incontinenza (incontenenza) e incontinenti
Nella prospettiva etica della Commedia, e in particolare nell'ordinamento della prima e della seconda cantica, trova posto la trattazione relativa all'i. e conseguentemente in Inferno come in Purgatorio gl'incontinenti compaiono come personaggi d'incontro e figure ambientali e umane.
La costruzione morale del regno dell'eterna morte, pur foggiata, in un certo senso, sull'esempio illustre dell'Eneide virgiliana, risente in maniera particolare anche se non esclusiva l'influenza dell'etica aristotelica (la tua Etica, If XI 80), temperata e moderata attraverso la mediazione tomistica. Dell'una come dell'altra fonte il poeta si vale con la consueta libertà e consapevolezza critica, costantemente dimostrate nell'assunzione dei modelli. La pausa didascalica narrata nel canto XI corrisponde, verosimilmente, a un'esigenza di chiarificazione, destinata a illuminare e a orientare tutta la topografia morale del poema, in una valutazione che per ciò che si riferisce all'i. si presenta come retrospettiva. Il tempo della sosta necessaria per consentire l'adattamento al puzzo che 'l profondo abisso gitta (v. 5) viene utilmente impiegato da Virgilio per spiegare al discepolo la disposizione dei cerchi di peccatori che entrambi si accingono a visitare. Il discorso, pur nell'incisività sommaria dell'indicazione, non manca di una precisa linea di coerenza logica e morale, fondato com'è sui presupposti di un rapporto uomo-Dio e peccato-pena di per sé sufficientemente esplicito, almeno per ciò che attiene alla gravità della colpa, per violenza o per frode tale da attirarsi in sommo grado la condanna della giustizia divina. L'intenzione della parola di Virgilio, come si vede da una certa insistenza di tono e dalla precisione analitica dei particolari descrittivi inerenti, sia pure per sintesi, ai diversi tipi di peccato, è proiettata piuttosto e prevalentemente verso i cerchi infernali che ancora si presentano dinanzi all'esperienza di D. pellegrino che non verso i precedenti, già attraversati e percorsi, dei quali il maestro sembra voler già dare per acquisita nel processo di conoscenza posto in atto dal discepolo la giustificazione della ragione d'essere nonché dell'ordinamento morale che in essi si riflette. In realtà, però, non è così. D., al termine del discorso didascalico di Virgilio, pone in termini inequivocabili il problema dei peccatori posti al di fuori della città di Dite e sollecita una ben precisa presa di posizione da parte del maestro: Ma dimmi: quei de la palude pingue, / che mena il vento, e che batte la pioggia, / e che s'incontran con sì aspre lingue / perché non dentro da la città roggia / sono ei puniti, se Dio li ha in ira? / e se non li ha, perché sono a tal foggia? (If XI 70-75). Si noti con quanta efficacia D. riesca a compendiare in questo rapido contesto interrogativo la sua esperienza dei dannati collocati nei cerchi compresi tra il secondo e il quinto. La richiesta stimolante, mossa evidentemente non per pura curiosità, ma da una rigorosa, inquieta e problematica esigenza morale, provoca l'immediata e, si potrebbe dire, perentoria risposta di Virgilio: Non ti rimembra di quelle parole / con le quai la tua Etica pertratta / le tre disposizion che 'l ciel non vole, / incontenenza, malizia e la matta / bestialitade? e come incontenenza / men Dio offende e men biasimo accatta? / Se tu riguardi ben questa sentenza, / e rechiti a la mente chi son quelli / che sù di fuor sostegnon penitenza, / tu vedrai ben perché da questi felli / sien dipartiti, e perché men crucciata / la divina vendetta li martelli (vv. 79-90). Immediato e quasi severo è il richiamo virgiliano all'Etica a Nicomaco di Aristotele (la tua Etica), che costituisce, attraverso la mediazione e il commento interpretativo di s. Tommaso, un testo fondamentale nella tradizione medievale e quindi nelle fondazioni della cultura dantesca. Viene così ribadito il principio di autorità, rappresentato da un autore esemplare qual è appunto Aristotele, riascoltato e riproiettato attraverso la non direttamente citata, ma chiaramente sottintesa presenza tomistica nei termini di un discorso che illumina storicamente, sempre, s'intende, nel senso medievale della parola e del concetto a essa inerente, l'interpretazione e la giustificazione della legge morale, e conseguentemente della posizione che, presentandosi in una ben precisa gradualità di colpe, l'anima cristiana viene ad assumere davanti a Dio.
