Abstract
L’incapacità naturale, disciplinata dall’art. 428 c.c., concerne la situazione di un soggetto che, pur non essendo legalmente incapace di agire, sia comunque «per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere e di volere al momento in cui gli atti sono compiuti».
In proposito, la giurisprudenza e la dottrina sono chiamate, caso per caso, ad effettuare un bilanciamento fra protezione dell’incapace, da un lato, e tutela della certezza e della velocità dei traffici giuridici, dall’altro lato, poiché l’incapacità naturale, al contrario di quella legale, non risulta ufficialmente dai registri dello stato civile e, pertanto, non è sempre facilmente conoscibile.
L’art. 428 c.c. si riferisce genericamente agli «atti compiuti da persona incapace di intendere e di volere». La nozione di incapacità naturale è stata elaborata dalla dottrina ed introdotta nel codice civile solo con la l. 9.1.2006, n. 4, nella sezione in cui è collocata tale norma (Sezione I, Capo II, Titolo XII, Libro I, che appunto oggi si intitola: «Della interdizione, della inabilitazione e della incapacità naturale» - v. Inabilitazione, interdizione e amministrazione di sostegno).
L’incapacità naturale si contrappone al concetto di incapacità legale e si riferisce alla situazione in cui un soggetto, pur non essendo assoggettato ad una limitazione giudiziale della capacità di agire, al momento del compimento dell’atto, sia concretamente incapace di intendere e di volere, per qualsiasi causa, anche transitoria. La ratio è quella di bilanciare la tutela dell’incapace e l’affidamento della controparte, nonché la sicurezza e la velocità del traffico giuridico. Ciò in quanto l’incapacità naturale non risulta ufficialmente dai registri dello stato civile: ragion per cui, si ravvisa la necessità di tutelare i terzi che con tale soggetto vengano in contatto. Oltre che nell’art. 428 c.c., l’incapacità naturale si ritrova in norme specifiche, concernenti il matrimonio (art. 120 c.c.), il testamento (art. 591, n. 3 c.c.) e la donazione (art. 775 c.c.): in tali casi, l’annullabilità è comminata in presenza della sola incapacità, non essendo necessario nessun altro requisito, poiché qui la lesione della sfera dell’incapace è ritenuta in re ipsa. Inoltre, l’art. 2046 c.c. considera imputabile (e conseguentemente responsabile) solo il soggetto dotato di capacità naturale (essendo altrimenti possibile solo disporre a suo carico un’indennità, tenuto conto delle condizioni economiche di entrambe le parti, ex art. 2047, co. 2, c.c.).
Altro problema, di grande attualità, consiste nell’individuazione del soggetto abilitato ad esprimere il consenso all’atto medico.
L’istituto dell’incapacità naturale (quale strumento generale, volto a tutelare i disabili psichici non sottoposti a provvedimenti d interdizione/inabilitazione) venne introdotto per la prima volta dal codice del 1942. Il codice del 1865 prevedeva, in merito, solo singole disposizioni isolate: l’art. 366, che retrodatava l’effetto dell’interdizione agli atti compiuti prima del provvedimento giudiziale; nonché l’art. 337, che consentiva di richiedere l’annullamento degli atti compiuti in vita dall’incapace qualora, prima della sua morte, fosse già stato promosso il giudizio di interdizione, e purché fosse provato che tali atti erano stati compiuti in stato di infermità mentale. In tale contesto, la dottrina (v. Coviello, L., L’incapacità naturale di contrarre, in Riv. dir. comm., 1908, I, 273 ss.) iniziò ad ipotizzare una nozione generale di incapacità naturale, ritenendo che il negozio realizzato in stato di incapacità di intendere e di volere (anche momentanea) non esprimesse realmente la volontà del soggetto e, dunque, l’accordo fra le parti, con conseguente nullità virtuale di tale atto. Invece, il codice del 1942 dispone in tali casi il rimedio dell’annullabilità (subordinato ai requisiti del grave pregiudizio dell’incapace e della mala fede dell’altro contraente), volendo bilanciare la tutela della volontà del soggetto con altri valori ed interessi (in primis, la certezza dei traffici giuridici). La dottrina tradizionale (Giorgianni, M., La c.d. incapacità naturale nel Primo libro del Nuovo codice civile, in Riv. dir. civ., 1939, 413 ss.) ha criticato tale previsione normativa; e ciò tutt’oggi influisce sull’individuazione degli ulteriori rimedi (oltre all’annullabilità), cui ricorrere nei confronti degli atti posti in essere dall’incapace naturale (cfr. infra, § 9).
