indovini
Sono puniti nell'Inferno, nella quarta bolgia dell'ottavo cerchio (If XX). Maliardi, fattucchiere, streghe in tanto qui si trovano in quanto appunto furono anzitutto i., come prova anche la pena determinata dal poeta, la quale ben si attaglia al peccato di divinazione, mentre sarebbe meno calzante per maghi e fattucchiere. Gl'i. si aggirano nel fondo della bolgia con passo di processione, tacendo e lagrimando, e, cosa mirabilmente terribile, ciascuno ha la testa travolta interamente indietro, sicché il pianto discende per le spalle, e son costretti a muovere i passi a rovescio. Tale pena appare a un primo esame come antitesi della colpa: il veder dinanzi era lor tolto (v. 15) poiché, come si dice per uno di essi, Anfiarao, vollero veder troppo davante (v. 38), e quindi ora guardano di retro e ‛ fanno ' retroso calle (v. 39), si muovono, cioè, all'indietro, rispetto al corpo, s'intende, non rispetto alla faccia. La vista della nostra immagine... sì torta (vv. 22-23) eccita in D. una compassione tutta particolare. Del resto, quella degl'i. è una situazione dolorosa non perché comporti un dolore fisico, ma perché segna un'avvilente situazione umana.
La formula con cui i peccatori di questa sezione delle Malebolge sono qualificati nell'esposizione dottrinale del c. XI dell'Inferno è chi affattura. Appare chiaro come la quarta bolgia, rispetto alla prima indicazione, abbia assunto poi una caratterizzazione più larga, configurandosi come bolgia degl'indovini.
La singolare processione di queste anime si apre con un celebre indovino, Anfiarao, uno dei sette re che presero parte al famoso assedio di Tebe, e si chiude con una turba anonima di femmine, che lasciarono le loro attività donnesche (l'ago, / la spuola e 'l fuso, vv.. 121-122) e fecersi 'ndivine. I personaggi classici - com'è naturale in un discorso largo che si attiene a un certo ordine cronologico e gerarchico, ed è il poeta latino ad effettuare la presentazione - vengono in prima linea: così, dopo Anfiarao, ecco l'indovino tebano Tiresia, di cui viene ricordata la doppia metamorfosi di sesso (da Stazio Teb. IV 519 ss., D. sapeva esser questi il padre e il collaboratore di Manto); ecco Arunte, noto a D. come augure e aruspice (sulla base del passo di Lucano Phars. I 586-588); e l'indovina tebana Manto, la vergine cruda che in un luogo isolato e forte, ove poi fu Mantova, si fermò coi servi a far sue arti (vv. 82-90), a esercitare la magia; ed Euripilo, augure, o, come vuole il D'Ovidio, " gabellato " per tale. Seguono, quindi, Michele Scoto, astrologo ed esperto nelle magiche frodi (v. 117), Guido Bonatti, astrologo anch'egli, e l'indovino parmense Asdente.
