Industria delle costruzioni
Dal cantiere artigianale al cantiere industriale
In Italia, l’industria delle costruzioni rappresenta la filiera economica più importante, sia per il contributo al PIL sia per il numero di occupati. Tale definizione comprende la totalità dei soggetti che operano nell’edilizia: imprese di costruzioni, produttori di materiali edili, fornitori, consulenti, professionisti.
La filiera edilizia, nel nostro Paese, è articolata in prevalenza in imprese di piccole o medie dimensioni, la cui gestione e la cui produzione sono fortemente connotate da un carattere artigianale. La compresenza di artigianale e industriale, e non la graduale trasformazione dall’uno all’altro, ha sempre accompagnato l’evoluzione del settore. Allo stato attuale, infatti, l’industrializzazione abbraccia soprattutto la produzione di materiali e di elementi del costruire, e solo parzialmente il processo produttivo in cantiere, che rimane fortemente improntato a un’eterogeneità di specializzazioni, le quali confluiscono nel processo in modo seriale e raramente sinergico. La lenta evoluzione dal cantiere artigianale, connotato da un’elevatissima capacità tecnica delle maestranze ma da una scarsa cultura gestionale e organizzativa, al cantiere industriale, con una programmazione precisa e sinergica di lavorazioni (a catena di montaggio), comporta la perdita della stretta dipendenza dal territorio sul quale si opera, sia per l’approvvigionamento dei materiali sia per le tecniche costruttive. La libera circolazione di prodotti per costruire, imprese, macchine di cantiere e professionalità tecniche ha come principale conseguenza quella di svincolare il progetto edile dalle tradizioni costruttive locali, consentendo la prefigurazione di oggetti costruibili indipendentemente dalle risorse delle aree di progetto. Dunque, per le costruzioni più complesse il cantiere diventa sostanzialmente il luogo di assemblaggio di prodotti lavorati altrove. Prodotti che, nell’edilizia contemporanea, perdono il carattere di materiale povero, locale, disponibile in abbondanza nelle aree limitrofe al cantiere artigianale, diventando elementi sempre più complessi, ‘performanti’, certificati (ovvero di marca), distribuiti globalmente. L’innovazione dei prodotti è solo uno dei campi in cui le imprese investono per il loro sviluppo: l’evoluzione della filiera, infatti, si articola soprattutto nell’ottimizzazione o riorganizzazione dei processi gestionali e produttivi attraverso l’impiego di nuove tecnologie informatiche, ottenendo un’interrelazione tra i vari attori.
Dovendo analizzare i progressi e gli sviluppi della filiera edile, non si può prescindere dal rapporto tra progetto e manufatto, tra architettura e costruzione, che regola realizzazioni il cui management può rappresentare un paradigma per i nuovi assetti gestionali dell’industria. Paradigmi che si leggono in filigrana nell’analisi delle fabbriche complesse a vocazione internazionale. Infatti, la progettazione di questi edifici, che sono disseminati su tutto il pianeta, non è gestita solo da studi di architettura, comunque caratterizzati da una spiccata transnazionalità, ma anche da specialisti esterni, scelti sulla base delle competenze utili, indipendentemente dal luogo di residenza e di formazione professionale. Da ciò consegue che anche le imprese industriali che realizzano queste opere hanno un carattere sovranazionale; tali lavori, in ogni caso, rappresentano un’occasione per la loro crescita tecnico-gestionale, che è comune a tutti i segmenti del processo costitutivo di queste opere di nuova generazione.
Il 21° sec., infatti, ha portato alla ribalta mondiale una nuova generazione di opere di architettura. Si tratta di architetture che, in ogni parte del mondo, pur nella ricercata singolarità di ognuna, condividono statuti formali, finalità simboliche e rappresentative, ma anche e soprattutto protocolli gestionali e costruttivi.
Il fenomeno, che ha dirompenti ricadute sociali, economiche e produttive, e che rispecchia, nello specifico dell’architettura, gli effetti della globalizzazione, ribalta, almeno all’apparenza, il rapporto di dipendenza tra struttura e sovrastruttura. Esso infatti si manifesta come conseguenza della rivoluzione estetica e formale che ha investito la progettazione architettonica alla fine del 20° secolo. Non appena la computer graphics ha reso possibile la rappresentazione e il controllo geometrico di forme molto complesse, si sono diffuse le visioni spaziali e le figuralità edificatorie complesse, che fino a quel momento erano state ostacolate dall’obiettiva difficoltà di renderle leggibili alla committenza e trasmissibili alle maestranze.
In definitiva, la rivoluzione digitale ha dunque innescato rivolgimenti tecnici, gestionali e produttivi che hanno guidato la trasformazione di una parte dell’industria edilizia. Si è configurato pertanto un mutamento radicale, le cui modalità sono confrontabili, pur con le debite differenze, con quelle che si crearono all’alba del Rinascimento italiano, allorché una rivoluzione artistica e culturale coinvolse la società nel suo complesso. Nel nuovo secolo, le immagini digitali, sempre più perfezionate, hanno colonizzato l’universo figurativo mondiale. Forme mutevoli e dissimmetriche, prodotte da rotazioni multiple lungo traiettorie irregolari, prendono corpo sugli schermi dei computer, delineando un universo mobilissimo, alternativo e remoto rispetto al regolato nitore della geometria euclidea, e dunque al costruire tradizionale.
Questa potenzialità figurativa ha investito l’architettura, dando luogo a modalità ideative e a scelte progettuali che hanno segnato una frattura sempre più profonda con la tradizione e hanno indotto nuovi processi gestionali, coadiuvati da procedure tecniche e modalità costruttive del tutto inedite. In tempi relativamente brevi, le nuove volumetrie hanno avuto ragione dell’inerzia di un’industria, quella edilizia, legata a una tradizione secolare, e restia all’innovazione, soprattutto se subitanea e radicale. Naturalmente queste considerazioni si applicano esclusivamente alla punta avanzata dell’industria edilizia, quella che in diverse parti del pianeta si misura con grandi opere, dall’impatto visivo e simbolico fuori dall’ordinario. Queste ultime non sono sperimentazioni che si esauriscono nella dimensione formale ed estetica, ma simboleggiano scelte compositive che influenzano profondamente l’atto costruttivo, rappresentando esempi della sua evoluzione. Infatti, in queste opere, il processo progettuale prima, e quello costruttivo poi, non possono seguire quel graduale approfondimento, in seguito a interventi seriali di specializzazione, che è tipico della tradizione consolidata. Le nuove formulazioni progettuali, quelle di Zaha Hadid, ma anche di Frank O. Gehry, di Renzo Piano, di Norman Foster, di Jean Nouvel e così via, comportano il ricorso a soluzioni tecniche non consuete e la messa a fuoco di metodi di controllo, preliminari alla costruzione vera e propria, del tutto originali e innovativi, che in definitiva costringono l’industria edilizia a tentare strade ancora in parte inesplorate.
