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L’Indonesia è una repubblica democratica presidenziale situata nel Sud-Est asiatico. Con le sue 17.508 isole – di cui solo 7000 abitate – è il più grande stato arcipelago al mondo. La capitale, Giacarta, sorge sull’isola di Giava. Le altre isole principali sono Sumatra, Kalimantan, Nuova Guinea e Sulawesi. Per la peculiare posizione, l’Indonesia è considerata uno stato transcontinentale, poiché appartiene sia al continente asiatico, sia a quello oceanico.
Paese tradizionalmente nell’orbita olandese, che ne mantenne il controllo, seppur sotto forme amministrative diverse, dal 1602 alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Indonesia è divenuta formalmente indipendente nel 1945. Protagonista della lotta è stato Kusno Sosrodihardjo, detto Sukarno, leader del Movimento indonesiano per l’indipendenza, che ricevette l’appoggio del Giappone. Sukarno ha mantenuto il ruolo di presidente dal 1945 al 1967. Il suo governo è stato incentrato su una originale filosofia politica, un mix di marxismo, democrazia e islam, fondata su cinque pilastri: nazionalismo, internazionalismo, democrazia rappresentativa, giustizia sociale e islam. L’era Sukarno è stata attraversata da diversi tentativi di destabilizzazione: per questo, il leader si è affidato in misura crescente a esercito e partito comunista indonesiano (Pki), approfondendo nel frattempo i legami con Cina e Unione Sovietica.
Nel 1965 Sukarno è stato rimosso con un colpo di stato militare sostenuto dagli Stati Uniti. Al suo posto, è diventato presidente il generale Haji Mohammad Suharto, che è rimasto in carica nei trent’anni successivi. L’era Suharto è stata caratterizzata da una crescente apertura agli investimenti esteri, che ha spinto la crescita economica e ha ridotto la povertà. Parallelamente, però, la presidenza Suharto è stata caratterizzata da nepotismo e clientelismo: monopoli e sussidi sono stati distribuiti a membri della famiglia del presidente o a collaboratori. In più, il regime si è caratterizzato per la dura repressione degli oppositori politici. Le proteste popolari seguite agli effetti della crisi economica che nel 1997 ha colpito il Sud-Est asiatico hanno portato, nel 1998, alle dimissioni di Suharto. Il periodo tra il 1998 e il 2001 è stato caratterizzato da una marcata instabilità, che ha visto salire al potere tre presidenti. L’ultima, Megawati Sukarnoputri, figlia di Sukarno, ha ceduto il posto nel 2004 a Susilo Bambang Yudhoyono, presidente democraticamente eletto e riconfermato alle elezioni del 2009.
Le sfide principali dell’Indonesia odierna sono rappresentate dalle istanze separatiste di Aceh e Papua, dalla fragilità del processo di democratizzazione, dalle calamità naturali che con frequenza colpiscono il paese e dalle rapide trasformazioni economiche.
Il sistema politico indonesiano ha conosciuto una fase di liberalizzazione in seguito all’uscita di scena del presidente Suharto. Nel 1999 si è aperta una stagione di riforme politiche che si è protratta fino al 2002 e che ha portato alla revisione e all’emendamento della Carta costituzionale in senso più liberale.
Oggi, l’Indonesia è definita una repubblica presidenziale ‘con caratteristiche parlamentari’. Il presidente, che dal 2004 viene eletto in maniera diretta dal popolo, è sia capo di stato sia capo di governo, oltre che comandante supremo delle forze armate. Può rimanere in carica per un massimo di due mandati, di cinque anni ciascuno. Il potere esecutivo è esercitato dal governo. Il potere legislativo spetta, in maniera condivisa, al governo e al Majelis permusyawaratan rakyat (Mpr) o Assemblea consultiva del popolo. Nel 2004 il Mpr è divenuto un parlamento bicamerale: si articola nel Dewan perwakilan rakyat (Dpr) o Consiglio rappresentativo del popolo, eletto con un mandato di cinque anni, e nel Dewan perwakilan daerah (Dpd) o Consiglio rappresentativo regionale, composto da quattro rappresentanti per ciascuna delle 33 province dell’Indonesia.
