Individuo e individualità nel pensiero di Croce
Nel Commento a Croce (1955), Carlo Antoni (1896-1959) osservò che tutta la filosofia crociana appare come «una celebrazione dell’individualità», in quanto «vede l’infinito nella sua concreta individuazione»; ma subito aggiunse che, al tempo stesso, essa presenta «il paradosso d’una negazione dell’individualità» (Antoni 1955, 19642, pp. 99-100): perché, risolvendo l’individuo empirico nella realtà universale della sua opera, e in essa annullandolo, rischia di generare «un nuovo dualismo e una nuova trascendenza» (Antoni 1959, p. 60), analoghi a quelli che, secondo il suo giudizio, avevano attraversato e intorbidato la filosofia di Georg Wilhelm Friedrich Hegel.
Ricordando le considerazioni, diverse ma tuttavia convergenti, che Guido De Ruggiero aveva svolto nel Ritorno alla ragione del 1946, Antoni cercava di correggere quello che gli sembrava l’errore capitale della filosofia di Croce, riprendendo un tema che, a proposito del pensiero hegeliano, già nel 1941 aveva provocato una precisazione del filosofo napoletano con l’articolo su Storicità, individualità e personalità (in Discorsi di varia filosofia, 2° vol., 1945, pp. 145-50), «stimolato», come disse (B. Croce, C. Antoni, Carteggio, a cura di M. Mustè, 1996, p. 47), dalle sue Note sullo storicismo di Hegel («Argomenti», 1941, 4, pp. 1-12): una critica, quella di Antoni, che affondava radici profonde negli studi che aveva condotti sullo storicismo tedesco e sul suo rapporto con il giusnaturalismo, e che, lungi dal comporsi, si accentuò di fronte alle ultime meditazioni crociane sulla vitalità, nelle quali vide una specie di nemesi, o di «vendetta», originata dall’iniziale disconoscimento della realtà dell’individuo (Antoni 1955, 19642, p. 107).
Una critica che certo incontrava il crescente disagio della cultura italiana, ormai penetrata dalle influenze della fenomenologia e dell’esistenzialismo, e che, anche per la diversa visione del liberalismo politico che via via aveva elaborato, sfociò, negli ultimi scritti, nel tentativo di concepire l’individuo come il luogo stesso della sintesi a priori, come l’orizzonte di quel circolo categoriale che, nel pensiero di Croce, costituiva la totalità e il divenire dello spirito.
Il «paradosso», che Antoni segnalava e cercava di emendare, consisteva nel fatto che Croce, dall’inizio alla fine della sua meditazione, tanto aveva assegnato al concetto di individualità una funzione fondamentale, tanto aveva escluso, come nozione irreale e priva di esistenza, la figura empirica dell’individuo. Nel 1940, recensendo il libro di Friedrich Meinecke Vom geschichtlichen Sinn und vom Sinn der Geschichte (1939), e cercando di fissare i termini del lungo dialogo con lo storico tedesco, Croce tornava a chiarire che con il termine individualità occorreva indicare esclusivamente la «concretezza dell’universale», evitando di «attribuire pregio di per sé all’individuale scisso o distinto dall’universale», cioè alla singolarità empirica, perché – aggiungeva – «qui è l’origine remota del morboso romanticismo, del decadentismo e altresì del razzismo» (Pagine sparse, 3° vol., 1960, pp. 445-47).
In effetti (e Antoni se ne mostrò ben consapevole, avviando una revisione complessiva della teoria del giudizio), il «paradosso» derivava dal modo in cui, nei Lineamenti d’una logica come scienza del concetto puro del 1905 e soprattutto nella grande Logica del 1909, Croce aveva configurato la realtà del concetto puro, traendone l’identità di filosofia e storia: il «giudizio individuale», vertice dell’intera conoscenza teoretica, esprimeva l’universale concreto, la sintesi a priori di intuizione e concetto, e dunque l’unica, autentica accezione dell’«individualità», intesa come percezione ed esistenza; proprio su questa base, Croce poteva «correggere» e «compiere» la sua precedente teoria della storiografia, concepita ancora come «arte» e rappresentazione estetica, riconoscendo l’essenza della storicità nel «concetto individualizzato» (Logica come scienza del concetto puro, 1996, p. 393). Ma soprattutto, nel secondo capitolo della prima sezione della Logica, stabiliva la distinzione tra concetto puro e pseudoconcetti o «finzioni concettuali», suddividendo questi ultimi tra nozioni empiriche («casa, gatto, rosa») e nozioni universali («triangolo, moto libero»), entrambe risultato di un gesto pratico e utilitario della volontà, ed entrambe destinate a spezzare l’unità del giudizio individuale, classificando in schemi astratti la realtà.
