Vedi Indonesia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
L’Indonesia è una repubblica democratica presidenziale situata nel Sud-Est asiatico. Con le sue 17.508 isole – di cui solo 7000 abitate – è il più grande stato arcipelago al mondo. La capitale, Giacarta, sorge sull’isola di Giava. Le altre isole principali sono Sumatra, Kalimantan, Nuova Guinea e Sulawesi. Per la peculiare posizione a cavallo tra l’Asia e l’Oceania, l’Indonesia è considerata uno stato transcontinentale.
Paese tradizionalmente nell’orbita dell’Olanda, che ne mantenne il controllo seppur sotto forme amministrative diverse dal 1602 alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Indonesia è divenuta formalmente indipendente nel 1945. Protagonista della lotta è stato Kusno Sosrodihardjo, detto Sukarno, leader del Movimento indonesiano per l’indipendenza, che ricevette l’appoggio del Giappone. Sukarno ha mantenuto il ruolo di presidente dal 1945 al 1967. Il suo governo è stato incentrato su un’originale filosofia politica, un connubio di marxismo, democrazia e Islam, fondata su cinque pilastri: nazionalismo, internazionalismo, democrazia rappresentativa, giustizia sociale e islam. L’era Sukarno è stata attraversata da numerosi tentativi di destabilizzazione: per questo motivo, il leader ha fatto ricorso in misura crescente all’esercito e al Partito comunista indonesiano (Pki), approfondendo nel frattempo i legami con la Cina e con l’Unione Sovietica.
Nel 1965 Sukarno è stato rimosso con un colpo di stato militare sostenuto dagli Stati Uniti. Al suo posto, è diventato presidente il generale Haji Mohammad Suharto, che è rimasto in carica nei trent’anni successivi. L’era Suharto è stata caratterizzata da una crescente apertura agli investimenti esteri, che ha spinto la crescita economica e ha ridotto la povertà. Parallelamente, però, la presidenza Suharto è stata caratterizzata da nepotismo e clientelismo: monopoli e sussidi sono stati distribuiti a membri della famiglia del presidente o a collaboratori. In più, il regime si è caratterizzato per la dura repressione degli oppositori politici.
Le proteste popolari seguite agli effetti della crisi economica che nel 1997 ha colpito il Sud-Est asiatico hanno portato, nel 1998, alle dimissioni di Suharto. Il periodo tra il 1998 e il 2001 è stato caratterizzato da una marcata instabilità, che ha visto salire al potere tre presidenti. L’ultima, Megawati Sukarnoputri, figlia di Sukarno, ha ceduto il posto nel 2004 a Susilo Bambang Yudhoyono, presidente democraticamente eletto e riconfermato alle elezioni del 2009 e predecessore dell’attuale presidente Joko Widodo.
Dal punto di vista delle relazioni internazionali, il paese rimane in buoni rapporti sia con gli Stati Uniti che con la Cina e fa parte del più importante consesso di potenze economiche internazionali, il G20. Nella regione, ha relazioni difficili con l’Australia, accusata nel 2013 di aver spiato le conversazioni telefoniche di alti ufficiali indonesiani, mentre sono migliorate le relazioni con Singapore dopo l’accordo firmato nel settembre del 2014 sulla definizione dei confini marittimi. Rimane invece aperta la questione della Papua Occidentale, che da anni lotta per la propria indipendenza e costituisce una potenziale minaccia alla stabilità indonesiana.
Il sistema politico indonesiano ha conosciuto una fase di liberalizzazione in seguito all’uscita di scena del presidente Suharto. Nel 1999 si è aperta una stagione di riforme politiche che si è protratta fino al 2002 e che ha portato alla revisione e all’emendamento della Carta costituzionale in senso più liberale. Oggi, l’Indonesia è definita una repubblica presidenziale ‘con caratteristiche parlamentari’. Il presidente, che dal 2004 viene eletto in maniera diretta dal popolo, è sia capo di stato sia capo di governo, oltre che comandante supremo delle forze armate. Può rimanere in carica per un massimo di due mandati di cinque anni ciascuno. Il potere esecutivo è esercitato dal governo. Il potere legislativo spetta, in maniera condivisa, al governo e al Majelis Permusyawaratan Rakyat (Mpr) o Assemblea consultiva del popolo. Nel 2004 il Mpr è divenuto bicamerale: si articola nel Dewan Perwakilan Rakyat (Dpr) o Consiglio rappresentativo del popolo, eletto con un mandato di cinque anni, e nel Dewan Perwakilan Daerah (Dpd) o Consiglio rappresentativo regionale, composto da quattro rappresentanti per ciascuna delle 33 province dell’Indonesia.
