo motivazionale circa il rapporto di pertinenza esistente tra la res ed il reato per il quale si procede cui la legge ancora l’operatività del sequestro sarebbe logicamente incompatibile con l’apposizione di un vincolo avente ad oggetto missive non ancora redatte né spedite7.
In vero, però, considerata la flessibilità di contenuto che, ex art. 254 c.p.p., può assumere l’obbligo di motivazione ivi previsto, la rilevata incompatibilità tra la struttura dell’atto e l’apprensione nel futuro della corrispondenza del detenuto sembrano da escludersi quantomeno laddove il sequestro riguardi missive palesemente indirizzate o spedite dall’imputato/detenuto: in tali circostanze, la legge non richiede, infatti, alcuna motivazione in ordine alla relazione tra il reato e la res, essendo la corrispondenza dell’imputato ipso facto suscettibile di sequestro.
Spostando l’analisi sulla disciplina dettata dall’ord. pen., non poche perplessità suscita, poi, il nesso che la Cassazione ravvisa tra l’obbligo di immediata informazione ex art. 18 ter, co. 5, ord. penit. e l’acquisizione di copia della corrispondenza.
La legge stabilisce che il detenuto ha diritto di essere immediatamente avvertito soltanto se le missive, dopo l’apposizione del visto di controllo, vengano anche trattenute. La definizione della portata dell’obbligo di immediata informativa ruota, dunque, attorno al significato che si attribuisce al termine «trattenere».
Ad avviso del plenum, concretizza un’operazione di trattenimento della corrispondenza ex art. 18 ter co. 5, ord. penit. anche la temporanea sospensione dell’inoltro delle missive funzionale all’acquisizione della prova documentale mediante fotocopiatura delle stesse.
Tale interpretazione, sebbene in abstracto compatibile con il significato letterale del termine impiegato dal legislatore, non sembra, però, cogliere il senso reale della disposizione così come promanante da una disamina dell’intera perifrasi di cui la stessa si compone. Il legislatore, infatti, ancorando l’ordine di trattenimento della posta alla decisione di non consegnare od inoltrare la stessa al destinatario, sembra espressamente espungere dalla gamma dei significati riconducibili al concetto di “trattenere” ogni operazione priva di reali effetti interruttivi della spedizione8.
Se, dunque, è vero che il detenuto ha diritto di essere informato della fotocopiatura delle sue missive è altrettanto vero che tale diritto trova la propria fonte normativa non nell’art. 18 ter, co. 5, ord. penit., ma nella disciplina codicistica del sequestro di corrispondenza, con conseguente possibilità di acquisizione occulta di copia delle missive ove l’art. 254 c.p.p. non trovi applicazione.
Connesso all’obbligo di informativa vi è, infine, il problema dei rimedi esperibili dal detenuto avverso i provvedimenti limitativi del diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza previsti dall’ordinamento penitenziario.
Il problema, seppure di portata generale, assume particolare rilievo nell’ambito del procedimento penale essendo l’assoggettamento a controllo della corrispondenza del detenuto il presupposto base di legittimità per procedere al sequestro della stessa e, quindi, alla sua fotocopiatura.
Come sottolineato dalla dottrina9, il nucleo della questione si innesta su un difetto di coordinamento interno al dettato normativo: l’art. 18, co. 6, infatti, pur riconoscendo al detenuto la possibilità di contestare la legittimità dei provvedimenti di cui ai co. 1 e 5 della medesima disposizione, solo in relazione all’ordine di trattenimento della corrispondenza prevede un formale obbligo di comunicazione; discrasia che come è ovvio rifluisce negativamente sulla possibilità del detenuto di avvalersi in via effettiva del rimedio accordato laddove si tratti di impugnare uno dei provvedimenti di cui la legge non prevede che egli venga messo a parte10; e se è vero che il detenuto potrebbe comunque arrivare ad assumere contezza del monitoraggio disposto sulla sua corrispondenza grazie all’apposizione di segni esteriori sulle missive che il visto di controllo per definizione implica, ciò apre, comunque, l’ulteriore problema della mancanza di un criterio obiettivo atto a definire con certezza il dies da cui far decorrere il termine di 10 giorni entro cui, in forza dell’art. 14 ord. penit., il reclamo va proposto.
1 Emblematico è quanto, di recente, accaduto in tema di rapporti tra contestazioni a catena e giudicato di condanna. In argomento, cfr., volendo, Ludovici, L., L’art. 297 comma 3 c.p.p. torna al vaglio della Consulta: nuova incostituzionalità per un istituto ancora molto perfettibile, in Giur. cost., 2011.
2 Cfr. C. eur. dir. uomo, 15.11.1996. Diana c. Italia, in Dir. pen. e processo, 1997, 162; C. eur. dir. uomo, 15.11.1996, Domenichini c. Italia, ivi, 163; C. eur. dir. uomo, 1.3.2000, Labita c. Italia, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 189; C. eur. dir. uomo, 24.10.2002, Messina c. Italia, ivi, 2003, 123; C. eur. dir. uomo, 26.7.2001, Di Giovine c. Italia, ivi, 2001, 1440.
3 Cfr., C. cost., 8.2.1999, n. 26, in Giur. cost., 1999, 175.
4 Cass. pen., S.U., 19.4.2012, Pasqua, in CED Cass., n. 252893.
5 cfr. Cass. pen., sez. V, 18.10.2007, Costa, in Cass. pen., 2009, 624, con nota di L. Calò, Art. 15 Cost.: quello strenuo conflitto tra garanzia e limitazione della corrispondenza. Contra, Iovene, F., Il diritto del detenuto alla segretezza della corrispondenza, in Cass. pen., 2010, 3531.
6 In senso conforme, Murro, O., Il rapporto tra controllo e garanzie della corrispondenza, in Dir. pen. e processo, 2010, 710.
7 Cfr., Tesoriero, S., Uno strano ordine di esibizione della corrispondenza sospeso tra sequestro ed intercettazione, in Cass. pen., 2008, 667. In giurisprudenza, v. Cass. pen., sez. II, 23.5.2006, Rescigno, ivi, 2007, 3800.
8 In tal senso, cfr. Cass. pen., sez. V, 18.10.2007, Costa, cit., 624.
9 Cfr., Iovene, F., Il diritto del detenuto alla segretezza della corrispondenza, cit., p. 3530; Conti, C., Il reclamo sulle restrizioni della corrispondenza in carcere nel quadro della tutela dei diritti dei detenuti, ivi, 2006, 282 ss.
10 Si v. Conti, C., Il reclamo sulle restrizioni della corrispondenza in carcere, cit., 2006, 282 ss.