Automobilistica, industria
Pochi settori hanno segnato, come l'i. a., la storia economica, sociale e culturale del 20° secolo. L'automobile, prodotto per eccellenza della società del consumo opulento, ha contribuito a strutturare lo spazio geografico, ha influenzato e determinato le politiche di trasporto, di pianificazione del territorio, energetiche, industriali e ambientali. La domanda di automobili ha un forte valore simbolico e di status, in quanto non risponde soltanto al bisogno di trasporto, ma anche all'affermazione dell'individualismo. Il settore automobilistico è stato il luogo privilegiato di sperimentazione e di generalizzazione di innovazioni tecnologiche e di nuove forme di organizzazione del lavoro, come il fordismo, lo sloanismo e il toyotismo.
Dal fordismo al toyotismo
Fino all'inizio del 20° sec., l'automobile era il frutto di un lavoro artigianale di assemblaggio. A partire dal 1907, i costruttori americani di automobili operarono un cambiamento radicale e iniziarono a produrre in serie un modello unico a prezzi relativamente bassi, favorendo la nascita di grandi imprese che fabbricavano al loro interno i diversi organi meccanici e i componenti costitutivi di un veicolo. Nel 1908 nacque a Detroit, dalla fusione di diverse imprese, la General Motors Company (GM). Nell'ottobre dello stesso anno, l'impresa fondata da Henry Ford lanciò sul mercato il famoso modello Ford T, che verrà prodotto nell'arco di vent'anni in più di 15 milioni di esemplari. Ford sconvolse le pratiche organizzative precedenti e impose un modello unico caratterizzato dalla produzione meccanizzata e dalla divisione accentuata del lavoro, concedendo ai suoi operai, nella maggior parte non qualificati, salari superiori al livello corrente. La standardizzazione fu estrema, tanto che il modello T era venduto soltanto di colore nero. La crescita della Ford fu impressionante: da 17.700 veicoli nel 1909 si passò a oltre 170.000 nel 1912. In quell'anno furono introdotti nuovi metodi di produzione, tra cui la catena di montaggio. Mentre i prezzi diminuirono, la produzione passò da 202.000 unità nel 1913 a 734.000 nel 1916. Nello stesso anno la GM produsse 146.000 unità. Nei Quaderni del carcere, alcuni anni più tardi A. Gramsci si riferì con la nozione di fordismo a un nuovo modo di accumulazione del capitale nella grande industria, a una nuova organizzazione del lavoro contrassegnata da alti salari, ma anche ai valori e ai nuovi modi di vita che li accompagnavano. Tuttavia Ford non riuscì a conservare a lungo il suo enorme vantaggio iniziale. La crisi congiunturale che colpì l'economia nordamericana nel 1920-21 diede l'occasione ad A. Sloan, direttore generale della GM, di elaborare una nuova strategia industriale, lo sloanismo, che, usando in modo ottimale componenti intercambiabili per massimizzare le economie di scala, offriva ai consumatori la possibilità di scegliere tra una gamma di prodotti e prezzi. La GM fu in grado così di superare il suo rivale nel 1926 e la sua parte di mercato passò dal 18% del 1924 al 47% dal 1928. La GM diventò così il primo costruttore mondiale di automobili. La grande crisi del 1929 e degli anni seguenti favorì inoltre l'ascesa di Chrysler, il terzo grande costruttore americano. Le tre case automobilistiche, le 'Big Three', domineranno il panorama automobilistico fino a tutti gli anni Cinquanta grazie a un'indiscussa superiorità tecnologica e organizzativa.
