INDUSTRIA (XIX, p. 152)
Storia dell'industria. - Per lo sviluppo della produzione industriale nel mondo, v. in questa App. le voci dedicate ai singoli prodotti, e, per la politica economica degli stati, i paragrafi dedicati alla storia finanziaria dei singoli paesi.
L'industria italiana (p. 168). - L'industria italiana nel ventennio fra le due guerre e la fase autarchica. - Era stata la prima Guerra mondiale a modificare profondamente, più dal punto di vista qualitativo che quantitativo, la struttura dell'industria italiana la quale - formatasi nel cinquantennio precedente attraverso un processo che si giudicò lento rispetto agli altri paesi occidentali - era più sensibile agli stimoli di motivi congiunturali che solidamente preparata al clima cosmopolitico. La produzione industriale italiana poteva stimarsi, alla vigilia della prima Guerra mondiale, pressoché settuplicata rispetto al 1881; e il ritmo di ascesa nel primo quindicennio del secolo aveva decisamente spostato il rapporto tra attività agricole e attività industriali (tra cui dominava incontrastato il ramo tessile) nella formazione del reddito del paese. Il censimento industriale del 1927 rispecchiava la configurazione nuova dell'industria, rispetto alla condizione rilevata dal precedente censimento del 1911. Nella cera molle di questa industria giovane, ancor legata fino al 1913 a rapporti di scambio internazionale intensi, nonostante gli attriti doganali del 1878 e del 1887, si erano posati i pollici rudi della guerra, dell'affrettata tariffa del 1921 e del lungo periodo di svalutazione monetaria: tutto ciò aveva certamente contribuito ad ampliare l'industria, a modificarne sensibilmente l'ossatura - facendo lievitare particolarmente i rami meccanico e chimico - ma non sempre a consolidarla e conferirle una struttura più robusta. Di conseguenza la crisi 1929-33 si abbatte violentemente sull'industria italiana e offre i primi stimoli a quegli indirizzi autarchici che l'accompagneranno più decisamente nel periodo che parte dal 1934-35.
La mancanza di una pressione sindacale operaia influì fortemente sulla politica economica durante il periodo del fascismo e forse influì, nel presentare con grande evidenza, prima ancora che le aspirazioni di un salario reale medio gradualmerite elevantesi, il problema di fronteggiare la mancanza di emigrazione, in un paese demograficamente esuberante, mediante una più diffiusa occupazione interna. Tale risultato non poteva ottenersi che applicando il lavoro ad attività meno redditizie e favorendo, quindi, l'espansione di tali attività. Altri stimoli all'autarchia furono, non soltanto l'influenza politica maggiore oramai esercitata dalle industrie protette o proteggende, ma anche quegli orientamenti nazionalistici e "indipendentistici" di cui il fascismo si era fatto patrono. Determinanti formali e facili giustificazioni furono, dopo la crisi 1929-33, gli indirizzi di politica economica che in tutto il mondo vi fecero seguito (v. commercio: Storia, in questa seconda App., I, p. 655) e la persistente necessità di saldare in oro la bilancia dei pagamenti. Si provocò così, attraverso una serie di provvedimenti spesso più proibizionistici che protezionistici nella politica degli scambî internazionali, una rapida intensificazione dell'attività industriale interna, favorita dalla preparazione e dalla condotta della guerra etiopica e dagli intensi investimenti coloniali, oltreché dagli aiuti forniti dal governo fascista alla guerra civile spagnola. I primi provvedimenti di carattere decisamente autarchico risalgono alla fine del 1934 (v. autarchia, App. I, p. 199). La legge sui nuovi impianti industriali, il monopolio dei cambî, il contingentamento delle importazioni ne sono le tappe salienti, mentre si infittisce la rete degli enti parastatali a carattere economico e i vincoli alla produzione aumentano.