Come gli altri dannati del cerchio ottavo, tutti costoro hanno distorto la ragione, cioè la facoltà peculiare dell'uomo, a violare il diritto umano e divino, e hanno praticata la frode in quel che fidanza non imborsa (If XI 54), uccidendo pur lo vinco d'amor che fa natura (v. 56), cioè quel vincolo dell'amore naturale, per cui ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico (Cv I I 8). La loro collocazione tra i fraudolenti non deve, tuttavia, indurre a vedere gl'i. come dei volgari ciurmadori del prossimo credulone. Per D. la frode di costoro è nella pretesa che la loro scienza divinatoria - si ricordi che il poeta ammette, sia pure con qualche riserva, l'oggettiva validità scientifica delle previsioni astrologiche - fosse esaustiva del vero: esaustiva non quantitativamente, ma qualitativamente. La pretesa di fissare il futuro, o, almeno, qualche futuro, e di fissarlo in modo assoluto, significava sprezzare non soltanto il libero arbitrio umano, ma anche la libertà divina, disponendo non solo il mondo, ma addirittura Dio stesso nelle categorie razionali e scientifiche dell'umano intelletto. Questi falsi profeti, pertanto, non sono falsi perché dicono cose false, ma perché si fanno conoscenti del futuro in modi e forme tali da escludere un futuro nuovo, estraneo e impensabile dalle formule della ragione scientifica. Nel loro universo a quattro dimensioni non c'è posto per quelle dimensioni nuove onde nell'Apocalisse (21, 5) è scritto: " Ecce, nova facio omnia ". In tal modo, codesti i. non solo hanno recato ingiuria a Dio con la pretesa d'imprigionarlo nei loro schemi (per cui potrebbero chiamarsi eretici o bestemmiatori, ma non fraudolenti), ma hanno altresì derubato sé stessi e gli altri del bene più grande, inducendosi, e inducendoli a negare - qui è la frode - quell'apertura al divino, quell'attesa di Dio, che non è ancora speranza teologale, ma è pure l'estrema punta su cui l'uomo non ancora soccorso dall'aiuto soprannaturale si può protendere verso la speranza teologale, e l'estremo baluardo della sua autentica libertà.
In questo quadro, risulta meglio chiarito anche il contrapasso applicato a queste anime. Può apparire persino ovvio che ora guardino, forzatamente, indietro coloro che pretesero di guardare in avanti; ma essi, per aver voluto veder troppo davante (XX 38), hanno in realtà veduto troppo poco: cioè, essi hanno applicato al futuro le categorie del passato, le categorie del sapere umano, che sono legittime nel campo della pura scienza fisica, ma non in quello dei piani soprannaturali: le categorie fondate su quella esperienza che sa non accadere nulla di nuovo sotto il sole: e però non possono se non indietreggiare verso il passato, anche se s'illudono di procedere; per questo la loro vita è paralizzata (v. 16), peggio che in qualunque paralisi del corpo, da una paralisi dell'animo che li ha fissati in cotale prigionia, simili alla biblica moglie di Lot, anch'essa eternamente bloccata nella distorsione verso il passato; perciò il pianto dei loro occhi e il loro silenzio sono angoscia totale, reiezione di ogni possibilità di speranza e anche di ogni illusione, ed è pianto assolutamente sterile, una pura spregevole (e spregiata) deiezione: 'l pianto de li occhi / le natiche bagnava per lo fesso (vv. 23-24).
Bibl. - Per tutto il problema degl'i. si rinvia a S. Pasquazi, Il canto XX dell'Inferno, in Nuove lett. Il 183-204. Cfr. inoltre: F. D'ovidio, D. e la magìa, in " Nuova Antol. " 16 sett. 1892; ID., Ancora D. e la magìa, in Studii sulla D.C., Palermo 1901 (raccolti poi entrambi in S'udii sulla D.C., Caserta 1931, I 121-232). Per questioni particolari relative al c. XX dell'Inferno, cfr.: D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, Firenze 1872, 266-267 (nuova ediz. a c. di G. Pasquali, ibid. 1943); A. Bouche-Leclerq, Histoire de la divination dans l'Antiquité, Parigi 1879-1882; I. Della Giovanna, D. mago, in " Rivista d'Italia " 15 maggio 1898; E. Carrara, Ancora delle tenebre e della luce nell'Inferno dantesco, in " Giorn. d. " VI (1898) 483-484; R. Piccoli, Astrologia dantesca, Firenze 1909; L. Pietrobono, Il poema sacro. Inferno, Bologna 1925, II 178 ss.; ID., Dal centro al cerchio, Torino 1956², 5 ss.; F. Laurenzi, Ermetica ed ermeneutica dantesca, Città di Castello 1931; E.G. Parodi, Il c. XX dell'Inferno, Firenze 1934; R. Ramat, Lezione sul XX dell'Inferno, in " L'Alighieri " VI 2 (1965) 27-41; Pagliaro, Ulisse 611-615; E. Caccia, Il c. XX dell'Inferno, in Lect. Scaligera I 675-724.