Abstract
La norma inderogabile di legge, che si impone sugli atti di autonomia privata da essa difformi, rappresenta una delle caratteristiche fondamentali del diritto del lavoro. Essa viene esaminata sia come espressione di una gerarchia di valori, che colloca in primo piano la tutela del lavoratore subordinato come contraente debole, sia come tecnica regolativa nel rapporto tra le varie fonti. Dopo aver analizzato le conseguenze della violazione della norma inderogabile, viene preso in considerazione il fenomeno, recentemente sempre più marcato, di attenuazione e flessibilizzazione della inderogabilità. Ciò, soprattutto, attraverso una delega sempre più estesa alla contrattazione collettiva a introdurre deroghe o diversificazioni.
È affermazione oggetto di unanime consenso quella per la quale il diritto del lavoro è caratterizzato da un esteso regime di inderogabilità dell’intervento legislativo (in generale, De Luca Tamajo, R., La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1976; Cester, C., La norma inderogabile: fondamento e problema del diritto del lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2008, 341 ss.; Novella, M., L’inderogabilità nel diritto del lavoro. Norme imperative e autonomia individuale, Milano, 2009; Fontana, G., Dall’inderogabilità alla ragionevolezza, Torino, 2010; Zoppoli, A., Il declino dell’inderogabilità?, in Dir. lav. merc., 2013, 53 ss.). Il forte squilibrio economico e sociale che col diffondersi della rivoluzione industriale si è venuto a determinare fra la condizione di chi deteneva capitale e mezzi di produzione e chi altro non aveva da offrire se non il proprio lavoro, si traduceva, all’epoca, in un parallelo squilibrio sul piano contrattuale, a tutto vantaggio del datore di lavoro, quanto alla definizione delle condizioni di svolgimento del rapporto. È proprio a tale squilibrio, allora, che ha inteso porre rimedio il legislatore, via via limitando dall’esterno l’autonomia privata contrattuale e ponendo in misura crescente norme di protezione per il lavoratore subordinato in ragione della sua qualità di contraente debole. E se in una prima fase quell’intervento è stato ricondotto anche alla finalità di tenere sotto controllo la cosiddetta questione sociale, così da garantire l’ordine pubblico dalla stessa messo in pericolo (donde l’espressione di “legislazione sociale”), successivamente esso ha assunto sempre più la connotazione di un diritto “diseguale” nell’ambito dell’autonomia privata. Di un diritto, cioè, orientato a ristabilire, attraverso strumenti di differenziazione di segno opposto, quella parità fra contraenti, propria dei rapporti privati, che la diversità di situazione sociale ed economica impediva nell’ambito del rapporto di lavoro.
Si è venuta così sviluppando una fitta disciplina protettiva di carattere imperativo, che dai profili concernenti il tempo di lavoro e la sua limitazione – oggetto dei primi interventi già verso la fine dell’800 – si è poi estesa a molti altri aspetti del rapporto, dalla sua costituzione fino alla sua cessazione. Questa linea di tendenza, già affermatasi anche nel corso del periodo corporativo (peraltro in un quadro sistematico che esaltava la collaborazione fra le parti), ha trovato poi un saldo punto di riferimento nella carta costituzionale, che per un verso ha riservato al rapporto di lavoro un’attenzione tutta particolare (e sconosciuta agli altri rapporti privatistici), e per altro verso ha valorizzato la dimensione conflittuale del rapporto, dimensione che, in virtù del collegamento fra il principio di eguaglianza sostanziale (art. 3, co. 2, Cost.) e la garanzia del diritto di sciopero (art. 40 Cost.), è vista come fattore di emancipazione e progresso per i lavoratori. La stessa Costituzione ha altresì sancito principi vincolanti e inderogabili – di proporzionalità e sufficienza: art. 36 Cost. – anche in materia di remunerazione (Retribuzione 1. Rapporto privato) della prestazione di lavoro, fino ad allora governata esclusivamente dalla contrattazione collettiva corporativa e poi affidata, quale parametro per la sua concreta attuazione, alla nuova e libera contrattazione cd. di diritto comune. Il punto più elevato della parabola della normativa protettiva e inderogabile può essere senz’altro fatto coincidere con lo Statuto dei lavoratori del 1970, anche se la linea di politica legislativa protettiva non è venuta meno almeno come linea di generale tendenza.
Quanto finora osservato rivela, sia pure in modo necessariamente approssimativo, la duplice natura e funzione dell’inderogabilità. Da un lato essa si presta ad essere veicolo di scelte valoriali da parte del legislatore, con particolare riferimento alla necessità di protezione del lavoratore come contraente debole, nel senso che gli interessi personali di quest’ultimo – ad un lavoro dignitoso, ad una remunerazione corretta, alla garanzia dell’integrità fisica – assurgono al rango di interessi pubblici, donde appunto una connotazione assiologica dell’inderogabilità, posta a presidio di valori. Dall’altro lato, quest’ultima si presenta come una tecnica normativa di regolazione dei rapporti, cioè come meccanismo di confronto e di sistemazione della possibile concorrenza tra fonti (in senso ampio) – essenzialmente, tra fonti eteronome e atti di autonomia privata – segnando la prevalenza (totale o parziale, definitiva o temporanea) di una di esse sull’altra o sulle altre.