Si afferma, di solito, che, mentre l’incapacità legale sia una situazione di diritto, quella naturale integri una situazione di fatto. Infatti, l’incapacità legale è accertata in base a criteri sostanzali e/o procedimentali e risulta ufficialmente dai registri dello stato civile, garantendo così la certezza delle contrattazioni. Se il soggetto è interdetto, inabilitato o sottoposto ad amministrazione di sostegno (limitatamente agli atti inclusi nel decreto di nomina), la sua incapacità si presume iuris et de iure, determinando l’annullabilità degli atti posti in essere da questi senza la sostituzione o l’affiancamento rispettivamente del tutore, del curatore o dell’amministratore di sostegno.
Nei casi di incapacità legale, pertanto, non occorre dimostrare, di volta in volta, la situazione psicologica del soggetto al momento dell’atto, ma anzi l’incapacità naturale è presupposta dagli istituti di incapacità legale, che consentono così una tutela nei confronti di tutti gli atti della vita quotidiana. Parte della dottrina (Roppo, V., Il contratto, Milano, 2001, 773) ha tuttavia proposto di applicare l’incapacità naturale anche agli atti di ordinaria amministrazione, posti in essere dagli inabilitati e dai minori emancipati, di per sé non annullabili. Lo stesso problema rileva oggi per il beneficiario dell’amministrazione di sostegno, per gli atti non inclusi nel decreto di nomina. A sostegno di questa tesi, si evidenzia che, diversamente opinando, sussisterebbe una contraddizione del sistema, in quanto anche un soggetto nei cui confronti sia stato giudizialmente accertato uno stato di autonomia solo parziale può soffrire, in un determinato momento, di una situazione di incapacità totale; così come può accadere a qualunque persona legalmente capace. In senso contrario, si è tuttavia rilevato (Napoli, E.V., L’infermità di mente, l’interdizione, l’inabilitazione, in Comm. c.c. Schlesinger, sub artt. 414-432, Milano, 1995, II ed., 308) che, quando il legislatore ha voluto estendere la portata dell’art. 428 c.c. (come per gli atti dell’interdicendo, prima dell’interdizione, ex art. 427, co. 4, c.c.), lo ha enunciato espressamente; e che, qualora fossero annullabili, ex art. 428 c.c., anche gli atti di ordinaria amministrazione dell’inabilitato, si lederebbe il residuo spazio di libertà negoziale che sia il legislatore che il giudice hanno inteso attribuirgli. Del resto, laddove il curatore od il giudice ravvisino il pericolo di un approfittamento da parte di terzi, potrebbero pur sempre decidere di disporre l’interdizione.
Ci si chiesti se l’incapacità naturale rivesta una portata generale ed una finalità generale di protezione del soggetto debole; o se, invece, costituisca un vizio del singolo atto posto in essere dall’incapace. Il disposto dell’art. 428 c.c. induce a ritenere che l’incapacità di intendere o di volere debba essere verificata di volta in volta, in relazione allo specifico atto compiuto dall’incapace: questi potrebbe avere la capacità sufficiente per compiere un atto della vita quotidiana, ma non, ad esempio, per disporre di un bene immobile. In proposito, si afferma di solito la piena validità dei cd. atti di contrattualità minima, in quanto da questi non deriva alcun grave pregiudizio per l’incapace (Bianca, C.M., Diritto civile, La norma giuridica, I soggetti, Milano, 1987, I, 29 ss.; Cass., 13.11.1991, n. 12117). Oggi, una conferma in tal senso può trarsi dall’art. 409, co. 2, c.c., che permette al beneficiario dell’amministrazione di sostegno di compiere gli atti della vita quotidiana. Ci si è chiesti, altresì, se il legislatore, quando fa generico riferimento all’«incapacità», intenda rapportarsi all’incapacità legale od a quella naturale. Per lo più, la soluzione viene ricercata caso per caso, in base alla ratio delle singole norme: così, gli artt. 1190, 1191, 1769, 1939, 1950, co. 4, c.c. si intendono relativi all’incapacità legale; mentre altre norme vengono considerate compatibili anche con l’incapacità naturale, come ad esempio quelle sull’indebito ricevuto dall’incapace (art. 2039 c.c.) e sulla ripetizione dal contraente incapace (art. 1443 c.c.).