L'indice della produzione dall'87% nel 1934 (rispetto al 1928), aumenta fino al 107,5% nel 1938 e si avvantaggiano in particolare le industrie di beni strumentali (meccanica, 134,4%) e produttrici di risorse energetiche (energia, 157,3%), quelle estrattive (118,6%) e chimiche (129,9%), mentre le industrie produttrici di beni di consumo (tessili, in ispecie) permangono a un basso livello (83,0%). Questa trasformazione strutturale dell'industria italiana, che verrà poi accentuata durante la guerra, renderà più difficile nel dopoguerra l'inserimento dell'apparato produttivo italiano nell'economia mondiale e creerà un sistema di costi che l'allontanerà da quelli internazionali, ritardandone, per alcuni aspetti, l'evoluzione tecnica.
La struttura, l'occupazione e la localizzazione dell'industria italiana alla vigilia della guerra. - Il censimento del 1937-39 consente di osservare la struttura industriale alla vigilia della seconda Guerra mondiale e le trasformazioni avvenute tra le due guerre.
Gli esercizî censiti - la rilevazione fu estesa anche alle imprese minime, distinguendo tra esercizî artigiani ed esercizî industriali - furono 1.047.346, di cui attivi 1.022.539 con 4.373.652 addetti. Sul complesso degli esercizî censiti il 95,1% degli esercizî, ma solo il 32,6% degli addetti e il 13,8% dei CV utilizzati, appartenevano all'artigianato e alla piccola industria (con non oltre 5 addetti): una parte notevole dell'industria italiana manteneva dunque ancora carattere di artigianato specialmente in alcuni rami di attività (abbigliamento, cuoio, legno, ceramica, ecc.). Tra il 1927 e il 1937 - sebbene il raffronto dei due censimenti sia difficile 520.000 nuovi addetti (intorno a 50.000 all'anno). Sulla popolazione presente al 21 aprile 1936 (42,4 milioni di abitanti), la popolazione attiva di 10 anni e più addetta a una professione era costituita da 18,3 milioni di persone (43,1%). Mentre l'agricoltura occupava il 20,8% della popolazione totale, l'industria raggiungeva il 12,8% a quella data, oltre all'1,7% da attribuirsi ai trasporti. Della detta popolazione industriale, sette decimi (70,9%) erano operai o assimilati, un sedicesimo dirigenti e impiegati (6,4%) e poco più di un quinto imprenditori o lavoratori indipendenti (22,7%). Dal punto di vista dell'ampiezza media degli esercizî (che in complesso tende ad aumentare) e dei CV utilizzati, le medie più alte si hanno nei settori metallurgico (188,7 addetti per esercizio, 1792,3 CV), meccanico (130,2 addetti, 219,4 CV), tessile (64,6 addetti. 115,0 CV). La metallurgia è pure al primo posto per quel che riguarda la motorizzazione (9,5 CV per addetto), il cui grado è in genere assai scarso.
Per graduatoria d'importanza, tenendo conto del numero degli addetti, della forza motrice e del capitale investito, vengono prime le industrie meccaniche (18,8%), poi le tessili e l'abbigliamento (16%), le alimentari (12,8%), le elettriche, del gas e acqua (9,4%), le metallurgiche (8,4%), le chimiche (7,8%) e le edilizie (5,4%): questi sette gruppi formano pressoché gli 8/10 dell'industria italiana e occupano il 71% degli addetti, il 68% dei CV e assorbono il 79,8% degli investimenti totali.