Peraltro, l’inderogabilità come tecnica non è fine a sé stessa, perché le ragioni della prevalenza di una fonte sull’altra si spiegano essenzialmente in relazione alle scelte su valori e interessi, secondo priorità ricavabili dall’ordinamento in generale. E dunque l’inderogabilità si presenta come un binomio nel quale fini e mezzi dell’intervento normativo si fondono insieme (Cester, C., La norma inderogabile, cit., 342 s.) e, nel loro complesso, forniscono una chiave di identificazione e di lettura dello stesso ordinamento in generale. Valori e tecniche regolative (cfr. Magnani, M., Il diritto del lavoro e le sue categorie. Valori e tecniche nel diritto del lavoro, Padova, 2006), anche se non sempre con gli stessi ritmi e le stesse logiche, interagiscono necessariamente fra di loro.
L’inderogabilità, nella duplice accezione sopra richiamata, non è particolarmente diffusa nell’ambito del diritto privato, notoriamente regno della libertà e dell’autonomia. E tuttavia, è nel diritto privato e nelle sue categorie che anch’essa deve pur sempre iscriversi, con particolare riguardo agli effetti che essa determina sugli atti di autonomia privata difformi.
Una prima questione riguarda la stessa definizione della norma inderogabile: questione non risolta dal legislatore che, semmai, opta per la diversa espressione di norma imperativa nel momento in cui qualifica come nullo il contratto (art. 1418 c.c.) o illecita la causa (art. 1343 c.c.) che vi contrasti. Si è allora proposto di intendere come norma imperativa quella munita di mera efficacia invalidante dell’atto di autonomia privata contrario, attribuendo alla norma inderogabile l’ulteriore effetto di sostituirsi alla volontà dei privati, o cancellandola del tutto o sostituendola solo in parte, con conservazione della parte residua, anche contro quella volontà. Sempre alle norme lato sensu inderogabili sono state poi ascritte quelle (norme cd. ordinatorie) volte a stabilire condizioni o presupposti perché l’atto di autonomia privata possa produrre gli effetti che gli sono propri (si pensi ai presupposti per l’assunzione a tempo determinato o ai presupposti di giustificazione del licenziamento) (sulle diverse accezioni di norma inderogabile, De Luca Tamajo, R., La norma inderogabile, cit., 16 ss.; Novella, M. L’inderogabilità nel diritto del lavoro, cit., 21 ss.). Ma al di là di tale possibile articolazione di significati, il dato comune che emerge è quello di una relazione di sovraordinazione della norma inderogabile rispetto alla diversa “fonte” con la quale essa viene misurata, nel senso che la prima si impone anche nel silenzio della seconda e, soprattutto, nel senso che a quest’ultima è inibito di regolare in modo difforme la materia regolata dalla prima. Gli effetti dell’inderogabilità sono dunque sostanzialmente demolitori e poi sostitutivi nei confronti dell’autonomia privata, posto che la norma realizza interessi generali e sovraordinati. Il che riporta al tema del fondamento della inderogabilità, che può essere sinteticamente inquadrato nel modo che segue.
In una prima prospettiva, l’interesse cui la norma inderogabile nel diritto del lavoro è funzionalizzata e che perciò ne costituisce il fondamento, è un interesse – quello del lavoratore subordinato – all’origine particolare ed individuale, che tuttavia subisce un processo di astrazione e, per così dire, di trasfigurazione, perché viene fatto proprio dal legislatore come interesse generale e la sua soddisfazione resa vincolante, per il suo titolare, ma eventualmente anche contro di lui. Ciò che avviene o per lo spessore dei beni oggettivamente coinvolti e messi in pericolo dalla relazione contrattuale: per il lavoratore, i beni della vita, della salute, della sicurezza e, su un piano appena inferiore, della giusta retribuzione, della libertà e dignità personale e professionale ecc.; ovvero, come già si è accennato, per l’asimmetria di potere nel contesto socio-economico, che si insinua anche nel rapporto contrattuale dando luogo ad una asimmetria di poteri giuridici per la quale si impongono specifici antidoti e correttivi. Ma c’è anche un altro possibile fondamento dell’inderogabilità nel diritto del lavoro, disomogeneo rispetto ai primi due: l’esigenza o anche solo l’opportunità di assicurare uniformità all’autonomia contrattuale, in ragione della indivisibilità di talune situazioni caratterizzate da interessi che non possono essere soddisfatti se non contemporaneamente per tutti, con esclusione dell’autonomia individuale. Ed è un profilo, quello della uniformità, che si manifesta in modo significativo allorché le fonti messe a confronto sono tali solo in senso improprio e la disciplina sovraordinata è quella di dimensione collettiva. Dunque, in questa prospettiva, inderogabilità significa anzitutto eguaglianza.