Le ultime elezioni presidenziali, tenutesi nel luglio 2009, hanno confermato alla presidenza Susilo Bambang Yudhoyono, leader del Partito democratico, il partito conservatore di centro-destra. Le elezioni parlamentari dell’aprile dello stesso anno hanno assegnato la maggioranza dei seggi al Partito democratico (Pd), seguito dal Partito dei gruppi funzionali (Golkar) e dal Partito democratico indonesiano di lotta (Pdi-P). L’attuale coalizione di governo è formata da sei partiti, tre dei quali sono recentemente finiti sotto indagine per corruzione, il che ha provocato un netto calo dei consensi. In particolare, sembra diminuire il gradimento nei confronti del Partito del presidente, il Pd, e del partito dell’ex presidente Suharto, il Golkar, mentre sembra rimanere integra la reputazione del Pdi-P, il partito dell’ex presidente nonché figlia di Sukarno Megawati Sukarnoputri.
Con più di 240 milioni di abitanti l’Indonesia è il quarto paese più popoloso al mondo nonché il più grande paese islamico in assoluto. L’86% della popolazione è di religione musulmana. Nonostante la libertà di culto sia formalmente sancita dalla Costituzione, non tutti i culti ne godono: le religioni riconosciute dal governo sono quelle islamica, protestante, cattolica, induista, buddista e confuciana.
L’Indonesia odierna è composta da 17.508 isole – uno degli arcipelaghi maggiormente variegati al mondo – in cui si parlano più di 700 lingue e dialetti. La lingua ufficiale è il Bahasa Indonesia, lingua franca utilizzata nell’ambito amministrativo ed economico, oltre che dai media nazionali.
Nonostante la forte varietà interna, la popolazione indonesiana è dotata di un fortesenso di appartenenza nazionale, che si è radicato perlopiù negli anni della lotta per l’indipendenza. Lo slogan nazionale è ‘Unità nella diversità’. Non tutte le differenze sono però accettate: il paese si trova a dover fronteggiare le spinte indipendentiste di alcune delle province più piccole, incoraggiate dal precedente dell’indipendenza di Timor Est.
Negli ultimi anni, inoltre, l’Indonesia ha dovuto fare i conti con gruppi islamici radicali, come Darul Islam, e con formazioni terroristiche, come Jemaah Islamiah. È in forte ascesa il fondamentalismo islamico, con la formazione di cellule di al-Qaida, che presumibilmente è responsabile dei 202 morti provocati da una bomba in una discoteca di Bali, nel 2002. Nel 2009 altri attentati hanno causato numerose vittime a Giacarta.
Tra i gruppi stranieri più presenti in Indonesia ci sono i cinesi, che in alcune zone posseggono ormai il monopolio delle attività mercantili: ciò ha contribuito a innescare un forte sentimento anticinese negli autoctoni.
La popolazione si concentra in particolare nelle grandi città dell’isola di Giava, che rappresenta una delle aree più popolose al mondo. È in crescita, inoltre, il processo di urbanizzazione avviato alcuni anni fa. Il fenomeno ha alimentato la crescita di slum fatiscenti nelle periferie delle grandi città.
Il miglioramento delle condizioni igienico sanitarie registratosi negli ultimi anni nel paese ha ridotto la mortalità infantile e innalzato la durata media della vita. Tuttavia, nonostante lo sviluppo di un soddisfacente sistema di ospedali e consultori, alcune malattie, come la tubercolosi, la malaria e l’aids, rimangono diffuse. L’Indonesia è uno dei paesi asiatici in cui il virus dell’hiv si trasmette con maggiore velocità. Numerosi sono i fattori che espongono il paese a una tale minaccia. Incidono, in particolare, l’alta diffusione del commercio del sesso (si stima che almeno dieci milioni di persone facciano ricorso ai lavoratori del sesso ogni anno) e l’estremamente limitata conoscenza della malattia presso la popolazione. Lo stigma sociale e gli episodi discriminatori cui sono sottoposti coloro che contraggono il virus, spingono molti a cercare di convivere con l’hiv nascondendo le loro condizioni e rinunciando, quindi, alle dovute cure mediche. Al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia e supportare gli affetti, il governo indonesiano ha dato vita alla Commissione nazionale sull’aids il cui budget è andato aumentando progressivamente.
Negli anni passati il governo ha anche cercato di frenare la crescita demografica del paese, introducendo un programma di controllo delle nascite. Le misure adottate hanno in qualche modo ridotto il tasso d’incremento annuo, ma per gran parte della popolazione musulmana si tratta di imposizioni inaccettabili. Risultato: i problemi cronici si acutizzano, con l’aumento della povertà estrema e la crescita della disoccupazione.