Si è detto che l’incapacità naturale si riferisce ad un soggetto privo della capacità di intendere e di volere per il compimento di uno specifico atto. Mentre l’interdizione richiede un’incapacità totale ed assoluta, nell’incapacità naturale è sufficiente che le facoltà psichiche del soggetto siano ridotte (Cass., 8.8.1997, n. 7344). Solo in relazione all’art. 591, n. 3, c.c., la giurisprudenza (Cass., 11.3.1995, n. 2865; Cass., 22.5.1995, n. 5620) richiede che le attitudini del soggetto siano totalmente menomate (ma qui si vuole preservare il più possibile la validità del testamento, quale atto non ripetibile). L’opinione maggioritaria è, inoltre, nel senso che non occorra ravvisare sia l’incapacità di intendere che quella di volere, data la formula disgiuntiva adoperata dalla norma. Mentre per l’interdizione occorre che l’incapacità di provvedere ai propri interessi sia caratterizzata da abitualità, per l’incapacità naturale non rilevano né la causa generatrice dell’incapacità né la sua ampiezza temporale. Oggi le sue cause ricomprendono qualsiasi menomazione della sfera intellettiva e volitiva, anche non patologica: ad esempio, i casi di ubriachezza o di tossicodipendenza; la suggestione ipnotica; l’età avanzata; le infermità fisiche; gli stati passionali acuti; l’intenso bisogno di denaro e, persino, la suggestione, la sorpresa, l’inesperienza e l’immaturità (Sacco, R., Il consenso, in Tratt. contratti Rescigno-Gabrielli, Torino, 1999, I, 419). Di per sé, non vengono invece ritenuti rilevanti i disturbi caratteriali o la depressione cronica.
È discusso se si possa chiedere l’annullamento anche nel caso di actiones liberae in causa, ossia dello stato di incapacità volontariamente procuratosi dal soggetto (ad esempio per ubriachezza): la dottrina maggioritaria (ad esempio, Pietrobon, V., Incapacità naturale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, 5) lo ammette, salvo il caso in cui l’incapacità sia stata procurata dolosamente proprio al fine di commettere l’atto; mentre altri (Rescigno, P., Incapacità naturale ed adempimento, Napoli, 1950, 71) lo escludono, non ravvisando in tali ipotesi il requisito del grave pregiudizio.
Ci si è chiesti se l’art. 428, co. 1, c.c., laddove fa riferimento agli «atti» posti in essere dall’incapace, si riferisca agli atti negoziali od a quelli giuridici in senso stretto; se riguardi solo gli atti dal contenuto patrimoniale ovvero anche a quelli dal contenuto personale; ed infine se concerna i soli atti unilaterali od includa anche i contratti (v. infra, § 6.3). Parte della dottrina (Rescigno, P., Incapacità naturale ed adempimento, cit., 38 ss.) ritiene che tale espressione possa essere riferita a tutti gli atti in cui rileva la volontà, ivi compresi il giuramento e la confessione, da cui possono discendere conseguenze negative per l’incapace. Secondo altri (Galgano, F., Diritto civile e commerciale, Le obbligazioni ed i contratti, Padova, 2004, IV ed., t. 2, 1, 375), il rimedio dell’annullabilità può applicarsi solo agli atti aventi natura negoziale.