Allorché la norma inderogabile venga violata dall’atto di autonomia privata, la reazione dell’ordinamento sta anzitutto nella demolizione dello stesso, in base al fondamentale principio sancito dal già ricordato art. 1418 c.c., ai sensi del quale il contratto contrario a norme imperative è nullo, salvo che la legge disponga diversamente, modulando e ammorbidendo le conseguenze sanzionatorie di un atto che si ponga in contrasto con gli interessi perseguiti dalla norma inderogabile. Ma se ciò non avviene, l’effetto demolitorio è automatico e generalizzato, secondo quel principio della nullità virtuale che opera appunto come regola immanente al sistema: una regola che, per quanto detto circa il peso degli interessi coinvolti nella relazione di lavoro, appare in questo ambito di generalizzata applicazione. La valutazione negativa dell’ordinamento è definitiva, anche se l’effetto ablativo si riflette solo sul futuro, mentre non vengono travolti gli effetti già prodotti, secondo quanto disposto dall’art. 2126 c.c., che è ispirato ad una logica di protezione del lavoratore, tanto più nel caso in cui le ragioni della nullità – di per sé tali da escludere la salvezza degli effetti prodotti, perché concernenti la illiceità dell’oggetto o della causa – dipendano però dalla violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro (art. 2126, co. 2, c.c.).
Ma all’effetto demolitorio e ablativo derivante dalla violazione della normativa inderogabile si accompagna poi un meccanismo di tipo sostitutivo, tutte le volte in cui l’atto di autonomia privata venga ritenuto idoneo a produrre gli effetti di un contratto diverso, ovvero gli effetti dello stesso contratto purché depurato della parte contrastante con la norma inderogabile (De Luca Tamajo, R., La norma inderogabile, cit., 147 ss.; Novella, M., L’inderogabilità nel diritto del lavoro, cit., 76 ss.). Il primo caso si verifica in particolare allorché sia violata una disposizione vincolante sulla forma del contratto (per lo più un contratto di lavoro “speciale”) e tuttavia il legislatore “trasformi” esplicitamente quel contratto, privo della forma vincolata e perciò nullo, in ordinario contratto di lavoro. Il secondo caso si verifica nei casi di nullità parziale, riferita cioè ad una singola clausola del contratto, allorché sia rinvenibile nell’ordinamento una norma inderogabile in grado di sostituirsi alla clausola nulla voluta dalle parti. In queste ipotesi la sostituzione avviene sulla base di un criterio di tipo dirigistico, legato alla realizzazione di interessi superiori, che si impone sulla volontà privata conservando, anche in contrasto con questa, il contratto “rettificato” (art. 1339 e 1419, co. 2, c.c.).
Il problema sta, in tali casi, nella concreta individuazione della norma imperativa sostitutiva, perché in sua assenza non può che prevalere l’effetto demolitorio sull’atto di autonomia privata. Individuazione che, se non è espressa, può anche essere fondata su princìpi di carattere più generale, che siano tuttavia sufficienti per garantire la conservazione del contratto rettificato.
È a questo proposito che si è ritenuto di utilizzare il modello privilegiato del lavoro subordinato stabile e a tempo pieno quale modello, e dunque principio, in grado di imporsi sulle diverse determinazioni dell’autonomia privata. Così, per fare l’esempio più significativo, la clausola del termine, se illegittimamente apposta, viene eliminata ma il contratto viene ricondotto al modello generale del contratto a tempo indeterminato. Un tale approccio è stato recentemente rafforzato dal legislatore, il quale, con l’art. 1 del d.lgs.15.6.2015, n. 81, ha generalizzato il principio di prevalenza del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – l’esser cioè quest’ultimo, come dice la norma, «forma comune dei rapporti di lavoro» – non più limitandolo al profilo della durata del rapporto e della contrapposizione con il lavoro a termine (Contratto a termine [dir. lav.] 2. Pubblico impiego), ma riferendolo anche alle possibili diversità tipologiche di contratto di lavoro per le quali sia stato accertato, a causa della violazione di normativa inderogabile (in questo caso di normativa inderogabile cosiddetta ordinatoria, cioè stabilente condizioni di ammissibilità di una certa tipologia contrattuale flessibile), un qualche scostamento rispetto al modello. L’individuazione della sanzione – e dunque il modo di operare della norma inderogabile – si presta a diverse valutazioni, ovviamente nel caso in cui il legislatore non provveda direttamente alla sanzione. O si ritiene che la preferenza per la «forma comune» sia solo una indicazione di principio, utile al fine di valutare in modo astratto la ragionevolezza di talune differenziazioni, di gradazioni o deficit di tutele nelle forme appunto “non comuni”: quasi una norma manifesto. Ovvero l’art. 1 del d.lgs. n. 81/2015 costituisce la norma sanzionatoria di chiusura, idonea a supplire all’eventuale assenza di norme sanzionatorie “civili” specifiche, magari anche in presenza di norme sanzionatorie di diverso tipo (come quelle amministrative, che sembrerebbero escludere le prime) e a determinare perciò la cosiddetta conversione della forma non comune in quella comune. L’alternativa è aperta, sarà la giurisprudenza a scioglierla.
