INDIGITAMENTA
. Nome dato dai Romani antichi alle formule sacre con le quali s'invocavano le divinità, perché fossero propizie ai singoli atti della vita, cosi privata come pubblica, alle imprese d'ogni genere, singole o collettive.
Era della massima importanza che s'invocasse, caso per caso, la divinità prestabilita, chiamandola col nome e con gli epiteti a essa proprî e con la formula dovuta: qualunque errore commesso nel formulare l'invocazione ne rendeva nullo l'effetto. Donde la necessità di conoscere a fondo l'arte degl'indigitamenta: essi stavano sotto la sorveglianza del collegio dei pontefici, il cui capo (il pontefice massimo) dettava, per gli atti religiosi compiuti per conto dello stato, le formule al magistrato o la sacerdote che li compiva. Tali formule erano custodite dai pontefici nel più gran segreto, poiché, se conosciute dai nemici, avrebbero potuto essere da questi usate a danno dello stato romano. Le divinità da invocare erano innumerevoli, e si poteva indigitarne una sola o molte contemporaneamente; e siccome, a malgrado di ogni precauzione, si poteva cadere in qualche errore di formulazione, si aggiungevano, alla fine dell'invocazione, delle frasi generiche intese a stornare l'eventuale danno (p. es.: sive quo alio nomine fas est nominare; sive deus sive dea; sive mas sive femina, ecc.).
Bibl.: L. Preller-H. Jordan, Römische Mythologie, 3ª ed., Berlino 1881, I, p. 104 segg.; C. M. Zander, Versus Italici antiqui, Lund 1890, p. 24 segg.; H. Usener, Götternamen, Bonn 1896, p. 75 seg.; G. Appel, De Romanorum precationibus, Giessen 1909; G. Wissowa, Religion und Kulturs der Römer, 2ª., Monaco 1912, pp. 37; O. Richter, in Pauly-Wissowa, Real-Encykl., IX, col. 1334 segg.