Sinergia e integrazione
Proprio il serrato intreccio delle fasi progettuali e costruttive, implica un accordo a largo spettro tra le discipline attive nel ciclo di produzione dell’architettura. Siano esse strutturali, impiantistiche o realizzative, le discipline tradizionalmente sussidiarie del progetto architettonico sono oggi chiamate a muoversi in uno spazio-tempo sostanzialmente unitario, ingaggiate in un costante confronto reciproco, in funzione della preminenza figurale del progetto. Si va dunque affermando una prassi assai diversa da quella che governa il progetto tradizionale, dove le discipline sussidiarie intervengono per segmenti separati e successivi, dove il ricorso a verifiche tecniche e funzionali non esclude modifiche, anche significative, del progetto architettonico che, in fase di esecutivo, ovvero nell’ultimo stadio prima del cantiere, può subire radicali trasformazioni indotte dalle discipline ingegneristiche, che danno il loro apporto solo nelle fasi conclusive dell’iter progettuale.
Questo processo, che traduce l’espressività dell’architettura in prototipi edilizi, non fa altro che ‘discretizzare’, ovvero ridurre, i manufatti da costruire in componenti o in pezzi che, ricondotti a elementi industriali e catalogati in tipologie, vengono prodotti in stabilimenti, quasi sempre dislocati in vari luoghi del pianeta, per poi essere trasportati in situ e, grazie all’estrema precisione garantita dallo strumento informatico, essere montati in un cantiere edile la cui azione si esaurisce nel loro assemblaggio.
A prescindere dalle tecniche edili impiegate, la logica costruttiva della dissezione del progetto e del successivo montaggio sovrintende, per grandi linee, sia ai cantieri edili ‘a secco’ (in cui l’assemblaggio dei componenti avviene senza far ricorso a malte cementizie) sia a quelli ‘a umido’ (che utilizzano le malte). Dove infatti la tecnica prevede, per es., una superficie composta da pannelli agganciati a un esoscheletro in profilati metallici o lignei, le operazioni di assemblaggio a secco costituiscono la gran parte del lavoro. L’intero fabbricato, infatti, è frutto di un montaggio di elementi che, prodotti lontano dal luogo di costruzione, ne materializzano la struttura, il rivestimento, le finiture e gli impianti. La sequenza progettazione-produzione-assemblaggio fissa il nuovo paradigma gestionale al quale le imprese di costruzioni devono adattarsi. Paradigma per cui il controllo e il metodo della fattibilità tecnica devono attivarsi, fin dall’inizio, contestualmente all’elaborazione architettonica. Di conseguenza, fornitori, produttori e impresa, in definitiva tutti i soggetti implicati nel farsi concreto delle cose, devono essere immessi fin dall’inizio nell’alveo dell’ideazione architettonica.
Mass customization
Paradossalmente, l’instaurarsi di una mutua collaborazione tra progettisti e industria delle costruzioni reintroduce la dimensione artigianale e individualistica dell’opera d’arte nelle logiche di fabbricabilità e di razionalizzazione industriale, materializzando un compromesso tra serialità e unicum.
La locuzione mass customization (personalizzazione di massa) indica un tipo di strategia aziendale che, fondandosi sull’interazione tra atelier di architettura e industria, gestisce le tecnologie disponibili sul mercato non in maniera standardizzata, ma con criteri produttivi personalizzati. Nel concreto, la mass custom-ization si traduce nell’uso flessibile di sistemi computerizzati che consentono la fabbricazione di oggetti secondo le esigenze specifiche del cliente, in questo caso dell’edificio, unendo il contenimento dei costi, peculiare della produzione di massa, con la flessibilità di un processo produttivo finalizzato alla creazione di un manufatto singolare e unico. Tale sinergia si attua nell’intera filiera – ideazione, produzione, costruzione – in virtù dei supporti informatici, che si attestano come linguaggio-ponte che dal virtuale traghetta al costruito. È utile sottolineare che le potenzialità digitali dei software di disegno automatico non circoscrivono lo strumento informatico alla prefigurazione di complesse sagome e di forme inedite, ma ne fanno anche il medium che consente l’approdo alla realizzazione nell’ambiente reale.
Sebbene la sigla CAD (Computer Aided Design) indichi le tipologie di programmi che ‘assistono’ il disegno durante le fasi progettuali, ossia che ne sono un supporto e non un imprescindibile veicolo creativo, ormai ideazioni plastiche ardite possono anche nascere direttamente nell’ambiente informatico, grazie a una elevata versatilità dei comandi di modellazione. Il binomio software CAD e software CAM (Computer Aided Manufacturing) consente di esplicitare o, meglio, di produrre, nello spazio fisico, attraverso l’ausilio di macchine, frese e plotter tridimensionali a controllo numerico, i prototipi delle forme concepite o di parti di esse.
Si instaura, quindi, un vero e proprio linguaggio digitale comune che, parlato in tutta la filiera, attraverso l’impiego di molte applicazioni informatizzate, gestisce le caratteristiche geometriche dell’oggetto, ne verifica la fattibilità strutturale e impiantistica e, infine, lo seziona nei componenti necessari alla costruzione. Questi ultimi vengono poi inviati in forma digitale ai fornitori di competenza e all’impresa capofila che, su questa base, può avanzare l’offerta economica, avendo definito le soluzioni tecniche applicative per costruire gli elementi, senza l’ausilio di elaborati cartacei. Tali elaborati sono redatti solo in fase di cantiere e, prefigurando la disposizione e le fasi di assemblaggio dei vari componenti, forniscono alle maestranze le informazioni necessarie alla costruzione. Infatti, all’avvio del cantiere, la trattazione computerizzata dell’intero processo (dalla prefigurazione formale all’edificazione) si traduce in elaborati costruttivi su supporto cartaceo che, invece della tradizionale rappresentazione ortogonale in piante, prospetti o sezioni, adottano immagini assonometriche. Esse si deducono facilmente dal modello virtuale e configurano uno strumento intuitivo ideale per guidare, per es., il tracciamento topografico di allineamenti murari mistilinei oppure il montaggio di complesse e intrecciate carpenterie metalliche, o anche il sofisticato intarsio delle lastre epiteliali.
