Indagini preliminari. Intercettazioni telefoniche
L’erosione delle problematiche connesse alla localizzazione extra moenia delle attività captative ai sensi dell’art. 268, co. 3, c.p.p. è la diretta conseguenza delle nuove procedure di istradamento duale che distribuiscono le operazioni di intercettazione indirizzando verso gli uffici di procura la registrazione delle conversazioni e verso i locali della polizia giudiziaria l’ascolto del materiale. Vengono, con l’evoluzione tecnologica, in rilievo ulteriori profili, come quelli concernenti la sorveglianza a distanza con sistemi di tracciamento, i canoni di valutazione delle conversazioni tra terzi che evochino la responsabilità di soggetti estranei e l’interpretazione dei linguaggi criptici.
L’incedere lento dei lavori parlamentari per l’approvazione del d.d.l. A.C. 1415, recante una profonda e controversa riscrittura della disciplina delle captazioni, ha raffreddato l’attenzione sul tema delle intercettazioni che, anche per l’anno in corso, è stato scrutinato dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalentemente sul versante della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali di autorizzazione all’esecuzione delle operazioni di ascolto e delle tematiche concernenti le nuove forme di controllo a distanza degli indagati con tecnologie satellitari e di videoripresa1. Per molti anni si è dipanato nella dottrina e, soprattutto, nella giurisprudenza di legittimità un articolato confronto circa i requisiti che, ai sensi dell’art. 268, co. 3, c.p.p., possono consentire il ricorso ad impianti di ascolto e registrazione collocati oltre il perimetro murario degli uffici inquirenti. Tuttavia il progressivo flettere dei sistemi di intercettazione in uso al pubblico ministero verso apparati tecnologicamente evoluti, spesso noleggiati da privati e solo materialmente collocati all’interno dell’ufficio di procura2, i quali consentono il trasferimento delle procedure di solo ascolto presso gli uffici della polizia giudiziaria delegata (la cd. remotizzazione) e di conservare l’esecuzione nelle sale intercettazioni delle procure della Repubblica della fase della registrazione delle captazioni, sta inevitabilmente erodendo la rilevanza, per così dire, pratica della questione3. Lo svolgimento extra moenia delle attività tecniche è ormai una costante della prassi investigativa e la salvaguardia del requisito dettato dall’art. 268, co. 3, al. 1, c.p.p. («Le operazioni possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica») viene garantita da una separazione, tecnologicamente evoluta, tra registrazione e ascolto. L’intensità del dibattito su questo punto è, conseguentemente, in via di irreversibile attenuazione, anche se non mancano pronunce che prendono in esame controversie direttamente collegate alle nuove procedure di istradamento «a doppio binario» (procura – polizia giudiziaria) e scrutinano l’impatto che esse hanno sull’interpretazione dell’art. 268, co. 3, c.p.p.4. In questo scenario sembrano trovare finalmente spazio questioni diverse che, per troppo tempo, avevano ricevuto un’attenzione del tutto marginale nel dibattito sulle intercettazioni giudiziarie. Due, sostanzialmente, le questioni di merito che si profilano in un embrionale discussione post art. 268, co. 3, c.p.p.: da un lato, quella concernente l’ermeneutica dei linguaggi criptici cui con sempre maggiore frequenza ricorrono gli interlocutori per dissimulare il contenuto reale delle proprie conversazioni; dall’altro, quello dell’utilizzazione contra alios delle propalazioni intercettate, ossia della possibilità di adoperare il contenuto delle captazioni anche verso terzi soggetti estranei ai dicta registrati. Su entrambi gli argomenti, ed è forse inevitabile, si deve constatare un insufficiente approfondimento della giurisprudenza di legittimità; probabilmente anche a cagione della natura fortemente di «merito» delle doglianze che le parti propongono sul punto. È certo poco agevole, in carenza di una qualsivoglia disciplina al riguardo, affrontare in iure tematiche che, a tutto volere, possono essere scrutinate dalla Corte di cassazione esclusivamente dal punto di vista dei vizi di logicità della motivazione o del travisamento del fatto. Eppure non par dubbio che la linea avanzata, lungo la quale sembra progredire il dibattito sulle intercettazioni, può dirsi per l’appunto segnato dalla convergenza delle problematiche afferenti: le tecniche di controllo a distanza, l’individuazione del coefficiente di attendibilità delle conversazioni contra alios e l’interpretazione dei linguaggi criptici.