Proprio in tale atto dell’interesse pratico, e perciò nella distinzione che esso presupponeva tra concetto e pseudoconcetto, si apriva lo spazio, almeno in senso logico, per separare la genuina visione dell’individualità (corrispondente alla sintesi del giudizio individuale, e dunque alla concreta esistenza e alla storia) dalla figura dell’individuo empirico, che doveva essere considerato, appunto, come finzione susseguente, sia pure capace di produrre non proprio un genere o una classe (come «casa, gatto, rosa»), ma la parvenza di una singolarità, come quella che, separata dal predicato universale, può essere chiamata, con semplice suono di nome, «Pietro» o «Paolo».
Nella Filosofia della pratica, pubblicata (come la Logica) nel 1909, il concetto di individuo assumeva una centralità strutturale e interveniva in tutti i passaggi salienti dell’opera. In primo luogo, secondo una precisa analogia con la sfera teoretica, la volizione economica era definita come il momento individuale, «corrispettivo soltanto alle condizioni di fatto in cui l’individuo si trova» e orientato a «fini individuali» (Filosofia della pratica. Economica ed etica, 1996, p. 219), rispetto all’attività etica, di per sé universale, ma resa concreta dalla sintesi con la precedente condizione utilitaria.
Questo carattere della volontà economica permetteva poi, nei luoghi cruciali del libro, tanto di operare la distinzione tra l’azione, che è «opera del singolo», e l’accadimento, che è «l’insieme di tutte le volizioni» (p. 68), riconoscendo così nell’individuo la fonte costituente della realtà universale, quanto di offrire, nella terza e ultima parte, un’interpretazione delle leggi e del fatto giuridico, intesi appunto come un «prodotto individuale», alla stregua dei «programmi di vita individuale» (p. 319) che ciascuno elabora per legiferare su sé stesso. Se tale era l’importanza che il principio dell’individualità assumeva nella teoria della pratica, il significato che Croce vi conferiva restava pur sempre quello della concreta forma spirituale, dell’atto volitivo, considerato come forma categoriale della realtà, che non poteva e non doveva essere confuso con l’immagine empirica dell’individuo singolo, del soggetto particolare: tale confusione era infatti impedita dalle tesi fondamentali dell’opera, che non soltanto dissolveva la separazione tra volizione e azione, rendendo perciò impraticabile qualsiasi spazio dissociato dell’intenzione, dell’astratta interiorità e, quindi, di una contingente soggettività, ma escludeva la stessa legittimità dell’arbitrio, della «libertà di scelta», giacché, scriveva, «la volontà non isceglie una volizione (fuorché per metafora), ma sceglie, per così dire, la scelta stessa» (p. 158).
Nella seconda sezione dell’opera, dedicata a “L’attività pratica nella sua dialettica”, Croce fornì, tuttavia, una spiegazione ampia e non poco complessa del fatto stesso dell’individuo, non solo come livello elementare (economico) della volizione, ma anche nel senso empirico e contingente. Determinato il principio della volizione-azione nella dialettica di libertà e necessità e nell’opposizione di bene e male, ne precisò e allargò il significato attraverso la teoria delle passioni, per cui – spiegò – le volizioni non si susseguono l’una l’altra, ma «l’individuo è sollecitato a un tempo da molteplici o, per parlare più esattamente, da infinite volizioni» (p. 155): se l’atto pratico, in cui l’individualità si costituisce, consiste nel vincere questa molteplicità e nel prevalere della volizione attuale su quelle escluse, riducendo il «caos» alla forma del «cosmo», non per questo le volizioni escluse vengono annullate o del tutto dimenticate, ma permangono come volizioni possibili, disponibili a diventare via via attuali, nella figura, appunto, di passioni o desideri.
Se questa teoria consentiva di presentare la prassi come «milizia», come «lotta contro le passioni», affermando, nello stesso tempo, la sostanziale medesimezza dei due termini – della volontà e delle passioni –, al punto che il volere si attualizzava come «passione tra le passioni», nel capitolo successivo, il quarto, Croce cercò di ricavare, all’interno di tale dialettica, lo spazio per pensare il profilo dell’individuo nella filosofia della pratica.
Soffermandosi ancora sul concetto delle passioni, chiarì che con questo termine non dovevano intendersi stati d’animo come «entusiasmo» o «depressione», né semplicemente impulsi o affetti, ma determinazioni che si formano «secondo gli oggetti», cioè passioni per qualcosa, come «arte» o «vita campestre» o simili. E aggiunse che tali passioni empiricamente determinate («i concetti empirici delle passioni») non andavano prese soltanto come desideri singoli e istantanei, bensì «come inclinazione o abito di desiderare e volere in un certo indirizzo», al punto tale da delinearsi come un «genere» che, pur non essendo «categorie» né «concetti distinti», coglie «il simile nel dissimile», componendo «l’ossatura del corpo della realtà» (p. 165).
