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Nel 16° secolo gli europei cominciarono a giungere in Indonesia, cercando di monopolizzare le risorse naturali dell’isola; a partire dal 1602 gli olandesi imposero la propria supremazia sull’arcipelago tramite la Compagnia olandese delle Indie Orientali. Allo scioglimento della Compagnia, nel 1789, l’Indonesia divenne una colonia dello stato olandese; al principio del 20° secolo la dominazione olandese si era oramai estesa ai confini dell’odierna Indonesia. L’occupazione nipponica durante la Seconda guerra mondiale mise fine al dominio olandese, ridestando gran parte dei movimenti per l’indipendenza del paese. Immediatamente dopo la sconfitta dei giapponesi nel 1945 il leader nazionalista Achmed Sukarno proclamò l’indipendenza dell’Indonesia, diventandone il primo presidente. Gli olandesi, tuttavia, cercarono di ristabilire il loro controllo sul paese, non riconoscendo l’indipendenza della colonia prima di altri quattro anni di trattative e conflitti, conclusisi, sotto le pressioni internazionali, con la ratifica di un trattato con cui gli olandesi riconoscevano la formale indipendenza dell’Indonesia. Nel 1965 Sukarno venne estromesso da un colpo di stato guidato dal generale Haji Mohammad Suharto. Quest’ultimo, fattosi formalmente eleggere presidente nel 1968, mantenne il potere in maniera autoritaria per i successivi tre decenni, mettendosi a capo di un regime caratterizzato dall’uso della forza e dal ricorso frequente alla corruzione. Solo nel 1998, sulla scia del malcontento e delle proteste scatenate dalla popolazione a seguito dell’inasprirsi delle condizioni sociali create dalla crisi economica dell’anno prima, Suharto si dimise, pur essendo stato rieletto presidente. Da quel momento l’Indonesia ha gradualmente recuperato un assetto democratico. Nel 2004 l’ex generale Susilo Bambang Yudhoyono è uscito vincitore dalle prime elezioni presidenziali dirette del paese, succedendo in carica a Megawati Sukarnoputri, figlia di Sukarno: questo evento ha segnato il primo trasferimento pacifico di potere all’interno del paese. Nonostante le relazioni tra gruppi religiosi diversi e tra etnie differenti siano normalmente armoniose, in alcune zone del paese permangono alcuni problemi radicati che danno origine a scontri violenti.
Il primo caso di Hiv in Indonesia venne reso noto nel 1987. Da quel momento la situazione si è notevolmente e inarrestabilmente aggravata, facendo dell’Indonesia uno dei paesi asiatici in cui tale epidemia si diffonde con maggiore velocità. Nonostante la stima degli adulti che hanno contratto l’Hiv si attesti intorno allo 0,2%, dipingendo un paese a bassa propagazione del virus, allarma la forte incidenza dell’epidemia tra i consumatori di droghe pesanti e tra i cosiddetti ‘lavoratori del sesso’, senza parlare dei loro partner o clienti. Malgrado il conservatorismo religioso di questa nazione, a prevalenza musulmana, l’abuso di droghe pesanti è in costante aumento e il commercio del sesso è estremamente diffuso, considerato che dalle stime sembra che almeno dieci milioni di uomini facciano ricorso ai lavoratori del sesso ogni anno. Moltissimi sembrano essere i tossicodipendenti che sfruttano il proprio corpo per soddisfare il bisogno di sostanze stupefacenti: tale mescolanza di abitudini ad altissimo rischio intensifica la minaccia di una costante epidemia. Numerosi sono peraltro i fattori che espongono l’Indonesia a tale minaccia: come già ricordato i comportamenti sessuali a rischio sono comuni, mentre è estremamente limitata la conoscenza dell’Hiv nella popolazione. D’altro canto, se il rigido codice di moralità non impedisce alle persone di indulgere in certi comportamenti, certamente gioca un certo ruolo nell’ostacolare l’adozione di pratiche più sicure, che potrebbero bloccare o limitare fortemente la diffusione dell’Hiv. La polizia sanziona molto pesantemente, per esempio, sia i tossicodipendenti trovati in possesso di aghi sterili, sia le donne in possesso di preservativi.