La profusione di architetture, dunque, dalle caratteristiche geometriche, materiche e costruttive uniche e originali, condiziona inevitabilmente le indagini e le valutazioni sui cambiamenti indotti nell’industria delle costruzioni. In assenza di una manualistica tempestivamente aggiornata sui nuovi processi e modalità costruttive, e data l’impossibilità di ricondurre questi edifici, per la varietà di soluzioni formali e materiche, a schemi o tipologie costruttive comuni, rimane come unica opzione l’analisi comparativa delle singole fabbriche, così da enucleare eventuali linee guida comuni, che disciplinano i metodi di controllo, di gestione e produzione di architetture dalle caratteristiche non standard. I monitoraggi sistematici dei singoli cantieri, dando conto dell’intero processo produttivo, si dimostrano efficaci strumenti di rilevazione delle variabili costruttive del manufatto e, nel loro confronto, lo strumento per osservare gli sviluppi, sopra elencati, della costruzione contemporanea. Queste ipotesi diventano esemplari se si osservano a distanza ravvicinata i processi ideativi e costitutivi di alcune tra le architetture più recenti.
Linee guida nella costruzione contemporanea
Nel nuovo quadro che si va configurando, l’architetto, oltre che ideatore delle forme e responsabile delle scelte compositive, svolge un ruolo centrale anche nel processo di materializzazione del manufatto, che tuttavia è tutt’altro che univoco e si declina con modalità diverse in rapporto alla personalità dell’architetto, all’organizzazione del suo atelier, ai rapporti con le imprese realizzatrici e con la committenza. Per alcuni progettisti esso si traduce in un’osmosi totale, dando vita ad architetture fondate sulla ricerca e l’approfondimento sincrono della morfologia complessiva e del dettaglio costruttivo. Altri, invece, gestiscono il processo con un completo distacco, demandando, una volta perfezionata la dimensione iconica del progetto, la sua ingegnerizzazione e la successiva costruzione a équipes oppure a società specializzate.
Sebbene le istanze di paternità di queste architetture, nonché le loro forme e le loro immagini, conducano apparentemente a una singolarità di ciascun cantiere, è possibile rintracciare istanze comuni, a prescindere dalle tecniche costruttive impiegate e dalle soluzioni materiche messe in scena, che rappresentano le linee guida della costruzione contemporanea. Sia per l’edificio con struttura d’acciaio o di calcestruzzo sia per il rivestimento metallico o vetrato, l’approccio gestionale della fabbrica da parte dell’industria edilizia è sostanzialmente lo stesso.
Forma e acciaio
L’adozione per edifici complessi di una struttura portante metallica, configura un’importante, quanto subitanea, istanza di razionalizzazione del processo costruttivo. Quasi tutte le realizzazioni utilizzano un involucro tripartito ordito da epitelio interno-struttura metallica-epitelio esterno. Esso rappresenta il sistema più efficace e meno oneroso per concretizzare masse caratterizzate da curvature anche articolate e complesse. I vantaggi tecnico-economici di questa scelta sono ascrivibili sostanzialmente a due fattori: il ‘tassellamento’ (la riduzione) delle forme in pannelli di piccole dimensioni, possibile soltanto sottraendo il sistema morfologicamente più complesso dalle funzioni portanti; l’ottimizzazione in pezzi industriali degli impalcati metallici dello scheletro e dei rivestimenti.
Le carpenterie metalliche, infatti, non direttamente a contatto con le volute di facciata, possono approssimare i profili curvi con elementi lineari montati in griglie o fasce poligonali. Si ottiene così un sistema reticolare di profili industriali disposti su linee orizzontali (travi), verticali (pilastri) e diagonali (controventi), e allineati su differenti assi che ‘approssimano’ le curve (cioè si avvicinano molto alla loro geometria), così da costituire un impalcato di montaggio analogo a quello di una scenografia. L’ottimizzazione delle carpenterie metalliche non si esaurisce però nell’adozione di profili standard: infatti riconduce la prefabbricazione di partizioni metalliche speciali a particolari tipologie di elementi, il più possibile seriali. Nei reticoli metallici così ottenuti, gli elementi progettati specificamente per un particolare edificio sono quasi senza eccezione i nodi di giunzione degli elementi lineari. Questi ultimi, convergendo nei punti di montaggio (nodi) con inclinazioni sempre differenti, devono poter essere assemblati fra loro tramite un singolo elemento che, per caratteristiche tecniche e geometriche, sia in grado di unire i profili convergenti secondo tutti gli assi della costruzione, diversi nodo per nodo.
Questa è la logica produttiva che ha condotto lo studio SOM (Skidmore, Owings & Merrill) all’ingegnerizzazione del Guggenheim Museum (1997) a Bilbao di Gehry, l’archetipo stesso dell’architettura non standard. Undici volumi (rivestiti di pannelli di titanio formati da superfici rigate e a doppia curvatura), nei quali si aprono le gallerie espositive, sono collocati intorno a un atrio centrale a tutt’altezza. L’adozione del sistema tripartito, in questo caso, è stata attuata in un cantiere di montaggio totalmente a secco, con il solo ricorso al cemento armato gettato in opera per le fondazioni. L’analisi geometrica delle curve ha individuato una griglia di elementi metallici a maglia quadrata, di 3×3 m, sufficientemente fitta da poter approssimare qualunque tipo di curvatura delineata in progetto e tale che, preassemblata in grandi partizioni, potesse essere facilmente trasportata in cantiere. La sfida determinante è costituita dal giunto nodale della griglia tipo: esso, infatti, deve garantire il collegamento tra elementi metallici diversamente inclinati, seguendo, in ogni caso, il principio di economia derivante dalla ripetizione di un singolo elemento, quanto più possibile unificato nell’intera costruzione. Nel museo di Bilbao un elemento standardizzato, composto da piastre orizzontali e verticali, ritagliate a losanghe, sulle quali si possano saldare contemporaneamente gli elementi a ‘I’ delle colonne, gli elementi verticali a sezione rettangolare e i diagonali tubolari, si accorda con tutte le inclinazioni della griglia portante, evitando il ricorso a pezzi speciali di fusione.