Per quanto si riferisce alla distribuzione territoriale, la situazione rilevata nel 1937-39 non presenta considerevoli spostamenti rispetto a quella del precedente censimento e il massimo accentramento si presenta in Lombardia (26,4% con 1.179.203 addetti), seguìta dal Piemonte (13,5%) e dal Veneto (8,6%) mentre ultima nella graduatoria è la Basilicata (0,52%). Tale graduatoria rimane immutata, anche ove si faccia riferimento al numero degli addetti all'industria rispetto agli abitanti; in complesso nell'Italia settentrionale si hanno 134,8 addetti all'industria per ogni 1000 abitanti, in quella centrale 88,2 e in quella meridionale e insulare 52,6. La sperequata distribuzione territoriale delle attività industriali italiane, che è ad un tempo causa e conseguenza di tutta una situazione economica generale, è una delle caratteristiche fondamentali del complesso industriale italiano e uno dei più gravi problemi politico-economici che i governi, succedutisi dall'unità in poi, si sono trovati ad affrontare. Qualunque trasformazione sostanziale, quale sarebbe necessaria per creare condizioni vitali di sviluppo industriale nell'Italia centro-meridionale, richiede un cospicuo complesso di investimenti in attrezzature strumentali, complesso di investimenti che non fu consentito dallo scarso reddito nazionale, il quale si è sempre diretto verso le forme di impiego di immediata redditualità. Tutti i provvedimenti adottati per favorire lo sviluppo industriale del Mezzogiorno hanno avuto finora modesti effetti proprio per quella deficienza di struttura organizzativa strumentale che ha reso scarse ed episodiche le iniziative singole. Raffronti fra la struttura della industria italiana e quella di altri paesi industriali furono compiuti nell'anteguerra: le tre industrie meccanica edilizia e tessile, verso le quali l'industria italiana si è particolarmente diretta nel suo sviluppo, assorbivano all'incirca metà degli addetti industriali, e cioè una percentuale superiore a quella relativa in Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti. L'industria italiana, nel suo complesso, aveva una consistenza pari al 40-50% dell'industria del Regno Unito e della Germania, ed a meno di 1/3 di quella degli Stati Uniti, se il raffronto vien fatto per numero di addetti e forza motrice. Quanto alla popolazione occupata nelle attività industriali, la percentuale italiana (28%) della popolazione attiva era inferiore a quella svizzera (45%), belga (42%), cecoslovacca (40%), tedesca e olandese (36%), austriaca (33%), inglese e francese (32%), svedese (31%), statunitense (30%).
I capitali investiti nell'industria italiana e la partecipazione estera. - Su un totale approssimato di 400 miliardi di lire di ricchezza nazionale - da stimarsi elevato a 450 miliardi di lire ove si consideri la ricchezza privata - G. Mortara calcolava nel 1928 il capitale investito nell'industria pari a 67 miliardi, comprese le scorte. All'immediata vigilia della guerra (1938) le stime portavano a giudicare tale capitale intorno ai 150-160 miliardi di lire correnti, capitalizzando il reddito di capitale e di impresa della industria, stimato da F. Vinci in 15,9 miliardi. Se si mette in rapporto quella cifra al valore della produzione industriale, offertoci dal censimento del 1937-39, ne risulta un rapporto tra investimenti e valore della produzione di 2 a i circa. M. Saibante calcola i capitali industriali e artigiani, alla metà del 1939, pari a 124,3 miliardi di lire correnti, 20,1 dei quali nelle industrie meccaniche, 16,5 nelle elettriche, 16,1 nelle tessili e abbigliamento, 12,3 nelle alimentari, 10,2 nelle chimiche, 10 nei trasporti. Del totale di 124,3 miliardi, solo un quinto (25,4 miliardi) è rappresentato da scorte, il resto essendo da imputare a fabbricati e impianti. Nel complesso l'investimento medio risultava di 33.000 lire per addetto e di 18.000 lire per CV. Al complesso dell'Italia settentrionale si attribuiva il 68,4% dell'investimento totale; il resto si ripartiva in parti uguali tra Italia centrale e Italia meridionale e isole. Al limitato risparmio interno dedicabile ad investimenti industriali hanno sempre costituito un apporto addizionale i capitali esteri, che, specialmente in alcuni periodi della storia dell'Italia unitaria, sono affluiti con particolare destinazione verso taluni settori di servizî pubblici (nel 1909-10 gli investimenti esteri si valutavano in circa mezzo miliardo di lire correnti, particolarmente accentrati nelle attività di trasporti e di servizî). Dopo la prima Guerra mondiale, che tante delusioni dette in tutto il mondo agli investitori esteri, il flusso si interruppe; e solo quando la moneta accennò a stabilizzarsi (1926) si osservò una ripresa attraverso prestiti collocati all'estero da enti pubblici e società industriali (tra il 1925 e il 1931 circa 8 miliardi di lire). Le partecipazioni estere all'industria italiana poterono essere stimate tra il 1939 e il 1942, quando si sottoposero a sindacato o a sequestro, in conseguenza della guerra, le aziende "esercitate da sudditi di stati nemici" (r. decr. legge 28 giugno 1940, n. 756). Ne risultò che circa 5 miliardi di lire di capitali industriali (il 12% del capitale investito nelle società per azioni industriali) interessavano partecipazioni straniere, con prevalenza di capitali nordamericani e francesi, accentrati nei settori petrolifero e vetrario, seguìti a distanza notevolissima dalle industrie elettriche, chimiche e tessili. La loro entità può anche ritenersi superiore date le molteplici forme di partecipazione, non sempre giuridicamente identificabili.