Un cambiamento positivo di estremo rilievo per l’Indonesia è stato l’aumento sensibile nella percentuale di persone facenti parte dei gruppi maggiormente a rischio di infezione - come i camionisti o i tassisti - che decidono di sottoporsi al test dell’Hiv. Nonostante ciò lo stigma sociale e la discriminazione nei confronti di coloro che contraggono la malattia persistono e molti sono quelli che convivono con l’Hiv nascondendo le loro condizioni per timore che ciò possa ripercuotersi pesantemente sulla loro occupazione, status, integrazione sociale: in questo modo, però, le possibilità che questi soggetti ricevano un trattamento medico adeguato diminuiscono, mentre aumentano sensibilmente quelle di lasciare che l’epidemia possa propagarsi prepotentemente. In alcuni casi, però, qualche cambiamento ha cominciato a farsi largo: nel 2005, la remota provincia di Papua, dove più dell’1% della popolazione è affetto dall’Hiv, ha implementato una legge in cui si stabilisce la comminazione di una multa sostanziosa per i ‘clienti’ dei lavoratori del sesso allorché si rifiutino di usare il preservativo. Il locale dipartimento della salute, inoltre, ha dato inizio a un programma attraverso cui i lavoratori del sesso vengono sottoposti a check-up mensili e, nel caso vengano trovati positivi a una malattia sessualmente trasmissibile, smettano di lavorare finché la loro situazione fisica non lo permetta nuovamente.
L’Indonesia ha dato vita alla Commissione nazionale sull’Aids (Nac) nel 1994, con l’obiettivo di prevenire la diffusione dell’epidemia, fornire supporto alle persone colpite dall’Hiv/Aids, e coordinare il lavoro delle organizzazioni governative, non governative, del settore privato e della comunità. A questo riguardo, il budget destinato dal governo indonesiano al Nac è andato aumentando sensibilmente negli ultimi anni. Questo ha consentito l’ampliamento dei programmi di prevenzione e supporto, con particolare attenzione alla prevenzione della trasmissione dell’Hiv da madre a figlio. Il supporto finanziario alle attività di prevenzione e trattamento dell’Hiv arriva primariamente da organizzazioni internazionali, mentre la quota annuale stanziata dal governo indonesiano si attesta all’incirca sul 30%.
L’Indonesia è una repubblica presidenziale in cui il presidente assume le vesti sia di capo di governo che di capo di stato. La Costituzione di cui l’Indonesia si era dotata nel 1945 prevedeva una limitata separazione dei tre poteri – esecutivo, legislativo e giudiziario – ma la carta ha subito delle modifiche sostanziali a seguito delle rivolte del maggio 1998 e alle successive dimissioni del presidente Suharto. Il processo di riforma della Costituzione è durato fino al 2002, producendo importanti cambiamenti: tra questi l’imposizione del limite di due mandati presidenziali quinquennali e una serie di pesi e contrappesi atti ad impedire la riproposizione di un regime autoritario.
Il potere legislativo è esercitato dal Majelis Permusyawaratan Rakyat (Mpr) o ‘Assemblea consultiva del popolo’, tra le cui funzioni principali erano originariamente incluse la nomina del presidente e del suo vice, la definizione delle linee guida della politica statale, la revisione costituzionale. A seguito delle elezioni del 2004 l’Mpr si articola nel Dewan Perwakilan Rakyat (Dpr) o ‘Consiglio rappresentativo del popolo’, eletto con un mandato di cinque anni, e nel Dewan Perwakilan Daerah (Dpd) o ‘Consiglio rappresentativo regionale’, composto da quattro rappresentanti per ciascuna delle 33 province dell’Indonesia. Nello sforzo di aumentare la rappresentanza regionale il Dpd ha quindi assunto le funzioni di seconda camera in un sistema pienamente bicamerale.
Il presidente rappresenta la principale figura politica del paese; per la prima volta nella storia dell’Indonesia, il 20 settembre 2004 la figura presidenziale è stata eletta direttamente dai cittadini. Nel 2004 è stato eletto Susilo Bambang Yudhoyono, rieletto nel 2009.