Il ricorso frequente, e talvolta indiscriminato, alle procedure di controllo a distanza (localizzazione tramite Gps; tracciamento delle utenze mobili e satellitari; controllo sui sistemi di pagamento elettronico; monitoraggio delle fidelity card e dei dispositivi di pagamento automatico del pedaggio autostradale e via seguitando) ha assunto proporzioni non facilmente stimabili. La circostanza che, spesso, si tratti di attività investigative disposte con provvedimenti del pubblico ministero di generica acquisizione documentale (art. 132 c. privacy e 256 c.p.p.) non sempre consente una adeguata rilevazione statistica; secondariamente, non può non prendersi atto della circostanza che la conversione in documenti (report informatici, annotazioni di servizio della polizia giudiziaria, abstract di banche dati e via seguitando) di elementi probatori di questa consistenza generi distonie valutative non facilmente solubili nelle aule di giustizia. È il caso, ad esempio, dei tabulati delle utenze telefoniche in cui sequenze del tutto casuali di conversazioni o contatti vengono, ex post, scrutinate in modo arbitrario e orientate verso conclusioni probatoriamente fragili. In queste ipotesi, il controllo giurisdizionale deve svolgersi in via preventiva evitando che si affidi l’incarico per la predisposizione di elaborati che assemblino in via esclusiva evidenze documentali di questo genere, senza un adeguato controllo del pubblico ministero. In questo più ampio contesto si può inquadrare il consolidarsi della giurisprudenza di legittimità che ha preteso, per così dire praeter legem, il ricorso ai protocolli rafforzati degli artt. 266 ss. c.p.p. nel caso in cui si debba procedere alla videoripresa in ambiti di privata dimora di comportamenti comunicativi. Il d.d.l. 1415, com’è noto, recepisce per intero l’orientamento della Corte di legittimità e punta ad assimilare a questo statuto processuale, che prevede un penetrante controllo giurisdizionale, anche l’acquisizione dei tabulati delle utenze telefoniche. La creazione di un’unica giurisdizione (il tribunale in sede distrettuale) sulle questioni riguardanti la limitazione della libertà e della segretezza delle comunicazioni dovrebbe, tuttavia, per intuibili ragioni sistematiche annettere in questo costituendo perimetro anche il sequestro e l’acquisizione della corrispondenza epistolare, in modo tale da non alterare l’equiparazione voluta dagli artt. 616 e 623 bis c.p. e da assicurare un’unica cornice costituzionale di riferimento (artt. 14 e 15 Cost.) all’azione di controllo del giudice; il quale nella prospettiva della riforma dovrà anche motivare in ordine alla sussistenza dei gravi o sufficienti indizi di reato (a seconda che si tratti o meno di reati di criminalità organizzata) per autorizzare l’attività del pubblico ministero. Laddove il requisito della motivazione è oggi sostanzialmente pretermesso dal pubblico ministero in relazione ai tabulati, benché la giurisprudenza della Consulta abbia più volte ribadito la riferibilità delle garanzie costituzionali anche ai dati esteriori relativi alle comunicazioni telefoniche, offerti dai tabulati, con le sentenze 14.11.2006, n. 372, 17.7.1998, n. 281 e 11.3.1993, n. 81. Si ricorre troppe volte a stereotipi e locuzioni tautologiche («necessari alle indagini», «indispensabili per accertare» e via seguitando), eludendo l’obbligo di motivazione, in ciò assecondati da un favor ermeneutico che giunge finanche a negare la necessità di allegazione dei decreti di acquisizione al fascicolo del giudizio abbreviato5. La questione è stata, incidentalmente, esaminata dalla Corte costituzionale con la sentenza 28.5.2010, n. 188, la quale, nel dichiarare manifestamente infondato un ricorso principale per conflitto di attribuzioni, ha precisato che la mancanza o anche solo la carenza di motivazione della richiesta presentata dall’autorità giudiziaria, in ordine alla valutazione sulla necessità dell’acquisizione dei tabulati telefonici relativi all’utenza in uso ad un parlamentare, può costituire legittimo fondamento per il diniego dell’autorizzazione da parte della Camera competente. Occorre precisare che la decisione della Consulta, con la quale si