I costruttori europei durante la crisi degli anni Trenta cercarono di adattare il modello fordista alle loro specifiche condizioni e lanciarono le prime piccole vetture popolari (la Minor di Morris in Inghilterra, la Volkswagen in Germania, la Balilla e la Topolino in Italia). Ma la produzione fordista di massa in Europa si generalizzò soltanto dopo la Seconda guerra mondiale, quando la maggior parte dei costruttori si adattò a una strategia basata sulla produzione di piccole e medie vetture. In Italia, il boom dell'automobile negli anni Cinquanta, favorito dalla spesa pubblica in infrastrutture, permise al principale produttore nazionale, la FIAT, di crescere, specializzandosi nei segmenti bassi e medi del mercato.
A partire dal 1960, emerse una nuova geografia industriale del settore: a fianco dei tradizionali Paesi europei e degli Stati Uniti, divennero via via grandi produttori il Giappone, l'Unione Sovietica, il Brasile, la Spagna, il Messico, la Corea del Sud, e più tardi l'India e la Cina. Gli anni Sessanta e Settanta furono dominati dall'emergere del Giappone, che nel 1959 produceva meno di 80.000 veicoli. Con l'apertura progressiva delle frontiere, la concorrenza si globalizzò rendendo decisivo il rapporto qualità-prezzo. Su questo terreno i costruttori giapponesi, Toyota in testa, decisero di sviluppare, a partire dagli anni Settanta, nuove strategie produttive: eliminazione degli stock e forniture just in time, lavoro in équipe, riduzione delle linee gerarchiche, polivalenza e mobilità interna degli operatori, circoli di qualità e incentivi al coinvolgimento dei lavoratori nel miglioramento della qualità del prodotto, drastica riduzione dei tempi di progettazione e di ingegneria. Emerse così progressivamente un nuovo modello produttivo e di organizzazione del lavoro, il toyotismo. La risposta dei costruttori nordamericani ed europei si concretizzò dapprima in strategie di automazione della produzione e quindi nell'adozione dei modelli di 'produzione snella', derivati proprio dal toyotismo.
La competizione multinazionale
Sin dai suoi inizi, l'i. a. si caratterizzò per processi di intensa internazionalizzazione sia attraverso il commercio estero sia attraverso la produzione all'estero. È possibile distinguere tre principali strategie di crescita multinazionale: 1) la strategia multi-domestica, in cui le filiali servono un singolo mercato estero, spesso anche al fine di aggirare il protezionismo, ma le funzioni strategiche, come la finanza, la ricerca e sviluppo, restano accentrate presso la casa madre; 2) la strategia macroregionale, in cui si sviluppa una divisione del lavoro e un'integrazione delle attività industriali all'interno di un'area regionale sovranazionale; oltre all'accesso ai mercati, si ricerca la riduzione dei costi, attraverso economie di scala e la delocalizzazione in aree a basso costo del lavoro; 3) la strategia transregionale o globale, in cui la divisione del lavoro interna al gruppo multinazionale si realizza su una scala geografica allargata (due o più macroregioni); ogni rete regionale tende a specializzarsi e a essere responsabile tanto dello sviluppo quanto della produzione di una specifica gamma di prodotti.
Quando le barriere protezionistiche divennero troppo elevate, come in Europa negli anni tra le due guerre mondiali, i costruttori americani reagirono seguendo la prima delle tre strategie sopra delineate. Attraverso investimenti diretti, impiantarono all'estero unità di assemblaggio e di fabbricazione, oppure assunsero il controllo di imprese locali. Anche l'investimento diretto dei costruttori giapponesi negli Stati Uniti, a partire dal 1982, rispose a una logica di risposta al protezionismo, ossia all'accordo di autolimitazione delle esportazioni firmato nel 1981 tra i due Paesi. La strategia dei costruttori giapponesi si sviluppava attraverso l'installazione di unità locali di assemblaggio e di produzione, come pure nella forma di accordi di joint venture e di coproduzione con partner locali. La logica di tali accordi era di consentire al partner statunitense l'apprendimento dei nuovi metodi organizzativi giapponesi, e ai giapponesi di ampliare la propria presenza sul mercato nordamericano. A metà del decennio, sommando la produzione locale delle filiali estere e le esportazioni, la penetrazione totale giapponese sul mercato americano superava il 35%.