Le ultime elezioni presidenziali, tenutesi nel luglio 2014, hanno visto la vittoria di Joko Widodo, leader del Partito democratico indonesiano di lotta (Pdi-P), tornato a essere il primo partito del paese per la prima volta dalle elezioni legislative del 1999. Le elezioni parlamentari dell’aprile del 2014 avevano assegnato la maggioranza dei seggi allo stesso partito, seppur con una maggioranza molto fragile che pone problemi di governabilità al nuovo presidente. Quest’ultimo è stato eletto sulla base di un programma ambizioso di riforme, basato sulla lotta contro la corruzione e sulla maggiore efficienza dell’amministrazione pubblica. Dopo un inizio di legislatura promettente, il governo di Widodo ha visto la propria posizione indebolirsi notevolmente durante il 2015. A causa della rottura con la leader del Pdi-P, Megawati Sukarnoputri, il sostegno del parlamento al presidente è diventato precario e questo ha di fatto fermato il processo di riforma. I dati economici al di sotto delle aspettative hanno poi contribuito a minare la popolarità di Widodo.
Con più di 240 milioni di abitanti l’Indonesia è il quarto paese più popoloso al mondo nonché il più grande paese islamico in assoluto. L’86% della popolazione è di religione musulmana. Nonostante la libertà di culto sia formalmente sancita dalla Costituzione, non tutti i culti ne godono: le confessioni riconosciute dal governo sono quelle islamica, protestante, cattolica, induista, buddista e confuciana.
L’Indonesia odierna è uno dei paesi linguisticamente più variegati al mondo, in cui si parlano più di 700 lingue e dialetti. La lingua ufficiale è il Bahasa Indonesia, lingua franca utilizzata nell’ambito amministrativo ed economico, oltre che dai media nazionali.
Nonostante la forte varietà interna, la popolazione indonesiana è dotata di un forte senso di appartenenza nazionale che si è radicato perlopiù negli anni della lotta per l’indipendenza. Lo slogan nazionale è ‘Unità nella diversità’. Non tutte le differenze sono però accettate: il paese si trova a dover fronteggiare le spinte indipendentiste di alcune delle province più piccole, incoraggiate dal precedente di Timor Est. Negli ultimi anni, inoltre, l’Indonesia ha dovuto fare i conti con gruppi islamici radicali come Darul Islam, e con formazioni terroristiche come Jemaah Islamiah. Nonostante gli attacchi da parte di gruppi terroristi di stampo islamico radicale siano diminuiti, si teme che la recente ascesa dello Stato Islamico rinforzi i gruppi locali. Si stima infatti che vi siano molti indonesiani tra le fila dell’Is in Siria ed Iraq.
Tra i gruppi stranieri più presenti in Indonesia ci sono i cinesi, che in alcune zone possiedono ormai il monopolio delle attività mercantili: ciò ha contribuito a innescare un forte sentimento anticinese negli autoctoni.
La popolazione si concentra in particolare nelle grandi città dell’isola di Giava, che rappresenta una delle aree più popolose al mondo. È in crescita, inoltre, il processo di urbanizzazione avviato alcuni anni fa. Il fenomeno ha alimentato la crescita di slum fatiscenti nelle periferie delle grandi città.
Il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie registratosi negli ultimi anni nel paese ha ridotto la mortalità infantile e innalzato la durata media della vita. Tuttavia, nonostante lo sviluppo di un soddisfacente sistema di ospedali e consultori, alcune malattie, come la tubercolosi, la malaria e l’hiv, rimangono diffuse. L’Indonesia è uno dei paesi asiatici in cui il virus dell’hiv si trasmette con maggiore velocità. Numerosi sono i fattori che espongono il paese a una tale minaccia. Incidono, in particolare, l’alta diffusione del commercio del sesso (si stima che almeno dieci milioni di persone facciano ricorso ai lavoratori del sesso ogni anno) e la conoscenza estremamente limitata della malattia da parte della popolazione. Lo stigma sociale e gli episodi discriminatori cui sono sottoposti coloro che contraggono il virus, spingono molti a cercare di convivere con l’hiv nascondendo le loro condizioni e rinunciando, quindi, alle dovute cure mediche. Al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia e dare un sostegno ai malati, il governo indonesiano ha dato vita alla Commissione nazionale sull’hiv, il cui budget è andato aumentando progressivamente.