Livello e valore della produzione industriale. - Negli anni 1936-39 il livello della produzione aveva ripreso ad aumentare dopo gli anni di regresso 1929-35 e, per quanto la deficienza di rilevazioni omogenee renda difficile determinare un indice della produzione industriale che si prolunghi nel tempo, si è calcolato (G. Tagliacarne) che, in confronto al 1881, l'indice del 1938 sia in rapporto di 10 a 1, mentre nello stesso periodo l'indice della produzione agricola si sarebbe soltanto raddoppiato. Al netto dei reimpieghi, il valore della produzione industriale italiana è stato censito nel 1937-39 in 102,1 miliardi di lire correnti: il cosiddetto "valore aggiunto" (cioè dedotto il valore delle materie prime e ausiliarie) era però stimato in 33,6 miliardi, cioè il 32,9% della cifra totale. Di tale "valore aggiunto" il 30,2% era costituito dal complesso dei salarî. Oltre 6/10 del valore netto della produzione industriale italiana erano offerti dalle industrie alimentari, meccaniche e tessili, con 27,6, 18,8 e 17,2 miliardi di lire.
Nonostante lo sviluppo della produzione industriale avvenuto nell'ultimo quinquennio prebellico, l'importanza percentuale del reddito industriale sul reddito globale rimane a un livello modesto e ciò soprattutto perché le nuove industrie si sviluppano a costi crescenti. Varie stime (nel 1924, C. Gini: 47%; nel 1928, L. Meliadò: 44,6%; nel 1927, M. Boldrini: 44,8%; nel 1936, C. Cosciani: 41,1%; nel 1938, Istituto centrale di statistica: 36,6%; nel 1947, Istituto centrale di statistica: 41%) fanno ritenere che il prodotto netto dell'industria rispetto al prodotto netto nazionale - cresciuto rapidamente dal 1860 (22,2%, M. Santoro) al 1941 (42,1%, C. Gini) - non abbia subìto poi spostamenti sensibili rimanendo intorno al 40-45%. Il più forte mutamento del rapporto tra reddito agrario e reddito industriale si ebbe nel periodo anteriore alla prima Guerra mondiale. Il reddito industriale pro capite per singolo addetto - nel periodo prebellico - era di circa 9853 lire correnti all'anno e di questo circa il 50% poteva ritenersi costituito da reddito di lavoro.
Nel 1938 il valore delle esportazioni industriali italiane ammontava a circa un quattordicesimo del valore della produzione industriale. La composizione qualitativa delle importazioni e delle esportazioni, nelle quali aumenta rispettivamente il peso delle materie prime (dal 39% al 45% tra le due guerre) e dei prodotti finiti (dal 33% al 41%), è un'ulteriore conferma del costante processo d'industrializzazione.