Negli ultimi anni molta attenzione è stata posta sulla questione dei diritti umani in Indonesia. Organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch hanno ripetutamente denunciato le violazioni perpetrate dalla polizia con il beneplacito del governo. Tra i problemi principali vi sono la discriminazione e la violenza nei confronti delle minoranze religiose, soprattutto nei confronti di ahmadiyah, bahai, cristiani e sciiti. A ciò si aggiungono le condizioni estremamente critiche in cui versa il sistema carcerario, la corruzione nel sistema giudiziario, le limitazioni alla libertà di espressione. Una gran parte dei casi sotto esame in tema di abusi fa riferimento all’uso della violenza e della tortura a opera delle forze di polizia. Le province di Papua e Papua occidentale, inoltre, sono sottoposte a un regime di militarizzazione, che è all’origine di una vasta serie di violazioni dei diritti umani.
Durante il quindicennio successivo al conseguimento dell’indipendenza l’Indonesia non riuscì a produrre performance economiche degne di nota, soprattutto per l’instabilità politica e le scelte strategiche inappropriate. Lo sviluppo economico venne reso difficile soprattutto dai problemi legati al tasso di cambio e dalla mancanza di capitali stranieri, dopo che, nel 1957-58, il governo aveva proibito qualunque forma di ingerenza straniera nel settore privato. Sukarno ambiva all’autosufficienza e, con il rafforzamento del suo orientamento comunista, allontanò dal paese il capitale estero. Il successivo presidente, il generale Suharto, riaprì il paese agli investimenti stranieri, riportò la stabilità politica a spese del rafforzamento delle forze armate, e guidò l’Indonesia verso un periodo di espansione economica sotto il suo regime autoritario, l’Orde Baru (Ordine nuovo), che si protrasse fino al 1997. In questo periodo la produzione industriale aumentò sensibilmente e il paese beneficiò moltissimo dall’esportazione di petrolio, gas e legname. Suharto scelse di investire una quota ingente dei profitti delle esportazioni per lo sviluppo di settori manifatturieri tecnologicamente avanzati, spingendo il paese verso una crescita economica stabile, mai sperimentata in precedenza.
La crisi finanziaria del 1997, però, mise in luce una serie di fragilità dell’economia indonesiana: il sistema finanziario debole e non pienamente trasparente, gli investimenti sbagliati nel mercato immobiliare, le enormi lacune nel sistema legale e giudiziario. I numerosi episodi di corruzione, emersi a tutti i livelli della burocrazia, suscitarono grande scandalo in tutto il paese e accelerarono il crepuscolo del regime autocratico di Suharto. Ancora oggi l’economia indonesiana soffre degli effetti della crisi del 1997 e non ha tratto giovamento dalle riforme politiche successive alla caduta di Suharto nel 1998.
Agli inizi del nuovo secolo l’economia ha però lanciato segnali nettamente positivi, anche grazie all’elezione del presidente Yudhoyono nel 2004: la nuova amministrazione ha introdotto riforme significative nel settore finanziario. L’indebitamento del paese negli ultimi anni si è ridimensionato in virtù della sostenuta crescita del PIL e di una buona amministrazione fiscale. L’altra faccia della medaglia è però rappresentata dai considerevoli tassi di disoccupazione, dalla mancata crescita dei salari e dai rincari nei prezzi del carburante e del riso, che hanno peggiorato la povertà: fino al 2006 circa la metà della popolazione indonesiana viveva con meno di due dollari al giorno.
Il paese ha dovuto quindi fronteggiare l’handicap creato dalle ampie sacche di povertà e disoccupazione, dall’inadeguatezza di gran parte delle sue infrastrutture, dall’annosa corruzione, nonché dall’iniqua distribuzione delle risorse tra le regioni. Tali problemi sono stati acuiti dalla presenza massiccia di multinazionali straniere operanti nel paese e dalla concomitante sottrazione di terreni alla popolazione locale.