Con quasi 240 milioni di abitanti l’Indonesia è il quarto paese più popoloso al mondo nonché il più grande paese islamico in assoluto. L’Indonesia odierna è composta da 17.508 isole – uno degli arcipelaghi maggiormente variegati al mondo – in cui si parlano più di 300 lingue e dialetti: il Bahasa Indonesia – la lingua ufficiale – funge da collante nazionale, nonostante il paese continui a dover fronteggiare le serie spinte indipendentiste di alcune delle province più piccole, incoraggiate dal precedente dell’assunzione dello status di stato indipendente da parte di Timor Est. Del resto, i gruppi etnici presenti in Indonesia sono diverse centinaia: ciò fa ben comprendere come in questo paese convivano – a volte con difficoltà – gruppi con caratteristiche molto differenti tra loro. A conferma della sua diseguaglianza nella distribuzione, la popolazione indonesiana si concentra in particolare nelle grandi città dell’Isola di Giava, tra i territori maggiormente popolosi nel mondo. Tali grandi centri urbani stanno continuando a subire un forte processo di urbanizzazione, cominciato alcuni anni fa: questo fenomeno contribuisce a far sorgere nelle periferie di queste città dei grandi e miseri agglomerati. L’Indonesia è riuscita a far calare fortemente il fenomeno della mortalità infantile e ad aumentare la durata media della vita. Ciò rappresenta il risultato delle migliorate condizioni sanitarie del paese, in cui si è andato sviluppando un soddisfacente sistema di ospedali e consultori; nonostante ciò, però, alcune malattie, come la tubercolosi o la malaria, rimangono abbastanza diffuse, senza parlare del crescente fenomeno dell’Aids.
Il primo caso di Hiv in Indonesia venne reso noto nel 1987. Da quel momento la situazione si è notevolmente e inarrestabilmente aggravata, facendo dell’Indonesia uno dei paesi asiatici in cui tale epidemia si diffonde con maggiore velocità. Nonostante la stima degli adulti che hanno contratto l’Hiv si attesti intorno allo 0,2%, dipingendo un paese a bassa propagazione del virus, allarma la forte incidenza dell’epidemia tra i consumatori di droghe pesanti e tra i cosiddetti ‘lavoratori del sesso’, senza parlare dei loro partner o clienti. Malgrado il conservatorismo religioso di questa nazione, a prevalenza musulmana, l’abuso di droghe pesanti è in costante aumento e il commercio del sesso è estremamente diffuso, considerato che dalle stime sembra che almeno dieci milioni di uomini facciano ricorso ai lavoratori del sesso ogni anno. Moltissimi sembrano essere i tossicodipendenti che sfruttano il proprio corpo per soddisfare il bisogno di sostanze stupefacenti: tale mescolanza di abitudini ad altissimo rischio intensifica la minaccia di una costante epidemia. Numerosi sono peraltro i fattori che espongono l’Indonesia a tale minaccia: come già ricordato i comportamenti sessuali a rischio sono comuni, mentre è estremamente limitata la conoscenza dell’Hiv nella popolazione. D’altro canto, se il rigido codice di moralità non impedisce alle persone di indulgere in certi comportamenti, certamente gioca un certo ruolo nell’ostacolare l’adozione di pratiche più sicure, che potrebbero bloccare o limitare fortemente la diffusione dell’Hiv. La polizia sanziona molto pesantemente, per esempio, sia i tossicodipendenti trovati in possesso di aghi sterili, sia le donne in possesso di preservativi.
Un cambiamento positivo di estremo rilievo per l’Indonesia è stato l’aumento sensibile nella percentuale di persone facenti parte dei gruppi maggiormente a rischio di infezione - come i camionisti o i tassisti - che decidono di sottoporsi al test dell’Hiv. Nonostante ciò lo stigma sociale e la discriminazione nei confronti di coloro che contraggono la malattia persistono e molti sono quelli che convivono con l’Hiv nascondendo le loro condizioni per timore che ciò possa ripercuotersi pesantemente sulla loro occupazione, status, integrazione sociale: in questo modo, però, le possibilità che questi soggetti ricevano un trattamento medico adeguato diminuiscono, mentre aumentano sensibilmente quelle di lasciare che l’epidemia possa propagarsi prepotentemente. In alcuni casi, però, qualche cambiamento ha cominciato a farsi largo: nel 2005, la remota provincia di Papua, dove più dell’1% della popolazione è affetto dall’Hiv, ha implementato una legge in cui si stabilisce la comminazione di una multa sostanziosa per i ‘clienti’ dei lavoratori del sesso allorché si rifiutino di usare il preservativo. Il locale dipartimento della salute, inoltre, ha dato inizio a un programma attraverso cui i lavoratori del sesso vengono sottoposti a check-up mensili e, nel caso vengano trovati positivi a una malattia sessualmente trasmissibile, smettano di lavorare finché la loro situazione fisica non lo permetta nuovamente.
