Industrial design
Delineare in un breve saggio la varietà di vicende, caratteri e condizione contemporanei del design presenta numerose difficoltà. Prendendo le mosse dall’esperienza e dal punto di vista del progettista attivo sul campo, in questo saggio si cercherà – sinteticamente e senza alcuna pretesa di esaustività – di focalizzare alcune questioni di metodo, di identificare gli elementi identitari della prassi disciplinare, di esporre alcune riflessioni sulla situazione odierna e sul futuro prossimo, concentrandoci sull’Italia, ma facendo anche riferimento al contesto internazionale.
Definizione del punto di vista
Molto è cambiato rispetto alla condizione storica cui era legato l’operare, la reputazione e l’idea stessa del design, un settore che invece è oggi divenuto centrale nell’agire dell’impresa, nell’attenzione dei media, nell’atteggiamento accorto del consumatore evoluto. Questo ha portato – oltre naturalmente a un’utile notorietà, conoscenza e valorizzazione – ad alcune ambiguità, per cui, per es., talvolta lo stesso termine design è utilizzato intendendo cose differenti o contraddittorie. In tale situazione di ipercomunicazione, in grado di incidere sul mercato, capita che venga proposto come ‘buon design’ soprattutto il prodotto facile e di immediato impatto visivo, ideale per le copertine della riviste di settore, a scapito di una chiave di lettura articolata e complessa che ne faccia emergere il carattere di approccio globale, funzionale alla realizzazione di prodotti, sistemi e servizi. D’altra parte, tale superiore riconoscibilità e tale esposizione hanno aumentato le responsabilità attribuite a imprese e designer, assegnando loro un ruolo importante nella definizione del sistema delle merci contemporaneo. Secondo il filosofo Vilem Flusser «il termine design è riuscito a ritagliarsi una posizione chiave nel linguaggio quotidiano perché iniziamo (forse a buon diritto) a non credere più che l’arte e la tecnica siano fonti di valore e a renderci conto dell’intenzione (design) che le sorregge […] perché in sostanza il concetto di design sostituisce quello di idea» (1999; trad. it. 2003, p. 5).
In un simile contesto, per il progettista è quindi divenuto decisivo affiancare agli strumenti disciplinari tradizionali rinnovate modalità di dialogo con la cultura d’impresa, e considerare con attenzione le trasformazioni del vivere e dell’abitare. Senza voler entrare nell’infinita querelle definitoria, in buona parte attribuibile al mutato e incerto status disciplinare-terminologico (in particolare odierno, e specificamente nel furniture design), si nota che oggi: «tutto è diventato design, niente è più design. La presunta democraticizzazione del termine, delle informazioni e della comunicazione relativa ha ammantato tutto di un’aura di indeterminatezza dove il diverso è identico, non essendo in grado di riconoscere né specificità né merito» (Bassi 2004, p. 11). Alla fine non risulta sempre facile comprendere di cosa si sta parlando e raggiungere quella minima uniformità rispetto ai criteri di valutazione, qualità e senso dell’innovazione che resta prerequisito fondante del progetto.
Si tenterà in questa sede, comunque, di partire da una semplice definizione, volta a circoscrivere ciò che si esaminerà e a individuare il relativo punto di vista. «Il vero design è tale solo quando agiscono forti interazioni fra scoperta scientifica, applicazione tecnologica, buon disegno ed effetto sociale positivo» (G.K. Koenig, Design: rivoluzione, evoluzione o involuzione?, «Ottagono», 1983, 68, p. 24). In questo caso – ha sostenuto Renzo Zorzi – gli artefatti appaiono come prodotti dalla «necessità, e si vorrebbe dire dal destino di una interazione dell’intelligenza e progettualità industriale, cioè dell’industria in quanto tale, con il generale pensiero dell’epoca, in particolare con le idee, le sperimentazioni, le ricerche, il linguaggio che in campo scientifico e artistico, letterario e ideologico, tecnico e speculativo, la cultura più avanzata elabora ed esprime nel suo incessante bisogno di spingere più avanti le frontiere dell’umano, della conoscenza, razionale e intuitiva, delle capacità immaginative, della vocazione plasmatrice della specie uomo»; a una «civiltà delle macchine» finisce per corrispondere in questo modo una «civiltà delle forme» (Civiltà delle macchine, civiltà delle forme, in Civiltà delle macchine. Tecnologie, prodotti, progetti dell’industria meccanica italiana dalla ricostruzione all’Europa, a cura di V. Castronovo, G. Sapelli, 1990, p. 149).