Il passaggio improvviso, che qui accadeva, dalla considerazione della volontà come forma concreta della prassi alla rappresentazione del genere empirico delle passioni come «abiti volitivi», rendeva possibile a Croce avanzare una spiegazione della nozione, altrettanto empirica, dell’individuo, inteso come sinonimo di quegli «abiti»; non dunque come soggetto, per così dire, detentore di tale classe di inclinazioni, come sostrato di quei predicati, ma uno e identico con essi e, dunque, in essi risolto: negli abiti volitivi – scriveva – «ha fondamento l’individualità, intesa come concetto empirico, nel qual caso non designa altro che un complesso di abiti più o meno duraturi e coerenti» (p. 165). E poco dopo, in modo ancora più chiaro, Croce aggiungeva: «l’individuo non è in realtà, come si è avvertito, se non questi gruppi di abiti, e muta col mutare di essi» (p. 168). Abiti mutevoli, derivanti in parte dalle disposizioni naturali in parte dall’educazione, che non possono essere sradicati, come vorrebbero i sognatori e gli utopisti, da un’astratta norma razionale, ma solo riconosciuti e ulteriormente educati e corretti: sempre ricordando che una cosa è «la disposizione naturale o acquisita» e altra cosa la «virtù», che una cosa è il «temperamento» e altra cosa il «carattere», perché abiti e passioni esigono «la sintesi volitiva e razionale», che è «la forma di quella materia» (p. 169).
Ma gli abiti volitivi, ordito di passioni capaci di circoscrivere lo spazio dell’individuo empirico, erano anch’essi il prodotto dello spirito universale, il riflesso dell’accadimento storico, come bene mostrava l’idea religiosa della «vocazione», il «Nunc dimitte servum tuum, Domine», che attesta, nelle figure mitiche della religione, che «servi noi siamo della Realtà, che ci genera e ne sa più di noi» (p. 172). Se l’individuo si risolveva negli abiti volitivi, questi altro non erano poi, considerati non come «genere» ma nella loro realtà, che l’effigie di una sapienza infinita, espressa dall’inquieta ricerca, condotta da ciascuno, del proprio posto nel mondo, del proprio «specialismo»: l’individuo, concludeva Croce, «è la situazione storica dello spirito universale in ogni istante del tempo, e perciò l’insieme degli abiti che per effetto delle situazioni storiche si sono prodotti»; perché, aggiungeva, «individuo e situazione sono tutt’uno» (p. 171).
Nei Frammenti di etica, che Croce compose e pubblicò su «La Critica» a partire dal 1915, e (dopo l’edizione in volumetto del 1922) ristampò nel 1931, con ulteriori aggiunte, in Etica e politica, la questione dell’individuo trovò svolgimenti di rilievo, ancora iscritti nel quadro speculativo tracciato nella Filosofia della pratica, ma tuttavia non privi di suggestive implicazioni. Che queste note delineassero una nuova elaborazione dei precedenti pensieri, lo chiarì, d’altronde, fin dal primo frammento, su “Desiderare e volere”, nel quale, riprendendo il tema delle passioni e del loro rapporto con l’atto volitivo, affermò che i desideri costituiscono «un momento intrinseco» dell’azione, «il momento della fantasticheria, della paura, dell’inerzia, della follia», o anche «il momento della passività»: precisandone il senso (più di quanto non si leggesse nella Filosofia della pratica), scrisse che, mentre nell’azione morale il «momento antitetico del desiderare» coincide con la stessa volizione utilitaria ed egoistica, che la volontà etica fronteggia e vince, nella sfera economica è invece rappresentato dalla semplice «molteplicità dei desideri», dalla «forza centrifuga» delle passioni che tendono a disgregare l’energia del volere nella sua accezione più elementare (Etica e politica, 19813, p. 13).
Ma, come si diceva, questo discorso, che in parte riprendeva e in parte svolgeva i risultati della Filosofia della pratica, richiamava fin dall’inizio il nodo dell’individualità e dell’individuo in senso empirico, che in effetti emerse in primo piano nel terzo (“L’amore per le cose”) e nel quinto frammento (“I trapassati”), dove Croce indicò nella «concezione monadologica», «dell’individuo come entità metafisica», il feticcio che «bisogna distruggere» per adottare la visione esatta e realistica dell’etica, sostituendovi «l’immortalità vera e radiosa, che va oltre l’individuo», e che sola è capace di «vincere, domare e piegare di volta in volta la forma pratica del monadismo, la ribelle ed egoistica individualità» (p. 20). E nel successivo frammento su “I trapassati”, ragionando del rapporto dei vivi con i defunti, specificava il proprio pensiero, affermando che «la nostra individualità è una parvenza fissata dal nome, cioè da una convenzione», là dove solo l’opera, che è ciò che possiamo riconoscere e continuare degli estinti, ne costituisce la realtà e il significato: «noi realmente – concludeva – non siamo altro che questo desiderio e questa opera, e ciò solo vogliamo immortale di noi» (p. 25).