L’Indonesia ha dato vita alla Commissione nazionale sull’Aids (Nac) nel 1994, con l’obiettivo di prevenire la diffusione dell’epidemia, fornire supporto alle persone colpite dall’Hiv/Aids, e coordinare il lavoro delle organizzazioni governative, non governative, del settore privato e della comunità. A questo riguardo, il budget destinato dal governo indonesiano al Nac è andato aumentando sensibilmente negli ultimi anni. Questo ha consentito l’ampliamento dei programmi di prevenzione e supporto, con particolare attenzione alla prevenzione della trasmissione dell’Hiv da madre a figlio. Il supporto finanziario alle attività di prevenzione e trattamento dell’Hiv arriva primariamente da organizzazioni internazionali, mentre la quota annuale stanziata dal governo indonesiano si attesta all’incirca sul 30%.
Negli anni passati il governo ha cercato di incidere fortemente sulla crescita demografica del paese, introducendo un programma di controllo delle nascite che limitava a due i figli che ogni famiglia avrebbe potuto avere. Questa misura ha in qualche modo fatto scendere il tasso d’incremento annuo, ma per la gran parte della popolazione musulmana accettare tali imposizioni si è rivelato piuttosto difficile. Tale situazione porta ovviamente con sé una serie di problemi, tra i quali i principali sono l’aumento di una povertà estrema e la crescita della disoccupazione. Tra gli stranieri maggiormente presenti in Indonesia ci sono i cinesi, che in alcune zone del paese hanno addirittura conquistato il monopolio delle attività mercantili: ciò ha contribuito a innescare un forte sentimento anti-cinese nella popolazione.
L’Indonesia ha dovuto affrontare in passato l’inasprimento dei conflitti regionali – Papua, Ambon e Molucche – e fare i conti con gruppi islamici radicali, come Darul Islam, e terroristici, come Jemaah Islamiah. Una forte scossa sismica in mare, nel dicembre 2004, provocò un maremoto di considerevoli dimensioni, che uccise più di 220.000 indonesiani. Nel territorio di Aceh la tragedia dette la possibilità di avviare una serie di negoziati attraverso cui si giunse a un accordo di pace tra i ribelli separatisti e il governo.
L’Indonesia ha la più vasta popolazione islamica del mondo. Negli anni più recenti il paese ha visto l’ascesa del fondamentalismo islamico, coll’inclusione di al-Qaida, che presumibilmente è stata all’origine della devastante esplosione di un night club a Bali nel 2002; nel 2009 altre deflagrazioni di origine terroristica hanno mietuto numerose vittime a Giacarta.
Se la grande maggioranza degli indonesiani pratica una forma moderata di islam, una minoranza di radicali hanno cercato di costruire uno stato islamico. Alcuni estremisti si sono sempre dichiarati ostili alla minoranza cristiana, mentre altri non hanno disdegnato il ricorso a metodi violenti al fine di trasformare l’intera area a maggioranza musulmana del sud-est dell’Asia in un califfato islamico. Nonostante gruppi di questo tipo siano molto piccoli, le pressioni interne che essi contribuiscono a creare sono rilevanti. Una prima distinzione tra questi gruppi può essere fatta tra quelli ormai sciolti, come il Laskar Jihad, che focalizzava la sua attenzione sul conflitto tra musulmani e cristiani nella provincia di Maluku, e fazioni come il Jemaah Islamiah, che hanno fatto ricorso ad atti di terrorismo al fine di promuovere un sentimento musulmano radicale e hanno stabilito legami con al-Qaida. Alcuni hanno persino avanzato la possibilità che il Laskar Jihad sia stato uno strumento nelle mani della fazione più integralista dell’esercito che si opponeva al movimento di riforma e che avrebbe consentito, o addirittura sarebbe stato complice delle attività di destabilizzazione del Laskar Jihad, mettendo così in luce la necessità di avere un esercito fiscale che potesse ristabilire l’ordine nel paese.
Una notevole attenzione è stata riservata alla potenziale ascesa di un sempre più forte sentimento islamico in Indonesia negli ultimi anni. Ciò è stato ancor più visibile in un contesto politico in cui si è verificata l’ascesa del Partito della giustizia e della prosperità (Pks) in occasione delle elezioni del 2004. In quel frangente, il Pks ha ottenuto un significativo incremento dei seggi a sua disposizione in parlamento: sebbene molti abbiano considerato questo successo elettorale come una conseguenza della campagna incentrata sulla good governance e sull’organizzazione del partito piuttosto che sul suo carattere di organizzazione islamica, rimane la preoccupazione di una radicalizzazione del sistema politico indonesiano attraverso la partecipazione di alcuni gruppi islamici. Questo timore è confermato dal fatto che, per esempio, non solo i fondamentalisti musulmani, ma anche i musulmani più tradizionalisti hanno cominciato a protestare contro l’influenza dei valori morali e culturali dell’Occidente. Queste proteste ruotano attorno ad alcune componenti.