Il meccanismo prima demolitorio e poi sostitutivo sopra descritto presuppone che l’atto di autonomia privata sia contrastante con la norma inderogabile, come più volte sottolineato. Ciò, peraltro, pone il problema di stabilire quando tale contrasto possa dirsi verificato in concreto; quando, cioè, la disciplina proveniente dall’autonomia privata, nel confronto con quella stabilita dalla norma inderogabile, sia da ritenersi peggiorativa, complessivamente considerata, rispetto a quest’ultima. La soluzione del problema sta nell’applicazione del criterio del cumulo, posto che la norma inderogabile è di applicazione necessaria e che la sua violazione non può essere compensata, sul piano individuale, da benefici diversi, come sarebbe, ad esempio, se si violasse la garanzia del periodo minimo di ferie a fronte di un aumento retributivo ad personam.
La compressione dell’autonomia privata, che è diretta conseguenza della normativa inderogabile, dopo aver raggiunto con lo Statuto dei lavoratori il suo apice, si è progressivamente allentata, nella prospettiva di una graduale riduzione e rimodulazione delle tutele, anche se non sono mancati ulteriori ed anche significativi interventi di implementazione. I fattori che hanno determinato questa generale (e sia pure ondivaga) correzione di rotta sono molteplici. In primo piano stanno ragioni di tipo strettamente economico: dal susseguirsi delle varie crisi sempre più di carattere strutturale, alla trasformazione dell’economia in senso globale, con tutto ciò che essa ha comportato in termini di competitività e di differenziale di costi produttivi, da cui una concorrenza al ribasso non solo con i paesi cosiddetti emergenti di altri continenti, ma anche all’interno di una Unione europea sensibilmente allargata. Ma anche altri fattori hanno pesato, come il mutamento nel modo di produrre, che ha determinato un esasperato frazionamento del processo produttivo e dell’impresa; come le varie rivoluzioni tecnologiche, ultima quella informatica, che hanno cambiato anche i connotati della stessa figura di lavoratore tipo e delle modalità del suo utilizzo; come, infine, il predominio degli interessi economici anche nella gestione giuridica del rapporto di lavoro, interessi spesso vincenti rispetto ai diritti (in generale, di recente, Zoppoli, A., Il declino dell’inderogabilità?, cit., passim; Santoro-Passarelli, G., Autonomia privata individuale e collettiva e norma inderogabile, in Riv. it. dir. lav., 2015, I, 61 ss.; De Luca Tamajo, R., Il problema dell’inderogabilità delle regole a tutela del lavoro: passato e presente, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2013, 715 ss).
In questo quadro, pur necessariamente sommario, l’impianto della normativa inderogabile è stato sempre più avvertito come un fattore di rigidità, incompatibile con le esigenze di adattamento del sistema produttivo, in tempo reale, alle variabili esigenze di un mercato, come detto, sempre più globale. Di più, l’impianto delle tutele inderogabili ha finito per essere considerato come un fattore di ostacolo o quanto meno di freno all’occupazione, e perciò accusato – non da solo, ma comunque in modo significativo – di favorire l’occupazione irregolare e l’evasione dalla disciplina di tutela. L’ampio specchio delle tutele nel rapporto, sindacali e individuali, le rigidità nell’accesso e in uscita dal rapporto, i forti vincoli in materia di sicurezza del lavoro, un sistema generale di Welfare i cui costi ancora per buona parte vengono addossati alle categorie produttive: tutto ciò è stato percepito addirittura come controproducente rispetto agli stessi obiettivi di tutela dei lavoratori. Con una singolare messa in dubbio di quella che è la funzione originaria del diritto del lavoro: quella di superare l’idea che l’occupazione sia comunque un bene, a prescindere dalle condizioni del suo svolgimento, e che i lavoratori non possano accettare, facendosi fra loro concorrenza, condizioni di lavoro quali che siano, ma solo condizioni di lavoro dignitose, non inferiori a standards minimi, appunto secondo il meccanismo della inderogabilità.
L’arretramento del sistema dell’inderogabilità può essere rilevato su entrambi i piani sui quali esso può essere ricostruito e ai quali si è fatto all’inizio riferimento.
È prima di tutto un arretramento, o più semplicemente una modifica, sul piano dei valori e degli interessi che la normativa inderogabile era chiamata a presidiare. L’interesse alla protezione del lavoratore, infatti, non è più al centro del sistema, ed assume rilievo sempre più incisivo l’interesse del datore di lavoro e dell’organizzazione produttiva in generale. Le tutele subiscono una riduzione, più o meno ampia e si ridisegnano almeno in parte gli equilibri all’interno del rapporto di lavoro, secondo una linea che attraversa più o meno tutti gli ambiti della regolazione normativa.