L’economia, tuttavia, ha segnato una fortissima ripresa nel 2007 e nel 2008, con una crescita media del 6%. Ciò ha ricondotto la disoccupazione ampiamente al di sotto del 10%. Nonostante la flessione nel 2009, l’anno successivo la crescita è tornata su valori estremamente positivi, con tassi annuali attorno al 5,5%. La rielezione di Yudhoyono, nel 2009, e la vicepresidenza affidata al rispettato economista Boediono, hanno ribadito la continuità in politica economica, benché l’inizio del secondo mandato presidenziale sia stato attraversato da scandali legati alla corruzione. Oggi, l’economia indonesiana è una delle più forti nel Sud-Est asiatico e partecipa al gruppo di lavoro del G20, che riunisce le maggiori venti economie globali.
Nel 2008 la produzione di petrolio indonesiana si attestava su poco più di un milione di barili al giorno: questo dato certificava una diminuzione di circa il 35% nella produzione a partire dal 1998, causa del progressivo esaurimento di alcuni giacimenti petroliferi. In considerazione del fatto che la produzione indonesiana non soddisfaceva più le quote imposte dall’Opec, il paese ha dovuto ritirarsi dall’organizzazione nel 2008. Nello stesso anno il consumo indonesiano di petrolio ha raggiunto quota 1,2 milioni di barili al giorno, rendendo il paese un importatore netto.
Secondo alcune stime l’Indonesia è l’undicesima nazione al mondo – e la maggiore in Asia – per riserve di gas naturale. Gran parte di queste riserve sono dislocate off-shore, specialmente al largo delle Isole Natuna, di Sumatra meridionale e di Papua occidentale. L’Indonesia esporta dunque gas naturale, in particolare verso Giappone e Singapore.
Il paese ha varato un piano molto ambizioso per attingere all’energia geotermica dei suoi vulcani. Se ci riuscisse taglierebbe le emissioni di gas a effetto serra e diventerebbe leader mondiale per questa particolare energia pulita. Il problema più grande restano però gli investimenti, visto che allestire un impianto geotermico costa circa il doppio della costruzione di una centrale energetica tradizionale.
La difficoltà maggiore con cui il paese deve confrontarsi dal punto di vista ambientale è senza dubbio la popolazione. Le emissioni di ossido di carbonio rimangono relativamente basse, ma il peso demografico rende questo problema sempre più rilevante.
Le forze armate indonesiane si compongono di quasi 400.000 unità: l’esercito è il ramo più cospicuo, con più di 300.000 soldati in servizio attivo. Le spese per la difesa ammontano allo 0,7% del pil, ma sono integrate dalla partecipazione finanziaria di imprese militari e fondazioni. La polizia ha rappresentato a lungo un settore importante delle forze armate: la scelta di renderla autonoma è avvenuta tra il 1999 e il 2000. Benché la polizia conti soltanto su 250.000 unità circa, ricopre un ruolo centrale nella lotta contro gli estremisti militanti. Viene largamente utilizzata anche per tenere sotto controllo i movimenti autonomisti, come quello di Papua occidentale. Le tecniche repressive adottate sono state più volte oggetto di critica da parte delle organizzazioni per la tutela dei diritti umani.
Nel corso della storia indonesiana le forze armate hanno avuto un ruolo di primo piano negli affari politici e sociali. Un numero significativo di esponenti del governo ha avuto un background militare e molti seggi in parlamento sono stati occupati da rappresentanti delle forze armate. I comandanti dei vari distaccamenti territoriali hanno anche giocato un ruolo influente negli affari locali. Tuttavia, con l’inaugurazione del parlamento nazionale nell’ottobre 2004 l’esercito ha perso gran parte delle sue prerogative. Conserva, però, una rilevante influenza. L’Indonesia intrattiene relazioni pacifiche con i suoi vicini. Dal punto di vista militare la missione più importante per il paese è divenuta dunque garantire la sicurezza interna.
Dal punto di vista internazionale l’Indonesia ha sposato, dopo l’indipendenza del 1945, una posizione che la vede libera da vincoli ma attiva in ambito internazionale. Ha quindi cercato di svolgere a livello regionale un ruolo commisurato alle sue dimensioni e alla sua posizione, ma ha evitato il coinvolgimento nei conflitti tra le grandi potenze. La politica estera scelta nell’ambito dell’Ordine nuovo del presidente Suharto prevedeva una presa di distanze dagli atteggiamenti antioccidentali, e in particolare antiamericani, che avevano caratterizzato l’ultimo periodo di Sukarno (1945-67). Anche dopo l’allontanamento di Suharto nel 1998, i successivi presidenti indonesiani hanno conservato a grandi linee un atteggiamento moderato in politica estera. Nonostante ciò, la separazione traumatica di Timor Est dall’Indonesia a seguito di un referendum nell’agosto del 1999 (che produsse un guerriglia filoindonesiana, appoggiata da Giacarta), e i successivi eventi a Timor Est e Ovest (le violenze imposero l’intervento delle forze delle Nazioni Unite e anche a Timor Ovest ci furono cruenti attacchi contro i cooperanti), hanno contribuito a inasprire le relazioni tra l’Indonesia e la comunità internazionale.