La mutazione del contesto
Per comprendere meglio le prospettive del design agli inizi del 21° sec., risulta necessario ripensare brevemente in chiave storica al mutamento epocale che ha coinciso con la fine del ‘secolo breve’. In Italia questo mutamento ha creato condizioni assai diverse rispetto a quelle che avevano determinato l’affermazione del design stesso.
Alla base del successo culturale e commerciale del disegno industriale nel nostro Paese, è possibile identificare alcuni elementi distintivi, in particolare nella fase fondativa risalente agli anni Cinquanta e Sessanta, tenendo comunque presente che tale periodo d’oro affonda parte delle sue radici teoriche e metodologiche negli anni fra le guerre. Ha sintetizzato Vittorio Gregotti: «la dimensione relativamente ridotta dell’impresa e la possibilità di elasticità e sperimentazione ad essa connesse; le capacità e l’aggressività del nuovo imprenditore, anche talvolta la sua sincera tensione verso il mondo della cultura; la presenza di una manodopera intermedia poco parcellizzata, legata alle proprie radici artigianali e capace quindi di un intervento creativo, di un’ottica complessiva del manufatto; infine un gruppo di designer (quasi tutti architetti nel caso italiano) di grande capacità e talento, spesso inespresso nel settore disciplinare dell’architettura e colti nel particolare momento di fondazione del mestiere specifico del progettista industriale […] infine una società, cioè anche un pubblico dei consumatori, in fase di rapida radicale trasformazione verso una nuova accezione del rapporto consumo-accumulazione». E ancora per lo specifico dell’arredamento: «Il disegno italiano nel settore della casa fu certamente, in quegli anni, più attento a sperimentare nuovi materiali, a proporre nuove tecnologie degli arredi, a lasciarsi penetrare dalle influenze che filtravano direttamente dalle esperienze industriali e da quelle delle arti visive» (in Un’industria per il design, 19993, p. 22).
Decisivo di quel periodo è risultato il concetto di ‘deroga’, come è stato definito da Zorzi, che è stato sviluppato da una generazione imprenditoriale vivace e incalzante e soprattutto decisa a trovare un’alternativa all’esperienza artigianale. Una modalità che, secondo Zorzi, ci ha permesso di «uscire da quella prima, più restrittiva definizione di metodo della produzione industriale, insistere di più sui valori di progettazione, di studio dei materiali e delle loro specifiche tecnologie, di significato formale (e di immagine) dell’oggetto, di sua rispondenza all’uso, di adattabilità all’ambiente, del carico di intenzioni, di cultura, di cui il progettista le carica, o le libera, piuttosto che sul preminente valore di serie» (in Un’industria per il design, 1993, p. 28). In sostanza, ha sintetizzato Sergio Polano, il design italiano nei suoi esiti più alti appare «segnato dal tentativo di un’originale sintesi tra eversione sperimentale e raziocinio progettante» (Achille Castiglioni, 2001, p. 9).
Rispetto a questa tradizione, a partire dagli anni Settanta e con una rapidissima accelerazione nell’ultimo decennio del secolo scorso – anche in relazione al processo di internazionalizzazione – è avvenuto un radicale mutamento del contesto in cui operano e vengono collocati gli oggetti di design, che ha riguardato i modi produttivi, le tecnologie, la riorganizzazione dei sistemi proprietari delle aziende, la percezione del mercato, il modo di intendere il prodotto da parte degli utilizzatori. Nel mondo delle imprese sono aumentati notevolmente il lavoro di gruppo, la parcellizzazione delle responsabilità, il numero dei referenti e di coloro che prendono le decisioni; perché in un sistema più complesso sono diventate molteplici le competenze in campo e le componenti e variabili da prendere in considerazione prima di decidere se e come progettare/produrre/comunicare/distribuire un prodotto. Inoltre, nel panorama della mondializzazione sono avvenuti altri cambiamenti: produzione/progetto/ricerca sono stati delocalizzati; le dimensioni economiche e produttive sono divenute decisive; profili e percorsi del consumatore e del mercato dei prodotti spesso non sono più immediatamente riconducibili a logiche di razionale intelligibilità. D’altro canto, il ricambio generazionale all’interno delle imprese è stato talvolta tormentato e problematico e l’introduzione nel settore di rigorose (o necessarie che fossero) logiche manageriali e finanziarie stenta ancora a generare adeguati risultati complessivi.