Quest’ultima, soprattutto nella evoluzione legislativa più recente, investe i meccanismi di costituzione del rapporto, ormai lasciati alla libera scelta delle parti, in realtà del datore di lavoro, stante l’indiscusso interesse del lavoratore all’occupazione; consente una ampia utilizzazione dei cosiddetti rapporti flessibili, primo fra tutti il contratto a tempo determinato, non più sottoposto a requisiti di carattere qualitativo legati alle ragioni della sua utilizzazione, ma solo a limiti esterni di carattere quantitativo sanzionati solo in via amministrativa, e per di più aumenta la flessibilità in detti rapporti, come recentemente si è fatto a proposito del contratto di lavoro accessorio, divenuto ormai strumento diffuso di precarizzazione totale; attraversa parti importanti della gestione del rapporto di lavoro, con la recente disciplina relativa ai controlli sull’attività lavorativa e, soprattutto, con quella relativa alla possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, sia unilateralmente che consensualmente, con correttivi non particolarmente incisivi; incide, infine, profondamente sulle tutele per il licenziamento illegittimo, marginalizzando sempre più la tutela reale di tipo reintegratorio che, vista come una sorta di precondizione generale per la tutela degli altri diritti, aveva costituito l’emblema della disciplina inderogabile.
Ovviamente questa non è la sede per una specifica analisi dei singoli interventi riduttivi o addirittura ablativi di tutele. Quel che qui interessa è il profilo metodologico e il modo di atteggiarsi delle fonti. Nei casi esemplificativamente richiamati è il legislatore a intervenire direttamente e, al di là degli specifici problemi interpretativi che le nuove norme generano, la questione che eventualmente può porsi, a fronte della compressione dell’inderogabilità, è quella della sua compatibilità costituzionale: questione che ovviamente si articola per singole norme e che certo non si presta ad una soluzione unitaria ed univoca.
Ma accanto ai diretti interventi legislativi, la crisi dell’inderogabilità – e la riarticolazione e modulazione delle tutele che ne conseguono – si manifesta attraverso canali meno visibili e tuttavia significativi. Uno di essi è l’interpretazione. Non solo e non tanto la comune interpretazione delle norme di legge, che pure trova spazi sempre più ampi per operazioni riduttive delle tutele a causa del moltiplicarsi delle norme cosiddette a precetto generico, come quelle che rinviano alle ragioni tecniche, produttive e organizzative cui sono vincolati il trasferimento e il licenziamento, o alla (oramai superata) nozione di equivalenza nella definizione delle mansioni che legittimamente possono essere assegnate al lavoratore, o alla definizione del ramo di azienda, il cui maggiore o minore spessore condiziona l’applicazione della disciplina inderogabile circa gli effetti del suo trasferimento; tutto ciò, in fondo, costituisce il “costo” della inderogabilità. Piuttosto, l’interpretazione alla quale qui si allude è quella che, andando al di là della normale dialettica ermeneutica, apre ampi spazi alla rideterminazione anche al ribasso della tutela in qualche modo scavalcando la inderogabilità della norma e riarticolando la tutela sulla base della rilevanza di interessi esterni alla norma stessa, com’è avvenuto nell’ambito di quel costante orientamento della Corte di Cassazione che, in tema di mansioni, ha ritenuto legittime le modifiche peggiorative in quanto considerate male minore rispetto alla possibile perdita del posto di lavoro. O, ancora, l’interpretazione della normativa sul divieto di controlli occulti sulla prestazione (nella formula originaria dell’art. 4 st. lav.), ritenuta inapplicabile nel caso dei cosiddetti controlli difensivi, la cui liceità, peraltro, è rilevabile solo a posteriori, cioè solo dopo che il controllo è già stato effettuato con modalità che a priori potevano considerarsi escluse.
Un altro canale attraverso il quale si manifesta la crisi della norma inderogabile è quello della cosiddetta derogabilità assistita (Voza, R., L’autonomia individuale assistita nel diritto del lavoro, Bari, 2007). Per tale va intesa una tecnica regolativa in base alla quale anche sul piano dell’accordo individuale è possibile che la normativa inderogabile ceda il passo ad esigenze di flessibilità concrete, a condizione che la volontà del lavoratore sia supportata e, appunto, assistita da un terzo soggetto in grado di garantire comunque al lavoratore l’equilibrio di interessi pur a fronte della disapplicazione della norma inderogabile. Il salto rispetto ad esperienze già codificate in materia di atti di disposizione di diritti (art. 2113, co. 4, c.c.) è evidente, perché qui non viene in gioco la dismissione di un diritto entrato nel patrimonio del lavoratore, ma l’acquisizione stessa del diritto, che la derogabilità assistita per definizione impedisce. Ma sull’ammissibilità di una tecnica siffatta si tornerà tra breve, in sede di esame del rapporto tra fonti.