La prima componente è costituita dall’azione diretta esercitata dai gruppi radicali musulmani contro le istituzioni e le aziende accusate di rappresentare valori culturali e morali occidentali. Il gruppo più conosciuto in questo senso è il Fronte di difesa islamica (Front Pembela Islam, Fpi), che fa della violenza il mezzo attraverso cui estirpare dall’Indonesia la minaccia occidentale – rappresentata nel loro immaginario dai casinò, dalle discoteche, dai night club, dai bordelli. L’Fpi ha spesso attaccato anche i luoghi di culto cristiani. Tali attacchi perpetrati dall’Fpi e gruppi di quel tenore, che si suppone ricevano aiuti finanziari dall’Arabia Saudita, hanno causato la chiusura di più di 100 chiese cristiane a partire dalla metà del 2004, 30 delle quali nella sola Giava occidentale. L’influenza di tali gruppi rimane possibile in virtù dell’attitudine permissiva nei riguardi delle loro attività da parte della polizia e delle autorità. Gli arresti dei membri dell’Fpi sono infrequenti, nonostante la revisione governativa delle leggi sulle assemblee pubbliche, che favorirebbe lo scioglimento dei gruppi maggiormente inclini all’uso della violenza. Ad ogni modo, sembra che negli anni questo tipo di attivismo militante abbia perso di intensità.
La seconda componente riguarda la pressione esercitata dai gruppi islamici sulle autorità al fine di instaurare la legge islamica, la Sharia. Ciò è visibile in particolar modo a livello provinciale e locale, dato che a questi livelli la Sharia è già entrata in varie forme dentro gli ordinamenti. Queste leggi spesso impongono che le donne indossino il velo, che si legga il Corano in arabo, che vengano assolutamente proibiti il consumo di alcool e il gioco d’azzardo. Fino ad oggi il governo centrale non ha avuto niente da eccepire riguardo alla costituzionalità di tali provvedimenti a livello locale.
La terza componente riguarda l’azione giudiziaria a carico di non-islamici o indonesiani che vengano accusati di aver insultato, in qualche forma, la religione islamica. Si consideri, per esempio, il fatto che il governo indonesiano abbia deciso di perseguire l’editore indonesiano della rivista «Playboy», dopo l’insorgere di numerose proteste da parte di gruppi islamici fondamentalisti contro la rivista per aver contravvenuto alle leggi sulla decenza.
Infine, l’ultima componente è quella riguardante l’istruzione, con particolare riferimento alle migliaia di scuole islamiche presenti sul territorio. Molti osservatori sostengono che all’interno di questi istituti essa stia assumendo un carattere sempre più fondamentalista e intollerante nei confronti di altre professioni religiose.
Negli ultimi anni molta attenzione è stata posta sulla questione dei diritti umani in Indonesia. Come testimoniato da più fonti, i diritti umani nel paese sono generalmente rispettati, e la libertà individuale è aumentata notevolmente dal 1999. Nonostante ciò alcuni problemi rimangono endemici, dando luogo a un vero e proprio gap tra l’impegno pubblico per i diritti umani e la scarsa implementazione delle misure. I problemi di maggior rilevanza sono quelli relativi alle uccisioni ingiustificate da parte delle forze paramilitari, le condizioni estremamente critiche in cui versa il sistema carcerario, la corruzione nel sistema giudiziario, le limitazioni nella libertà di espressione, la discriminazione e l’abuso ai danni di alcuni gruppi religiosi.
Una grandissima parte dei casi sotto esame, da parte degli organismi internazionali, per ciò che attiene agli abusi dei diritti umani in Indonesia fa riferimento all’uso della violenza e della tortura ad opera delle forze di polizia. Le province di Papua e Papua Occidentale, infine, rimangono preda di un altissimo livello di militarizzazione imposto dalle autorità indonesiane, e tale situazione continua ad essere all’origine di una vasta serie di violazioni dei diritti umani. Nel 2010 le operazioni nelle zone montagnose di queste regioni si sono intensificate, attraverso ripetute ‘operazioni di pulizia’ nell’area intorno a Puncak Jaya: queste operazioni hanno causato l’incendio di numerose abitazioni, l’uccisione di numerosi capi di bestiame, rapimenti, torture generalizzate. Questo spiegamento di forze militari è teso a intimidire i movimenti separatisti papuani.