La fase bellica dell'industria italiana (1940-1945). - Col 1939 l'industria italiana partecipa all'euforia mondiale del riarmo; è questa l'annata in cui gli indici di produzione industriale salgono al massimo, cioè al 23% in più del livello produttivo del 1938. Col 1940, cioè con l'entrata in guerra dell'Italia, lo sforzo produttivo non si manterrà a questo livello; andrà invece gradualmente attenuandosi per i ridotti consumi interni, per la deficienza di materie prime e di fonti di energia, per la disorganizzazione causata dai fatti bellici e dall'accumularsi caotico di provvedimenti restrittivi, per la sempre maggiore dipendenza dalla Germania e la rottura dei rapporti commerciali con altri paesi, per le distruzioni operate dal conflitto armato e per la minore produttività della mano d'opera. La guerra ricrea angusti limiti al mercato, declassa il livello qualitativo della produzione, promuove le sole attività che offrano materiali necessarî alle operazioni belliche. L'industria riduce progressivamente il proprio livello generale di attività, pur raggiungendo in alcuni settori punte eccezionali (meccanica 197,9%, elettrica 207,6%) mentre scendono a livelli bassissimi le attività tipicamente civili (costruzioni 36,3%, tessili 58,9%). Nel 1942 il livello generale scende al 91% di quello del 1938 e al 75% del 1939; dopo il luglio 1943 la discesa è precipitosa. I bombardamenti disorganizzano profondamente trasporti e attività industriali; la divisione in due parti del paese fa sorgere imprese improvvisate in talune regioni, crea nuovi motivi di complementarietà, accresce quell'atmosfera di disordine in cui l'industria si scoraggia progressivamente, fa assistere ad un rapido processo in cui predominano tutte le caratteristiche del fenomeno inflazionistico. Agli inizî del 1945, il livello della produzione industriale non raggiunge la terza parte di quello del 1938.
Vastissima la legislazione industriale di guerra, che si innesta però su una fitta serie di provvedimenti già esistenti durante il periodo autarchico (massima utilizzazione delle risorse nazionali, divieto di esportazione delle materie prime, agevolazioni alla produzione dei surrogati, prezzi minimi garantiti, premî, facilitazioni fiscali), e che forma una intelaiatura di enti e di organismi parastatali, a carattere economico, in quasi tutti i settori produttivi. Col 1940 si censiscono e si bloccano le materie prime principali, se ne regola la produzione e lo smercio (spesso fino ai minimi particolari), si statuiscono denunzie obbligatorie, si vietano alcune fabbricazioni di articoli non reputati essenziali, si estende il regime degli ammassi obbligatorî a molte colture di utilizzo industriale, si intensificano le regolazioni dei prezzi e dei consumi; successivamente (1941) si avviano alcune produzioni verso l'ottenimento di "prodotti tipo" uniformi a prezzo regolato (tessili, biciclette, scarpe, vetro, alluminio, ecc.). Tutta l'attività industriale, già nel primo anno di guerra, viene stretta entro le maglie sempre più serrate di questa disciplina, mentre l'attività commerciale viene vieppiù limitata e costretta a trovare sfogo in larghe correnti di mercato "irregolare".
Alla fine della guerra - aprile 1945 - i danni subìti dalla attrezzatura industriale italiana non erano quindi soltanto quelli materialmente constatabili da impianti distrutti o danneggiati o asportati: le conseguenze del lungo periodo di autarchia si dovevano sommare con quelle gravissime della disorganizzazione delle imprese, del retaggio di provvedimenti legislativi incoerenti e della sproporzione ingigantita tra persone occupate e produzioni. Nel 1945 si stimavano i danni materiali di guerra agli impianti tndustriali pari a circa l'8% del capitale investito nell'industria (v. guerra: Danni di, in questa App.). Le più colpite erano state le l'industrie siderurgiche e metallurgiche, petrolifere, degli azotati, dei cantieri navali, elettriche. Le distruzioni materiali comunque sono relativamente modeste in confronto allo sconvolgimento dell'attrezzatura organizzativa interna e dei mercati la cui valutazione economica, peraltro assai difficile, porterebbe a cifre cospicue.