Anche la FIAT, nonostante la forte dipendenza dal mercato domestico, ha sempre cercato di espandersi sui mercati esteri, soprattutto in Europa e in America Latina, seguendo sin dagli anni Cinquanta una strategia di tipo multi-domestico. È il caso dell'ingresso nella spagnola SEAT (1953) e della costituzione della filiale argentina (1960). Una variante di tali strategie è stata quella dei grandi accordi di cooperazione industriale, con cessione di licenze e assistenza tecnica, nei Paesi dell'Europa orientale; è il caso dell'accordo con la Iugoslavia (1954), con la Polonia (1965) e con l'URSS per la realizzazione dello stabilimento di Togliattigrad (1966). Negli anni Settanta e Ottanta, dopo la costituzione (1971) di una joint venture in Turchia e della filiale brasiliana (1973), prevalse una strategia di disinvestimento delle attività non strategiche, come la SEAT, ceduta nel 1979, e alcune partecipazioni sudamericane. Dagli anni Novanta, l'espansione multinazionale seguì principalmente due direttrici: in primo luogo una strategia regionale europea, con l'integrazione produttiva di FIAT Auto Poland, creata nel 1993, e la sua specializzazione nelle piccole vetture, esportate in Italia e su tutto il mercato continentale. Le politiche volte all'integrazione commerciale dei Paesi dell'Europa centrale e orientale con l'Unione Europea hanno costituito la premessa indispensabile allo sviluppo di tali strategie. In secondo luogo, la FIAT ha tentato una strategia di 'globalizzazione mirata' ai Paesi emergenti, con il progetto di vettura mondiale (world car), che si articolava nei poli produttivi in Brasile, Argentina, Polonia e Turchia, più altre unità di assemblaggio in diversi Paesi, fra cui India e Cina. Tale strategia doveva però rivelarsi troppo ambiziosa: messa in crisi dall'implosione del MERCOSUR (Mercado Común del Sur), a partire dal 1998, e da ripetute crisi finanziarie in diversi Paesi, si risolse in un sostanziale insuccesso. La strategia 'globale' coincise, nella prima metà degli anni Novanta, con il tentativo di innovare l'organizzazione produttiva e del lavoro, secondo il modello della 'fabbrica integrata', e della 'produzione snella', di ispirazione toyotista, concretizzatosi nello stabilimento di Melfi, in provincia di Potenza.
In risposta a questi problemi, e al declino delle proprie quote di mercato, la FIAT concluse un'alleanza di ampio respiro con la GM nel 2000, poi sciolta nel 2005, che inizialmente prevedeva la possibilità di cessione delle attività automobilistiche al costruttore americano. Dopo il fallimento dell'alleanza, l'impresa di Torino ha sviluppato una strategia di accordi mirati volti al raggiungimento di sinergie produttive e di economie di scala. Si segnala quello raggiunto nel 2005 con la Ford per produrre congiuntamente in Europa, in uno stabilimento in Polonia, un veicolo di piccole dimensioni, poi commercializzato sotto marchi diversi dalle due imprese.