Una pietra miliare della politica estera indonesiana è la partecipazione all’Associazione delle nazioni dell’Asia sudorientale (Asean), di cui è stata membro fondatore nel 1967 con Thailandia, Malaysia, Singapore e Filippine. L’Indonesia è stata anche uno dei fondatori del Movimento dei non allineati, di cui continua a essere un leader e presso cui si è distinta per le sue posizioni moderate.
Poiché è il più grande paese islamico del mondo, l’Indonesia è membro della Organizzazione della conferenza islamica (Oic). Ciò implica anche una costante attenzione agli interessi della solidarietà islamica in politica estera, sia pure nell’ambito di una posizione moderata all’interno dell’Oic.
Il presidente Yudhoyono ha reclamato una maggiore visibilità internazionale per l’Indonesia: nel marzo 2006, si è recato in Myanmar per discutere di riforme democratiche e in seguito ha visitato diversi paesi del Medio Oriente. In particolare, Yudhoyono ha pronunciato un importante discorso in Arabia Saudita, incoraggiando il mondo musulmano ad abbracciare la globalizzazione e la tecnologia per un maggiore progresso sociale ed economico. Nel 2007 e 2008, l’Indonesia ha ottenuto un seggio non permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il presidente Yudhoyono ha inoltre sviluppato partnership strategiche con numerosi paesi occidentali. Gli Stati Uniti mantengono importanti interessi economici, commerciali e strategici in Indonesia, che rimane uno dei pilastri della sicurezza regionale in Asia, soprattutto per la sua posizione, a guardia di una serie di stretti marittimi internazionali, in particolare lo Stretto di Malacca. Oltre a giocare un ruolo nel processo di indipendenza negli anni Quaranta, gli Stati Uniti hanno storicamente sostenuto il ruolo dell’Indonesia come baluardo anticomunista durante la Guerra fredda. I due paesi non solo perseguono l’obiettivo comune di mantenere la stabilità nella regione, ma anche di cooperare nella lotta al terrorismo. Recentemente, l’Indonesia ha dimostrato di voler accrescere il proprio ruolo nella regione sviluppando la sua presenza nelle sedi internazionali e ribadendo la sua scelta di non allineamento. In particolare, cerca di mantenere buone relazioni tanto con gli Stati Uniti quanto con la Cina, come dimostrato dalla neutralità assunta nei confronti delle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale. Il paese, inoltre, partecipa alle missioni militari Unifil in Libano, Monusco nella Repubblica Democratica del Congo e Minustah ad Haiti.
Quando nel 1949 l’Indonesia ottenne l’indipendenza dai Paesi Bassi, la Papua occidentale (Irian Jaya) rimase colonia olandese. Amsterdam aveva rifiutato di consegnare il territorio di Papua a Giacarta, data l’assenza di legami politico-culturali tra l’isola e il resto dell’arcipelago indonesiano. In linea teorica, i Paesi Bassi avrebbero guidato il paese fino a che questo non fosse stato in grado di autogovernarsi e divenire indipendente con il nome di Nuova Guinea occidentale. L’Indonesia di Sukarno, alleato fondamentale degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, riuscì a ottenere l’appoggio di Washington in sede UN: nel 1962, con la firma del New York Agreement, le Nazioni Unite assumevano il controllo amministrativo transitorio della regione, in preparazione della consegna del paese all’Indonesia. Il New York Agreement prevedeva inoltre che venisse indetto un referendum, con il quale i papuani si sarebbero potuti esprimere a favore o contro l’annessione all’Indonesia. Il referendum venne però organizzato in modo poco trasparente: fu limitata la possibilità di voto a una parte ristretta della popolazione e i pochi votanti furono di fatto costretti a optare obbligatoriamente per l’annessione. Nel 1963 la Papua occidentale venne dunque formalmente annessa all’Indonesia. Nello stesso anno nacque il Movimento per la Papua libera (OPM, dall’originale Organisasi Papua merdeka), che combatteva l’occupazione indonesiana. Si accese dunque un conflitto, che dura tutt’oggi, tra le truppe dell’esercito indonesiano e i ribelli dell’OPM. Diverse organizzazioni per la tutela dei diritti umani hanno più volte criticato il governo indonesiano per le misure repressive nei confronti della popolazione indigena. A essere particolarmente colpiti sono stati soprattutto gli indigeni Amungme e Kamoro, abitanti dell’altopiano centromeridionale dell’isola, una delle regioni più ricche di risorse minerarie. Proprio la consistenza degli interessi economici in gioco contribuisce ad allontanare la risoluzione della questione. Gas, legname, olio di palma, ma anche miniere di oro e di rame delle quali è ricco il territorio papuano, sono al centro degli interessi di grandi compagnie estrattive, che firmano contratti di joint-venture con le compagnie indonesiane. Ciò comporta significative entrate per il governo indonesiano, in termini di gettito fiscale e profitto azionario. Inoltre, i profondi scavi diventati necessari negli ultimi anni in seguito all’esaurimento delle prime miniere infliggono un pesante danno ambientale al territorio della regione.