Negli anni passati il governo ha anche cercato di frenare la crescita demografica del paese, introducendo un programma di controllo delle nascite. Le misure adottate hanno in qualche modo ridotto il tasso d’incremento annuo, ma per gran parte della popolazione musulmana si tratta di imposizioni inaccettabili.
Negli ultimi anni molta attenzione è stata posta sulla questione dei diritti umani in Indonesia. Organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch hanno ripetutamente denunciato le violazioni perpetrate dalla polizia con il beneplacito del governo. Tra i problemi principali vi sono la discriminazione e la violenza nei confronti delle minoranze religiose, soprattutto nei confronti di ahmadiyah, bahai, cristiani e sciiti. A ciò si aggiungono le condizioni estremamente critiche in cui versa il sistema carcerario, la corruzione nel sistema giudiziario, le limitazioni alla libertà di espressione. Una gran parte dei casi sotto esame in tema di abusi fa riferimento all’uso della violenza e della tortura a opera delle forze di polizia. Le province di Papua e Papua occidentale, inoltre, sono sottoposte a un regime di militarizzazione, che è all’origine di una vasta serie di violazioni dei diritti umani.
Dopo l’elezione del nuovo presidente Widodo, l’economia è diventata uno dei temi principali del dibattito politico indonesiano, soprattutto in merito alla questione dei sussidi statali all’energia. La progressiva riduzione dei sussidi dal 2013 in poi ha portato a un aumento dei prezzi della benzina e la proposta di tagliarli ulteriormente ha suscitato una forte opposizione. La diminuzione dei prezzi globali del gas e del petrolio tra il 2014 e il 2015 ha però giocato a favore del governo che è riuscito ad abrogare del tutto i sussidi sui carburanti a gennaio, liberando così risorse finanziarie che sono state redistribuite verso il welfare e la modernizzazione delle infrastrutture.
Nel corso dei quindici anni successivi al conseguimento dell’indipendenza l’Indonesia non riuscì a produrre performance economiche degne di nota, soprattutto per l’instabilità politica e le scelte strategiche inappropriate. Lo sviluppo economico venne reso difficile soprattutto dai problemi legati al tasso di cambio e dalla mancanza di capitali stranieri, dopo che, nel 1957-58, il governo aveva proibito qualunque forma di ingerenza straniera nel settore privato. Sukarno ambiva all’autosufficienza e, con il rafforzamento del suo orientamento comunista, allontanò dal paese i capitali esteri. Il successivo presidente, il generale Suharto, riaprì il paese agli investimenti stranieri, riportò la stabilità politica a spese del potere dell’esercito, e guidò l’Indonesia verso un periodo di espansione economica sotto il suo regime autoritario, l’Orde Baru (Ordine nuovo), che si protrasse fino al 1997. In questo periodo la produzione industriale aumentò sensibilmente e il paese beneficiò moltissimo dell’esportazione di petrolio, gas e legname. Suharto scelse di investire una quota ingente dei profitti delle esportazioni nello sviluppo di settori manifatturieri tecnologicamente avanzati, spingendo il paese verso una crescita economica stabile e senza precedenti.
La crisi finanziaria del 1997, però, mise in luce una serie di fragilità nell’economia indonesiana: il sistema finanziario debole e non pienamente trasparente, gli investimenti azzardati nel mercato immobiliare, le enormi lacune nel sistema legale e giudiziario. I numerosi episodi di corruzione, emersi a tutti i livelli della burocrazia, suscitarono grande scandalo in tutto il paese e accelerarono il crepuscolo del regime autocratico di Suharto. Ancora oggi l’economia indonesiana soffre degli effetti della crisi del 1997 e non ha tratto giovamento dalle riforme politiche successive alla caduta di Suharto nel 1998. Dagli inizi del nuovo secolo l’economia ha però lanciato segnali positivi, anche grazie all’elezione del presidente Yudhoyono nel 2004: la nuova amministrazione ha introdotto riforme significative nel settore finanziario. L’indebitamento del paese negli ultimi anni si è ridimensionato in virtù della sostenuta crescita del pil e di una buona amministrazione fiscale. L’altra faccia della medaglia è però rappresentata dagli alti tassi di disoccupazione e dalla mancata crescita dei salari che hanno innalzato i livelli di povertà: oltre il 40% della popolazione indonesiana viva ancora con meno di 2$ al giorno.
