MADACH, Imre (Emerico)
Poeta ungherese, nato il 21 gennaio 1823 ad Alsósztregova (Dolnia Strehová); ebbe un'educazione rigidamente cattolica, e, finiti gli studî di giurisprudenza, si avviò alla carriera amministrativa. Non ancora ventitreenne, si sposò con Elisabetta Fráter, donna leggiera, prodiga e civetta.
Nel 1852 M. fu arrestato per avere nascosto un profugo politico e, dopo un anno di prigione, fu confinato a Pest. Poco dopo, nel 1854, divorziò dalla moglie. Scosso dalla tragedia familiare, M. si ritirò nei suoi possedimenti, dedito all'educazione dei figli e all'economia e cercando conforto nella poesia. Nel 1861 venne eletto deputato e l'anno dopo socio della Società Kisfaludy e dell'Accademia delle scienze ungherese. Morì il 5 ottobre 1864 ad Alsósztregova.
Pur avendo cominciato a poetare molto presto, la fama del M. non è assicurata che al suo capolavoro Az ember tragédiája (La tragedia dell'uomo). Le liriche, raccolte nel volume Lantvirágok (Fiori di liuto, 1840), non sono che tentativi rudimentali. Anche nell'epica manca al M. la forte fantasia e la prontezza dell'espressione. Maggior valore hanno i suoi drammi Commodus, Nápolyi Endre (Andrea di Napoli), Férfi és nâ (Uomo e donna), Mária Királynâ (La regina Maria), Csák végnapjai (Gli ultimi giorni di Cs.) e la commedia sociale Csák tréfa (Soltanto una farsa); ma anche qui M. non rivela né doti di composizioni, né di vera psicologia. Oltre che nella commedia politica A civilizátor (Il civilizzatore) si trovano particolari preziosi nella tragedia Mózes (Mosè, 1860). Nel 1859 M. cominciò a lavorare intorno al suo capolavoro Az ember tragédiája (La tragedia dell'uomo), che pubblicò nel 1862 con le correzioni del poeta G. Arany. In questo grandioso poema drammatico, diviso in 15 scene, il poeta cerca il senso del destino umano, drammatizzando in scene simboliche la storia dell'uomo. Tali scene, collegate l'una all'altra dai medesimi rappresentanti tipici del genere umano e messe tutte al servizio della stessa idea principale, dànno al poema unità artistica. La cornice dell'opera è trascendente: essa ci trasporta nel cielo, donde il Creatore scaccia lo spirito della negazione, Lucifero; e nel paradiso, dove Lucifero riesce a sedurre la prima coppia, obbligandola a lasciare la dimora divina. Lucifero rimane con Adamo ed Eva e in sogno fa loro vedere il futuro. In questo modo tutta l'opera è formata da due parti: la cornice mitologico-simbolica e le visioni storiche. In ognuna delle visioni Adamo è all'inizio entusiasta di un principio o di una grande idea, ma si disillude presto e cerca un'altra idea che possa elevare la sua anima. Il primo uomo è il rappresentante della grandezza dell'animo, della nobile coscienza umana, ma è condannato a subire una serie di sconfitte, perché lotta quasi sempre per il bene comune, per la folla che non lo comprende e che infine lo fa cadere. Come faraone d'Egitto impara a conoscere la vanità della gloria, come Milziade viene mandato al patibolo dal popolo ingrato; come Sergiolo romano trova ripugnanti i piaceri sensuali e si rifugia nella purezza morale del cristianesimo; come Tancredi riconosce che invece dell'amore del prossimo è l'odio a regnare nelle anime cristiane; come Kepler è costretto a umiliarsi davanti ai contemporanei ignoranti e all'orgoglio di classe, come Danton vede che la folla non sarà mai matura a comprendere i grandi ideali della libertà. Nelle visioni seguenti Adamo, che finora era stato protagonista dell'azione, diventa contemplatore del corso degli avvenimenti. A Londra constata l'effetto dissolvente e corruttore del capitalismo, mentre nella società comunista riscontra l'oppressione dell'individualità e dei valori spirituali, finché nella scena eschimese, prevede la fine umiliante e sconfortante dei suoi figli sul globo agghiacciato. A questo punto Adamo si sveglia e nella sua disperazione, spinto anche da Lucifero, vuole già porre fine alla propria vita, per liberare i suoi discendenti dalla miseria del vivere, quando Eva gli fa sapere che è madre. L'uomo riconquista allora la calma e si rivolge al Signore che lo conforta a lottare con fiducia e tenacia.
M. fu senza dubbio influenzato tanto dal Faust di Goethe quanto dal Caino di Byron, ma tali influssi rimangono di natura esteriore, dato che tanto differente è l'idea principale di M. da quella dei suoi precursori. Il Faust è il dramma dell'individuo, La tragedia dell'uomo, il dramma dell'uomo collettivo. La differenza viene accentuata dal fatto, che M. è figlio di tutt'un'altra epoca e la sua concezione corrisponde allo spirito pessimistico e scettico dell'Ottocento. Altre fonti notevoli adoperate da M. sono la Bibbia, la filosofia della storia di Hegel, nonché le opere di Gibbon, Carlyle, Humboldt, Büchner e del sociologo M. Lukács. In generale M. è un ingegno indipendente, che ripensa con profonda acutezza filosofica l'urto fra l'intelletto e l'affetto, che commuove con la grandiosità delle sue concezioni e con l'esuberanza e chiarezza delle sue idee. Ma il poema ha pure i suoi difetti: esso è piuttosto opera di un filosofo che non di un poeta e i dialoghi comprendono troppi elementi dialettici. Il linguaggio, ricco bensì di forza e di enfasi, è poi privo di musicalità e di grazia.
Bibl.: K. Bérczy, M.J. emlékezete (Ricordo di E.M.), in Kisfaludytársaság évlapjai (Annuario della Società Kisfaludy, 1866); P. Gyulai, M.J. összes mëvei (Tutte le opere di E.M.), Budapest 1880; M. Palágyi, M.J. élete és költészete (Vita e poesia di E.M.), Budapest 1900; B. Alexander, M. és az Ember Tragédiája (M. e la Tragedia dell'uomo), in Képs magyar irodalomtörténet (Storia illustrata della letteratura ungherese), 2ª ed., Budapest 1907; G. Vojnovich, M. J. és az Ember Tragédiája (E. M. e la Tragedia dell'uomo), Budapest 1914; G. Barta, Az ismeretlen M. (M. sconosciuto), Budapest 1931.