Esiti incerti quanto alla “tenuta” dell’inderogabilità potrebbero dedursi dalla nuova disciplina della clausola compromissoria di cui all’art. 31, co. 10 e 11 della l. 4.11.2010, n. 183 (Cester, C., La clausola compromissoria nel Collegato lavoro 2010, in Lav. giur., 2011, 23 ss.). Già la stessa previsione di una clausola di tal fatta – idonea ad escludere definitivamente il ricorso al giudice in tutte le possibili, future controversie fra le parti – impone l’adozione di adeguate cautele (la previsione nei contratti collettivi, l’assoggettamento della singola clausola alla procedura di certificazione, limiti temporali vari ecc.). Questioni ancor più rilevanti si pongono, poi, per via della possibile adozione, da parte degli arbitri, del criterio dell’equità: un criterio ritenuto potenzialmente capace di far “saltare” la disciplina inderogabile (ad eccezione di quella in materia di cessazione del rapporto, espressamente esclusa dalla clausola compromissoria) e che invece, onde evitare la disposizione di diritti futuri, va rigorosamente inteso come strumento di mera specificazione e integrazione del giudizio e, soprattutto, incontra l’espresso limite del «rispetto dei princìpi generali dell’ordinamento e dei princìpi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari».
Da ultimo, segnali di difficoltà dell’apparato inderogabile di tutela provengono sia dalla sfera del diritto dell’Unione europea, sia dal settore del diritto internazionale privato. Quanto al primo ambito, è un dato sostanzialmente acquisito l’adozione progressiva di tecniche regolative diverse, con il passaggio da regolamenti e direttive capaci di introdurre direttamente o quasi norme inderogabili di protezione dei lavoratori (hard law) ad un modello regolativo più flessibile e non vincolante (soft law), nel quale prevalgono indicazioni orientative, semplici linee guida o codici di condotta, spesso attraverso meccanismi di tipo procedurale in grado di ampliare la sfera dei soggetti decidenti; anche se un tale indirizzo non ha impedito l’adozione di una Carta dei diritti fondamentali e il suo inserimento fra le fonti europee con la stessa efficacia del Trattato fondativo. Quanto al diritto internazionale privato, è pur vero che in presenza di elementi di internazionalità nel rapporto di lavoro non tutte le norme inderogabili devono essere garantite, ma solo quelle di cosiddetta applicazione necessaria, legate cioè a profili essenziali dell’organizzazione politica, sociale ed economica del paese. Ma la deroga si spiega per la rilevanza che va riconosciuta a valutazioni autonome di ordinamenti diversi e sovrani, la cui indipendenza potrebbe essere pregiudicata da una assolutizzazione della norma inderogabile interna.
Gli indizi, sopra ripercorsi, di una più o meno marcata recessione della disciplina inderogabile nel diritto del lavoro danno conto di un atteggiamento almeno parzialmente mutato nella gerarchia di valori che ne sta alla base. Ma i profili più significativi di un tale arretramento, o, al contrario, di una eventuale e magari parziale resistenza, si possono cogliere soprattutto sul piano del rapporto tra fonti, secondo quella accezione della inderogabilità che si esprime in una tecnica regolativa di prevalenza di una fonte sull’altra. Con una precisazione: che quando si parla di fonti, lo si fa in modo improprio, per intendere in senso generico lo strumento di regolazione del rapporto, in tal modo comprendendo anche gli strumenti dell’autonomia privata, individuale e collettiva; strumenti che, anzi, in questa prospettiva diventano centrali.
Cominciando allora dall’autonomia individuale, già si è accennato alla necessaria prevalenza della normativa inderogabile sull’autonomia individuale. Che ciò dipenda dalla rilevanza, in sé, degli interessi superiori tutelati, o dalla debolezza contrattuale del prestatore di lavoro, in ogni caso le parti del singolo rapporto non sono abilitate a derogare alla normativa di legge. I recenti tentativi di rivalutazione della volontà individuale del lavoratore, da intendersi non più come un soggetto sostanzialmente incapace ma come soggetto in grado di autodeterminarsi, non può portare a rovesciare le coordinate generali dello stesso diritto del lavoro nel suo insieme e a ritenere che il lavoratore subordinato non sia più bisognoso del sostegno della legge inderogabile. Si dovrà prendere atto, soltanto, di alcuni specifici interventi normativi nei quali è stato effettivamente accolto dal legislatore il meccanismo della derogabilità assistita, che peraltro segue ancora il modello di un lavoratore debole al quale necessita assistenza.
Alla derogabilità assistita può essere ascritta, in primo luogo, la possibilità che il limite massimo di trentasei mesi per la successione di contratti a termine (per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale) venga sforato con un ulteriore contratto a termine della durata di dodici mesi da stipularsi presso la direzione territoriale del lavoro (ora, art. 19, co. 2, del d.lgs. n. 81/2015, che ha peraltro eliminato la necessaria assistenza, in quella sede, di un rappresentante delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, precedentemente stabilita dall’art. 5, co. 4-bis del d.lgs. 6.9.2001, n. 368): una disposizione che, anche in ragione di tale ultima mutilazione, può presentare problemi di compatibilità con la direttiva europea sul contratto di lavoro a tempo determinato. Sempre al modello della derogabilità assistita può essere ricondotta la recente disciplina del mutamento in pejus delle mansioni realizzabile consensualmente, senza alcuna limitazione, in base all’art. 2103, co. 6, c.c. nella versione modificata dall’art. 3 del d.lgs. n. 81/2015 (cfr. Pisani, C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Torino, 2015, 69 ss.). Tale modifica non è soggetta ad alcun limite con riguardo alle mansioni, alla categoria legale e al livello di inquadramento nonché alla retribuzione, a condizione che venga sottoscritta nelle cd. sedi protette di cui all’art. 2113, co. 4, c.c., oltre che davanti alle commissioni di certificazione (Certificazione dei contratti di lavoro): sedi nelle quali si suppone che il lavoratore sia adeguatamente messo sull’avviso circa le conseguenze della modifica, anche per la possibilità, per il lavoratore, di farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale (qui non ulteriormente aggettivata) o, e questa è una novità, da un avvocato o da un consulente del lavoro.