Il paese ha dovuto quindi fronteggiare l’handicap creato dalle ampie sacche di povertà e disoccupazione, dall’inadeguatezza di gran parte delle sue infrastrutture, dalla corruzione e dall’iniqua distribuzione delle risorse tra le regioni. Per questi motivi il potenziale di crescita del paese rimane ancora largamente inespresso non riuscendo ad attrarre investimenti sufficienti per dare nuovo impulso all’economia indonesiana.
Nel 2008 la produzione di petrolio indonesiana si attestava su poco più di un milione di barili al giorno: questo dato certificava una diminuzione della produzione di circa il 35% a partire dal 1998, a causa del progressivo esaurimento di alcuni giacimenti petroliferi. Poiché la produzione indonesiana non soddisfaceva più le quote imposte dall’Opec, il paese si è visto costretto ad abbandonare l’organizzazione nel 2008. Nello stesso anno il consumo indonesiano di petrolio ha raggiunto quota 1,2 milioni di barili al giorno, rendendo il paese un importatore netto. Secondo alcune stime l’Indonesia è l’undicesima nazione al mondo – e la maggiore in Asia – per riserve di gas naturale. Gran parte di queste riserve sono dislocate off-shore, specialmente al largo delle Isole Natuna, di Sumatra meridionale e di Papua occidentale. L’Indonesia esporta grandi quantità di gas naturale, in particolare verso Giappone, Singapore e Corea del Sud.
Il paese ha varato un piano molto ambizioso per attingere all’energia geotermica dei suoi vulcani. Se riuscisse in tale intento, abbattendo così le emissioni di gas a effetto serra, si affermerebbe quale leader mondiale in questo particolare settore, che già rappresenta un quarto del mix energetico nazionale. Il problema più grande restano però gli investimenti, dal momento che allestire un impianto geotermico costa circa il doppio della costruzione di una centrale energetica tradizionale. Le difficoltà maggiori con cui il paese deve confrontarsi dal punto di vista ambientale sono senza dubbio le dimensioni della propria popolazione. Le emissioni di ossido di carbonio rimangono relativamente basse, ma il peso demografico rende questo problema una fonte di pressione sempre maggiore.
Le forze armate indonesiane si compongono di quasi 400.000 unità: l’esercito è il ramo più cospicuo, con più di 300.000 soldati in servizio attivo. La spesa pubblica per la difesa è integrata dalla partecipazione finanziaria di imprese militari e fondazioni. La polizia ha rappresentato a lungo un settore importante delle forze armate: la scelta di renderla autonoma è avvenuta tra il 1999 e il 2000. Benché la polizia conti soltanto 250.000 unità circa, essa ricopre un ruolo centrale nella lotta contro gli estremisti militanti; essa viene largamente impiegata anche nel controllo dei movimenti autonomisti, come quello di Papua occidentale. Le tecniche repressive adottate sono state più volte oggetto di critica da parte delle organizzazioni per la tutela dei diritti umani.
Nel corso della storia indonesiana le forze armate hanno avuto un ruolo di primo piano negli affari politici e sociali. Un numero significativo di esponenti del governo ha un background militare e molti seggi in parlamento sono stati occupati da rappresentanti delle forze armate. I comandanti dei vari distaccamenti territoriali hanno anche giocato un ruolo influente negli affari locali. Con l’inaugurazione del parlamento nazionale nell’ottobre 2004 l’esercito ha perso gran parte delle sue prerogative, pur conservando una rilevante influenza. Poiché l’Indonesia intrattiene relazioni pacifiche con i suoi vicini, dal punto di vista militare la missione più importante per il paese è divenuta garantire la sicurezza interna.