L'i. si delinea subito come una delle tre disposizion che 'l ciel non vole, cioè una delle attitudini e dei comportamenti umani, che, concretandosi in altrettante seppur diverse violazioni della legge divina, recano offesa a Dio e quindi gli sono sgraditi. Una distinzione siffatta è affidata, nella finzione poetica, al recupero della memoria del pellegrino D. e al riaffiorare in essa degli elementi esaurienti della trattazione filosofica e morale (pertratta). Non dovrebbe, perciò, apparire difficile comprendere come l'i., pur essendo senza alcun dubbio un peccato, e tale da comportare, ove non vi sia nell'anima il pentimento e il ritorno alla grazia, la dannazione eterna, tuttavia, rispetto agli altri che sono puniti nella città di Dite, costituisca una meno grave offesa di Dio e quindi riceva una meno forte nota di biasimo e di disprezzo. Su questo principio etico, a parere di Virgilio, D. non può avere dubbi, purché si richiami apertamente col pensiero al fondamento della dottrina morale di Aristotele, nella quale è da vedere la giustificazione della collocazione degl'incontinenti fuori della città di Dite.
Gli studiosi e i commentatori dell'opera di D., particolarmente attenti a cogliere nel pensiero del poeta e nella figurazione della Commedia il rapporto filosofia-teologia con l'incidente e prevalente connotazione poetica, hanno dibattuto intorno a questo problema diversi punti di vista e interpretazioni talora contrastanti. Si è notato, innanzi tutto, come l'i. si configuri quale incapacità di contenere, cioè di frenare e di mantenere entro i limiti dell'onesto e del giusto, la volontà eccitata dalle passioni nell'ordine d'istinti e di appetiti naturali e quindi per sé stessi, se mantenuti con moderazione, sani e legittimi. Negl'incontinenti il principio del peccato si ravvisa nella concupiscenza che è assecondata dalla volontà, portata per debolezza a cedere e a soggiacere alle passioni. Ove si consideri la materia dell'i., si constaterà che si tratta di cose dilettevoli o per natura o per sé stesse, per cui si potrebbe fare distinzione tra un tipo d'i. propria, che ha per oggetto i piaceri corporei del gusto e del tatto, e un'i. invece impropria, inerente alle ricchezze, al guadagno, all'onore, all'ira e a beni corporei siffatti. Il peccato consiste nel coltivare questi piaceri più di quanto non comporti la retta ragione e nell'abbandonarsi troppo a essi. Secondo Aristotele l'i è considerata come una malattia intermittente e non cronica e continua, e coloro che a essa si abbandonano cercano il diletto personale per impeto di passione, pur non impegnando completamente il giudizio dell'intelletto. Secondo il Busnelli, D. introduce nell'Inferno due forme d'i. propria (la lussuria e la gola) e due d'i. impropria (l'avarizia unita alla prodigalità e l'ira). All'interno di esse il critico, sulla traccia del testo tomistico (Comm. Eth. VII I 6), scorge un'ulteriore differenziazione con conseguente gradazione nella gravità della colpa, per cui le prime due, in quanto attinenti a forme di concupiscenza naturali e necessarie, sono meno gravi delle rimanenti che si riferiscono a brame non strettamente necessarie e non proprie di tutti gli uomini. Sotto tale profilo di gradazione l'avarizia, pure accecando l'intelletto più dell'ira, è meno dannosa e reca alla ragione minor turbamento di quanto non ne procuri l'ira, che con il desiderio sfrenato della vendetta reca al prossimo un danno maggiore. Parimenti, dalla lussuria attraverso la gola, l'avarizia e la prodigalità si avrebbe fino all'ira una gradazione discendente o riduttiva in ordine alla diffusione del peccato. Per riflesso o, se si vuole, per contrario, una determinazione dell'i. s'incontra ancora nel testo tomistico (" Simpliciter incontinentia dicitur sola illa quae est secundum temperantiam humanam ", Comm. Eth. VII I 5), in un'accezione che potrebbe applicarsi ai peccatori dei primi cerchi infernali. Anche per il Pietrobono, come per altri studiosi, ad es. il Nardi, la lonza (If I) potrebbe rappresentare, ma non necessariamente, la raffigurazione concreta dell'i.; coloro che si macchiano di tale peccato si può dire che " rimangono in eterno vittime delle false immagini di bene con le quali la lonza li aveva sedotti ". Il Pietrobono ritiene che nell'incontinente manchi la volontà di fare male ad altri con forza o con frode e che quindi in lui " la violenza e l'ingiustizia sono solamente implicite, ma non sì che con l'aggravarsi del male non tendano a farsi sempre più manifeste ". Il Nardi, dal canto suo, ricollega il carattere didascalico di If XI a quello di Pg XVII e sottolinea come il poeta, pur muovendo dal pensiero aristotelico, sostanzialmente rifugga da ogni schematismo pseudomorale. Gl'incontinenti " non sono malvagi per deliberata volontà, ma per passione o impulso ribelle al freno della ragione ", e quindi giustamente sono collocati fuori della città di Dite. Essi sono peccatori passionali che non sanno vivere secondo ragione, contraddicendo al principio affermato da D. secondo il quale vivere ne l'uomo è ragione usare (Cv IV VII 11); quindi, chi si allontana dall'uso della ragione si comporta come una bestia (è morto [uomo] e rimalo bestia, § 14). Anche se non malvagi gl'incontinenti sono, pertanto, dei peccatori. Del resto, l'abito della colpa, secondo il Fallani, si distingue appunto per la gravità della partecipazione della volontà e della conoscenza all'atto peccaminoso, e nel caso specifico degl'incontinenti si configura come abuso delle cose, le quali sono possedute con troppo o scarso vigore.