La struttura portante è stata così ripartita in grandi fasce che, una volta saldate in officina, sono state trasportate in cantiere e imbullonate fra loro mediante la predisposizione di conci lineari di attesa, al fine di evitare l’adozione di un’ulteriore famiglia geometrica di giunti metallici. La griglia messa in opera ha approssimato le curve di progetto con poligoni piani: la finitura (e quindi il raggiungimento della sagoma finale) è stata affidata alla messa in opera di distanziatori metallici fissati alle travi della griglia e uniti da tubolari di acciaio curvi. Ai tubolari è stata serrata una maglia verticale di elementi con sezione a ‘C’, alla quale sono stati imbullonati grandi fogli di lamiera, disposti secondo le superfici curve di progetto. Su questo strato è stata stesa una membrana di asfalto funzionale all’impermeabilizzazione e, infine, sono state aggraffate le 42.875 tessere in titanio, alte 61 cm e lunghe 122, fuse in Francia, laminate a Pittsburgh, decapate in Gran Bretagna, la cui eterogenea provenienza ha siglato l’internazionalità del cantiere.
La messa a punto di un elemento nodale di particolari caratteristiche contrassegna generalmente tutte le fabbriche nelle quali l’approccio costruttivo sia di tipo a griglia: in tal senso, di particolare interesse è la costruzione della torre Swiss Re (2002) di Foster a Londra. L’inconsueta forma a siluro è dettata da esigenze di aerodinamicità: da una parte permette alla torre di fendere i venti senza che vi siano rimbalzi di moti d’aria sulle facciate, che comprometterebbero la vivibilità della piazzetta basamentale; dall’altra, ottimizza le superfici vetrate in termini di migliore sfruttamento della luce naturale. Il volume sinuoso è stato discretizzato da sfaccettature piane triangolari, in grado di assecondare meglio (rispetto ai quadrati) la forma del grattacielo. La struttura portante è una diretta conseguenza di questa scelta. Essa, infatti, è composta da un nucleo interno in elementi standardizzati d’acciaio e da una griglia metallica, a maglie triangolari, che determina l’orditura del reticolo diagonale sulla facciata dell’edificio.
Fu chiaro fin dall’inizio che il disegno dettagliato delle connessioni nodali era fondamentale per la fattibilità delle maglie triangolari: infatti, la geometria delle aste che concorrono in ciascun nodo varia a ogni piano in conseguenza dei diversi diametri dei singoli solai. La progettazione del nodo è stata condotta con quella diretta collaborazione tra progettista e costruttore che è oggi, come si è detto, alla base dell’ingegnerizzazione costruttiva di fabbricati complessi: il giunto di connessione, infatti, è stato modellato e assemblato dal subappaltatore per i lavori in acciaio in stretto accordo con lo studio Foster. La matrice triangolare (e quindi geometricamente chiusa) della griglia diagonale ha richiesto una valutazione accuratissima delle tolleranze di fabbricazione e di costruzione. L’elemento, così risolto, è in grado di ‘calibrarsi’ (adattarsi), nodo per nodo, alle inclinazioni delle sette aste in esso convergenti: sei lungo la facciata, relative alla maglia triangolare, e una ortogonale a essa. Il giunto di connessione costituisce anche l’appoggio per il sistema di travi radiali che, irraggiandosi dal nucleo centrale, disegnano l’orditura portante dei solai. La messa in opera, dietro a ogni nodo, di un attacco imbullonato estensibile e universale, ha consentito di giuntare, una volta serrata la griglia, le travi del solaio. Assemblata oltre il filo della struttura, la facciata di vetro è ritmata da infissi di alluminio che, scandendo il volume con un passo più fitto della griglia portante, pervengono ad approssimare la forma dell’involucro curvo con partiture vetrate piane, romboidali o triangolari.
La Kunsthaus (2003) di Peter Cook e Colin Fournier a Graz, complesso volume chiuso fitomorfo, plasmato da superfici a curvature mutevoli, è stata realizzata tramite un superamento del sistema costruttivo tripartito. La forma progettata al computer è stata fin dall’inizio contrassegnata da un sistema di griglie di riferimento, ordito da meridiani, paralleli e diagonali. Anche in questo caso si è parcellizzata la complessa superficie in campi triangolari che, per le particolari caratteristiche geometriche di partenza, non sono però modulari. La geometria della griglia ha fornito il sistema su cui allineare gli elementi di acciaio della struttura portante, la quale funge direttamente da guida per la pelle interna e per quella esterna, senza l’uso di distanziatori o di orditure secondarie, come avviene invece nel museo di Bilbao: i tre strati, dunque, sono all’interno di inviluppi costantemente paralleli, riconfigurando all’interno dell’edificio la stessa forma dell’esterno.
Oltre alla discretizzazione a griglia, nel caso di una struttura in acciaio è possibile realizzare anche un’ingegnerizzazione delle forme ‘a costole’, sezionando il volume con piani verticali equidistanti, e ottenendo un sistema di telai curvi (le costole), uno diverso dall’altro. Se questo frazionamento non implica un componente di giunto nodale, come negli esempi precedentemente illustrati, l’onere maggiore deriva dalla necessità di una lavorazione di intaglio e calandratura (curvatura) dei profili strutturali che, proprio in quanto curvi, non possono essere ricondotti a tipologie di profili industriali. Per eliminare o ottimizzare tale procedimento di calandratura, si preferisce, compatibilmente con le analisi strutturali, l’impiego di profili a ‘I’, cioè di elementi metallici senza ali. In questa categoria si annoverano tra gli altri l’Experience Music Project (2000) a Seattle di Gehry, il Centro ricerche Nardini (2004) a Bassano del Grappa di Massimiliano Fuksas e il Centro congressi Italia (in costruzione dal 2009) a Roma di Massimiliano e Doriana Fuksas.