impone al pubblico ministero l’assolvimento di un cogente obbligo di motivazione, trova fondamento non già nelle disposizioni codicistiche (le quali registrano, in attesa della riforma, un’evidente lacuna sul punto), quanto nel tenore della l. n. 140/2003 la quale prescrive che tanto il compimento – direttamente nei confronti del parlamentare – dell’atto da autorizzare preventivamente (artt. 4 e 5), quanto l’autorizzazione all’utilizzazione, nei confronti del parlamentare stesso, di un atto già compiuto nei confronti di altro soggetto (art. 6) devono essere assistiti da un criterio di «necessità» (in tale senso dovendosi intendere anche l’espressione «quando occorre», recata dal co. 1, dell’art. 4). «La valutazione circa la sussistenza, in concreto, di tale «necessità» spetta indubbiamente all’autorità giudiziaria richiedente, la quale peraltro deve, essa per prima, commisurare le proprie scelte anche all’esigenza del sacrificio minimo indispensabile dei valori di libertà e indipendenza della funzione parlamentare. Detta autorità è tenuta, quindi, a determinare in modo specifico i connotati del provvedimento e a dare adeguato conto delle relative ragioni, con motivazione non implausibile, nella richiesta di autorizzazione ad eseguirlo, così da porre la Camera competente in condizione di apprezzarne compiutamente i requisiti di legalità costituzionale ». Ne deriva l’insufficienza di provvedimenti di acquisizione non adeguatamente motivati in relazione alle istanze investigative e al correlativo sacrificio della libertà di corrispondenza.
Nella giurisprudenza di legittimità si registra il pacifico consolidarsi di un orientamento favorevole a un utilizzo delle intercettazioni contra alios senza la presenza di particolari requisiti o meccanismi di avvalorazione dei dicta6. Le comunicazioni che evochino la responsabilità di terzi soggetti vengono annoverate tra le prove utilizzabili a prescindere da una specifica procedura di verifica dell’attendibilità del dichiarato assimilabile a quella regolata dall’art. 192, co. 3, c.p.p. Nella scrittura della Cassazione, infatti, il contenuto di un’intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di una terza persona, non è in alcun modo equiparato alla chiamata in correità e pertanto non è soggetto ai canoni di cui all’art. 192, co. 37. Sono intuitive le ragioni d’ordine testuale che sostengono per implicito un siffatto paradigma probatorio. L’art. 192, nell’imporre il meccanismo di valutazione del narrato mediante i riscontri, traccia un perimetro applicativo («le dichiarazioni rese») inclusivo della mera prova dichiarativa, ossia delle proposizioni raccolte attraverso l’instaurazione di una formale relazione dialogica tra loquens e autorità investigativa. Tutto ciò non si realizza nel caso delle intercettazioni in cui i colloquianti sono, per definizione, inconsapevoli dell’ascolto altrui. Alla stregua delle medesime considerazioni è ammessa dalla giurisprudenza l’incondizionata utilizzabilità delle dichiarazioni rese nel corso di una conversazione ritualmente intercettata da persona che solo successivamente abbia assunto la veste di imputato. In proposito si osserva che, nella materia delle captazioni telefoniche e ambientali, non trovano applicazione gli artt. 62 e 63 del c.p.p. e, quindi, le ammissioni fatte spontaneamente dall’indagato nel corso della telefonata non sono assimilabili alle dichiarazioni da lui rese in sede di interrogatorio dinanzi all’autorità giudiziaria8. La presunzione di sospetto che è sottesa alla corroboration delle dichiarazioni del correo, e oggi del testimone assistito, rinviene la propria giustificazione in una ragionevole ponderazione delle istanze di accusa e difesa e mutua dalla storia del processo penale in Italia un ineludibile sostegno, sino al punto che il legislatore ha esteso con la l. n. 63/2001 il congegno di controllo ex art. 192, co. 3, alla fase cautelare e al caso del testimone assistito. La convinzione che l’asimmetrica interlocuzione tra investigatore e propalante possa generare dichiarazioni di dubbia attendibilità da massima d’esperienza si è tradotta in un canone legale di valutazione che l’art. 192, co. 3, ha trasposto sul piano