Dal punto di vista dei linguaggi espressivi, gli anni tra la fine del secolo scorso e l’inizio del 21° sono stati segnati dal cosiddetto Minimalismo e dalla risposta del Neodecorativismo, Neobarocco e così via. Il Minimalismo è collegato a un modo di operare attraverso interventi sulla superficie degli oggetti, ed è sensibile alle componenti comunicative ed emozionali, ma spesso meno attento al processo globale del design.
Un certo numero di esponenti e di oggetti sono stati indicati come minimals, prendendo a prestito un termine nato all’interno del mondo della ricerca artistica per indicare una tensione verso la riduzione dei segni, della forma, dei valori, delle risorse. Spiega Vanni Pasca: «il minimalismo costituisce l’estremizzazione di una cultura progettuale che privilegia la semplicità alla concitazione formale, la riduzione dei segni alla ridondanza, la laconicità alla rappresentazione confusa, il riserbo all’effusività discorsiva» (Design degli anni Novanta. Minimalismo e neorazionalismo, in F. Carmagnola, V. Pasca, Minimalismo: etica delle forme e nuova semplicità del design, 1996, p. 63). Pare quindi, in definitiva, un linguaggio riconducibile a un filone neorazionalista che si riafferma all’interno di una generale tendenza a una ‘nuova semplicità’.
Delocalizzazione produttiva, cultura del progetto e dell’impresa
Una corrispondenza virtuosa fra culture – produttiva e progettuale, tecnica e umanistica –, capace di integrare i numerosi fattori (economici, produttivi, sociali, culturali) che concorrono alla realizzazione di un prodotto, si attua quando l’ambiente della produzione stabilisce forti interazioni con il territorio in cui è insediato. In questa logica, il fenomeno ormai decennale della delocalizzazione della produzione – e, in numerosi casi, della progettazione e della ricerca – rispetto ai siti d’origine, sta portando progressivamente a uno spostamento del design verso nuovi luoghi d’insediamento. Com’è noto, ciò è accaduto per le produzioni del settore manifatturiero a bassa tecnologia, che sono state collocate in Paesi dove la manodopera ha un costo inferiore. Una scelta dell’impresa legata quindi generalmente alla rincorsa del low price, che ha ottenuto come risultati, fra gli altri, la rinuncia alle competenze e al ‘saper fare’ presenti sul territorio e un inevitabile ‘affanno’ del settore progettuale. Questa fase dell’industrializzazione ha infatti determinato lo spostamento delle produzioni e, in parte, delle progettazioni. È accaduto nell’elettronica di consumo – e infatti non ci sono più designer italiani in questo settore – ma anche nel settore dell’ufficio, dove le aziende italiane di sedie tecniche per il lavoro sono in difficoltà.
In altre parole, considerato che il design ha bisogno di un humus per svilupparsi, questo sarà generato dalla nuova situazione, anche geografica, in cui l’industria è collocata. A tale proposito, un esempio emblematico (all’interno di una più generale crisi della grande impresa nel nostro Paese, come hanno ben delineato gli studi di Luciano Gallino) è costituito appunto dalla progressiva sparizione in Italia di progetti destinati all’elettronica di consumo, come testimoniano le difficoltà di Olivetti, un’azienda storica e un tempo all’avanguardia. I grandi centri di sviluppo di questi prodotti – che configurano alcuni ambiti del design contemporaneo più interessanti, significativi e in grado di incidere sul mercato e sulla vita delle persone – sono oggi, per es., in Finlandia con Nokia, nei Paesi Bassi con Philips, in Corea del Sud con Samsung, in Giappone con Sony, negli Stati Uniti con Apple e Motorola, e il loro design è concepito all’interno di teams progettuali aziendali in collaborazione con studi esterni di dimensioni multinazionali (da Ideo a Continuum, a Fuseproject, per citare alcuni fra più noti).