Il problema dell’individuo e dell’opera, che attraversava i diversi fili che venivano a comporre le agili note di argomento etico, trovò un’espressione più diretta in quattro frammenti (dal venticinquesimo al ventottesimo), nei quali Croce stabilì con cura la propria visione. Richiamandosi ancora alla dottrina degli «abiti volitivi», ribadì, in primo luogo, che «l’individuo è un’istituzione», proprio come le altre istituzioni sociali e storiche, come la famiglia romana o la servitù medievale, le quali, in maniera corrispondente, potrebbero essere considerate nella loro empirica individualità: al pari di esse, infatti, l’individuo è consapevole di sé e tende a conservarsi e a farsi valere; e soprattutto, al pari di esse, è interamente risolto nell’opera che viene attuando, che è «un’opera a lui commessa», per la cui realizzazione anche «la forza sua gli viene prestata» (p. 93).
Per illustrare queste forti parole, che di fatto annullavano qualsiasi residuo significato dell’individuo che potesse eccederne il concreto operare, ricorse alle immagini teologiche della «Grazia» e della «Provvidenza»: considerando l’una, la Grazia, come «la forza spirituale in generale», come l’«ispirazione» e l’energia interiore che il filosofo chiama idea, l’uomo pratico vista sicura, il guerriero impeto; e definendo l’altra, la Provvidenza, come il compito particolare che lo spirito assegna a ciascun individuo in ogni situazione. Per cui, concludeva, se l’immaginazione sogna che le cose nascano nell’arbitrio del singolo,
la scelta effettiva non è cosa di noi, ma della Provvidenza, che ci consente di far questo o quello, questo e non quello; così come il farlo felicemente non ci è dato se non nella misura che ce ne sarà concessa la Grazia (p. 94).
Tuttavia, se nelle rappresentazioni religiose permaneva un dualismo irrisolto, tale che si immagina il tutto distaccato dall’individuo, Dio dall’uomo, nella visione immanentistica e laica proprio questo presupposto trascendente doveva essere corretto e sanato, arrivando a concepire Grazia e Provvidenza come «l’alterno respiro, di un’unica forza» (p. 94), come la «dialettica dello spirito nella varietà-unità delle sue forme» (p. 96), e perciò l’individuo solo come l’atomo astratto e irreale «metaforicamente staccato come parte e contrapposto a un’altra parte»: nella visione laica, insomma, in maniera più rigorosa, l’individuo umano e terreno era ricondotto nell’unità del tutto, in sé distinta e articolata, ma tale che le parti singole potevano essere isolate solo per un gesto dell’astrazione, dissolvente la reale configurazione dell’intero.
Nei due frammenti su “L’individuo e l’opera” e sulla “Responsabilità”, Croce trasse le ultime conseguenze dalla risoluzione che, attraverso quelle nozioni teologiche e la loro correzione in senso idealistico, aveva ormai compiuta dell’individuo nell’opera universale. Se così stavano le cose, infatti, se né l’opera pratica né l’opera teoretica potevano essere riferite all’individuo, di cui pure «portano il nome», poiché esse «appartengono al corso delle cose e allo spirito universale» e «non all’individuo empirico che quel nome designa», bisognava derivarne la tesi che al singolo autore, si chiamasse pure Dante o Napoleone, non poteva essere accordato alcun merito o demerito, perché in nessun caso il giudizio andava portato sull’artefice empirico degli eventi, ma solo sulla «qualità dell’opera e dell’avvenimento» (p. 101). Conclusione, come si vede, netta e radicale, che discendeva da tutto il discorso fin qui svolto, e che portava Croce, nel passaggio appena successivo, a mettere in discussione i principi della libertà del volere e della responsabilità personale. In perfetta coerenza con quanto aveva sostenuto nella Filosofia della pratica – dove la libertà era stata considerata non come arbitrio libero, ma come la spontaneità del volere rispetto alla necessità della situazione di fatto, colta nel giudizio individuale –, ricordava l’inutilità delle dispute suscitate dal determinismo e ribadiva:
Azione libera è quella che il nostro spirito crea perché non potrebbe crearne altra, l’azione conforme all’esser nostro nella situazione determinata, la soluzione del problema che il passato ci ha preparato ma che noi poniamo e risolviamo (p. 102).