Al di fuori di queste ipotesi, la norma inderogabile si impone comunque all’autonomia individuale, né la sua deroga può giustificarsi in ragione di eventuali, diversi benefici che nel singolo contratto venissero introdotti a compensazione. All’autonomia individuale resta invece un ampio spazio sul piano della disposizione dei diritti che la norma inderogabile attribuisce: disposizione esclusa in linea generale (art. 2113, co. 1, c.c.) in ragione della invalidità di rinunzie e transazioni su quei diritti, ma pienamente ammessa nelle cd. sedi protette di cui sopra. Ma questo è un piano diverso, che non incide direttamente sulla norma e sulla sua vincolatività, ma opera sul piano funzionale della gestione del diritto.
Piuttosto, si può rilevare come l’autonomia individuale sia stata via via rafforzata non tanto nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, nel quale continua a regnare sovrana la norma inderogabile, quanto, in via del tutto indiretta, attraverso l’introduzione di una varietà di tipi e sottotipi contrattuali nei quali comunque è dedotta una prestazione di lavoro e per i quali lo spessore della tutela per chi svolge quella prestazione è sensibilmente inferiore. Al netto delle ipotesi nelle quali sia accertata una simulazione, non c’è dubbio che le vie di fuga dalla normativa inderogabile siano state allargate, sia pure surrettiziamente.
Ben più flessibile si presenta il rapporto fra norma inderogabile e autonomia collettiva. In linea di principio, i termini della questione non cambiano, perché anche l’autonomia collettiva, per quanto espressione di una sintesi di interessi individuali e perciò strutturalmente sovraordinata a questi ultimi, è pur sempre sottoordinata alla norma inderogabile di legge, assolvendo tradizionalmente al compito di implementarne i contenuti a favore del lavoratore subordinato. Ma è lo stesso legislatore – dapprima con cautela, poi con frequenza e intensità sempre maggiori – ad utilizzare proprio la contrattazione collettiva come strumento per introdurre deroghe più meno pervasive, su un duplice, implicito presupposto: che la contrattazione collettiva costituisca una fonte (seppure impropria) e sia perciò idonea ad agire con la stessa intensità ed efficacia sostanziale della legge, e che la stessa costituisca uno strumento più duttile e flessibile per adattare la norma di legge – limitandola, correggendola o scomponendola – alla varietà delle esigenze concrete di “sacrificio” della inderogabilità.
Il cosiddetto garantismo flessibile (legislazione cd. dell’emergenza, affermatasi verso la fine degli anni ’70 dello scorso secolo), nel quale si esprime, con l’intervento della contrattazione collettiva, un nuovo punto di equilibrio fra esigenze di tutela del lavoratore ed esigenze di tutela dell’impresa, ha radici ormai consolidate (De Luca Tamajo, R.-Ventura, L., Il diritto del lavoro dell’emergenza, Napoli, 1979). Esso si fonda su affidabili meccanismi di controllo, concernenti sia la selezione dei soggetti collettivi abilitati alla deroga (i sindacati maggiormente, e poi comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale), sia la delimitazione, caso per caso, dell’oggetto della deroga, così da assicurare il carattere sostanzialmente eccezionale dell’intervento. Caratteristica fondamentale di questa declinazione regolativa è data in ogni caso dal fatto che è la stessa legge a prevedere e autorizzare la deroga, sulla base di una delega controllata di competenze. Il sistema delle fonti non ne esce perciò alterato, quantunque non possano sottacersi i problemi che una siffatta delega derogatoria solleva in ragione dei noti limiti di efficacia soggettiva del contratto collettivo di diritto comune e talora di una buona dose di segmentazione e frattura nello stesso processo di contrattazione, che ha dato luogo a frequenti fenomeni di contrattazione separata.
Le ipotesi di contrattazione (“autorizzata”) in deroga sono diverse: fra le più note, quella degli accordi in caso di trasferimento di aziende in crisi, degli accordi in tema di retribuzione utile ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto, dei contratti di solidarietà, degli accordi di dequalificazione nelle procedure di mobilità etc. Ma sono ipotesi comunque “tipiche”.