Quando, agli inizi degli anni Cinquanta, la regina Giuliana dei Paesi Bassi riconobbe l’indipendenza dell’ex colonia, l’Indonesia poté finalmente tornare a preoccuparsi dello sviluppo economico interno, indebolito notevolmente a causa della depressione degli anni Trenta e dell’occupazione nipponica. Durante il quindicennio successivo al conseguimento dell’indipendenza l’Indonesia non riuscì ad avere delle performances economiche degne di nota, a causa dell’instabilità politica e di scelte economiche inappropriate. I problemi relativi al tasso di cambio e la mancanza di capitali stranieri compromisero lo sviluppo economico, dopo che nel 1957-58 il governo ebbe proibito qualunque forma di ingerenza straniera nel settore privato: Sukarno ambiva all’auto-sufficienza e, ancor più quando sviluppò simpatie comuniste, allontanò dal paese l’afflusso di capitale estero. Il successivo presidente, il generale Suharto, riaprì il paese agli investimenti stranieri, riportò la stabilità politica affidando un ruolo dirimente alle forze armate, e guidò l’Indonesia verso un periodo di espansione economica sotto il suo regime autoritario, l’Orde Baru (‘Ordine nuovo’), che si protrasse fino al 1997. In questo periodo la produzione industriale aumentò sensibilmente e il paese beneficiò moltissimo dall’esportazione di petrolio, gas e legname. Suharto scelse di investire una quota ingente dei profitti delle esportazioni per lo sviluppo di un settore manifatturiero tecnologicamente avanzato, spingendo il paese verso una crescita economica stabile, mai sperimentata in precedenza.
La crisi finanziaria del 1997, però, rivelò una serie di debolezze intrinseche all’economia indonesiana, come il sistema finanziario debole e non pienamente trasparente, gli investimenti sbagliati nel mercato immobiliare, enormi falle nel sistema legale e giudiziario. I numerosi episodi di corruzione a tutti i livelli della burocrazia di governo ebbero un enorme risalto in tutto il paese, palesando il crepuscolo del regime autocratico di Suharto. Ancora oggi l’economia indonesiana soffre dei problemi legati al processo di sviluppo economico seguiti alla crisi del 1997 e delle riforme politiche successive alla caduta di Suharto nel 1998. Agli inizi del nuovo secolo l’economia ha cominciato a dare dei segnali nettamente positivi, anche grazie all’elezione del presidente Yudhoyono nel 2004: la nuova amministrazione ha introdotto delle riforme significative nel settore finanziario, incluso una riforma del sistema fiscale. L’indebitamento del paese negli ultimi anni si è ridimensionato in virtù della sostenuta crescita del pil e di una buona amministrazione fiscale. L’altra faccia della medaglia però è rappresentata dai considerevoli tassi di disoccupazione, dalla mancata crescita dei salari e dai rincari nei prezzi del carburante e del riso, che hanno nettamente peggiorato il livello di povertà del paese: fino al 2006 circa la metà della popolazione indonesiana viveva con meno di due dollari al giorno. Il paese ha dovuto quindi lottare a lungo contro le ampie sacche di povertà e disoccupazione, l’inadeguatezza di gran parte delle sue infrastrutture, l’annosa corruzione, nonché contro un’iniqua distribuzione delle risorse tra le regioni, che ne rende alcune particolarmente sottosviluppate.
L’economia interna, tuttavia, ha avuto una fortissima ripresa nel 2007 e nel 2008, con una crescita media del 6%, riuscendo a riportare la disoccupazione ampiamente al di sotto del 10%. Nonostante l’economia abbia avuto una flessione nel 2009, l’anno successivo è tornata su valori estremamente positivi. La rielezione di Yudhoyono, nel 2009, e la vicepresidenza affidata al rispettato economista Boediono, ha mostrato l’avvio di una linea di continuità in politica economica, nonostante l’inizio del secondo mandato presidenziale sia stato attraversato da scandali legati alla corruzione. La sfida centrale è quella di dotare il paese di infrastrutture, al fine di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo economico.