Dal punto di vista internazionale l’Indonesia ha sposato, dopo l’indipendenza del 1945, una posizione che la vede libera da vincoli ma attiva in ambito internazionale. Ha quindi cercato di svolgere a livello regionale un ruolo commisurato alle sue dimensioni e alla sua posizione, ma ha evitato il coinvolgimento nei conflitti tra le grandi potenze. La politica estera scelta dall’Ordine nuovo del presidente Suharto prevedeva una presa di distanza dagli atteggiamenti antioccidentali, e in particolare antiamericani, che avevano caratterizzato l’ultimo periodo di Sukarno (1945-67). Anche dopo l’allontanamento di Suharto nel 1998, i presidenti indonesiani hanno conservato a grandi linee un atteggiamento moderato in politica estera. Nonostante ciò, la separazione traumatica di Timor Est dall’Indonesia a seguito di un referendum nell’agosto del 1999 (che scatenò una guerriglia filoindonesiana appoggiata da Giacarta), e i successivi eventi a Timor Est e Ovest (le violenze imposero l’intervento delle forze delle Nazioni Unite e anche a Timor Ovest ci furono cruenti attacchi contro i cooperanti), hanno contribuito a inasprire le relazioni tra l’Indonesia e la comunità internazionale.
Una pietra miliare della politica estera indonesiana è la partecipazione all’Associazione delle nazioni dell’Asia sudorientale (Asean), di cui è stata membro fondatore nel 1967 con Thailandia, Malaysia, Singapore e Filippine. L’Indonesia è stata anche uno dei fondatori del Movimento dei non allineati, di cui continua a essere un leader e presso cui si è distinta per le sue posizioni moderate.
In quanto più grande paese islamico del mondo, l’Indonesia è membro della Organizzazione della conferenza islamica (Oic). Ciò implica anche una costante attenzione agli interessi della solidarietà islamica in politica estera, sia pure mantenendo una posizione moderata all’interno dell’Oic.
Nel 2007 e 2008 l’Indonesia ha ottenuto un seggio non permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti mantengono importanti interessi economici, commerciali e strategici in Indonesia, che rimane uno dei pilastri della sicurezza regionale in Asia, soprattutto per la sua posizione che la pone a guardia di una serie di stretti marittimi internazionali, in particolare lo Stretto di Malacca. Oltre a giocare un ruolo nel processo di indipendenza negli anni Quaranta, gli Stati Uniti hanno storicamente sostenuto il ruolo dell’Indonesia come baluardo anticomunista durante la Guerra fredda. I due paesi non solo perseguono l’obiettivo comune di mantenere la stabilità nella regione, ma anche di cooperare nella lotta al terrorismo. Recentemente, l’Indonesia ha dimostrato di voler accrescere il proprio ruolo nella regione sviluppando la sua presenza nelle sedi internazionali e ribadendo la sua scelta di non allineamento. In particolare, cerca di mantenere buone relazioni tanto con gli Stati Uniti quanto con la Cina, come dimostrato dalla neutralità assunta nei confronti delle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale.
Il paese, inoltre, partecipa alle missioni militari Unifil in Libano, Monusco nella Repubblica Democratica del Congo e Minustah ad Haiti.
Quando nel 1949 l’Indonesia ottenne l’indipendenza dai Paesi Bassi, la Papua occidentale (Irian Jaya) rimase colonia olandese. Amsterdam aveva rifiutato di consegnare il territorio di Papua a Giacarta, data l’assenza di legami politico-culturali tra l’isola e il resto dell’arcipelago indonesiano. In linea teorica, i Paesi Bassi avrebbero guidato il paese fino a quando questo non fosse stato in grado di autogovernarsi e divenire indipendente con il nome di Nuova Guinea occidentale. L’Indonesia di Sukarno, alleata fondamentale degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, riuscì a ottenere l’appoggio di Washington in sede Un: nel 1962, con la firma del New York Agreement, le Nazioni Unite assunsero il controllo amministrativo transitorio della regione, in preparazione della consegna del paese all’Indonesia. Il New York Agreement prevedeva inoltre che venisse indetto un referendum, con il quale i papuani si sarebbero potuti esprimere a favore o contro l’annessione all’Indonesia. Il referendum venne però organizzato in modo poco trasparente: fu limitata la possibilità di voto di una parte ristretta della popolazione e i pochi votanti furono di fatto costretti a optare obbligatoriamente per l’annessione. Nel 1963 la Papua occidentale venne dunque formalmente annessa all’Indonesia. Nello stesso anno nacque il Movimento per la Papua libera (Opm, dall’originale Organisasi Papua Merdeka), che combatteva l’occupazione indonesiana. Si accese dunque un conflitto, che dura tutt’oggi, tra le truppe dell’esercito indonesiano e i ribelli dell’Opm. Diverse organizzazioni per la tutela dei diritti umani hanno più volte criticato il governo indonesiano per le misure repressive nei confronti della popolazione indigena. A essere particolarmente colpiti sono stati soprattutto gli indigeni Amungme e Kamoro, abitanti dell’altopiano situato nella parte centromeridionale dell’isola, una delle regioni più ricche di risorse minerarie.