La fase di ripresa postbellica e di graduale reinserintento nel mercato mondiale (1945-49). - Alla cessazione delle ostilità, compiti immani si ponevano all'industria; non soltanto quelli di semplice ricostruzione degli impianti, di rimessa in efficenza dei mezzi di comunicazione, di riattivazione delle correnti di scambio all'interno del paese per riallacciare i due tronconi determinati dalla cosiddetta "linea gotica", ma anche e soprattutto quelli di provvedere al rifornimento dall'estero di materie prime e di risorse energetiche. Gli aiuti da parte delle autorità militari alleate, prima, e dell'UNRRA, poi, specie a partire dal 1946, rimediarono parzialmente alla "strozzatura". Durante il 1946, 6,3 milioni di t. di carbone, petrolio e materie prime affluirono all'industria per tale aiuto eccezionale. Dei 425 milioni di dollari, donati attraverso l'UNRRA, 109 milioni furono destinati all'assistenza e ripresa delle industrie. Il ritmo di ascesa fu lento, ma gradualmente positivo. Il tonnellaggio totale di merci importate in Italia che, dai 20,5 milioni di t. nel 1938, era sceso a cifre irrisorie nel 1945, risaliva nel 1946 a 10,2, cioè a circa metà di quello antebellico; l'esportazione, in peso, non raggiungeva però che meno di un terzo di quella antebellica. Le quantità disponibilì di carbone nel 1946 erano pari a metà di quelle dell'anteguerra; il livello dell'attività industriale si stimava risalito dal 35% nel 1945 al 65% nel 1946 rispetto al livello del 1938. Per quanto il processo di ricostruzione degli impianti danneggiati o distrutti fosse stato celere, quello di riconversione degli impianti precedentemente destinati alla produzione bellica incontrava grandissima difficoltà. Il processo di inflazione monetaria non consentiva alle imprese programmi a lunga scadenza, né uno sforzo sistematico per ridurre i costi; il blocco dei licenziamenti di maestranze, applicato nell'immediato dopoguerra, rendeva impossibile la mobilità della mano d'opera. Una nuova politica creditizia e monetaria, iniziatasi con il settembre 1947, contribuì a spostare il problema fondamentale dell'industria, dall'approvvigionamento delle materie prime a quello delle disponibilità di capitali. La produzione industriale che, con l'apporto dei successivi aiuti gratuiti (AUSA e Interim Aid) e di prestiti esteri (Export-Import Bank), aveva raggiunto rapidamente, soprattutto nella primavera e nell'estate 1947, livelli pari e superiori all'80% del 1938, alla fine dell'anno segnava una flessione e si risollevava poi assai lentamente ma con continuità nel 1948 durante il quale si può ritenere abbia oscillato intorno al 90% del 1988.
La disponibilità di risorse energetiche è andata rapidamente crescendo: nel 1947-48 è del 35% superiore all'anno precedente, e di circa un decimo superiore all'anteguerra. Nel 1946 si erano importati 5,6 milioni di t. di carbone, che nel 1947 passarono a 9,7 milioni e nel 1948 si contrassero a circa 8 milioni e mezzo di t. (pari a più di due terzi dell'anteguerra). Per i combustibili liquidi e per l'energia elettrica si sono ormai superate le cifre di disponibilità del 1938. Nel complesso le importazioni di materie grezze per l'industria, che nel 1946 erano di 7,2 milioni di t., furono quasi il doppio nel 1947 e 1948 (nel 1938 erano a 17,9 milioni di t.).
Le difficoltà maggiori da superare diventano, con il 1948, quelle di adeguare il livello dei costi interni a quelli internazionali e quindi di riorganizzare profondamente le imprese, di accrescere l'ampiezza dei mercati, di riqualificare le produzioni che si erano "declassate", di procedere alla definitiva riconversione di molte aziende inadatte alle produzioni nuove richieste dal consumo di pace: compiti questi particolarmente gravosi, data la formazione storica dell'industria italiana, nata sotto la spinta di stimoli congiunturali e consolidatasi in un clima artificioso, quale quello autarchico. Le esportazioni industriali, per quanto ancora lontane dalle quantità prebelliche, sono risalite rapidamente nel 1947 e nel 1948, sì da eguagliare, in questo ultimo anno, il valore in dollari di quelle del 1938.
