Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Durante la prima metà del Seicento, la dinastia Ming si avvia verso un lungo periodo di decadenza che si conclude con la conquista dell’Impero da parte dei Manciù i quali fondano l’ultima dinastia imperiale della Cina, i Qing. In India la dinastia Moghul raggiunge invece l’apice della sua potenza, conquistando quasi l’intero subcontinente. La politica d’intolleranza religiosa adottata dall’imperatore Aurangzeb inasprisce tuttavia le relazioni fra sudditi indù e dominatori musulmani. In Giappone la dinastia shogunale dei Tokugawa consolida il suo potere emarginando i clan avversari e impone al Paese una politica di quasi assoluta chiusura economica e culturale verso l’esterno.
La fine dell’Impero Vijayanagara e l’apice della potenza Moghul
Le ultime fasi dell’Impero Vijayanagara raccontano una storia di decadenza, di intrighi per la successione, di sanguinose lotte intestine e di frequenti spostamenti della capitale. Un momento di crisi particolarmente acuta si ha nel 1614 quando il sovrano Sriranga II (al potere dal 1614 al 1614) viene ucciso e la sua famiglia quasi interamente sterminata. Unico sopravvissuto il figlio Rama Deva Raya (al potere dal 1617 al 1632), che sale al trono nel 1617 dopo essere uscito vittorioso da una guerra contro i nemici del padre nella battaglia di Toppur.
Quanto rimane dell’Impero viene comunque conquistato nel 1646 dagli eserciti dei due sultanati musulmani di Bijapur e Golconda. Gli Stati vassalli che facevano parte dell’Impero si dichiarano allora indipendenti, cambiando la geografia politica dell’India meridionale. Alcuni di essi, come il Regno Nayak e il Regno di Mysore rimangono indipendenti per molti anni ancora.
L’India nel Seicento è comunque dominata dall’Impero Moghul, all’apice della sua potenza, per lo meno fino a verso la fine del secolo. I suoi due ultimi imperatori sono Shah Jahan (1628 -1658) e suo figlio Aurangzeb (al potere dal 1658 al 1707). Sotto il primo, l’impero raggiunge il vertice del potere, anche se cominciano a farsi sentire le minacce esterne, soprattutto dei Persiani. L’arte, la cultura e l’architettura conoscono un momento di grande fulgore, testimoniato dal famoso mausoleo del Taj Mahal, ad Agra.
L’imperatore Aurangzeb, che si impadronisce del potere nel 1658, dopo aver fatto imprigionare suo padre nel Forte Rosso di Delhi, a differenza dei suoi più tolleranti predecessori è un fanatico difensore e propagatore della fede islamica, che cerca di imporre su tutto l’impero provocando, però, reazioni anche sanguinose. Aurangzeb persegue una politica espansiva, portando l’impero alla sua massima estensione territoriale grazie anche alla conquista dei Sultanati del Deccan. I costi sono pesanti e le opposizioni interne talvolta violente. L’intolleranza religiosa e l’oppressione sulla popolazione per finanziare le campagne militari accendono molte rivolte favorite dalla diffusione delle armi da fuoco.
La crisi dell’Impero Moghul
Questo grande impero è però fragile, come dimostra l’inizio delle aggressioni da parte dei Maratha, popolazione indù stanziata nella regione centro-occidentale. Originari del Deccan occidentale, sotto Bhonsle Shivaji (1627-1680) essi riescono a liberarsi del giogo del sultano musulmano di Bijapur e a estendere il loro dominio verso le zone centrali. Gli scontri cominciano dopo che Shivaji, nel 1664, attacca e saccheggia Surat, un importante porto commerciale sulla costa nord-occidentale dove già dalla fine del secolo precedente si svolgeva un intenso commercio con i Portoghesi, proseguito dal 1608 con la Compagnia inglese delle Indie orientali e dal 1667 con la Compagnia francese delle Indie orientali. Shivaji riesce, alla fine di lunghi conflitti, a sconfiggere Aurangzeb e a estendere i suoi domini su gran parte del Deccan fino all’India meridionale. Nel 1674 Shivaji prende il titolo di sovrano del neo-Impero Maratha, che avrebbe raggiunto la sua massima potenza nel XVIII secolo, con la dichiarata intenzione di combattere per conto degli indù contro la dominazione musulmana. Alla sua morte nel 1680 gran parte dell’India centrale e meridionale è riunita sotto il suo potere. Nello stesso anno, Akbar, il figlio di Aurangzeb, invece di combattere contro i ribelli di Rajput, come gli viene ordinato, si rivolta contro il padre e cerca di spodestarlo, senza riuscirvi. Dopo il fallito tentativo, lascia il paese per rifugiarsi in Persia dove muore.