Il fenomeno del land-grabbing è salito agli onori delle cronache nel 2009, quando il Madagascar cedette metà del suo territorio agricolo a una multinazionale coreana per la coltivazione di cibo destinato all’esportazione verso Seoul. Tale decisione ebbe però delle ricadute pesantissime sull’establishment politico del paese africano, tanto che il progetto dovette essere ritirato. Il land-grabbing, comunque, è nient’altro se non l’espropriazione di vasti appezzamenti di terreni agricoli da parte di multinazionali o paesi stranieri. In Indonesia il fenomeno è andato sempre più diffondendosi, in relazione al fatto che il paese è il principale produttore mondiale di olio di palma (più di 20 milioni di tonnellate all’anno), un componente largamente utilizzato nella realizzazione di biocombustibili e cosmetici. La richiesta industriale di olio di palma continua a significare la distruzione di vasti tratti di foresta tropicale indonesiana da parte di alcune grandi corporations. Alcune comunità locali, residenti da decenni su alcuni siti, sono state costrette a spostarsi, o sono diventate utile forza lavoro sfruttata e sottopagata per gli stessi produttori di olio di palma. Spesso, oltre a vedersi portata via la terra, i lavoratori sono costretti a riconvertire i loro terreni per passare alla produzione di olio di palma. Moltissimi sono gli esempi di espropriazione forzata delle terre, e in gran parte di questi episodi sono coinvolte le forze di polizia o i militari. Negli ultimi anni almeno 15 contadini sono rimasti uccisi durante le proteste, e le violazioni dei diritti umani ¬ intimidazioni e imprigionamento illecito ¬ sono all’ordine del giorno. Circa il 67% della terra deputata alla produzione di olio di palma è controllata da cinque grandi compagnie: tre straniere e due indonesiane. L’80% dell’olio di palma prodotto in Indonesia viene esportato in Europa.
Nel 2008 la produzione di petrolio indonesiano si attestava su poco più di 1 milioni di barili al giorno: questo dato certificava una diminuzione di circa il 35% nella produzione a partire dal 1998, a causa del progressivo esaurimento di alcuni giacimenti petroliferi del paese. In considerazione del fatto che la produzione indonesiana non soddisfaceva più le quote imposte dall’Opec, il paese ha dovuto ritirarsi dall’Organizzazione nel 2008. Nello stesso anno il consumo indonesiano di petrolio ha raggiunto quota 1,2 milioni di barili al giorno, rendendo il paese un importatore netto.
Secondo alcune stime l’Indonesia è l’undicesima nazione al mondo – e la maggiore in Asia – per riserve di gas naturali. Gran parte di queste riserve sono dislocate off-shore, specialmente al largo delle Isole Natuna, a Sumatra Meridionale, e in Papua Occidentale. L’Indonesia esporta gas naturale, in particolare verso Singapore, servendosi di una serie di gasdotti. Il paese è anche uno dei principali esportatori mondiali di gas naturale liquefatto.
L’Indonesia ha varato un piano molto ambizioso per attingere all’energia geotermica dei vulcani della zona: in questa maniera riuscirebbe a tagliare le emissioni di gas ad effetto serra, diventando il leader mondiale nel settore di questa energia pulita. Il problema più grande in questo ambito è il costo, visto che allestire un impianto geotermico costa circa il doppio della costruzione di una centrale energetica tradizionale.
La difficoltà maggiore con cui il paese deve confrontarsi dal punto di vista ambientale è senza dubbio l’immensa popolazione. L’inquinamento dell’aria e dell’acqua ha raggiunto livelli estremamente critici, specialmente nell’Isola di Giava, densamente popolata. Le emissioni di ossido di carbonio rimangono relativamente basse, ma il peso demografico del paese rende questo problema estremamente rilevante.
Le forze armate indonesiane si compongono nel loro complesso di più di 300.000 unità: l’esercito è il ramo più cospicuo, con circa 230.000 soldati in servizio attivo. Le spese per la difesa ammontano a circa l’1,8% del pil, ma sono integrate dalla partecipazione finanziaria di imprese militari e fondazioni. Le forze di polizia indonesiane hanno rappresentato a lungo un settore importante delle forze armate: la loro separazione da quest’ultime è avvenuta tra il 1999 e il 2000. Nonostante la polizia conti su un personale di soltanto 250.000 unità circa, essa ricopre un ruolo centrale nella lotta alla minaccia interna rappresentata dagli estremisti militanti.
L’Indonesia intrattiene delle relazioni pacifiche con i suoi vicini. Senza una credibile minaccia esterna nella regione, dal punto di vista militare la missione più importante per il paese è divenuta quella di garantire la sicurezza interna.