L'i., che è radice e principio di tutti i peccati, è condannata nella prima regione infernale, se non ne segue pentimento alcuno, mentre se vi è stato tempestivo pentimento è espiata in alcune cornici del Purgatorio. Non v'è dubbio, d'altro canto, che, come ha notato il Montanari, D. abbia voluto far sentire la forte differenza esistente tra i peccati derivanti dalla debolezza della volontà e quelli originati dalla deliberata volontà di fare il male agli altri. Più recentemente il Pagliaro ha osservato come l'indubbia importanza della dottrina aristotelica nell'ordinamento dell'Inferno non implichi, tuttavia, che a essa D. si richiami espressamente, stante l'incidenza rilevante della mediazione tomistica che ha dato la prevalenza a un criterio di gravità della colpa in ordine alla volontà. Nella scelta responsabile dell'incontinente, il quale pure sa ciò che è bene e ciò che è male, ma non riesce a dominare i propri appetiti, si ribadisce la non intenzione di fare il male e il danno degli altri. L'adesione di D. a questa impostazione schematica si traduce nell'accennata collocazione degl'incontinenti fuori della città di Dite.
Il poeta si richiama alle tre disposizioni aristoteliche in ragione del rapporto peccato-reato e del concetto che gradua la gravità della colpa in rapporto a chi si trova a doverne subire il danno. Nel caso degl'incontinenti non v'è alcuna lesione del diritto altrui e l'atto peccaminoso si esaurisce nel soggetto che lo compie e ha come motivazione una " affezione che ne menoma e disvia la normale umanità ". Le forme d'i. considerate da D. nell'Inferno e nel Purgatorio (ignavia, lussuria, gola, avarizia e prodigalità, ira, invidia, accidia e superbio) si presentano quali disposizioni viziose dell'animo, nelle quali la volontà non sembra avere un ruolo specifico, mentre ne appare quale particolare qualificazione un'incontrollata manifestazione. Si deve ancora al Pagliaro l'osservazione circa il criterio giuridico scelto da D., che in ciò si differenzia da Aristotele, per graduare la diversa gravità dell'i. e della malizia. Per il poeta l'i. offende Dio e la coscienza morale meno della malizia proprio perché non reca danno ad altri. Così facendo, il poeta ha trasferito il concetto dell'i. dal dominio della disposizione a quello dell'atto, del peccato, ristabilendo in tal modo una piattaforma comune tra le due categorie di peccato. Egli ha tenuto conto dell'apporto teologico che ha mediato e corretto secondo il senso del testo aristotelico, ma non ha subìto condizionamenti di sorta, rivivendo e attualizzando nella contemplazione di pensiero e nella raffigurazione umana e poetica il clima della situazione culturale, sociale ed etico-giuridica del suo tempo.
Nella prima cantica della Commedia l'i. è punita nei cerchi superiori dell'Inferno (II-V), corrispondenti ai canti V-VIII 64. La prospettiva ambientale e la caratterizzazione dei personaggi danno rilievo con un'efficacissima capacità di resa e di espressione poetica ai connotati etico-psicologici di questi peccatori anche in relazione al cosiddetto contrapasso, cioè al rapporto, diretto o inverso, tra la colpa commessa e la pena espiata. I lussuriosi (If V) che furono in vita travolti dal turbine della passione carnale, sono trascinati in eterno dalla bufera infernal, che mai non resta (V 31); tra di essi spiccano, nella loro storia esemplare e dolente appassionatamente rievocata, Paolo e Francesca. Nel cerchio successivo, tra la fangosa e rozza vanità dei golosi battuti dalla pioggia maledetta si leva, così significativa e densa di umanità e di dramma, la personalità di Ciacco (c. VI) con la sua polemica considerazione del presente stato delle cose fiorentine, mentre anche la raffigurazione degli avari e dei prodighi (c. VII), pur scevra di rilievi individuali spiccati e bene emarginati e spaziati nell'incisività del discorso poetico, sottolinea realisticamente, nei termini delle poetiche medievali, quest'altro rilevante aspetto del peccato d'i. che trova la sua conclusiva e un poco contrastata rappresentazione nel cerchio degl'iracondi (VII 100 ss.; VIII 59, 61-63).