delle regole decisorie. Dopo decenni di casistica nelle aule di giustizia, deve constatarsi che con altrettanta frequenza gli intercettati sono inclini: a) a riferire circostanze imprecise o addirittura false; b) a esprimere conoscenze in cui non è possibile tracciare uno scarto apprezzabile tra effettiva percezione dei fatti e mere congetture; c) ad articolare segmenti discorsivi inquinati dal doloso intento di ingannare l’interlocutore. Sorprende, in questa prospettiva, che la consistente giurisprudenza e la poderosa letteratura che governano la materia della prova dichiarativa non abbiano ancora tentato un approccio convinto al tema delle conversazioni telefoniche e ambientali, onde saggiare più in dettaglio l’arduo argomento della parresia, come i greci definivano la virtù del «dire la verità». In questo contesto, il filtro dell’intercettazione telefonica o ambientale, quale atto d’indagine «a sorpresa», non offre alcuna apprezzabile certezza circa la veridicità e, spesso, circa la stessa verificabilità del narrato. Solo una congettura argomentativa può consentire di aggirare il sospetto di mendacio che dovrebbe guidare l’utilizzazione contra alios delle intercettazioni e tale appare, in particolare, il richiamo operato dalla Cassazione agli oneri di motivazione di cui all’art. 192, co. 1. Un conto è invocare il prudente apprezzamento del giudice nell’interpretazione delle conversazioni intercettate9, altro è imporre il meccanismo di controllo di cui al co. 3. D’altronde, anche a voler condividere la tesi circa la persistente idoneità dell’interrogatorio da parte dell’autorità a generare narrazioni infide, v’è da rilevare che il dichiarante mendace si espone comunque a conseguenze sanzionatorie (calunnia, falsa testimonianza, revoca del programma di protezione se collaboratore di giustizia) del tutto inesistenti nel caso del loquens intercettato, la cui conversazione etero accusatoria è cristallizzata dalla registrazione senza la ragionevole previsione di una successiva interlocuzione chiarificatrice o integratrice10. La strada percorsa sinora dalla giurisprudenza di stimare non suscettibile di cogente applicazione alla materia delle captazioni il canone di cui all’art. 192, co. 3, pur se fondata su un univoco dato testuale, ripropone la conducenza probatoria di massime d’esperienza ormai smentite dalla prassi giudiziaria. Si pensi alla regola d’inferenza secondo cui «due uomini d’onore non possono mentire», nel momento in cui dialogano tra loro, per effetto dei doveri connessi alla comune appartenenza a un sodalizio mafioso11. La fallacia di questo criterio, utilizzato per una certa fase a sostegno della veridicità intrinseca della chiamata di correo, è stata dimostrata attraverso la confutazione serrata delle implicazioni, anche di tipo antropologico, da cui essa traeva fondamento. Ammettere oggi una valutazione delle conversazioni inter alios a prescindere da una stringente allegazione degli «altri elementi di prova» che ne confermino attendibilità e direzione individualizzante, equivale a riproporre la massima d’esperienza degli «uomini d’onore» senza neppure il conforto di quel sostrato criminale e antropologico e per giunta traslandola in contesti locutori di dubbia affidabilità (affaristici, politici, commerciali, ecc.). I soggetti estranei, per così dire i «conversati in reità», potrebbero stimare irrilevante la circostanza che la propalazione accusatoria, piuttosto che provenire da uno dei dichiaranti soggetti allo statuto dell’art. 192, co. 3, derivi da intercettazioni a carico di altri. Anzi proprio l’inapplicabilità del principio del contradditorio nella materia delle intercettazioni rende ancora più meritevole di tutela la situazione in cui versa l’accusato, il quale quasi sempre non ha facoltà di escutere il soggetto captato per confutarne le affermazioni. La tutela che la posizione dei terzi estranei alla conversazione riceverebbe per effetto del sinergico operare del divieto di pubblicazione e dell’obbligo del riscontro sui contenuti delle conversazioni, potrebbe tranquillizzare quanti oggi invocano puramente e semplicemente la dismissione di un mezzo di prova allo stato privo di serie alternative.