Durante il 1948 l'aiuto da parte degli Stati Uniti, che aveva avuto carattere di emergenza nei tre anni precedenti, si consolida in un programma complesso, il cosiddetto ERP (European Recovery Program) o Piano Marshall (vedi piano economico, in questa App.), che mira a ricondurre l'economia dei paesi europei in condizione di vivere senza aiuti esterni di carattere eccezionale e che subordina gli aiuti americani a un efficiente sistema di cooperazione tra i paesi dell'Europa Occidentale. L'industria, attraverso tali aiuti - che nei primi 12 mesi di attuazione sono stati per l'Italia di 601 milioni di dollari, parte sotto forma di regalo e parte sotto forma di prestiti - oltre ad avere garantito il regolare flusso di materie prime essenziali, viene man mano posta in grado di rinnovare la propria attrezzatura produttiva, invecchiata per il lento ritmo di rinnovazione connesso alla deficienza di capitali e per la lunga parentesi bellica. Anche il fondo in valuta nazionale, che si viene formando attraverso la vendita delle merci fornite gratuitamente nel programma ERP, sarà per parte non indifferente destinato alla trasformazione e allo sviluppo di alcuni settori industriali fondamentali, secondo gli orientamenti produttivi indicati in un programma quadriennale, che prevede di portare la produzione industriale italiana, nel 1952-53, a un livello pari al 14% di quello del 1938.
Finanziamento dell'industria. - Oltre alla normale forma dell'autofinanziamento, soprattutto per dare esecuzione al programma autarchico mano a mano che veniva delineandosi, in Italia si adottò decisamente il sistema di finanziamento basato sulla manovra del credito, affidata al Comitato interministeriale per il credito. Attraverso l'IMI (v. in questa App.), il Consorzio sovvenzioni su valori industriali e il normale sistema bancario, per le iniziative di più modesta portata, una massa notevole del risparmio nazionale viene diretta verso investimenti industriali. S'inquadrano in tale politica le facilitazioni creditizie concesse all'industria alberghiera e cinematografica (1937) e i finanziamenti, con garanzia statale, effettuati ai sensi del r. decr. legge 5 settembre 1938, n. 1480 (finanziamento dei piani autarchici). La stessa manovra creditizia fu adottata all'inizio della guerra per fronteggiare le spese pubbliche e il finanziamento delle industrie belliche. Alla fine delle ostilità, a parte il caos monetario e le distruzioni operate, il complesso industriale italiano era appesantito dagli oneri finanziarî differiti, conseguenti ai sistemi di finanziamenti adottati: questa pesante eredità finanziaria - accentrata nei settori industriali che hanno più gravi problemi di riconversione - spiega le difficoltà del triennio successivo. Nel dopoguerra, con varî provvedimenti, adottati tra il 1944 e il 1947, e con procedure diverse, sono stati stanziati 45 miliardi di lire (nelle monete correnti) da destinarsi a opere di ricostruzione e riattivazione dell'industria. Per il settore dell'industria meccanica - che d'altronde era tra le maggiori beneficiarie anche delle precedenti agevolazioni - sono stati adottati provvedimenti specifici: la costituzione del Fondo industria meccanica (FIM, v. in questa App.), che ha provveduto a concedere crediti a condizioni particolari, e la costituzione della Finmeccanica (v. IRI, in questa App.).
Le aziende industriali pubbliche. - Numerose attività industriali sono di proprietà diretta o indiretta dello stato o di enti pubblici territoriali. Importanza notevole nel complesso industriale italiano hanno: le aziende autonome dello stato (delle ferrovie, dei monopolî, dei servizî telefonici, della strada, delle foreste demaniali e altre minori) con un complesso di 250.000 dipendenti; le aziende gestite sotto forma di enti di diritto pubblico (tra cui il Poligrafico dello stato, l'Istituto nazionale dei trasporti, l'Azienda carboni italiani, l'Azienda minerali metallici, l'Ente metano) con circa 35.000 dipendenti; le gestioni indirette attraverso società anonime (un complesso industriale con oltre 200.000 dipendenti) delle quali lo stato possiede i pacchetti azionarî di maggioranza per il tramite dell'IRI.