Dopo la morte di Aurangzeb si accende una lotta per la successione da cui emerge il figlio Muazzam (1643-1712), più conosciuto con il nome da sovrano di Bahadur Shah, che regna solo per cinque anni durante i quali allenta la severa intransigenza islamica imposta dal padre. Alla sua morte, l’impero entra comunque in un lungo periodo di crisi.
Dopo il declino della potenza portoghese, l’arrivo delle altre nazioni europee sulle coste indiane dall’inizio del XVII secolo in poi, ha ripercussioni sugli assetti politici dei vari Stati indiani. Le varie Compagnie iniziano la loro attività nel momento in cui l’Impero Moghul è nel pieno della sua potenza.
La Cina dai Ming ai Quing
Il secolo XVII si apre in Cina con la dinastia Ming, alle prese con una crisi cominciata durante la seconda metà del secolo precedente e che, nel giro di pochi decenni, la conduce alla caduta. All’origine del collasso vi sono innanzitutto debolezze istituzionali della corte dove imperatori deboli sono succubi di eunuchi incapaci. Inoltre, continue e sempre più violente rivolte contadine provocate dalle difficili condizioni economiche dovute anche a cause naturali quali siccità e inondazioni che colpiscono la Cina durante i primi decenni del secolo, determinano una condizione di insicurezza in vaste regioni dell’Impero. A queste cause interne vanno sommate le minacce esterne, innanzitutto quella delle tribù manciù lungo le frontiere settentrionali. Non va dimenticato inoltre, tra le concause, l’indebolimento della potenza portoghese in Asia orientale e di conseguenza il declino del lucroso commercio che essa vi aveva svolto nel secolo precedente.
Sono proprio i Manciù la causa immediata della caduta dei Ming: oltre i confini settentrionali dell’Impero, in Manciuria, nei primi anni del secolo, un leader di nome Nurhaci (1559-1626) riesce a rafforzare la propria posizione sottomettendo varie tribù, finché nel 1606 gli viene conferito il titolo di re dei Mongoli. Dopo aver conquistato la regione cinese del Liaoning, una provincia nord-orientale dell’impero, e avervi fondato la dinastia Jin di cui si pose a capo, Nurhaci intraprende la conquista dell’impero.
Quando Nurhaci muore, i cinesi negoziano una pace, che però dura per breve tempo: di lì a poco sarebbe iniziata una lunga e caotica fase per la presa del potere. Il nuovo leader manciù fu Abahai (1592-1643), ottavo figlio di Nurhaci che cambia il nome della dinastia da Jin a Qing e nel 1629 raggiunge le mura di Pechino. È però Dorgon (1612-1650), reggente del figlio di Abahai, a entrare nella città proibita cacciando i rivoltosi guidati da un ufficiale di basso rango di nome Li Zicheng (1606-1645), che dopo aver abbattuto il potere dei Ming, si era autoproclamato nuovo imperatore fondando la dinastia Shun, ma verrà a sua volta sconfitto da un esercito composto di fedeli dei Ming e di manciù guidati da Wu Sangui (1612-1678).
Nel 1678, dopo che l’ultimo imperatore Ming era stato messo a morte nel 1662, Kangxi (1654-1722), il primo imperatore della dinastia Qing e discendente di Dorgon, sconfigge a sua volta Wu e nel 1681 la dinastia Qing ottiene il pieno controllo dell’impero, che avrebbe conservato fino al 1912 come ultima dinastia imperiale.