Un salto di qualità sembra essere invece indotto da un intervento, relativamente recente, del legislatore proprio in tema di derogabilità a mezzo di contratto collettivo. Si allude all’art. 8 del d.l. 13.8.2011, n. 138, conv. con mod. dalla l. 14.9.2011, n. 148 (per tutti, Carinci, F., a cura di, Contrattazione in deroga, Milano, 2012). L’obiettivo, reso pressoché esplicito dalla norma, è quello di spostare il baricentro di molta parte della disciplina lavoristica dalla disposizione di legge centralizzata e inderogabile a quella collettiva territorialmente decentrata, altrimenti detta «di prossimità». Ed infatti, l’art. 8 attribuisce a «specifiche intese» stipulate a livello aziendale, o a un non ben definito livello territoriale, da soggetti sindacali variamente selezionati il potere di derogare, oltre che al contratto collettivo nazionale, alle disposizioni di legge concernenti una vasta gamma di materie, con il solo limite del rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dalla normativa comunitaria e internazionale sul lavoro. È proprio questa ampiezza a porre problemi di costituzionalità, perché quello che in un’ottica atomistica – cioè di singole e circoscritte deroghe, come nel passato – può essere giustificato, può esserlo di meno a fronte di uno strumento così generalizzato. Le intese derogatorie di prossimità si configurano come contratti di scopo, essendo espressamente finalizzati ad una serie di obiettivi: dall’incremento dell’occupazione alla qualità dei contratti di lavoro, dall’emersione del lavoro irregolare agli incrementi di competitività, dalla gestione delle crisi aziendali agli investimenti e all’avvio di nuove attività; ma la genericità degli obiettivi può far dubitare della loro reale valenza limitativa. Questo nuovo spazio non è stato ancora utilizzato, nella realtà, in modo significativo, sì che i dubbi finora espressi sulla compatibilità con il sistema delle fonti restano dubbi ancora per lo più teorici. Si può comunque rilevare come il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali può fungere da garanzia per una contrattazione in deroga che sia circoscritta nelle dimensioni ed equilibrata nei contenuti, per quanto l’apertura verso un sindacalismo aziendale, anche se genuino e non di comodo, lascia aperti non pochi dubbi.
Con il cosiddetto Jobs Act – in sostanza, la l. 10.12.2014, n. 183 e i relativi decreti legislativi di attuazione – viene ripresa la tecnica della derogabilità, ad opera della contrattazione collettiva, di specifiche norme di legge di volta in volta considerate. La contrattazione collettiva a ciò abilitata è, salvo diversa previsione, tanto quella nazionale quanto quella decentrata, stipulata da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, per i contratti aziendali, dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria (art. 51, d.lgs. n. 81/2015). Fra le norme che vengono in considerazione ai fini della possibile deroga si segnalano: quella che abilita l’esclusione della disciplina sulle collaborazioni organizzate dal committente in ragione di particolari esigenze produttive ed organizzative del settore (art. 2, co. 2, del d.lgs. n. 81/2015); quella che autorizza la contrattazione collettiva a prevedere ipotesi di mutamento in pejus delle mansioni ulteriori rispetto a quelle adottabili dal datore di lavoro in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali (art. 3, co. 4, del d.lgs. n. 81/2015; quella che consente alla contrattazione collettiva di superare il limite complessivo di trentasei mesi per effetto di una successione di contratti (art. 19, co. 2, del d.lgs. n. 81/2015, con non pochi problemi di compatibilità con la disciplina europea); quella sulla possibile esclusione del diritto di precedenza del lavoratore a termine nelle successive assunzioni a tempo indeterminato (art. 24, co. 1, del d.lgs. n. 81/2015); quella sulla derogabilità circa i limiti numerici di occupabilità degli apprendisti (art. 43, co. 8, del l.gs. n. 81/2015).
La complessa sequenza che si è sinteticamente descritta evidenzia, dunque, l’ampio uso della fonte collettiva a scopo di flessibilizzazione e adattamento della normativa inderogabile. Ma si tratta, a ben guardare, di un processo che resta ancora sostanzialmente governato dalla normativa inderogabile medesima. Un processo nel quale si può ragionevolmente pensare che non possano comunque essere coinvolti i diritti essenziali della persona, alla salute e alla sicurezza, alla dignità, a non essere discriminata: una sorta di zona franca nella quale né deroghe né atti di disposizione sono ammissibili.
Artt. 1339, 1418, 1419, 2113 c.c.; art. 8, d.l. 13.8.2011, n. 138, conv. con mod. dalla l. 14.9.2011, n. 148.
Cester, C., La norma inderogabile: fondamento e problema del diritto del lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2008, 341 ss.; De Luca Tamajo, R., Il problema dell’inderogabilità delle regole a tutela del lavoro: passato e presente, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2013, 715 ss.; De Luca Tamajo, R., La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1976; Fontana, G., Dall’inderogabilità alla ragionevolezza, Torino, 2010; Novella, M., L’inderogabilità nel diritto del lavoro. Norme imperative e autonomia individuale, Milano, 2009; Santoro-Passarelli, G., Autonomia privata individuale e collettiva e norma inderogabile, in Riv. it. dir. lav., 2015, I, 61 ss.; Voza, R., L’autonomia individuale assistita nel diritto del lavoro, Bari, 2007; Zoppoli, A., Il declino dell’inderogabilità?, in Dir. lav. merc., 2013, 53 ss.