Il volere era libero, dunque, non perché avesse libertà di scelta fra differenti opzioni, ma perché possedeva capacità originaria di non duplicare l’ordine della necessità e di incrementare il progresso della realtà: per quanto paradossale possa apparire, libertà significava obbedienza alla regola della necessità («non potrebbe crearne un’altra») e rifiuto radicale della scelta individuale tra diverse possibilità. Significava per ciò, e tale era l’esito conclusivo del discorso, che l’individuo non poteva considerarsi responsabile delle sue azioni, come se fossero scelte da lui ad arbitrio; e che dunque, per l’azione compiuta, non meritava lode né biasimo proprio come insegnava il giudizio storico e teoretico, dove i fatti non sono processati, lodati o condannati, ma semplicemente compresi. Nessuna responsabilità, quindi, da parte del singolo, perché, come ormai sappiamo, l’individuo non si costituisce come ente reale, ma solo come astrazione susseguente operata dall’intelletto:
Non si è responsabili – concludeva Croce, con una battuta tagliente –, ma si è fatti responsabili, e chi ci fa responsabili è la società, che impone certi tipi di azione, e dice all’individuo: – Se tu vi ti conformi, avrai premio: e se vi ti ribelli, avrai castigo; e perché tu sai quel che fai e intendi quel che io chiedo, io ti dichiaro responsabile dell’azione che eseguirai (p. 103).
L’idea di responsabilità, che le filosofie avevano chiamato a fondare la realtà dell’individuo, si rivelava, insomma, una convenzione sociale, soprattutto giuridica, risultato di un’operazione pratica, ma priva di giustificazione teoretica: e il destino della responsabilità era il medesimo destino dell’individuo empirico, un «nome», come si è visto, il cui suono era stato opportunamente evocato dall’ordine sociale.
La considerazione dell’individuo, come si era precisata tra la Filosofia della pratica e i Frammenti di etica, ebbe importanti contraccolpi sulla teoria politica e su quella della storia. Influì, come è ovvio, sulla ricostruzione della dottrina liberale, avviata soprattutto a partire dal 1924, in particolare sulla critica del liberalismo classico di scuola inglese, che proprio la tutela dell’individuo dallo Stato e dalla comunità aveva elevato a criterio fondamentale della libertà politica: nell’articolo del 1940, Principio, ideale, teoria. A proposito della teoria filosofica della libertà, Croce obiettò appunto, a proposito del trattato di John Stuart Mill On liberty (1859), che il liberalismo vi era scambiato con l’«individualismo utilitario» o «atomismo», per il fatto che il concetto di individuo non vi era elaborato criticamente, ma sostanzializzato e naturalizzato quale monade e persona fisica, «invece di risolverlo nell’individualità del fare o dell’atto, ossia nella concretezza dell’universalità» (Il carattere della filosofia moderna, 1991, p. 113).
A tale «individualismo utilitario» opponeva il suo «individualismo morale», che, consapevole dell’irrealtà dell’individuo empirico, tratta piuttosto «lo Stato come strumento di più alta vita» (p. 112): tesi, d’altronde, che, tra il 1928 e il 1932, era rimasta al centro della Storia d’Italia e della Storia d’Europa, dove il liberalismo era celebrato come la nuova «religione», che «non pativa aggettivi né empiriche determinazioni per la sua intrinseca infinità» (Storia d’Europa nel secolo decimonono, 19814, p. 15). Ancora di più, la critica dell’individualismo colpiva le dottrine, non tanto «democratiche» o «giacobine» (le quali guardavano soprattutto alle masse, al popolo, alla plebe), ma «egualitarie», che cioè ponevano a fondamento degli Stati «l’eguaglianza degli individui», concepiti astrattamente e indistintamente, come «una fila di di fredde, lisce ed eguali palle da bigliardo» (Etica e politica, cit., p. 182), illudendosi poi di ricavarne le istituzioni pubbliche per il tramite di un inspiegabile «contratto».
Ancora più notevole risultava lo svolgimento di tali premesse nella teoria della storia e della storiografia, a cominciare dalla diffidenza e dalla critica che sempre manifestò nei confronti del genere delle biografie e delle autobiografie (di cui pure, con il Contributo alla critica di me stesso, lui stesso aveva offerto un esempio e un modello), e di cui Giambattista Vico costituiva «il primo monumento insigne», proprio per il fatto che aveva raccontato la propria vita non come l’empirica vicenda di un individuo, ma come «la storia dell’opera che la Provvidenza gli comandò e lo guidò a compiere» (Teoria e storia della storiografia, 2007, p. 233).