Il lungo regno di Kangxi
In una prima fase i nuovi dominatori manciù si riservano tutti i posti chiave del potere e impongono ai cinesi alcuni dei loro costumi tradizionali, anche in segno di sottomissione, come la testa rasata e il codino. Col tempo tuttavia i manciù fanno propri molti elementi della cultura cinese e adottano una politica di condivisione del potere e dell’amministrazione tra manciù e cinesi, riducendo i motivi di frizione tra le due etnie.
Il regno di Kangxi, che si sarebbe rivelato uno dei più abili imperatori cinesi, è il più lungo della storia della Cina, ed è caratterizzato da consolidamento all’interno ed espansione dei confini. Kangxi riesce infatti a costituire un impero centralizzato affrontando in modo determinato le tendenze autonomistiche delle province. Conduce una serie di azioni militari volte al rafforzamento del potere sia nella Mongolia esterna sia in Tibet, entrambi invasi dagli Zungari di origine mongola, cacciando gli invasori e incorporando questi territori nel suo impero. Infine, Kangxi rivolge la sua attenzione a Taiwan, allora governata dal figlio di Zheng Chenggong – più conosciuto con il nome che gli fu attribuito dagli occidentali di Koxinga (1624-1662), un lealista che aveva cercato di riconquistare il potere per i Ming, senza successo. Nel 1683 i Manciù conquistano le isole Panghu (o Pescadores) e poi l’isola di Taiwan, che viene annessa all’Impero.
Kangxi deve occuparsi anche della complessa situazione che si è creata a nord, lungo il confine con l’Impero russo, anch’esso in espansione. Nel 1689 viene firmato un trattato con la Russia, il primo con un Paese straniero basato su un piano di parità, grazie al quale si definiscono le frontiere dei rispettivi Paesi.
Durante il regno di Kangxi, molti missionari gesuiti sono attivi in Cina, con lo scopo di diffondere la fede, ma anche di portare la scienza e la tecnologia occidentali. Personaggi come il portoghese Tomás Pereira (1645–1708), l’italiano Martino Martini (1614-1661), il tedesco Johann Adam Schall von Bell (1592 -1666), il fiammingo Ferdinand Verbiest (1623-1688), il belga Antoine Thomas (1644-1709) e il ceco Karel Slavícek, sono impegnati a promuovere la matematica, la cartografia, l’astronomia europee, e nel ruolo di consiglieri dell’imperatore. Kangxi è molto interessato alla cultura occidentale e si circonda di Europei, di cui sfrutta anche le conoscenze tecniche per la produzione di armi da fuoco e le competenze linguistiche e diplomatiche, ad esempio in occasione dei negoziati con i Russi. Il favore di cui i Gesuiti godono a corte porta nel 1692 all’editto di tolleranza del cristianesimo, in cui si permette la predicazione della fede cristiana. Questo successo è però vanificato poco più tardi dalla cosiddetta “controversia dei riti”. La proibizione di scendere a compromessi con i riti locali, decretata dal legato papale Maillard de Tournon, recatosi a Pechino per verificare la purezza della dottrina insegnata dai Gesuiti, raffredda i rapporti fino a quando Kangxi ordina ai Gesuiti di accettare i compromessi o di lasciare il Paese.