Anche per gli atti di natura personale, si richiede che questi abbiano natura negoziale. In proposito, è discusso se il requisito del grave pregiudizio possa essere compatibile anche con tale tipologia di atti. Alcuni (Santoro Passarelli, F., Dottrine generali di diritto civile, Napoli, 1997, IX ed., 110) sostengono che, per gli atti non negoziali, l’incapacità rileverebbe con riguardo al compimento dell’atto, ma non con riferimento alle sue conseguenze. È stata così esclusa l’applicabilità dell’istituto al riconoscimento del figlio naturale che, secondo l’orientamento oggi prevalente, costituisce un atto di accertamento privato della filiazione, di natura non negoziale (Spangaro, A., Dell’interdizione, dell’inabilitazione e dell’incapacità naturale, in Balestra, L., a cura di, Della famiglia, in Comm. c.c. Gabrielli, Torino, 2009, 450). Ciò che conta non è, infatti, in tal caso, l’assenso delle parti interessate, bensì il favor veritatis: se l’atto di riconoscimento, compiuto dall’incapace, non fosse veritiero, si potrebbe pur sempre ricorrere all’impugnativa di cui all’art. 263 c.c. Ed infatti, gli effetti patrimoniali discendenti dalla filiazione naturale non possono essere negati al figlio solo perché il genitore è incapace; similmente, per quanto concerne gli effetti personali, non si può ritenere che il genitore incapace sia di per sé inidoneo al rapporto.
La questione principale concerne se, nel concetto di ‘atti’ previsto dal co. 1 dell’ art. 428 c.c., debbano ritenersi inclusi anche i contratti, cui è specificamente dedicato il co. 2 della medesima norma. In tal caso, anche per ottenere l’annullamento dei contratti, sarebbe necessario il requisito del grave pregiudizio; altrimenti, sarebbe sufficiente il solo requisito della mala fede della controparte. La maggior parte della dottrina (Rescigno P., Incapacità naturale ed adempimento, cit., 38; Galgano, F., Diritto civile e commerciale, cit., 375; Pietrobon, V., Incapacità naturale, cit., 5) ritiene che i due requisiti debbano sussistere entrambi anche per i contratti. In proposito, si evidenzia come la rubrica dell’art. 428 c.c. ed il suo co. 1 facciano riferimento genericamente agli ‘atti’, in cui sono inclusi anche i contratti. Ulteriormente, si pone in luce come l’idea della lesione stia alla base dell’intero rimedio e come difficilmente si possa ritenere che per i contratti sia perseguibile una diversa soluzione, poiché l’ulteriore requisito della mala fede dovrebbe anzi comportare una tutela più intensa per la controparte.
In giurisprudenza, tale posizione è tuttavia minoritaria (Cass., 26.2.1992, n. 2374). Si ritiene, invece, per lo più, che per i contratti il pregiudizio non costituisca un requisito ai fini dell’annullabilità, ma un mero indizio della mala fede (la cui prova dovrebbe essere supportata anche da ulteriori elementi e potrebbe essere anche fornita altrimenti). Si parla, in proposito, di approccio diacronico (Cass., 26.11.1984, n. 6105; Cass., 26.11.1987, n. 8783; Cass., 14.5.2003, n. 7403).
Tale orientamento è finalizzato ad agevolare l’azione di annullamento per l’incapace, semplificando l’onere probatorio su di lui gravante. Ciò in quanto, nel caso degli atti unilaterali, si deve fare necessariamente riferimento al grave pregiudizio e l’incidenza sul traffico giuridico è limitata; nel caso dei contratti, invece, occorre contemperare la tutela dell’incapace con quella dei terzi contraenti. Si è anche proposto, de iure condendo (Bozza Cendon 2007, recepita nel d.d.l. n. 510/2008, XVI legislatura «Rafforzamento dell’amministrazione di sostegno e abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione»), di valorizzare il requisito del pregiudizio, eliminando il co. 2, dell’art. 428 c.c. (col riferimento alla mala fede) ed estendendo anche ai contratti la disciplina del co. 1, nell’ottica di massimizzazione della tutela dell’incapace.