Proprio la consistenza degli interessi economici in gioco contribuisce ad allontanare la risoluzione della questione. Gas, legname, olio di palma, ma anche miniere d’oro e di rame delle quali è ricco il territorio papuano, sono al centro degli interessi di grandi compagnie estrattive, che firmano contratti di joint-venture con le compagnie indonesiane. Ciò comporta significative entrate per il governo indonesiano in termini di gettito fiscale e profitto azionario. Inoltre, gli scavi divenuti necessari negli ultimi anni in seguito all’esaurimento delle prime miniere infliggono un pesante danno ambientale al territorio della regione.
Il land grabbing consiste nell’espropriazione di vasti appezzamenti di terreni agricoli da parte di multinazionali o paesi stranieri. Tale fenomeno è apparso in tutta la sua rilevanza sui media nel 2009, quando il Madagascar cedette metà del suo territorio agricolo a una multinazionale coreana per la coltivazione di cibo destinato all’esportazione verso Seul. Tale decisione ebbe però ricadute pesantissime sull’establishment politico malgascio, tanto che il progetto fu ritirato. In Indonesia il fenomeno è andato sempre più diffondendosi, in relazione al fatto che il paese è il principale produttore mondiale di olio di palma (più di 20 milioni di tonnellate all’anno), largamente utilizzato nella realizzazione di biocombustibili e cosmetici. La richiesta industriale di olio di palma è ritenuta la causa principale della distruzione di vasti tratti di foresta tropicale indonesiana. Alcune comunità locali sono state costrette a spostarsi o sono diventate forza lavoro sfruttata e sottopagata. Moltissimi sono gli esempi di espropriazione forzata delle terre; in gran parte degli episodi sono coinvolte le forze di polizia o i militari. Le violazioni dei diritti umani – intimidazioni e imprigionamenti illeciti – sono all’ordine del giorno: negli ultimi anni almeno 15 contadini sono stati uccisi durante le proteste. Circa il 67% della terra deputata alla produzione di olio di palma è controllata da cinque grandi compagnie: tre straniere e due indonesiane. L’80% dell’olio di palma prodotto in Indonesia viene esportato in Europa.
Approfondimento
Il nuovo presidente indonesiano (nato nella città giavanese di Solo nel 1961) rappresenta un fattore di discontinuità nella vita pubblica del suo paese, sia per l’assenza di legami con l’establishment politico ed economico che ha retto l’Indonesia degli ultimi decenni, sia per non aver avuto direttamente o indirettamente rapporti con le forze armate, il potente gruppo di pressione che ha dominato per quarant’anni il più grande stato musulmano del mondo e il quarto per popolazione. Figlio di un modesto imprenditore di provincia, Joko Widodo ha lavorato per anni nell’impresa di famiglia prima di fare il suo ingresso in politica. Eletto per due volte sindaco della sua città d’origine, diventa nel 2012 governatore della regione di Giacarta in virtù di un programma innovativo, imponendosi in breve tempo come leader dai tratti carismatici e divenendo anche un vero fenomeno mediatico. Si è trattato di un’affermazione per molti aspetti sorprendente, poichè Joko Widodo, nonostante non disponesse delle risorse finanziarie che spesso in Indonesia sono necessarie alla costruzione di una carriera politica, riuscì ad assicurarsi il controllo o il condizionamento dei mezzi d’informazione e garantirsi l’appoggio di schiere di clienti e sostenitori.
L’ascesa di Joko Widodo va letta nell’ambito della perdita di centralità dei partiti politici indonesiani, il cui rilievo dopo le elezioni del 2004 si è gradualmente ridotto a vantaggio di un sistema dominato dai singoli candidati. Anche il successo di Susilo Bambang Yudhoyono (presidente per due mandati dal 2004 al 2014) è dovuto al carattere ‘personale’ del partito che ha costruito, il Partai Demokrat, modellato dall’energia e dal carisma del suo fondatore più che da basi ideologiche e programmatiche. Questa tendenza è stata confermata negli ultimi anni dalla perdita d’incisività e di efficienza dell’esecutivo, che ha contribuito al crollo della popolarità di Yudhoyono. Il ritiro di quest’ultimo, ineleggibile per un nuovo mandato, ha comportato la sconfitta del suo partito, che nelle elezioni parlamentari è passato dal 21% del 2009 al 10,2% dell’aprile 2014.