La problematica dell’interpretazione del linguaggio gergale o criptico non registra il consolidarsi di un preciso indirizzo ermeneutico nella giurisprudenza di legittimità e paga il tributo di un’insufficiente attenzione da parte della scienza processualpenalista12. Talune decisioni prospettano, addirittura, l’esistenza a carico dei conversanti di un onere di clare loqui, onde evitare che le proposizioni intercettate possano indurre gli investigatori ad agire nei loro confronti, poiché indotti in errore dalla non intelligibilità delle frasi13. Ciò non toglie che il coefficiente di sospetto che ragionevolmente si addensa intorno all’uso di un linguaggio allusivo e gergale trasferisce, pur sempre e in via esclusiva, in capo all’accusa l’onere di dimostrare quale sia il reale oggetto delle conversazioni e quale la condotta di reato che si ritiene di poter dimostrare con il contenuto decodificato delle captazioni. Su questo punto la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che «l’interpretazione del linguaggio e del contenuto delle conversazioni costituisce questione di fatto rimessa alla valutazione del giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità», ma che «tale valutazione (deve essere) motivata in conformità ai criteri della logica e delle massime di esperienza»14. Uno di questi criteri viene solitamente ravvisato nella circostanza che, durante la conversazione, ricorrono di frequente termini che non trovano una spiegazione coerente con il tema del discorso e, invece, si spiegano nel contesto ipotizzato nella formulazione dell’accusa; inoltre, in questa prospettiva, giova alla dimostrazione del thema probandum anche la connessione delle conversazioni criptiche con determinati fatti posti essere da persone che usano gli stessi termini in contesti analoghi. La giurisprudenza aveva, tempo or sono, adoperato una locuzione che esplicita adeguatamente la convergenza dei criteri tratti dalla logica, dalla ragionevolezza e dalle massime di esperienza che devono guidare l’attività interpretativa, individuando nella «chiave interpretativa » il grimaldello che può univocamente dischiudere la lettura delle conversazioni intercettate15. Quello della «chiave interpretativa» è un metodo che esige la confluenza univoca di dati di fatto (attività dei conversanti, oggetto del reato, modalità dell’azione delittuosa e via seguitando) e di canoni sistematici che possano condurre ad una lettura «indiscutibile» del contenuto delle captazioni. Il dato assume ancora maggiore importanza in ambiti investigativi, come quelli concernenti il terrorismo internazionale o la tratta di essere umani, ove alla difficoltà degli idiomi adoperati, si aggiungono fattori religiosi, etnici, culturali che confluiscono in espressioni gergali non facilmente accessibili dagli investigatori e, talvolta, interamente affidate alla conoscenza degli interpreti16.
1 Cfr. sul punto Di Paolo, «Tecnologie del controllo» e prova penale. L’esperienza statunitense e spunti per la comparazione, Padova, 2008, 87 ss.
2 Cass. sez. IV, 15.6.2010, n. 33645, in CED 248400: «Lo svolgimento di operazioni di intercettazioni telefoniche degli uffici della Procura della Repubblica con apparecchiature prese a noleggio non necessita del previo decreto del pubblico ministero circa la ricorrenza di eccezionali ragioni di urgenza e circa l’insufficienza o inidoneità degli impianti preesistenti».