Le articolate compagini professionali che sovrintendono a questi progetti esemplificano bene le complesse relazioni che intercorrono tra i soggetti concorrenti al progetto e le competenze tecniche cui spetta la realizzazione del manufatto, che nello specifico si identificano con i diversi produttori dei singoli elementi e con le diverse imprese di costruzioni che dovranno assemblarli.
Forma e calcestruzzo
La sperimentazione contemporanea di maggiore interesse nel rapporto tra forma complessa e calcestruzzo gettato in opera è svolta da Hadid, che stravolge l’uso del cemento armato ‘faccia vista’ (lasciato a vista), portato alle sue estreme conseguenze figurative: si pensi all’ampliamento dell’Ordrupgaard Art Museum (2005) presso Copenaghen, al Phaeno Science Center (2006) a Wolfsburg in Germania, o al MAXXI (Museo nazionale delle Arti del XXI secolo, 2010) di Roma. Rileggendo questi manufatti in confronto a quelli a struttura portante in acciaio, appare evidente che il sistema costruttivo può essere ricondotto a due soli elementi, invece di tre: la pelle esterna e la struttura, infatti, sono fuse in un unico spessore di calcestruzzo armato, il cui trattamento superficiale svolge un ruolo da protagonista nel configurare l’immagine dell’edificio, mentre la pelle interna definisce e scherma un’intercapedine destinata agli impianti. L’esigenza, sempre costante, di Hadid che l’edificio una volta terminato appaia frutto di un’unica colata di calcestruzzo, ha fortemente condizionato la natura delle casseforme. Pur discretizzate in prodotti industriali, esse sono manufatti speciali, di notevole altezza, in modo da contenere getti di calcestruzzo di intere porzioni dell’edificio, riducendo così al massimo i ‘segni di ripresa’ (quelli che si determinano tra un getto e l’altro). Oltre ad aumentare le dimensioni della cassaforma standard, è stato necessario irrigidirla, per stabilizzarla in vista dei grandi volumi di getto, e modificare la posizione dei tiranti, diradando sulla parete le sequenze orizzontali dei loro segni e testimoniando così l’attenuazione delle spinte con il crescere dell’altezza, in modo che la parete finita rievochi la fatica della fase costruttiva. Inoltre, per raggiungere l’elevata qualità superficiale richiesta dall’architetto, si è impiegato un paramento di contenimento in compensato multistrato di betulla, rivestito su entrambi i lati da un film fenolico e privo di giunti di accostamento, per cercare di ottenere una superficie liscia e cromaticamente uniforme. Il risultato è un progetto, tridimensionalmente controllato, di casseforme composte da soluzioni industriali standard e modificate ad hoc. Pertanto, anche nel caso di strutture portanti in cemento armato complesse come quelle che sono state citate, la logica della mass customization tende a ricondurre le casseforme artigianali, predisposte sul singolo cantiere, a composizioni di moduli industriali che approdano a conformazioni individualizzate.
Nel caso della torre Agbar (2005) di Nouvel nel distretto di Sant Martí a Barcellona, la peculiarità espressiva, affidata, oltre che alla forma a fuso, al traforo colorato dell’epitelio, è stata perseguita tramite un involucro di cemento armato (rivestito di pannelli di alluminio colorato), realizzato attraverso la collaborazione di quattro sistemi di casseforme rampanti, in grado di adattarsi ai quattro raggi di curvatura che modellano il profilo bombato della torre.
Nell’uso invece del calcestruzzo prefabbricato in pannelli, moduli o conci, l’adozione di determinate forme geometriche, non ortogonali ma descrivibili, ne garantisce la costruzione razionalizzata. Toroidi, ellissoidi di rotazione, sfere, descrivono superfici i cui punti sono legati da relazioni matematicamente chiare. Una calotta ribassata, ottenuta da una sezione di toroide, per es., può essere descritta da un sistema di meridiani e paralleli, ortogonali fra loro, che la intagliano in elementi modulari rettangolari, come nel caso dell’Amer-ican Air Museum (1997) di Foster a Duxford in Inghilterra, o dell’Auditorium e Parco della musica (2002) a Roma e del Mercedes Benz Design Center (1998) a Sindelfingen in Germania, entrambi di Piano. Nel caso della chiesa romana Dio Padre Misericordioso (2003) di Richard Meier, tre poderose vele in conci di cemento armato precompresso, descritte da tre differenti sezioni (piccola, media e grande) della stessa sfera, vengono reiterate con una traslazione spaziale, per un artificio compositivo volto a serrare in un unico prospetto i profili curvi (verso est), in maniera tale che assumano, verso ovest, l’andamento dinamico di vele marine. Anche in questo cantiere, l’assidua collaborazione tra impresa e progettisti ha permesso di razionalizzare le superfici curve delle vele, ritagliate dalla sfera generatrice, in ragione di un allineamento dettato da una griglia geometrica comune. Per questa via il numero di pezzi prefabbricati necessari per le tre vele è stato ricondotto a solo 22 tipologie differenti. Oltre alle modifiche geometriche e agli accorgimenti tecnici che hanno consentito l’erezione delle possenti vele in conci precompressi, anche negli esempi esposti, sono stati sempre più numerosi i frutti di una simultanea sinergia tra architetti e tecnici della gestione e della costruzione: infatti, il complesso sistema multistrato che riveste la torre Agbar e le lamelle brise-soleil in cemento armato rinforzato con fibre di vetro (GFRC, Glass Fiber Reinforced Concrete) approntate nel cantiere romano del MAXXI, sanciscono questo nuovo orientamento dell’industria delle costruzioni.
Forma e rivestimento
Per la realizzazione degli strati epiteliali esterni, laddove il sistema costruttivo implichi l’uso di un rivestimento, accade che la complessità delle forme avveniristiche, ritmate da irregolari profili concavi e convessi, renda problematica la riduzione seriale degli elementi, condotta o attraverso la parcellizzazione dei volumi in sfaccettature piane dalle ridotte dimensioni, come nella torre Swiss Re, o attraverso la configurazione in pannelli o elementi curvati, secondo le possibilità di modellazione dei singoli materiali. In questo secondo caso, le partizioni vengono costruite una per una, con dimensioni e curvature variabili: se per tale via si ottiene una maggiore rispondenza figurativa del manufatto alle configurazioni computerizzate, ci si misura anche con oneri economici molto più rilevanti.