Tema centrale per chi opera nel settore della produzione industriale è dunque quello del rapporto qualità-prezzo, secondo un meccanismo già evidente nei settori industriali ‘pesanti’, come la meccanica o l’automotive, e oggi divenuto per tutti obbligato. In questa situazione, per imprese e progettisti si vanno delineando in sostanza due filoni fondamentali, al di fuori dei quali appaiono notevolmente ridotte le possibilità di agire e alla fine di sopravvivere a livello industriale. Da una parte un design fondamentalmente ‘elitario’ – che talvolta viene semplicisticamene ricondotto al solo mercato del lusso – nel quale un ruolo importante è giocato dal brand, in ogni caso legato alla qualità complessiva del prodotto, a sua volta connessa ai servizi offerti, per es. di consulenza per il progetto ‘su misura’ o di assistenza postvendita. È la direzione intrapresa da aziende come la danese Bang & Olufsen o dalle griffe della moda. Allo stesso modo esistono professionisti che operano in analogo contesto e si rivolgono di fatto al mercato collezionistico, lavorando sul pezzo unico o sulla piccola serie (come del resto avveniva in passato con gli architetti-arredatori, come il francese Pierre Chareau, o gli architetti-designer italiani degli anni Cinquanta).
La seconda direzione possibile è rappresentata dalle imprese realmente industriali (in termini di dimensioni economiche, distributive, comunicative) e al contempo design driven; quelle cioè in grado di lavorare contemporaneamente a scala internazionale sul controllo dei prezzi e sulla qualità del prodotto, secondo un modello che solamente qualche decennio fa appariva in certi settori assai difficoltoso. Casi emblematici in questa direzione sono quelli di alcune grandi catene d’abbigliamento come la svedese H&M o la spagnola Zara, e, per il furniture, la svedese IKEA, che è – come ha sostenuto Renato De Fusco (2008) – «un’azienda organizzata quasi in modo da far propria la vecchia idea di design: la quantità, la qualità e soprattutto il giusto prezzo» e che, da fine anni Ottanta rispetto al panorama italiano, ha certamente esercitato una «positiva concorrenza» sulle «aziende produttrici di mobili che si reggono ancora sull’equazione qualità = alti costi di produzione e vendita» (p. 11).
Altre aziende dell’arredo, come in Italia B&B o Molteni, hanno operato importanti investimenti industriali, innescando un meccanismo che prevede l’offerta di prodotto affiancata da un’elevata attenzione alle politiche commerciali, in particolare la distribuzione, con l’apertura di negozi monomarca destinati a garantire la qualità del servizio. Il furniture design perciò ha la necessità oggi di acquisire sempre più una logica pienamente industriale (non più manifatturiera), di puntare su ricerca e formazione, di affrontare il rapporto qualità-prezzo e le problematiche dei nuovi modi della distribuzione, nonché di realizzare prodotti innovativi. In settori obbligatoriamente industriali, come quello dell’automobile, il caso della Germania è emblematico. Da tempo ha delocalizzato, ma resta altamente produttiva e innovativa, a dimostrazione che un Paese può rimanere leader se possiede un vero know-how in termini di ricerca e sviluppo. In Europa, considerata l’impossibilità di competere con i costi bassissimi della manodopera di alcuni Paesi del mondo, bisogna allora scommettere su formazione e ricerca.
Moda e design
Un altro aspetto da considerare, in particolare negli anni compresi tra la fine del secolo scorso e l’inizio del 21°, è costituito dal riconoscimento della moda e dal confronto che ciò ha comportato, in modo implicito ed esplicito, con il design. Un dialogo interessante e stimolante per produttori, designer, media e pubblico, ma che non deve annullare diversità di obiettivi, strategie, metodi. Una parte della cultura del progetto ha guardato infatti al modello del sistema moda (non senza contraddizioni, luoghi comuni e fraintendimenti) e ne ha travasato nel design le modalità d’impostazione riguardanti la fase progettuale/produttiva/distributiva, nonché i modi e gli strumenti di comunicazione, modificando in tale maniera non solo i propri prodotti ma anche i criteri di definizione dell’identità complessiva dell’azienda. Questo confronto, incisivo sulle scelte strategico-operative del sistema design, è in evidente relazione con le mutazioni avvenute nelle strutture industriali, proprietarie, finanziarie, commerciali e distributive, in particolare del settore dell’arredamento.