Nel corso della storia indonesiana le forze armate hanno avuto un ruolo di primo piano negli affari politici e sociali della nazione. Un numero significativo di membri del governo ha avuto un background militare, e alcuni rappresentanti delle forze armate hanno occupato un ampio numero di seggi in parlamento. I comandanti dei vari comandi territoriali hanno anche giocato un ruolo influente negli affari delle rispettive regioni. Tuttavia, con l’inaugurazione del parlamento nazionale nel mese di ottobre 2004 l’esercito ha perso gran parte delle sue prerogative, anche se conserva un’importante influenza politica.
Dal punto di vista della politica internazionale l’Indonesia ha sposato, dopo l’indipendenza del 1945, una posizione che la vede libera da vincoli ma attiva in ambito internazionale, cercando quindi di svolgere a livello regionale un ruolo commisurato alle sue dimensioni e alla sua posizione, ma evitando il coinvolgimento in conflitti tra le grandi potenze. La politica estera nell’ambito dell’‘Ordine nuovo’ del presidente Suharto prese le distanze dagli atteggiamenti sfacciatamente anti-occidentali, e in particolare anti-americani, che avevano caratterizzato l’ultima parte del governo di Sukarno (1945-1967). Anche dopo l’allontanamento di Suharto nel 1998 i successivi presidenti indonesiani hanno conservato a grandi linee un atteggiamento di forte moderazione in politica estera. D’altra parte, la separazione traumatica di Timor Est dall’Indonesia a seguito di un referendum nell’agosto del 1999, e i successivi eventi a Timor Est e Ovest, hanno contribuito a inasprire le relazioni tra l’Indonesia e la comunità internazionale.
Una pietra miliare della politica estera contemporanea dell’Indonesia è la sua partecipazione all’Associazione delle nazioni dell’Asia sud-orientale (Asean), di cui è stata membro fondatore nel 1967 con Thailandia, Malaysia, Singapore e Filippine. L’Indonesia è stata anche uno dei fondatori, e continua ad essere un importante leader, del Movimento dei non-allineati, assumendo posizioni moderate nei consigli di questa struttura.
Essendo il principale paese islamico del mondo, l’Indonesia non poteva non essere un membro della Organizzazione della conferenza islamica (Oic). L’Indonesia considera con attenzione gli interessi della solidarietà islamica nelle sue decisioni di politica estera, esprimendo al contempo una posizione moderata all’interno dell’Oic.
Il presidente Yudhoyono ha reclamato una maggiore visibilità internazionale per l’Indonesia: nel marzo 2006, egli si è recato in Birmania per discutere di riforma democratica e in seguito ha visitato diversi paesi del Medio Oriente. In particolare, Yudhoyono ha pronunciato un importante discorso in Arabia Saudita, incoraggiando il mondo musulmano ad abbracciare la globalizzazione e la tecnologia per un maggiore progresso sociale ed economico. Nel 2007 e 2008, l’Indonesia ha ottenuto un seggio non permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il presidente Yudhoyono ha inoltre sviluppato partnership strategiche con numerosi paesi occidentali. Gli Stati Uniti mantengono importanti interessi economici, commerciali e di sicurezza in Indonesia, che rimane uno dei pilastri della sicurezza regionale in Asia, in considerazione della posizione strategica del paese, a cavallo di una serie di stretti marittimi internazionali, in particolare lo Stretto di Malacca. Le relazioni tra l’Indonesia e gli Usa sono positive e sono ulteriormente migliorate dopo l’elezione del presidente Yudhoyono nel 2004. Oltre a giocare un ruolo nel processo di indipendenza indonesiano negli anni Quaranta, gli Stati Uniti hanno storicamente apprezzato il ruolo dell’Indonesia come baluardo anti-comunista durante la Guerra fredda. I due paesi non solo perseguono l’obiettivo comune di mantenere la pace, la sicurezza e la stabilità nella regione, ma anche di cooperare nella strenua lotta contro il terrorismo. Washington ha accolto con favore il contributo dell’Indonesia alla sicurezza regionale, in particolare il suo ruolo di primo piano nel ripristino della democrazia in Cambogia e nella mediazione delle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale. Nel novembre 2008 Yudhoyono ha suggerito agli Stati Uniti di lavorare insieme alla costruzione di un partenariato globale. La visita del Segretario di stato Hillary Clinton nel febbraio 2009 ha conferito un impulso sostanziale alla partnership tra i due paesi, che sta prendendo piede in un certo numero di settori chiave.