3 Savio, Remotizzazione dell’ascolto: dalla recente giurisprudenza al progetto Alfano, in Dir. pen. e processo, 2010, 494; Peroni, Utilizzabili a fini cautelari le intercettazioni effettuate con il sistema dell’istradamento del suono agli uffici della p.g., in Dir. pen. e processo, 2008, 1511, che ricorda come la giurisprudenza abbia affermato la piena utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, sebbene le stesse siano eseguite presso gli impianti della procura, ogniqualvolta ne sia stato autorizzato l’ascolto da parte della polizia giudiziaria. La Cassazione ha ricordato che non sussiste inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni «qualora le operazioni di ascolto avvengano utilizzando il sistema dell’istradamento del suono negli uffici dei comandi della polizia giudiziaria, anziché nei locali della procura della Repubblica, purché tali modalità esecutive assicurino comunque la possibilità di ascolto anche presso gli uffici della procura della Repubblica, luogo in cui si realizza la captazione delle comunicazioni» (così, Cass., sez. IV, 28.2.2005, n. 20140, in CED Cass. 231369). In argomento, Aprile-Spiezia, Le intercettazioni telefoniche ed ambientali: innovazioni tecnologiche e nuove questioni giuridiche, Milano, 2004, 28; Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, Milano, 1997, 113; Marinelli, Intercettazioni processuali e nuovi mezzi di ricerca della prova, Torino, 2007, 7; Ruggieri, Divieti probatori e inutilizzabilità nella disciplina delle intercettazioni telefoniche, Milano, 2001, passim.
4 Così Cass., sez. I, 6.10.2010, n. 38160, in CED Cass. 248695: «In tema di intercettazione di conversazioni o comunicazioni, il requisito dell’inidoneità o insufficienza degli impianti installati presso la Procura della Repubblica, che legittima il ricorso alle apparecchiature esterne, deve essere valutato con riferimento esclusivamente alla fase della registrazione, e non anche alla fase dell’ascolto». In precedenza, Cass., S.U., 26.6.2008, n. 36359, in Guida dir., 2008, 40, 58, con nota di Amato; Cass., sez. II, 25.2.2009, n. 8578, in CED Cass., senza massima.
5 Cfr. Cass., sez. VI, 14.1.2011, n. 8353, in CED Cass. 249588 secondo cui «La mancata allegazione agli atti del decreto autorizzativo dell’acquisizione dei tabulati telefonici non ne determina l’inutilizzabilità ai fini della decisione nel giudizio abbreviato». Si legge nella motivazione di questa sentenza: «Si rileva, al riguardo, che, in tema di tabulati concernenti il traffico telefonico effettuato mediante una determinata utenza, la carenza di motivazione del decreto acquisitivo adottato dal P.M. non comporta l’inutilizzabilità degli elementi raccolti, posto che tale sanzione non è prevista espressamente dalla legge e non si tratta di prova assunta in violazione di un divieto legale. Dalla violazione del dovere di motivazione deriva piuttosto, a mente dell’art. 125 c.p.p., la nullità del provvedimento di acquisizione, la quale, non presentando carattere assoluto, deve essere dedotta prima della pronuncia della sentenza di primo grado (Cass. sez. IV, 24.2.2005, n. 20558). Va ulteriormente puntualizzato che, proprio in ragione del modesto livello di intrusione nella sfera di riservatezza delle persone, la motivazione del provvedimento acquisitivo dei tabulati telefonici può essere anche estremamente sintetica, essendo sufficiente che con essa si sottolinei la necessità dell’investigazione o si richiamino, con espressione indicativa della loro condivisione da parte dell’Autorità Giudiziaria, le ragioni esposte dall’autorità di polizia (Cass. sez. I, 26.9.2007, n. 46086)».