Nella seconda cantica il peccato dell'i. è presente nella terza cornice con gl'iracondi (Pg XV 85, XVI 24, XVII 121-123), nella quinta con gli avari e prodighi (XIX 70-XX 1-123), nella sesta con i golosi (XXII 130-XXIV) e infine con i lussuriosi (XXV 109-XXVII 57).
Anche nei canti del Purgatorio i personaggi danno concreta evidenza e poetica e umana rappresentazione ai singoli stati di peccato, e la figurazione che D. ne esprime rende ragione della sua personale partecipazione alla coscienza dello stato di peccato nei termini e nella prospettiva di una visione esistenziale della vita e della realtà che attraverso i contingenti parametri umani riscopre nelle forme di conoscenza della verità razionale e metafisica le linee dell'ordinamento etico dell'universo, la posizione che in esso ha per natura, intelligenza e volontà l'uomo, creatura proiettata nell'ardua milizia del combattuto econtrastato itinerario terreno per ascoltare il richiamo del suo creatore.
Gl'incontinenti dell'Inferno, pervicaci nel peccato e dannati senza speranza, rappresentano, nello stato di privazione della grazia e d'irrevocabile distacco dall'Essere divino, l'espressione di una desolazione squallida, in cui il lampo di umanità che rompe e distende la tensione d'incontro drammatico con il pellegrino poeta si affida ancora una volta a una ribadita affermazione di passione non contenuta e sfrenata, quasi per una totale seppur dolorosa e ormai inutilmente consapevole adesione a uno stato di natura divenuto eterno e irreversibile. Nel Purgatorio invece, nel concetto di un'espiazione d'amore che, muovendo dal presupposto del tempestivo pentimento del peccato, porta alla presa di coscienza della raggiunta dignità di purificazione e di beatitudine da parte delle anime, gl'incontinenti, nel contesto dell'ordinamento generale della cantica, esprimono con appassionata presenza e realistica efficacia seppure in diverso grado un evidente stato di tensione verso un superamento e un riscatto delle ultime tracce della peccaminosità terrena per un generoso e confidente recupero della grazia e dell'amore di Dio. Nell'uno come nell'altro caso, nel primo come nel secondo regno dell'oltretomba dantesco, i peccatori d'i. recano una presenza di umanità altamente significativa e singolarmente espressiva in virtù dell'efficacia della figurazione poetica di una coscienza etica consapevole e sensibile, capace di sviluppare partendo dai termini della tradizione della cultura classica con la mediazione e con l'interpretazione della scolastica medievale, nell'attualità sintomatica e non di rado polemica della situazione storica presente, il senso e le dimensioni di una visione della realtà umana intesa nella complessità e nella vastità delle sue manifestazioni dalla coscienza umana, civile e poetica di Dante. Nell'ordinamento morale della Commedia la posizione degl'incontinenti si pone in piena rispondenza al canone della verosimiglianza tanto nel contesto narrativo, quanto sotto il profilo concettuale, così che la giustificazione dei valori etici emerge anche in questa sede e con adeguata insistenza ed equilibrata prospettiva, non senza una particolare finezza d'interpretazione psicologica, che dà rilievo anche sotto il profilo ascetico alle forme evidenti, figurative e simboliche di cui si correda il poema.
Bibl. - G. Pascoli, Minerva oscura, Livorno 1898; ID., Sotto il velame, Messina 1900; ID., La mirabile visione, ibid. 1902 (rist. tutti e tre in G. Pascoli, Prose, a c. di A. Vicinelli, Milano 1952); E. Moore, The classification of Sins in the Infern and Purgatorio, in Studies in D., s. 2, Oxford 1899; G. Busnelli, L'etica nicomachea e l'ordinamento morale dell'Inferno di D., Bologna 1907; I. Del Lungo, Prolusione all'Inferno, Firenze 1912; F. Flamini, Il significato e il fine della D.C., I, Livorno 1916; V. Vaturi, Il c. XI dell'Inferno, Firenze 1925; F. D'Ovidio, La topografia morale dell'Inferno, in Studi sulla D.C., I, Caserta 1931; M. Apollonio, D.-Storia della " Commedia ", Milano 1945²; B. Nardi, Il c. XI dell'Inferno, con note aggiuntive di S.A. Chimenz, Roma 1955; L. Pietrobono, Dal cerchio al centro, la struttura morale della D.C., Torino 1956²; G. Fallani, Poesia e teologia nella D.C., Milano 1959; A. Pagliaro, " Le tre disposizion... ", in " L'Alighieri " V 2 (1964) 21-35 (rist. in Ulisse 225-252); F. Montanari, Il canto XI dell'Inferno, Firenze 1967.