La deverticalizzazione della produzione
In tutto il mondo emerge la tendenza a ridurre la verticalizzazione del settore e al conseguente aumento del peso contrattuale dei grandi fornitori di sistemi di componenti, detti anche moduli. Si tratta normalmente di grandi imprese multinazionali, che diventano responsabili della progettazione, dello sviluppo e della realizzazione di sottosistemi di importanza fondamentale (blocco motore, frontale, sistema frenante ecc.). Tale tendenza alla modularizzazione consente di trovare un equilibrio tra il raggiungimento delle massime economie di scala e l'esigenza della differenziazione del prodotto. Infatti è possibile standardizzare le parti e i componenti essenziali del veicolo, pur immettendo sul mercato un prodotto finale che ne è la combinazione e che dunque appare altamente diversificato ai consumatori. Il costruttore tende quindi a trasformarsi in assemblatore e architetto del veicolo, rischiando però di perdere alcune competenze tecnologiche di grande portata, a vantaggio dei componentisti. Per comprendere i rapporti tra costruttori e fornitori di componenti, è importante fare riferimento al concetto di piattaforma: con questo termine si intende il luogo dove si realizza la collaborazione tra le diverse funzioni dell'impresa costruttrice (produzione, ricerca, marketing, finanza) e i principali componentisti. Insieme, questi soggetti progettano il nuovo modello di automobile, lo sviluppano, ne avviano la produzione, e introducono successivamente le modifiche necessarie per il suo adattamento al mercato. Si può aprire, tuttavia, una contraddizione tra questi importanti rapporti collaborativi e la tendenza al global sourcing, che consiste nel mettere in concorrenza tutti i fornitori potenziali, per potere ottenere i migliori prezzi e le migliori condizioni di consegna su scala mondiale. L'internazionalizzazione del settore automobilistico accompagna l'innovazione organizzativa. Proprio nei Paesi 'semiperiferici' (per es., in Brasile) sono state sperimentate le forme organizzative più innovative, le quali hanno accelerato i processi di esternalizzazione di fasi della produzione da parte dei costruttori.
La distribuzione
La tendenza dominante negli anni Novanta e all'inizio del 21° sec. è verso la razionalizzazione dei punti di vendita. In Europa e in Giappone prevale il sistema della distribuzione in esclusiva, mentre negli Stati Uniti prevale un sistema basato sulla non esclusività delle reti distributive. Con il passaggio, nei Paesi più ricchi, da una domanda di prima motorizzazione a una domanda di sostituzione, i costruttori hanno cercato di allargare la gamma dei prodotti. A questo scopo si sono sviluppati accordi e alleanze tra imprese, che commercializzano sotto il proprio marchio anche prodotti sviluppati da concorrenti. È il caso, in Europa centro-orientale, della joint venture tra Toyota e PSA Peugeot Citroën, e di quella sopra citata tra FIAT e Ford, che esemplificano bene le interazioni strategiche tra i grandi costruttori sullo scacchiere mondiale.
L'industria automobilistica agli inizi del 21° secolo
All'inizio del 21° sec. il settore automobilistico appare come un oligopolio mondiale, caratterizzato dalla presenza sia di strategie di cooperazione sia di concorrenza, in particolare per quanto riguarda i processi di internazionalizzazione e la penetrazione dei nuovi mercati. Alla fine del 2004, la produzione mondiale era superiore a 64 milioni di autoveicoli. Il continente americano vi contribuiva per 18,8 milioni, di cui quasi 12 negli Stati Uniti. In Europa si producevano poco meno di 21 milioni di veicoli (32% del totale mondiale), di cui solo 1,1 in Italia. Il 37% della produzione mondiale (oltre 24 milioni di veicoli) era localizzato in Asia o Oceania (di cui 10,5 milioni in Giappone). La GM, pur fronteggiando serie difficoltà finanziarie, era ancora il primo costruttore mondiale (oltre 8 milioni di veicoli). Seguivano Toyota e Ford (più di 6 milioni di veicoli), il gruppo Volkswagen (5 milioni), Daimler-Chrysler (4,6), PSA Peugeot Citroën (3,4). Il gruppo FIAT, inclusa IVECO, è all'undicesimo posto con una produzione di 2,1 milioni di unità, di cui 1,5 autoveicoli. Dopo decenni di innovazioni tecnologiche incrementali, e di cambiamento organizzativo, si profilano nuove opportunità innovative legate ai motori all'idrogeno e ai propulsori ibridi (elettrici e a combustione interna) che in prospettiva possono introdurre radicali cambiamenti nel settore, anche sotto la spinta dell'opinione pubblica e delle politiche a favore di una crescita sostenibile sotto il profilo ambientale.
bibliografia
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