Incursioni e invasioni nei secoli IX e X
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra il IX e il X secolo l’Europa è travolta da una sorprendente ondata di aggressioni. I popoli scandinavi da nord, le genti arabizzate del bacino del Mediterraneo da sud e gli Ungari da est attraversano un territorio indebolito dalle lotte intestine e ne fanno terreno di rapina. È una pagina drammatica della storia d’Europa; tuttavia, proprio grazie alla necessità di confrontarsi con gli aggressori, le popolazioni del continente trovano la forza per elaborare quelle nuove strutture socio-istituzionali sulle quali si fonda la società feudale.
Con il nome di Vichinghi, dal germanico vik (baia), si indicano in generale i pirati provenienti dai fiordi scandinavi; citati talvolta, ancor più genericamente, come Normanni (da Nordman: uomini del nord). Avvezzi da sempre a confondere il commercio con la pirateria, agli inizi del IX secolo i Vichinghi intensificano la loro attività predatoria. Ne è causa prima, come del resto di tutti i tragici eventi che segnano questo difficile periodo della storia d’Europa, la rivalità dei regni sorti dalla divisione dello Stato carolingio, che orienta verso i conflitti interni le forze impegnate per decenni in una regolare opera di contenimento ai confini dell’impero. Altri fattori, tuttavia, riconducibili allo specifico sviluppo delle società nordiche, determinano quell’azione. In primo luogo, l’affinamento delle tecniche di navigazione, che raggiungono proprio in questa fase, presso quei popoli, un livello di eccellenza. Va notato però che i Normanni non nascono navigatori, ma sviluppano l’attività marinara, a causa dell’isolamento in cui vengono a trovarsi a partire dal V secolo, allorché i Germani stanziati nelle province romane, dando vita ai regni continentali, impediscono ogni ulteriore infiltrazione via terra da nord. Un’abilità nautica acquisita, dunque, che si fonde in essi, antichissima stirpe germanica organizzata in stabili élite guerriere, a costumi di vita ancora legati a un atavico spirito bellico.
Ne risulta, a partire dall’VIII secolo, un movimento di incredibile ampiezza, realizzato da un pulviscolo di nuclei armati coesi da sodalizi gregariali, che agiscono da soli o uniti in temporanee leghe.
Imbarcati sui veloci vascelli dalla nota linea arcuata (snekkia) e dalla prua a forma di drago – esorcismo contro gli spiriti del mare e strumento di terrore per le popolazioni aggredite – i pirati scandinavi disegnano un’intricata rete di rotte fluviali e marittime, in cui ciascun popolo trova il proprio destino.
In particolare, i Danesi battono le coste del Mar del Nord e della Manica, risalendo i grandi fiumi del continente; i Norvegesi si lanciano a ovest, pongono basi nelle isole atlantiche e di lì muovono verso la Francia e la Spagna, colonizzano l’Islanda e raggiungono la Groenlandia e l’Alaska; gli Svedesi, anche detti Vareghi e, in lingua slava, Rus’, puntano a est: dal Baltico risalgono il Volga, la Dvina, il Dnepr, combattono e si mescolano con gli Slavi, raggiungendo il Mar Caspio e il Mar Nero, alleandosi ai Bizantini, e lottando e commerciando con gli Arabi.
Proprio dal mondo arabizzato, a partire dagli inizi del IX secolo, in piena simultaneità, dunque, con la spinta aggressiva prodotta dai popoli del Nord, sorge per l’Europa un’ulteriore minaccia. Scenario ne è ancora una volta il mare, che gli europei, risucchiati nella dialettica dei regni franchi, hanno smesso di praticare, e protagoniste ne sono le etnie che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, soprattutto le tribù berbere inquadrate negli Stati arabi, che attraverso la navigazione trovano lo spazio utile a esprimere in forme nuove il loro atavico nomadismo predatorio. Anche qui, insomma, popoli che scoprono o ritrovano il mare, e un rinnovato spirito di avventura e di lucro, di cui fanno le spese innanzitutto le popolazioni italiane, orribilmente depredate dai Saraceni, come vengono chiamati, senza distinzione, gli incursori musulmani.
Partendo dalle coste della Spagna, dell’Africa e della Sicilia, e ponendo basi nel Sud Italia e in Provenza, i Saraceni realizzano così, nel corso dei secoli IX e X, un’intensa attività di saccheggio, che non si limita a toccare le coste, ma si spinge in profondità, nell’Appennino ad esempio, o fino a intercettare i ricchi monasteri sorti tra i valichi alpini: un moto di aggressione che assume presto un regolare ritmo stagionale. Lo stesso accade anche a nord, dove una medesima regolarità distingue ormai le incursioni vichinghe. Gli itinerari predatori, anzi, si intrecciano e quasi si confondono e l’immagine che se ne ricava è quella, drammatica, di un’Europa capillarmente percorsa dalla violenza.