Una sfiducia e circospezione, quella verso le biografie, che Croce conservò fino agli ultimi scritti di argomento storico, quando ripeté che «la seria, la grande biografia, quando assurge a storia, s’idealizza e coincide con la storia dell’opera della quale l’individuo è stato il rappresentante e il simbolo» (Filosofia e storiografia, 2005, p. 118); e quando, in una conferenza rivolta agli allievi dell’Istituto italiano per gli studi storici, ribadì la sua «diffidenza» verso il genere biografico, perché – aggiunse – le biografie entrano sempre nel bivio tra restare opere di fantasia e poesia o trascendersi nella storia autentica, che consiste solo «nel carattere delle opere» e non in quello «degli individui, che, staccato dalle opere a cui collaborano, non è determinabile e appartiene alla comune umanità» (Terze pagine sparse, raccolte e ordinate dall’autore, 1955, p. 19). La biografia, intesa come narrazione di una vicenda individuale, rappresentava l’altra faccia della filosofia della storia: se questa distaccava l’universale dal particolare, generando una sovrastoria astratta, quella compiva l’operazione inversa ed equivalente, separando la singolarità dell’autore dalla viva universalità delle sue opere.
Se tali erano, in generale, le conseguenze che, nella dottrina politica e storica, derivavano dal concetto di individualità come sintesi reale di universale e particolare, i problemi teorici maggiori riguardarono il confronto, che ben presto Croce avviò, con i suoi classici, con Niccolò Machiavelli e poi soprattutto con Vico e Hegel. Nel saggio Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, la cui prima edizione risale al 1907, si limitò a elogiare la critica che il filosofo tedesco aveva rivolto agli «allori delle buone intenzioni», sottolineando che, per l’importanza assegnata alle passioni, egli aveva scoperto che «l’individualità non è altro che il veicolo dell’universale, la sua effettualità», e che dunque gli uomini, perseguendo i loro fini, attuano l’universale: si trattava della «List der Vernunft», dell’astuzia della ragione, come si trovava nell’Introduzione generale dell’edizione critica di Georg Lasson delle Lezioni sulla filosofia della storia, e che, per il momento, Croce si limitò ad approvare, pur avvertendo (fin dalla prima edizione dello scritto) che «non bisogna intendere in modo trascendente» la situazione descritta da Hegel (Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, 2006, p. 50).
Ma già nel libro del 1911 su Vico, la riflessione di Croce su questo nodo cominciò a complicarsi, tanto che, nel capitolo decimo dedicato a “La provvidenza”, avvertì il bisogno di sospendere l’analisi dei testi vichiani per introdurre «alcuni schiarimenti dottrinali» (La filosofia di Giambattista Vico, 1997, p. 110). Gli «schiarimenti» riguardavano il medesimo problema che, a proposito dell’astuzia della ragione, aveva incontrato nello studio hegeliano, risolvendolo, come abbiamo visto, con una battuta sbrigativa, ma che ora, di fronte al concetto vichiano di provvidenza, esigeva qualche ulteriore sviluppo. In quella pagina, Croce distinse due ordini di considerazioni, affermando che, in un primo momento, le opere umane appaiono «avvolte nei fumi delle illusioni che si sollevano dagl’individui», al punto che l’ingegno storico, dissipando quelle nubi, vede emergere la storia vera e reale «di là dagl’individui, come un’opera che si compia dietro le loro spalle», da una forza estranea che si chiama «Fato, Caso, Fortuna, Dio». Ma, aggiunse, «una più profonda considerazione» oltrepassa questa visione, con il suo difetto di «separare l’individuo dal suo prodotto», e finalmente riconosce che «la storia è fatta dagl’individui», la cui individualità consiste nella concretezza dell’universale. Per cui concludeva:
La Provvidenza nella storia ha, in quest’ultima sua forma logica, il duplice valore di una critica delle illusioni individuali, allorché si presentano come la piena e sola realtà della storia, e di una critica della trascendenza del divino (p. 113).