Quanto alla concezione di pregiudizio, si ravvisano due diverse letture: una oggettiva (Pietrobon, V., Incapacità naturale ed adempimento, cit., 6), che comporta una sproporzione fra il valore del bene oggetto di disposizione ed il corrispettivo ricevuto; ed una soggettiva (Marini, G., Annullabilità generali in ragione della capacità. Gli atti delle persone incapaci o limitatamente capaci di agire. L’incapacità di intendere o di volere, in Gentili, A., a cura di, Rimedi-1, in Tratt. Roppo, Milano, 2006, IV, 229), che considera anche le soddisfazioni emotive che siano derivate all’incapace dall’atto posto in essere. Oggi, infatti, l’orientamento maggioritario (Cass., 5.11.1990, n. 10577; Cass., 14.5.2003, n. 7485) riconosce rilevanza anche alle lesioni di carattere extrapatrimoniale, non solo con rifermento agli atti di carattere personale, ma anche a quelli patrimoniali, dai quali può comunque discendere un pregiudizio di carattere morale (si pensi all’utilizzo della propria immagine o del proprio nome, dietro corrispettivo, in modo lesivo della propria identità). Per commisurare il pregiudizio, ci si riferisce, fra l’altro, allo squilibrio fra le controprestazioni, tenendo conto, negli atti unilaterali, del vantaggio che l’autore ricava dall’atto. Ciò, facendo riferimento non solo alla quantità ma anche all’identità delle prestazioni e valutando se sussista uno squilibrio fra quanto posto in essere e ciò per cui il soggetto avrebbe optato se fosse stato compus sui. Nonostante il concetto di pregiudizio morale sia indeterminato e di difficile delineazione, non ci si può dunque limitare alla mera protezione economica del soggetto, dovendosi cercare di tener conto a tutto campo della situazione personale in cui si viene a trovare l’incapace.
La rilevanza della mala fede è giustificata dalla necessità di tutelare i terzi contraenti, anche qualora ciò possa determinare un sacrificio delle ragioni dell’incapace. Per la sussistenza di tale requisito non si richiede la conoscenza dell’incapacità, ovvero la volontà di danneggiare l’incapace, ma è sufficiente che l’altro contraente si sia avveduto della sproporzione fra le prestazioni e ne abbia approfittato (Cass., 8.8.1997, n. 7344; Cass., 2.6.1998, n. 5402).
A sua volta, non ogni consapevolezza dello stato di incapacità si traduce in mala fede: si pensi, ad esempio, al caso della compravendita a prezzi di listino. È discusso se sia possibile chiedere l’annullamento anche di un atto avvenuto al giusto prezzo, facendo valere, ad esempio, il valore di affezione del bene (Galgano, F., Diritto civile e commerciale, cit., 376). La mala fede, in base a quanto disposto dall’art. 428, co. 2, c.c., può risultare dal pregiudizio arrecato all’incapace, dalla qualità del contratto od altrimenti. A tal proposito, si è rilevato come la mala fede si sposti dal terreno soggettivo dell’indagine psicologica a quello oggettivo del comportamento posto in essere dalle parti. Per questo, si ritiene sufficiente la circostanza che la controparte avrebbe potuto conoscere il vizio contrattuale, usando la normale diligenza (Roppo, V., Il contratto ed adempimento, cit., 776). A maggior ragione, costituisce mala fede un comportamento attivo, volto a determinare lo stato di incapacità altrui (ad esempio, somministrazione di droghe o di alcool).
Abbiamo visto che l’art. 428 c.c. ricollega il (solo) rimedio dell’annullabilità agli atti posti in essere dagli incapaci naturali. Tuttavia, taluni (Pietrobon, V., Incapacità naturale, cit., 4), facendo leva sull’elemento volontaristico (e richiamandosi alle tesi tradizionali; cfr. retro, § 2), hanno proposto di tenere distinto il caso dell’incapacità che vizia il consenso senza impedirlo del tutto, da quello dell’incapacità cd. assoluta, che impedirebbe il formarsi stesso del consenso. L’art. 428 c.c. (col conseguente rimedio dell’annullabilità) troverebbe applicazione solo nelle ipotesi del primo tipo; al contrario, quando le facoltà di giudizio del soggetto venissero completamente azzerate, dovrebbe operare la nullità. Ciò comporterebbe l’applicabilità di tutta la disciplina in tema di nullità (artt. 1421 ss. c.c.), ivi compresa l’imprescrittibilità dell’azione (il che è rilevante, poiché la prescrizione è proprio uno degli aspetti più critici dell’art. 428 c.c., cfr. § 10.3).
In proposito, si recano gli esempi del sonnambulismo; dell’ipnotismo; dell’incapace che alzi la mano ad un’asta per spirito di emulazione; oppure di un grave stato di ubriachezza, tale da azzerare le capacità di comprensione del soggetto. Altri ancora ritengono che, in casi come questi, l’atto giuridico sia totalmente inesistente (Cass., 23.6.1956, n. 2231). Un’ulteriore ipotesi è costituita dall’atto stipulato a seguito di circonvenzione di incapace (art. 643 c.p.), considerato nullo per contrarietà a norme imperative da parte della giurisprudenza (Cass., 27.1.2004, n. 1427; Cass., 7.2.2008, n. 2860) e della dottrina (Bianca, C.M., Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1984, 583) (cfr. § 10.2).