Nella Kunsthaus, per approssimare alle circonvoluzioni dei volumi la pelle esterna si è adottato un sistema di montaggio a secco di pannelli colorati di polimetilmetacrilato, sagomati uno per uno e fissati alla struttura portante da borchie metalliche. La natura del materiale ha tuttavia consentito sensibili risparmi grazie al riciclaggio della schiuma di poliestere degli stampi, riusata nei pannelli di rivestimento, sagomati da frese tridimensionali collegate a sistemi CAM.
Oltre al cemento armato, le ultime sperimentazioni plastiche avviate da Hadid puntano alle estreme potenzialità espressive del vetro usato come materiale di rivestimento, non adoperato in elementi piani. Le quattro stazioni della funicolare di Innsbruck (2007), per es., sono state realizzate tramite la tecnologia del vetro laminato termocurvato, che ha consentito la messa a punto di quattro nuvole di cristallo dalle geometrie complesse, che proteggono e segnalano l’accesso ipogeo alle stazioni.
Ovviamente, una tale complessità geometrica ha imposto una stringente collaborazione, quasi una dinamica e progressiva fusione di competenze, tra architetti, strutturisti e imprese. Le lastre di vetro messe in opera a Innsbruck sono composte da due strati laminati incollati da un inserto di resina poliuretanica: esso imprime la coloritura desiderata e, al contempo, garantisce la tenuta in caso di rottura traumatica. Come si è notato a proposito della Kunsthaus, qualora non sia possibile ottimizzare le dimensioni dei componenti del manufatto stesso, ci si volge a una logica seriale per costruire le matrici degli stampi. Anche nel cantiere di Innsbruck è stato universalizzato lo stampo, definendo dei cestelli in acciaio composti da semplici tubolari metallici, sui quali, allineate pannello per pannello secondo le tangenti alle curvature desunte dal modello digitale, sono adagiate le lastre di vetro alla temperatura di modellazione.
Le architetture e i progetti fin qui analizzati sono accomunati da un’analoga volontà espressiva, che mira a figurazioni spaziali sinuose e iperboliche, plasticamente continue. L’immagine di ‘massa fluida’ delle stazioni di Innsbruck è stata perseguita riducendo al minimo la suddivisione in pannelli e ideando un giunto dissimulabile dietro la singola lastra di vetro, in modo da non intaccare visivamente la fluida continuità delle volumetrie vetrate. Ovviamente, la resistenza statica delle lastre, le possibilità di curvatura e il contenimento dei costi di produzione hanno influenzato il sistema di partitura del rivestimento.
L’aspirazione degli architetti a disporre di una massa informe da manipolare nel mondo reale con la stessa disinvoltura consentita dai software grafici, stimola l’industria delle costruzioni alla messa a punto di materiali compositi, generalmente una combinazione di fibre ad alta resistenza (carbonio o vetro) con una matrice epossidica, che si prestino a una modellazione illimitata, associata a proprietà autoportanti. Una nuova materia, dunque, che consente di superare la concezione tripartita della costruzione fin qui esposta, a favore di un’unica materia omogenea.
Tra gli esperimenti di questo ambito si annovera l’Amazing Whale Jaw (2003), una pensilina ittiomorfa per la stazione capolinea degli autobus a Hoofddorp, nei Paesi Bassi. Ideata dallo studio Nio architecten, è stata realizzata con una tecnica mutuata da quella per le tavole da surf: è costituita da 5 leggeri componenti prefabbricati, modellati fresando, con apparecchi a controllo numerico, blocchi di un materiale termoplastico in schiuma rigida di polistirene. Assemblati e incollati in cantiere, i blocchi, già modellati in fabbrica, sono stati irrorati a spruzzo, così da creare una pellicola termoindurente di poliestere insaturo, rinforzato con fibre di vetro, che assicura al manufatto un’apparenza compatta e traslucida, poiché elimina le fughe di giunzione tra i blocchi.
Una tecnologia estremamente sofisticata, che ben si adatta alla natura e alle dimensioni dell’oggetto: infatti, nel caso delle pensiline (sia quelle di Innsbruck sia quella di Hoofddorp), i vincoli funzionali, e le conseguenti istanze ingegneristiche, si riducono sensibilmente, in quanto le variabili impiantistiche si restringono al solo smaltimento delle acque.
Le ultime sperimentazioni plastico-costruttive
Nel 2006 Hadid ha vinto due concorsi internazionali: uno per la progettazione del Museo mediterraneo dell’arte nuragica e dell’arte contemporanea (detto Betile) a Cagliari, che sarà realizzato in prossimità dello stadio Sant’Elia e che condivide il toponimo con il quartiere degradato in cui sorge, l’altro per il Museo del mare a Reggio di Calabria.
I due progetti inseguono una figuralità fantastica e visionaria, ispirata alla morfologia di un celenterato, la cui gigantesca figura si sfrangia in tentacoli protesi sul terreno. Masse bianche e lucide, plasmate interamente da Rhinoceros, il programma di modellazione digitale molto utilizzato dagli architetti, si insedieranno sui lungomare delle due città, riscattandone la passata bellezza e le inespresse potenzialità sociali. Le superfici avvolgenti dei due musei dovranno incapsulare gli ambienti espositivi, creando l’alternanza fra pieni e vuoti, e fra zone in luce e zone in ombra, che in architettura traduce il dialogo intimo e la deliberata porosità con i siti.
La metafora del corallo, il celenterato le cui colonie prosperano lungo le coste del Mediterraneo, ha indirizzato concretamente, e non solo concettualmente, la modellazione architettonica, articolata in complesse pieghe e in morbide volute, in continuità tra esterno e interno, proprio come una barriera corallina deposta sul suolo urbano. Tale morfologia si è proiettata sul destino costruttivo dei due progetti: conclamando la propria incompatibilità con le logiche standardizzate dell’edilizia corrente, essa esige procedimenti costruttivi e assetti di cantiere sperimentali e appositamente conformati, non riconducibili neanche alle semplificazioni di categoria descritte in questo saggio. Questo aspetto, parzialmente anticipato in fase di elaborazione concorsuale, diverrà realtà progettuale nella messa a punto dei due progetti preliminari, in cui si è avviato il concreto approfondimento dei metodi di realizzazione dei frammenti di nivea barriera corallina arenatisi sui lungomare delle due città mediterranee.