Nell’841 alcuni gruppi saraceni distruggono Capua, mentre altri si dirigono ad Arles; nello stesso anno, i Vichinghi assaltano Dublino, saccheggiano Londra e compiono ripetute incursioni in Francia, risalendo la Senna fino a Rouen e a Saint-Denis; nell’844 attaccano Tolosa. L’anno dopo, ancora azioni vichinghe: in Germania, attraverso l’Elba; in Frisia, ripetutamente; in Francia, risalendo la Loira e la Senna fino a Parigi; in Spagna, contro Siviglia. Nell’846, dopo la pausa invernale, i pirati scandinavi si riversano di nuovo in Frisia, dilagano in Bretagna, risalgono la Loira, la Gironda, la Schelda, seguendo itinerari ormai noti. Frattanto, in Italia, i Mori di Kairouan tentano di occupare Ponza, difesa coraggiosamente dal duca di Napoli Sergio; conquistano il castello di Miseno, devastano Isernia, si dirigono su Montecassino; occupano Ostia. La cadenza delle incursioni, come si diceva, si fa sempre più regolare: nell’847 i Saraceni conquistano Bari; nell’848 attaccano Marsiglia; nell’849 depredano il Lazio e saccheggiano la città di Luni; nell’850 minacciano ancora Arles. Da parte loro, i Vichinghi nell’851 “visitano” nuovamente la Frisia, sono sulla Schelda, sulla Senna e sull’Elba, giungono alle foci del Tamigi, attaccano Londra.
Si è illustrato solo un breve segmento cronologico, ma che dà un’idea chiara dell’intensità e delle dimensioni del fenomeno. In più, mentre le aggressioni da nord e da sud si moltiplicano e gli spazi di razzia si dilatano, interviene, a metà secolo, un nuovo elemento a complicare il quadro: gli Ungari.
È dell’862 la prima massiccia incursione degli Ungari sui confini orientali della Germania: da allora e per 100 anni questo popolo, stabilitosi intanto in Pannonia (895), l’attuale Ungheria, devasterà sistematicamente la Baviera, la Turingia, la Sassonia, la Svevia, la Franconia e l’Italia, attraversata non solo sul versante nord-orientale, il più esposto alle razzie di quei feroci cavalieri, ma colpita anche all’interno, fino alla Toscana, al Lazio e alla Campania. Spenta nel sangue da Carlo Magno la corsa degli Àvari verso Occidente e, dopo decenni di lotta, rallentata dai Bizantini quella di un’altra bellicosa etnia itinerante asiatica – i Bulgari –, gli Ungari o Magiari, nomadi afferenti alla regione etno-linguistica ugrofinnica, posta tra gli Urali e il Volga, confusi con le stirpi turco-mongole della pianura sarmatica, trovano facili spazi di accesso in Europa, facendo sentire qui, ancora una volta, il peso di spinte migratorie generatesi a migliaia di chilometri di distanza.
In uno scenario geograficamente così dilatato, che va dal Mar di Norvegia alle coste settentrionali dell’Africa, dall’Atlantico al Mar Caspio, e con protagonisti tanto vari, la fase delle incursioni non può essere interpretata se non come ulteriore espressione dell’antica dialettica tra popoli nomadi o seminomadi e sedentari che da secoli interessa lo spazio euroasiatico.
Come tale, d’altronde, in quanto incontro cioè, pur violento, tra culture e genti diverse, quel periodo produce risultati fondamentali per i futuri sviluppi della società occidentale. Sconfitti nella battaglia di Lechfeld (955) da Ottone I, e poi cristianizzati, gli Ungari costituiranno per secoli, proprio grazie alle loro tradizioni guerriere, un valido schermo contro la minaccia turca. Parallelamente, la concessione, nel 911, a titolo vassallatico della Normandia al capo scandinavo Rollone da parte di Carlo il Semplice, se nell’immediato rallenta la spinta aggressiva dei popoli scandinavi, servirà a indirizzare questo stesso dinamismo guerriero, ormai francesizzato, verso stabili progetti di costruzione statale (formazione dei regni normanni di Sicilia e di Inghilterra), base per la futura espansione dell’Occidente. Si tratta di conseguenze cruciali, come si vede, eppur parziali. È grazie ai pericoli imposti dalle incursioni, infatti, alla particolare tipologia militare di quelle aggressioni e alla necessità di farvi fronte localmente, che il processo di polverizzazione del potere pubbico, già avviato in età carolingia e di cui l’incastellamento del territorio costituisce il dato più vistoso, assume quell’accelerazione che avvierà l’Europa verso il riassetto feudale. In ultimo, è proprio dall’urgenza del confronto con il mondo dei pirati, che le popolazioni europee, e con quali straordinarie conseguenze è inutile dirlo, riscoprono il mare.