In senso critico si è, invece, rilevato che il legislatore ha appositamente scelto il (solo) rimedio dell’annullabilità nei casi di incapacità naturale e che, accogliendo la tesi della nullità nelle ipotesi di incapacità assoluta, si esporrebbero proprio i soggetti più deboli al rischio che l’azione venga esercitata contro il loro interesse. Del resto, anche per gli atti posti in essere dagli interdetti (ossia nei casi più gravi), il codice civile prevede la soluzione dell’annullabilità, disponendo un rimedio unitario, applicabile a tutte le ipotesi di incapacità, indipendentemente dalla tipologia e dall’intensità della stessa.
L’art. 428, co. 1, c.c. dispone che l’azione può essere proposta dall’incapace, dai suoi eredi o dai suoi aventi causa. Dal novero degli aventi causa sono stati esclusi i creditori (aventi a disposizione altri strumenti di tutela). Sono stati invece considerati tali gli acquirenti di un bene immobile che abbiano trascritto dopo altri acquirenti, rispetto alla seconda alienazione dal dante causa incapace; chi sia stato preceduto nel godimento di un bene e voglia far annullare il titolo del primo consegnatario; chi abbia acquistato un diritto dipendente da quello che ha formato oggetto dell’atto di disposizione dell’incapace (Bertagnoni, E., Pregiudizio dell’incapace e malafede della controparte, in Riv. dir. comm., 1946, I, 482 ss.).
L’incapacità naturale non può essere invece opposta dalla controparte. Si afferma che gli eredi e gli aventi causa possano richiedere l’annullamento solo degli atti di contenuto patrimoniale, se ciò corrisponda al loro interesse (art. 1441 c.c.) (Cass., 16.4.1992, n. 4694).
Quanto alla questione della prova dell’incapacità, molte sentenze non richiedono una dimostrazione rigorosa, né dispongono in proposito una consulenza tecnica; ma si accontentano di una prova fornita con qualsiasi mezzo, anche per testimoni o presunzioni (Cass., 13.11.1991, n. 12117, cit.; Cass., 23.2.1995, n. 2085). Si tratta, comunque, di un giudizio di fatto, affidato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se sufficientemente e logicamente motivato. È discusso se l’accertamento compiuto in sede penale, con riferimento alla circonvenzione di incapace, esplichi effetto anche ai fini civili. Infatti, per la giurisprudenza, la condizione del soggetto passivo del reato di cui all’art. 643 c.p. (che fa riferimento a qualsivoglia «stato di incapacità o deficienza psichica») costituisce qualcosa di meno rispetto al presupposto di cui all’art. 428 c.c.(che richiede un perturbamento più intenso della mera alterazione della sfera psico-intellettiva). Pertanto, se in sede penale viene accertata la capacità, ciò avrà effetto anche in sede civile; mentre non varrà il contrario, ossia la condanna penale non vincolerà il giudice civile (Cass., 29.11.1994, n. 8994). La giurisprudenza si divide, inoltre, su quale sia il momento in relazione al quale occorra effettuare l’accertamento dello stato di incapacità: alcune sentenze richiedono che la prova sia riferita contestualmente al confezionamento dell’atto (Trib. Cagliari, 9.3.1992, in Riv. giur. sarda, 1994, 43); altre ritengono sufficiente fare riferimento alla situazione del soggetto prima e dopo la stipula dell’atto (Cass., 8.8.1997, n. 7344). Le pronunce del primo tipo, a ben vedere, riguardano casi in cui l’incapace sia affetto da malattie che consentono un lucido intervallo (ad esempio la demenza senile), tale da consentirgli, in quel momento, una sufficiente capacità di scelta. Invece, quelle del secondo tipo concernono malattie dal carattere permanente ed irreversibili, in cui l’incapacità si può ben presumere (salvo prova contraria) esistente al momento dell’atto.
Il termine quinquennale di prescrizione, per esercitare l’azione di annullamento, decorre dal giorno di compimento dell’atto (art. 428, co. 3, c.c.) e non già dalla cessazione dell’incapacità stessa (come previsto per l’incapacità legale).