Sebbene questi edifici siano ancora allo stato progettuale (l’effettiva realizzazione del museo di Cagliari non è neanche del tutto certa), è interessante analizzare il cammino fin qui effettuato nel processo di gestione costruttiva, a causa delle caratteristiche totalmente inedite dei cantieri, in cui si dovranno utilizzare soluzioni ibride rispetto alla casistica di forme e soluzioni tecniche presentate precedentemente in questo saggio. La forma, prodotto di una sofisticata modellazione tridimensionale, è stata sottoposta a un processo di ingegnerizzazione che ne ha vagliato la fattibilità, armonizzando fra loro gli apporti specialistici di diverse discipline tecniche.
Occorre premettere che le superfici che materializzeranno l’inviluppo dei vani dei musei appartengono alle curve geometriche denominate NURBS (Non Uniform Rational B-Splines). Esse sono rappresentazioni matematiche della geometria 3D, capaci di definire accuratamente qualunque forma: da una semplice linea a un solido complesso, alla superficie di una forma organica. Nella non rispondenza tra immagine di progetto e rivestimento metallico in pannelli, o nell’impossibilità di realizzare casseforme adatte a un guscio di cemento armato, in che modo le scelte formali hanno orientato l’iter costruttivo nella fase postconcorsuale? Tale iter, in primo luogo, ha mirato alla traduzione delle superfici digitali (il volume virtuale) in elementi costruiti (l’edificio), in modo che il cantiere possa garantire l’univoca corrispondenza con la prefigurazione grafica.
Sebbene, come detto, Hadid utilizzi nei suoi progetti il cemento armato faccia vista fino alle sue estreme potenzialità plastiche, l’impossibilità di organizzare queste evoluzioni formali tramite complesse e onerose casseforme per il getto di calcestruzzo, ha determinato la rinuncia a questa tecnologia, a favore di un sistema inedito frutto di un’adozione sincrona di struttura metallica di sostegno e cemento armato di rivestimento. La scelta preliminare è consistita comunque nell’adozione di una struttura triplice: un epitelio esterno, uno interno e un nucleo portante in acciaio nell’intercapedine, la quale alloga anche i canali e le tubazioni degli impianti. Come abbiamo visto, con questo sistema tripartito gli elementi (di complessa morfologia e fabbricabilità), definiti epiteli, sono sollevati dal ruolo portante, demandato alla struttura assemblata in acciaio, articolata da elementi quanto più possibile ricondotti a una logica industriale. A questo scopo, in funzione del preliminare, si è attuata una verifica sulle caratteristiche matematiche delle parti che assemblano il volume, il quale è stato frazionato, così da individuare fasce composte da superfici rigate e fasce a doppia curvatura. Tale ripartizione ha consentito di valutare l’economicità delle superfici: infatti qualunque ‘rigata’, essendo approssimabile con fasci di rette, può essere eretta tramite sostegni di acciaio lineari, ovvero di produzione industriale. Laddove invece la complessità della curvatura impedisce questa semplificazione costruttiva, per es. nel caso di superfici ottenute per rotazione di una curva generatrice attorno a un asse, i sostegni metallici dovranno essere curvati o calandrati, cioè essere dei veri e propri pezzi speciali. Questi presupposti, mirati all’ottimizzazione economica del progetto di concorso, hanno portato a riplasmare alcune parti, allo scopo di incrementare al massimo le porzioni rigate, ottimizzando così gli elementi metallici di produzione industriale dell’impalcato interno ed evitando al massimo il ricorso a pezzi speciali.
Definito lo scheletro metallico, si sono passate al vaglio le variabili tecnico-costruttive relative alle parti curve che lo completeranno. L’assetto formale dovrà essere ricondotto a una soluzione tipo in modo da realizzare contemporaneamente economia, fabbricabilità, tracciamento e controllo della forma. Dalle due ultime esigenze si sono mosse le prime intuizioni: a fronte di una geometria irregolare e difficilmente descrivibile, il primo obiettivo consisterà nel tracciamento in cantiere delle complesse pieghe epiteliali, cioè nell’individuazione di un sistema di supporto che guidi nello spazio reale la modellazione al vero dei pezzi che configureranno il fabbricato. Attraverso una discretizzazione del volume per piani di sezione orizzontali ed equidistanti fra loro, la complessità tridimensionale delle masse verrà ricondotta a una logica di elementi bidimensionali, ovvero a un sistema di curve di livello, analogo a quello cartografico che disegna la morfologia irregolare di un territorio montuoso o a una tomografia.
Nel caso delle forme NURBS, le linee che si otterranno da questa procedura saranno splines, ovvero curve composte da altre curve, non tracciabili in cantiere con strumenti topografici convenzionali. Una volta fissata una serie di punti, chiamati nodi di interpolazione, le splines li uniranno disponendosi con curvatura media minima: originariamente esse erano tracciate sul piano con l’ausilio di lunghe fettucce elastiche che, fissate nei punti di interpolazione da grossi pesi, si disponevano proprio secondo le caratteristiche matematiche dell’interpolazione suddetta. Questa tecnica di tracciamento si è tradotta nella soluzione più evoluta proposta. I punti di interpolazione dai quali nascerà il sistema di splines isoipse, che tracceranno le sfuggenti volute del museo, si concretizzeranno in ‘dime’ (forme) di acciaio, applicate direttamente sull’impalcato metallico portante. Le dime assumeranno una conformazione unica per ogni punto di interpolazione e per ogni spline, fungendo da distanziatori per la pelle esterna rispetto ai profilati metallici dello scheletro. Il congiungimento di questi calibri con un tondino di acciaio (in luogo della fettuccia elastica), concretizzerà in cantiere il sistema di curve di livello.
Ottimizzando il ricorso a elementi speciali alla sola prefigurazione dei distanziatori (uno diverso dall’altro), si è ricondotto l’intero processo di prefabbricazione del museo a logiche industriali, con la sola eccezione della costituzione di questa famiglia di elementi dalle ridotte dimensioni. Una volta fissate le guide di controllo della forma, si potrà passare alla sua messa in opera: la superficie continua verrà approssimata da pannelli di lamiera stirata che, montati dietro il sistema di tondini di acciaio, in modo da raccordare le splines poste a quote diverse, modelleranno il supporto ‘in forma’ dell’intero involucro. Il sinuoso rivestimento, dunque, verrà tassellato in porzioni di lamiera che, grazie alla facile modellabilità, una volta assemblate, approssimeranno l’involucro concavo convesso con piccole partiture piane che fungeranno da supporto per elementi successivi.