Bibl.: Banca d'Italia, L'economia italiana nel sessennio 1931-36, voll. 3, Roma 1938; Confederazione dell'industria, L'industria dell'Italia fascista, Roma 1939; Il problema industriale italiano (conferenze presso l'università di Milano), Milano 1945; G. Cenzato e S. Guidotti, Il problema industriale del Mezzogiorno, Roma 1946; L'economia italiana nel 1947 (rapporto della Delegazione italiana al V Consiglio generale dell'UNRRA), Ginevra, agosto 1946; R. Tremelloni, Storia dell'industria italiana contemporanea, Torino 1947; P. Saraceno, Elementi per un piano quadriennale di sviluppo dell'economia italiana (Relazione per il Consiglio economico nazionale), Roma 1947; id., Elementi per un piano economico 1949-52, Roma 1948; UNRRA, Missione Italiana, Survey of Italy's economy, Roma 1947; Commissione per la riconversione, Rapporto al Ministro per l'industria e il commercio, Roma 1947; Commissione economica, Rapporto presentato all'Assemblea Costituente, "Industria", 2 voll. e appendice, Roma 1947; Confederazione generale dell'industria italiana, Annuario 1947 e 1948, Roma 1947, 1948; id., Economia italiana 1948, Roma 1948; v. inoltre le Relazioni della Banca d'Italia e le pubblicazioni dell'Istituto centrale di statistica.
Diritto industriale (XIX, p. 178).
Si può ormai ritenere comune opinione quella che identifica col termine diritto industriale l'insieme delle norme di diritto privato che regolano l'esercizio di una attività industriale. La materia è oggi regolata nelle sue linee fondamentali nel codice civile entrato in vigore nel 1942 e comprendente la disciplina generale di tutti i rapporti privatistici, e, in particolare, nel libro V dedicato al lavoro nelle sue varie forme.
Ivi è, tra l'altro, contenuta la definizione della impresa industriale, che, come "attività economica organizzata al fine della produzione" viene contrapposta a quella più propriamente commerciale di cui è invece caratteristica il fine dello "scambio di beni o di servizî" (art. 2082). I due tipi di impresa sono però sottoposti ad una disciplina comune, come del resto anche gli altri istituti che maggior rilievo hanno dal punto di vista della esplicazione di una attività industriale. Sicché, in definitiva, non sembra possibile affermare un'autonomia del diritto industriale rispetto a quello commerciale. E infatti il primo viene considerato come un particolare ramo del secondo. Ciò non ostante si è tentata la costruzione di un sistema del diritto industriale, di un raggruppamento sistematico degli istituti giuridici che maggiormente interessano lo svolgimento di un'attività economica di produzione e cioè: impresa, azienda e segni distintivi di questa (nome, ditta, insegna) e dei prodotti (marchi, ecc.), disciplina delle invenzioni industriali, dei disegni e dei modelli e delle relative privative; diritto di autore; disciplina della concorrenza e repressione della concorrenza sleale. Molti di questi punti sono anche studiati sotto il titolo di proprietà industriale, ma è ormai prevalente la tendenza ad intitolare la materia più genericamente come diritto industriale, però escludendo dal campo di questo, sia quanto riguarda quelli che potrebbero considerarsi come limiti pubblicistici all'esercizio dell'attività industriale - per cui si rinvia al diritto amministrativo - sia quanto attiene ai rapporti di lavoro cui essa dà luogo, che vengono compresi nel diritto del lavoro.
Bibl.: Finocchiaro, Sistema del diritto industriale, parte generale, Catania 1947; Rotondi, Diritto industriale, Milano 1941.