La precisazione che si leggeva nel libro su Vico era l’indice di una riflessione più profonda, che ormai toccava, a proposito della concezione dell’individuo, la teoria hegeliana. Ed emerse con chiarezza nel sesto capitolo di Teoria e storia della storiografia, dedicato a “L’umanità della storia”, dove Croce considerò insieme «la “provvidenza” della Mente» e «l’“astuzia” della Ragione» (p. 84), definendo quest’ultima come un concetto di «alto valore», perché capace di superare la ristrettezza della storiografia «prammatica», termine che, modellato sulla descrizione hegeliana della «storia originaria» (come si leggeva nell’Introduzione speciale alle Lezioni sulla filosofia della storia), riassumeva il limite cronachistico dell’intera storiografia antica, rinascimentale, illuministica. Ma soprattutto, ne segnò subito il «vizio», presente tanto in Vico quanto in Hegel, di considerare gli individui come portatori di illusioni sul proprio agire, e dunque come strumenti di una ragione superiore, reintroducendo per tale via quel dualismo che la filosofia idealista si era adoperata a risolvere: «l’esigenza del concetto idealistico – scrisse – è che individuo e Idea facciano uno e non due, ossia coincidano perfettamente e s’identifichino» (p. 86). Per cui, concludeva, «se fuori della relazione con lo spirito l’individuo è ombra di un sogno, ombra di sogno è anche lo spirito fuori delle sue individuazioni» (p. 90).
Croce tornò più volte su questa critica del dualismo di Vico e Hegel (e, per altro verso, del concetto machiavelliano di fortuna), sempre sottolineando la necessità della sintesi e dell’unità di individuo e universale, e ne offrì il chiarimento, per molti versi definitivo, in un articolo del 1946, Intorno alla teoria hegeliana degli individui storici. Ripercorrendo le pagine che, nelle sue lezioni, Hegel aveva dedicate alla distinzione tra individui «conservatori» e individui «cosmico-storici», ne negò la legittimità, in quanto «distinzioni psicologiche e classificatorie», osservando che, nel vivo processo della storia, ciascuno è l’una e l’altra cosa, conservatore e, al tempo stesso, rivoluzionario.
Ma questo errore ne tirava dietro un altro, ben più grave, quello di avere considerato gli individui come strumenti inconsapevoli di una ragione superiore, spogliandoli di ogni facoltà attiva e creatrice: trasformando la ragione in una divinità trascendente, che serba «un tratto del Javeh del vecchio Testamento» (Filosofia e storiografia, cit., p. 143), Hegel aveva reintrodotto nella storia un dualismo di sapore teologico, separando la realtà superiore dell’idea da quella, resa accidentale e strumentale, dell’agire individuale. In questa ulteriore, e più radicale, critica della posizione hegeliana, l’accento batteva sulle conseguenze morali della dottrina dei grandi uomini, che apparivano al di là del bene e del male, situati oltre il giudizio sulla qualità delle loro azioni. Al contrario, scriveva Croce:
Il male che offende la coscienza morale resta male, ancorché l’abbia fatto Alessandro, Cesare o Napoleone: nessuna assoluzione essi ricevono mai su questo punto e niente cancella il male che essi fecero (p. 144).
Erano parole profondamente segnate dalla cruda esperienza della guerra, dall’irrazionalismo etico che aveva accompagnato le gesta del fascismo e del nazismo, che portava Croce a legare quella visione hegeliana degli eroi al culto del superuomo, «dall’età dello Sturm und Drang a quella del Nietzsche e dei nietzschiani», fino alla crisi presente della civiltà, che può essere fronteggiata e vinta non dagli eroi cosmico-storici, ma dai «veri “eroi”», dagli «eroi della vita morale», cioè dagli «uomini ordinari, dagli uomini umani, dai “conservatori” della tradizione civile» (p. 145).
Il confronto con Hegel, d’altronde, si intrecciava con il dialogo che, proprio sul tema dell’individuo e dell’individualità, Croce intessé con la cultura storica tedesca, con l’altra linea, per così dire, dello storicismo europeo, rispetto a quella che, con i suoi scritti, veniva via via delineando. Un dialogo, come si sa, fatto di riconoscimenti e di critiche anche aspre. Nella Filosofia della pratica aveva riconosciuto nei Monologen (1800) di Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher, nel concetto di Eigentümlichkeit, la definizione più esatta dell’individualità, pur constatandone le degenerazioni nella successiva cultura romantica (Filosofia della pratica, cit., pp. 203-04).
Se il giudizio su Leopold von Ranke era stato negativo (Teoria e storia della storiografia, cit., pp. 245 e 270-71), fino alla famosa e controversa definizione della sua opera come «storiografia senza problema storico» (La storia come pensiero e come azione, 2002, p. 81), ben più articolato si rivelò il confronto con Friedrich Meinecke, di cui dapprima elogiò il libro su Cosmopolitismo e stato nazionale (Weltbürgertum und Nationalstaat, 1908), affermando che «le sue parole mi suonano come le mie stesse» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 263), ma che poi, di fronte al successivo volume sulle Origini dello storicismo (Die Entstehung des Historismus, 1936), criticò riguardo al modo di concepire «la conoscenza dell’individuale»:
rimossa l’indebita separazione – scrisse a proposito della visione dell’individualità –, l’universale palpita nella realtà non altrimenti che col palpito dell’individuale; e quanto più si ficca l’occhio al fondo di questo, più si vede a fondo l’universale (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 61).