I pannelli di lamiera stirata fungeranno da elemento di contenimento per uno strato di cemento spruzzato (spritz-beton), armato con una rete elettrosaldata, che costituisce l’irrigidimento della superficie. Lo strato di cemento, steso a più riprese per approssimare al massimo le curve di progetto, verrà integrato dall’interno (a contatto con la lamiera stirata) da uno strato di poliuretano a spruzzo, che garantisce l’isolamento termico, e dall’esterno con la poliurea irrorata che assicura l’impermeabilizzazione. Per ottenere la consistenza lucida, lattiginosa e compatta dell’epitelio esterno, si farà ricorso a una finitura superficiale di resina, scelta in base a diversi parametri: la temperatura d’esercizio, ovvero di modellabilità; la resistenza sia agli agenti chimici sia a quelli atmosferici; la resistenza al fuoco. La stesura di quest’ultimo strato, previsto con gli opportuni giunti, consentirà di uniformare le diverse sfumature cromatiche del cemento spruzzato, di dissimulare la trama superficiale delle riprese del materiale, approdando alla compatta continuità visiva di un’unica massa scultorea.
Queste ipotesi tecnico-costruttive verranno concretamente testate e ricalibrate in seguito alla costruzione al vero di una porzione del progetto, un vero e proprio prototipo parziale dell’edificio. Secondo un’antichissima consuetudine, anche in questi due cantieri, pur improntati alla massima innovazione, verrà sperimentata la fattibilità del manufatto costruendo al vero una fascia dell’apparato di rivestimento e del relativo sostegno metallico. Per questa via si verificherà la fabbricabilità delle scelte: non solo si testerà l’idoneità costruttiva della proposta in relazione al clima e alle sue escursioni termiche, ma si stimerà anche il grado di isolamento termico del futuro manufatto, approntando in maniera conseguente delle modifiche al pacchetto di materiali prefigurato.
Il ricorso a un modello in scala reale di una porzione dell’edificio è una prassi non inusuale nella storia dell’architettura: basti ricordare, tra gli esempi celebri, a Roma, il cornicione per palazzo Farnese, approntato da Michelangelo Buonarroti nel 1546, o i Propilei dell’E42 di Ludovico Quaroni, risalenti al 1939-40. Nel cantiere delle opere pubbliche di ultima generazione, esso consente la verifica diretta delle peculiarità costruttive dei vari tasselli, che materializzeranno l’edificio, e la rispondenza degli stessi alla prefigurazione architettonica. Il prototipo a scala reale consente infatti la calibratura millimetrica delle dimensioni e degli elementi tecnici componenti, la valutazione delle tolleranze di lavorazione o delle tecniche di processo, mentre verifica contemporaneamente l’idoneità o meno delle macchine esistenti alle lavorazioni richieste. Oltre a questo, esso testa la corrispondenza tra l’inerzia termica ipotizzata in progetto e quella reale, in quanto verificata sulla sezione al vero. Si tratta di una verifica nevralgica ai fini del contenimento, divenuto ormai irrinunciabile, dei consumi energetici. Non a caso essa ha svolto un ruolo fondamentale, per es., nel caso dell’involucro multistrato della torre Agbar. Progettato fin dall’inizio in stretta collaborazione con un’impresa italiana e preliminarmente verificato su una sezione al vero dell’edificio alta 8 m e innalzata a piè d’opera, l’involucro si dimostrò capace di un ottimo comportamento termico.
Il ricorso al modello parziale al vero ha assunto una dimensione spettacolare nel caso della sede di «The New York Times» (2007) di Piano (con Fox & Fowle architects). Durante l’iter progettuale venne allestito un prototipo di ben 401 m2, perfettamente ammobiliato, riproducente l’intero angolo sud-ovest di un piano-tipo della torre. Questo prototipo ha consentito la messa a punto del daylighting, il sistema di controllo che, misurando il grado di rifrazione dei materiali e calibrando di conseguenza per via meccanica adeguate schermature, ottimizza l’illuminazione naturale, eliminando fastidiosi riflessi negli ambienti di lavoro e riducendo al massimo l’uso di luce artificiale.
Il futuro
La casistica dispiegata è evidentemente parziale, e concerne esclusivamente la punta avanzata della costruzione architettonica; infatti quest’ultima conserva ancora, nella gran parte della produzione corrente, caratteristiche artigianali, temperate da inserti di standardizzazione e di normalizzazione di alcuni componenti. Tuttavia, proprio i casi-studio analizzati impartiscono alcuni insegnamenti, che prescindono dalla singolarità specifica delle tecniche adottate. In primo luogo la tendenza a inglobare, fin dall’inizio del processo progettuale, una nutrita quanto eterogenea compagine di competenze, che operano in sincrono tra di loro e con l’architetto ideatore. Il ruolo di quest’ultimo si fa sempre più simile a quello del regista cinematografico, capace di orchestrare disciplinarità diverse nel perseguimento di un risultato comune, della cui prefigurazione egli è ideatore, garante e depositario. In questa dinamica produttiva, corale e polifonica, l’industria svolge un ruolo di primo piano quando si mostra capace di trasformare le esigenze espressive del progetto in input per una sperimentazione tecnica e gestionale ad ampio raggio, che sedimenta e si trasforma in procedure e tecnologie d’avanguardia.
Bibliografia
S. Lyall, Masters of structure. Engineering today’s innovative buildings, London 2002.
A. Falzetti, La chiesa Dio Padre Misericordioso di Richard Meier, Roma 2003.
Architectures non standard, éd. F. Migayrou, Z. Mennan, Paris 2003 (catalogo della mostra).
L’involucro edilizio. Una progettazione complessa, a cura di A. Greco, E. Quagliarini, Firenze 2007.
«EdA», 2008, 3, n. monografico: Info-architecture. L’architettura performativa dell’età dell’informazione, a cura di M. Meossi.