Il land grabbing consiste nell’espropriazione di vasti appezzamenti di terreni agricoli da parte di multinazionali o paesi stranieri. Tale fenomeno è apparso in tutta la sua rilevanza sui media nel 2009, quando il Madagascar cedette metà del suo territorio agricolo a una multinazionale coreana per la coltivazione di cibo destinato all’esportazione verso Seoul. Tale decisione ebbe però ricadute pesantissime sull’establishment politico malgascio, tanto che il progetto fu ritirato. In Indonesia il fenomeno è andato sempre più diffondendosi, in relazione al fatto che il paese è il principale produttore mondiale di olio di palma (più di 20 milioni di tonnellate all’anno), largamente utilizzato nella realizzazione di biocombustibili e cosmetici. La richiesta industriale di olio di palma è ritenuta la causa principale della distruzione di vasti tratti di foresta tropicale indonesiana. Alcune comunità locali sono state costrette a spostarsi o sono diventate forza lavoro sfruttata e sottopagata. Moltissimi sono gli esempi di espropriazione forzata delle terre: in gran parte degli episodi sono coinvolte le forze di polizia o i militari. Le violazioni dei diritti umani – intimidazioni e imprigionamento illecito – sono all’ordine del giorno: negli ultimi anni almeno 15 contadini sono stati uccisi durante le proteste. Circa il 67% della terra deputata alla produzione di olio di palma è controllata da cinque grandi compagnie: tre straniere e due indonesiane. L’80% dell’olio di palma prodotto in Indonesia viene esportato in Europa.
In Indonesia, il più grande paese islamico del mondo, i musulmani sono l’87% della popolazione. Forti del grande rilievo demografico di Giava e Sumatra, sono però minoranza nelle aree orientali dell’arcipelago: in Nuova Guinea, a Bali (dove la popolazione è indù al 90%), a Flores, Timor e nelle regioni settentrionali di Sulawesi. Nelle Molucche la maggioranza islamica fronteggia cospicue minoranze cristiane, cattoliche nelle isole di sudest e protestanti in quelle centrali e settentrionali.
In gran parte sunniti, i musulmani indonesiani presentano un profilo abbastanza eterogeneo e si dividono innanzi tutto tra ‘tradizionalisti’ e ‘modernisti’. Se nelle aree rurali di Giava si sono affermate comunità islamiche di tipo tradizionalista, in larga parte di Sumatra, nel Borneo e a Sulawesi sono presenti gruppi modernisti che guardano alle esperienze maturate nel mondo arabo-islamico nella seconda metà del 19° secolo, volte ad affermare un ritorno alle origini. Le differenze tra queste due correnti non riguardano propriamente l’ambito dottrinale ma pongono la questione dell’adesione a forme ritenute più autentiche di islam. I tradizionalisti giavanesi, in particolare, manifestano una certa tolleranza nei confronti dell’adat, il diritto indigeno consuetudinario, le cui valenze sociali e rituali sono connesse a credenze animiste estranee all’islam. I modernisti, invece, pongono l’accento sulla lettura dei testi coranici e professano un maggior rigore nell’adeguarsi ai precetti e alle norme canoniche. Inoltre, a Giava, i musulmani più osservanti – i cosiddetti santri – si distinguono dalla maggioranza dei giavanesi abangan, ritenuti islamizzati solo nominalmente.