Tale disposizione è finalizzata a ridurre l’incertezza sulla sorte degli atti posti in essere dall’incapace, fissando il dies a quo della prescrizione con riferimento ad un termine oggettivamente valutabile. In tal caso, viene svalutato l’elemento volitivo (che è invece al centro delle altre disposizioni esaminate), per privilegiare esigenze di certezza del traffico giuridico. Tuttavia, la previsione normativa è stata ritenuta inidonea a tutelare pienamente l’incapace, in quanto può escludere la possibilità di avvalersi dell’azione, tutte le volte in cui l’incapacità si sia protratta per più di cinque anni.
Si è, in ogni caso, osservato che la maggior parte delle azioni per incapacità naturale vengono proposte in casi di incoscienza temporanea o di breve durata. Inoltre, un’ulteriore tutela (seppure limitata) potrebbe ravvisarsi nell’art. 1442, co. 4, c.c., che consente pur sempre di far valere l’annullabilità, in via di eccezione, da parte di coloro che siano convenuti per l’esecuzione del contratto. In senso critico, si è evidenziato come, nel caso di incapacità legale, sia prevista una tutela più intensa e ciò rischi di creare una contraddizione nel sistema; e come ciò non si giustifichi più stante la recente valorizzazione dell’individuo e della sua personalità, avvenuta anche con l’introduzione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno (Napoli, E.V., L’infermità di mente, cit., 310).
Artt. 120, 428, 591, 775, 2046 e 2047 c.c.; art. 643 c.p.
Bertagnoni, E., Pregiudizio dell’incapace e malafede della controparte, in Riv. dir. comm., 1946, I, 482 ss.; Bianca, C.M., Diritto civile, La norma giuridica, I soggetti, Milano, 1987, I, 240 ss.; Bigliazzi Geri, L. - Breccia, U. - Busnelli, F.D. - Natoli, U., Diritto civile, I, 1, Norme, soggetti e rapporto giuridico, II, Fatti e atti giuridici, Torino, 1996, 132 ss.; Coviello, L., L’incapacità naturale di contrarre, in Riv. dir. comm., 1908, I, 273 ss.; Forchielli, P., Dell’infermità di mente, dell’interdizione e dell’inabilitazione, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, sub artt. 414-432 c.c., Bologna-Roma, 1988, 56 ss.; Galgano, F., Negozio giuridico (dottrine generali), in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, 942 ss.; Giorgianni, M., La c.d. incapacità naturale nel Primo libro del Nuovo codice civile, in Riv. dir. civ., 1939, 413 ss.; Marini, G., Annullabilità generali in ragione della capacità. Gli atti delle persone incapaci o limitatamente capaci di agire. L’incapacità di intendere o di volere, in Gentili, A., a cura di, Rimedi-1, in Tratt. Roppo, Milano, 2006, IV, 226 ss.; Napoli, E.V., L’infermità di mente, l’interdizione, l’inabilitazione, in Comm. c.c. Schlesinger, sub artt. 414-432, Milano, 1995, II ed., 285 ss.; Pescara, R., La figura dell’incapacità naturale di cui all’art. 428 c.c., in Tratt. Rescigno, 4, Torino, 1997, 867 ss.; Pietrobon, V., Incapacità naturale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, 1 ss.; Rescigno, P., Incapacità naturale ed adempimento, Napoli, 1950, 30 ss.; Roppo, V., Il contratto, Milano, 2001, 769 ss.; Sacco, R., Il consenso, in Gabrielli E., a cura di, I contratti in generale, I, Torino, 1999, 414 ss.; Sacco R. - De Nova, G., Il contratto, I, Torino, 2004, 366 ss.; Santoro Passarelli, F., Dottrine generali di diritto civile, Napoli, 1997, IX ed., 34 ss.; Spangaro A., Dell’interdizione, dell’inabilitazione e dell’incapacità naturale, in Balestra, L., a cura di, Della famiglia, in Comm. c.c. Gabrielli, Torino, 2009, 445 ss.; Venchiarutti, A., Incapaci, in Dig. civ., IX, Torino, 1993, 373 ss.; Venchiarutti, A., L’incapacità contrattuale, in Cendon P., a cura di, I contratti in generale, XI, Torino, 2000, 28 ss.