Joko Widodo entra in politica relativamente tardi e in un ambito decisamente periferico, segnalandosi subito sia per un approccio informale e attento agli aspetti minuti e concreti della gestione amministrativa, sia per una notevole capacità di negoziare con i numerosi gruppi e i rappresentanti degli interessi comunitari. Eletto una prima volta nel 2005, nel 2010 è rieletto conquistando il 90% del voto popolare: un risultato eccezionale che gli apre la via alla carica di governatore della regione di Giacarta. Esponente di secondo piano del Partai Demokrasi Indonesia-Perjuangan (Pdi-P), Joko Widodo diventa, non senza obiezioni e riserve, candidato dell’opposizione, contendendo il posto al governatore in carica, Fauzi Bowo. Questi è sconfitto nel ballottaggio del settembre 2012 e l’inattesa vittoria di un uomo per certi aspetti modesto e dal profilo provinciale contribuisce a trasformare Joko Widodo in un caso politico e mediatico nazionale. Nei primi mesi il nuovo governatore di Giacarta affronta questioni complesse, come la gestione del traffico di una tra le più congestionate metropoli asiatiche, l’accesso all’istruzione e ai servizi sanitari da parte dei ceti meno favoriti, la ricorrente minaccia delle alluvioni, l’efficienza dei trasporti urbani, l’organizzazione della burocrazia. Joko Widodo, inoltre, introduce la prassi di visite non annunciate in comunità e uffici pubblici che hanno un impatto positivo sulla sua immagine e sembrano determinare un aumento dell’efficienza dei servizi. All’inizio del 2013 i primi sondaggi d’opinione indicano che il nuovo governatore di Giacarta è così popolare da poter competere nella corsa alla presidenza.
Le possibilità di successo di Joko Widodo sono in questa fase nelle mani di Megawati Sukarnoputri, leader del Pdi-P, che a dispetto della diffidenza di alcuni membri della sua famiglia, come il marito Taufik Kiemas e la figlia Puan Maharani, è disponibile ad appoggiare il governatore di Giacarta; questi nel marzo 2014 diventa ufficialmente candidato alla presidenza. Nelle elezioni parlamentari del 9 aprile 2014 il Pdi-P si afferma però con solo il 19% dei suffragi e dovrà allearsi con altre forze per partecipare alle elezioni presidenziali. Sulla base della legge elettorale del 2008, infatti, la competizione è limitata ai candidati dei partiti o delle coalizioni che abbiano conseguito nelle votazioni per il parlamento almeno il 20% dei seggi o il 25% dei suffragi. Tale regola obbliga gli sfidanti a ricercare il sostegno di gruppi politici eterogenei: nel 2014 i due principali partiti indonesiani (il Pdi-P e il Golkar), pur avendo entrambi un background ideologico di tipo laico e nazionalista, danno vita a raggruppamenti che includono varie formazioni islamiche a sostegno delle rispettive candidature. Il Golkar (la formazione che fino al 1998 era legata al regime autoritario dell’ex presidente Suharto) si schiera progressivamente a favore di Prabowo Subianto, il leader del Partito della grande Indonesia (Gerindra), un’organizzazione legata agli ambienti militari da cui lo stesso Prabowo Subianto proviene. Già comandante in capo dei corpi speciali che si erano macchiati di clamorose violazioni dei diritti umani nell’ultima fase del regime del cosiddetto ‘Ordine nuovo’, l’ex generale Prabowo Subianto (genero dello stesso dittatore Suharto e membro di una facoltosa e potente famiglia), anche grazie al suo approccio populistico, gode di una relativa popolarità che lo fa assurgere nel 2014 a possibile candidato presidenziale.
Le coalizioni che si sono affrontate nella campagna elettorale conclusa il 9 luglio sono guidate dal Pdi-P (che insieme ad alcune formazioni minori rappresenta il 41% dei voti parlamentari espressi ad aprile) e dal Golkar che, con il Gerindra, il Partai Demokrasi dell’ex presidente Yudhoyono e tre organizzazioni islamiche, parte dal 59% del voto legislativo. Una disparità che viene rovesciata dall’esito delle elezioni presidenziali, in cui Joko Widodo conquista un sorprendente 53,15% dei voti contro il 46,85% raccolti da Prabowo Subianto.
di Francesco Montessoro