Questa frammentazione spiega come nell’Indonesia indipendente i musulmani, pur essendo la schiacciante maggioranza della popolazione, siano stati incapaci di imporre la sharia e siano stati sostanzialmente subalterni ai partiti laici, come si evince anche dagli esiti delle elezioni che si sono tenute dopo il 1955. Nel primo confronto elettorale, infatti, le organizzazioni che variamente si richiamano all’islam conquistano il 43% dei suffragi; un risultato che, dopo la fase autoritaria del regime di Suharto (1966-1998), si ripete a distanza di mezzo secolo: nelle elezioni del 1999 i musulmani si attestano al 40% dei voti e nel 2009 scendono addirittura a meno del 30%.
Nella storia della Repubblica indonesiana l’eclisse politica delle formazioni islamiche si compie al tempo di Suharto, quando il nuovo regime nato dal sanguinoso colpo di stato del 1965 crea uno stato autoritario fondato sul potere dell’élite militare e si rende autonomo dalle compagini politiche, sociali e religiose che avevano avuto un ruolo di primo piano dopo l’indipendenza. Si manifesta in questo periodo la scelta di molti musulmani di impegnarsi in attività solo culturali o sociali, contribuendo con la moltiplicazione delle iniziative connesse direttamente o indirettamente alla sfera religiosa al risveglio confessionale degli anni Ottanta. Questo fervore missionario porta alla fondazione di scuole coraniche e di nuove moschee, alla creazione di giornali confessionali e alla nascita di istituti finanziari connessi alle associazioni religiose. Come in altre parti del mondo islamico, inoltre, anche tra le donne indonesiane si diffonde progressivamente l’uso di coprirsi il capo con il jilbab mentre cresce l’osservanza di consuetudini trascurate, come la preghiera quotidiana, il digiuno durante il Ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca. Questo risveglio islamico, tuttavia, non comporta la perdita del carattere moderato che contrassegna l’islam indonesiano, anche se iniziano ad affermarsi tendenze di tipo ‘scritturalista’ ispirate a principi volti a costituire uno stato retto dalla sharia.
Con la fine del regime autoritario di Suharto, nel 1998, l’effervescenza religiosa porta da un lato a una crescente partecipazione alla vita politica dei musulmani, ma dall’altro anche alla nascita di gruppi radicali e di prospettive d’azione che sfociano talvolta nel terrorismo. In questo periodo si aggravano, soprattutto nelle isole orientali dell’arcipelago, le tensioni interetniche e la contrapposizione tra le comunità islamiche e quelle cristiane. Dal 2004, tuttavia, prende avvio una graduale pacificazione interna che porta alla soluzione delle crisi nell’Aceh e nelle Molucche, oltre al contenimento di un terrorismo islamico marginale in Indonesia ma connesso a reti internazionali che fanno capo ad al-Qaida. Il rafforzamento delle istituzioni democratiche, però, non frena l’ostilità nei confronti delle minoranze religiose e dei musulmani moderati e nel 2005 una fatwa condanna la tolleranza religiosa e il liberalismo, il pluralismo e il laicismo. Inoltre, nei distretti a maggioranza musulmana si cerca di introdurre la sharia, nell’intento di islamizzare la società aggirando le leggi nazionali con l’adozione di provvedimenti restrittivi in materia di abbigliamento femminile, consumo di alcolici, gioco d’azzardo e prostituzione. Nel 2008 il governo emana un decreto che colpisce la setta eterodossa islamica Ahmadiyah e in seguito il parlamento vota una controversa legge sulla pornografia voluta dai musulmani più retrivi.
A dispetto di esiti elettorali deludenti per le forze islamiche, nel 2009, in Indonesia si affermano nella prassi politica e nella cultura dei partiti nazionalisti e laici approcci che mostrano una nuova sensibilità ai temi religiosi e alle esigenze delle componenti musulmane più ortodosse. Questa attitudine si avverte anche in seno a movimenti politici che in passato avevano ostentato indifferenza o ostilità nei confronti dell’islam. Il caso più rappresentativo è quello del Partito democratico del presidente Susilo Bambang Yudhoyono, alla cui vittoria elettorale e ai successivi accordi di governo non è estranea l’attenzione degli ambienti islamici più ortodossi.