Ma nello stesso libro in cui si leggeva questa considerazione, parlando del rapporto tra storiografia e morale, espresse forse il concetto riassuntivo della sua posizione commentando un passo della Historik di Johann Gustav Droysen (1808-1884), là dove, dinanzi all’osservazione che la storia non può penetrare le profondità della coscienza individuale, e deve perciò rinviarle all’arte o alla religione, scrisse che questo la storia non può fare perché «non è conoscere di nessuna sorta, neppure del modo di verità che è della poesia», in quanto «la cosiddetta intimità della coscienza è nient’altro che il sentimento, poeticamente e intellettivamente muto»: la storia non può conoscere la sfera profonda dell’individuo perché, appunto, essa non esiste, e la storia dell’individuo «si risolve tutta in istoria, non avendo l’individuo realtà fuori dell’universale che in lui si attua e ch’egli attua» (pp. 206-07).
Dopo le pagine dei Paralipomeni del libro sulla “Storia” (1939-1941), dove considerò la relazione tra «forze vitali» e «forze morali», Croce elaborò la sua concezione della vitalità dapprima in una serie di scritti minori, che apparvero tra il 1943 e il 1947, poi soprattutto nelle Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952). In quella tarda dottrina, la scoperta giovanile dell’utile, come quarta forma dello spirito, veniva messa a dura prova, perché il carattere che pure, fin dall’inizio, le apparteneva, di energia primitiva, cruda e selvatica, coincidente con il sentimento e con la polarità immediata di piacere e dolore, tendeva a prevalere sull’altro volto, di calcolo razionale e utilitario, con cui era chiamata a comporsi.
Per quanto il suo pensiero sembrasse raccogliersi nella visione del conflitto tragico tra gli impulsi vitali e l’esigenza morale della civiltà, certo Croce non varcò mai tale soglia, non arrivò mai a dividere la vitalità e l’utilità, e sempre ribadì, come un postulato irrinunciabile della sua filosofia, l’indole spirituale della volizione economica. Per questo verso, non potrebbe ripetersi, come sembrò ad Antoni, che «l’individualità si sia vendicata per il suo mancato riconoscimento iniziale» e che, identificata con la vitalità, mettesse «a repentaglio la categoria» (Antoni 1955, 19642, p. 107): per quanto profonda fosse la revisione che si annunciava in quelle ultime meditazioni, Croce tenne fermo il suo concetto dell’individualità, come sintesi inscindibile di particolare e universale. Soprattutto, la vitalità non delineava alcuna riabilitazione dell’individuo in senso empirico, anzi ne ribadiva il carattere astratto, perché i poli opposti che la costituivano, il piacere e il dolore, non erano tali da «individuare», oltre l’opera, la singolarità della persona: piacere e dolore, scrisse con chiarezza, «appartengono non direttamente alla vita dell’individuo, ma solo indirettamente, componendo la vita del mondo di cui l’individuo è parte» (Terze pagine sparse, cit., p. 150).
Per questo, gli ultimi scritti dedicati al problema dell’individuo ripropongono per lo più concetti già acquisiti, aggiungendovi tuttavia precisazioni di rilievo, specie sul tema della «personalità morale». In una conferenza napoletana su Universalità e individualità nella storia (1949), metteva a fuoco, per es., la sua critica a Vico e Hegel, riportandola allo scambio abusivo tra forme logiche e rappresentazioni fenomenologiche; e sottolineava che soggetto della storia è solo la «relazione dell’universale con l’individuale», mentre gli individui che si dicono «fisici» hanno genesi logica «nei procedimenti delle scienze naturali», che «spezzano, frantumano, dividono, aggruppano e riaggruppano», così generando quelle finzioni empiriche, o pseudoconcetti, che poi assumono nome di individuo. Ma vi aggiungeva una notazione sul concetto di «personalità», specificando che, «al pari della individualità in generale, nella storia vale soltanto per l’opera a cui partecipa e in cui si risolve» (Terze pagine sparse, cit., p. 54).
In un precedente articolo del 1947, il problema era stato trattato in modo più diretto, in polemica con «gli spasimanti personalisti, o esistenzialisti che siano», che confondevano la personalità morale con la «persona meramente vitale» (Filosofia e storiografia, cit., p. 239): e contro queste nuove tendenze, che gli sembravano torbide ed errate, faceva valere il principio dell’universale concreto, reale solo «nella relazione di unità» (p. 241), e «vuoto» invece, e «astratto», ogni volta che lo si frammenti nei singoli termini, immaginando una pura vita individuale o un’idea trascendente.
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