6 Sia consentito il rinvio sul punto a Cisterna, Conversazioni tra terzi sempre meno attendibili hanno bisogno di lungimiranti paletti interpretativi, in Guida dir., 2009, 6, 11 ss.
7 Da ultimo, Cass., 23.6.2010, n. 21878, in CED 247447, Cass., sez. IV, 28.9.2006, n. 35860, in CED Cass. 235020 ed anche Cass., sez. V, 19.1.2001, n. 13614, in CED Cass. 218392; mentre per l’efficacia autoaccusatoria, cfr. Cass., sez. V, 3.5.2001, n. 27656, in Cass. pen., 2002, 2845.
8 Così, tra altre, Cass., sez. VI, 22.5.2003, n. 31739, CED 226202, nonché C. cost., sent. 4.4.1973, n. 34.
9 Da ultimo, Cass., sez. VI, ord. 11.12.2007, n. 15396, senza massima.
10 Per l’utilizzabilità delle trascrizioni di intercettazioni ai fini della contestazione delle dichiarazioni «rese» in dibattimento, cfr. Cass., sez. II, 14.11.1997, n. 6216.
11 Per un’applicazione, Corte assise d’appello Perugia, 13.2.2003, n. 4.
12 Solo da ultimo Scippa, L’interpretazione del «linguaggio criptico»nelle intercettazioni telefoniche, in Dir. pen. e processo, 2010, 591 ss.; in giurisprudenza per una vicenda inerente la relazione tra linguaggio criptico e identificazione dei conversanti Cass. sez. VI, 25.3.2011, n. 14556, in CED Cass. 249730.
13 Cass. sez. IV, 18.9.2009, n. 48029, in CED Cass. 245794: «Costituisce colpa grave, idonea a impedire il riconoscimento dell’equo indennizzo, l’utilizzo, nel corso di conversazioni telefoniche, da parte dell’indagato di frasi in «codice», effettivamente destinate a occultare un’attività illecita, anche se diversa da quella oggetto dell’accusa e per la quale fu disposta la custodia cautelare. (Nella specie, l’interessato aveva documentato che le frasi in codice utilizzate in conversazioni telefoniche erano riferibili al commercio di monili e aveva giustificato l’utilizzo del linguaggio criptico con la natura fiscalmente irregolare della sua attività) ».
14 Cass. sez. VI, 8.1.2008, n. 17619, in CED Cass. 239724; in senso conforme, Cass., sez. VI, 11.12.2007, n. 15396, ivi, 239636; Cass., sez. IV, 5.1.2006, n. 117, in Arch. nuova proc. pen., 2006, 420.
15 Cass, sez. V, 14.7.1997, n.3643, in CED Cass. 209620: «In tema di valutazione del contenuto di intercettazioni telefoniche, il significato attribuito al linguaggio criptico utilizzato dagli interlocutori, e la stessa natura convenzionale di esso, costituiscono valutazioni di merito insindacabili in cassazione. La censura di diritto può riguardare soltanto la logica della chiave interpretativa. Se ricorrono di frequente termini che non trovano una spiegazione coerente con il tema del discorso, e invece si spiegano nel contento ipotizzato nella formulazione dell’accusa, come dimostrato dalla connessione con determinati fatti commessi da persone che usano gli stessi termini in contesti analoghi, se ne trae ragionevolmente un significato univoco ed la conseguente affermazione di responsabilità è scevra da vizi».
16 Deve condividersi, anche da questo punto di vista, l’orientamento di recente espresso dalla Corte di cassazione secondo cui «sussiste incompatibilità con l’ufficio di interprete per il soggetto che, nello stesso procedimento, abbia svolto il compito di trascrizione delle registrazioni delle comunicazioni intercettate. (In motivazione la Corte ha precisato che analoga incompatibilità sussiste per il soggetto in precedenza incaricato di effettuare la traduzione in lingua italiana delle conversazioni intercettate, la cui trascrizione sia stata affidata, con incarico contestuale, ad un terzo)» (Cass. S.U., 24.2.2011, n. 18268, in CED Cass. 249483).