L’avvento dei Tokugawa in Giappone
La morte nel 1598 del secondo dei grandi unificatori del Giappone, Toyotomi Hideyoshi, apre la lotta di successione. Hideyoshi aveva lasciato il potere al figlio Hideyori (1593-1615) ancora in giovane età, affiancato da alcuni grandi daimyo come tutori, i quali entrano subito in competizione per ottenere il controllo del Paese, mettendo da parte Hideyori. Il più potente di costoro, Tokugawa Ieyasu (1542-1616), nel 1599 entra nel castello di Osaka, la residenza di Hideyori. Il 21 ottobre 1600, Ieyasu e Ishida Mitsunari (1560-1600), a capo di due coalizioni di daimyo contrapposte, si scontrano a Sekigahara nella più epica battaglia del Giappone premoderno. L’alleanza di Ishida ha buone possibilità di vittoria anche sulla base delle forze dispiegate, tuttavia un tradimento nel suo campo permette a Ieyasu di uscire vincitore. La battaglia di Sekigahara causa un drastico riordinamento della geografia politica e di potere del Paese. Ieyasu diviene di fatto il nuovo leader incontrastato cui molti signori giurano in fretta fedeltà. Formalmente Ieyasu agisce ancora nel nome di Hideyori, ormai rimasto solo, asserragliato nel castello di Osaka, debole e senza alcuna prospettiva di riprendere il controllo della situazione. Nel 1603 Ieyasu sposta il suo quartier generale a Edo (oggi Tokyo) nel Kanto, prende per sè la carica di shogun e accetta la sottomissione di tutti i daimyo. Due anni più tardi passa la carica di shogun al figlio Hidetada (1579-1632), e tiene per sè la carica di ogosho (cioè shogun in ritiro) stabilendosi a Sunpu (oggi provincia di Shizuoka) nel castello di famiglia. Nel 1614 trova finalmente il pretesto per eliminare la discendenza di Hideyoshi e diventare così il padrone incontrastato del Paese.
Ieyasu muore l’anno seguente, lasciando un paese unificato nelle mani di un clan familiare forte che avrebbe retto le sorti del Giappone fino alle soglie dell’era moderna.
La chiusura del Giappone
Il sistema politico che si instaura sotto l’egemonia dei Tokugawa viene definito dagli storici baku-han, cioè un sistema che si basa sul rapporto dinamico tra il bakufu (letteralmente “governo della tenda”), il potere centrale dei Tokugawa, e gli han, ossia i possedimenti dei daimyo che nel loro territorio godono di una ampia autonomia. In definitiva, il Giappone, dal XVII alla metà del XIX secolo, si regge su un equilibrio tra il clan più potente, cioè i Tokugawa, e i clan locali. Comunque, è un sistema in tensione continua: i Tokugawa sono soltanto il clan più forte e sulla base della propria forza impongono il proprio predominio sugli altri. Potenzialmente, in ogni momento, una potente alleanza avrebbe potuto scalzare i Tokugawa e sovvertire la situazione.
La struttura politica vede una coalizione di daimyo legati ai Tokugawa, alleati nella battaglia di Sakigahara o membri del clan portandone il cognome o comunque imparentati e, dall’altra parte, i potenziali nemici, cioè quei daimyo che erano stati rivali a Sakigahara o che comunque hanno giurato fedeltà solo tardivamente e malvolentieri. Nella ricollocazione dei possedimenti attuata fin dai primi tempi dai Tokugawa, i primi, detti hatamoto, erano stati posti vicino e attorno a Edo, a formare una sorta di barriera in caso di conflitto; gli altri, detti tozama, o “signori esterni” erano posti in periferia, lontano dal potere centrale. Per oltre 250 anni comunque, il sistema baku-han si dimostra in grado di assicurare al Paese grande stabilità e pace dopo quasi un secolo di lotte e di sommovimenti sociali.
Dopo il consolidamento del loro potere a Edo, i Tokugawa adottano una politica di isolamento del Paese al fine di consolidare un potere che temono possa essere minacciato dalle influenze esterne.
La presenza sempre più invadente e aggressiva degli Europei in altre parti dell’Asia e la rivolta cristiana di Shimabara nel Kyushu del 1637-38, repressa in un bagno di sangue, sono all’origine della decisione di impedire i contatti con l’estero. Questa politica, che sarebbe durata fino alla metà del XIX secolo, viene formalizzata da un editto del 1639 chiamato sakoku rei (editto di chiusura del Paese): il commercio è consentito agli Olandesi solo attraverso la piccola isola artificiale di Dejima, al largo di Nagasaki, sotto strettissima sorveglianza. Questa politica ha anche lo scopo di estirpare definitivamente il cristianesimo che viene perseguitato ferocemente nei primi decenni del secolo, ma che sopravvive segretamente in alcuni villaggi sotto forma di kakure kirishitan o cristianesimo nascosto.