Per quanto riguarda i processi di progettazione e realizzazione, tutto ciò da un lato ha portato, per es., a cadenzare il timing di rinnovo del prodotto su ritmi stagionali, favorendo così un linguaggio progettuale relativamente omogeneizzante, con oggetti sempre più simili tra loro e destinati a breve durata; dall’altro, sebbene tali modalità non fossero estranee alla ricerca e alla pratica del design, ha messo in evidenza la possibilità di differenziazione del pezzo come risorsa economica e di marketing, che pare oggi una delle strade possibili per la costruzione di una precisa riconoscibilità sul mercato.
Tuttavia, è principalmente nelle modalità di promozione di prodotti e aziende che l’influenza del fashion design ha trovato terreno fertile. Ciò ha determinato almeno due conseguenze: l’emergere di un nuovo tipo di designer, connotato da un segno riconoscibile e spendibile ‘mediaticamente’, e l’imposizione del marchio dell’azienda e della sua cultura – fino alla proposta di un vero e proprio life style costruito con i suoi prodotti – come progetto di design, dissimulando così l’apporto del progettista e facendo diventare il brand la garanzia di ‘qualità’. Non infrequente è anche la scelta di optare per la caratterizzazione della doppia griffe: brand aziendale più ‘firma’ del designer. La volontà di puntare con decisione sulla valorizzazione del marchio, motivata anche dall’intenzione di differenziarsi dalla miriade di prodotti nati dalla cultura di fine secolo scorso, appare in alcuni casi indirizzata verso un altro modo di intendere la ricerca di prodotto, un modo storicamente alla base del design italiano che – soprattutto nei casi più esaltanti, in maniera abbastanza spontanea, seppur condizionata ideologicamente da una certa idea del significato della modernità – nasceva con l’aspirazione a essere definitivo, senza tempo, a divenire classico. Del resto, si può osservare come anche una parte del settore moda si sia orientata verso una complessità progettuale, una ricerca sui materiali e sulle funzioni dei suoi prodotti; com’è avvenuto, per es., nei tessuti utilizzati per attività svolte in condizioni ambientali estreme e poi reimpiegati anche in altri ambiti, o nelle calzature, che hanno rivoluzionato il mondo della scarpa tecnica e non solo.
Industria e designer lavorano dunque da tempo a un ‘nuovo artefatto’, che sia non più solo forma/funzione, ma anche dotato di altre ‘qualità’, e che si collochi all’interno di quella strategia complessiva di distribuzione, di esposizione nei punti vendita, di comunicazione di cui di frequente il progettista è autore e/o coprotagonista. Il design, quindi, si muove oggi all’interno di una condizione degli artefatti – come hanno approfondito numerosi contributi di filosofi, antropologi e sociologi – nella quale l’oggetto d’uso si è progressivamente ricoperto di segni, di simboli, di tratti fortemente iconici. Fulvio Carmagnola sostiene a tale proposito: «la forma vistosa dell’oggetto è l’effetto di superficie di una strategia di marketing avanzato, o la fuga dalla schiavitù dell’utilità» (Della mente e dei sensi. Oggetti dell’arte e oggetti del design nella cultura contemporanea, 1994, p. 149). Superato il classico binomio valore d’uso/valore di scambio della merce, si è infatti affermato, continua Carmagnola, un sistema basato sull’‘economia del simbolico’. E la rinnovata condizione degli oggetti ha relazione con un consumatore ‘evoluto’ che, in sintesi, acquista seguendo essenzialmente la logica dei desideri e non quella dei bisogni, è stimolato non tanto o solo da meccanismi legati alle necessità, ma da quelli che fanno riferimento alle emozioni, e al tempo stesso è sempre più consapevole della stretta relazione fra consumo e sostenibilità globale dei processi di generazione degli artefatti.
Il ruolo dell’industrial designer
Il contesto prima brevemente delineato porta anche alla ridefinizione del ruolo del designer, o meglio dell’industrial designer, il quale deve essere interno alla struttura delle imprese e tornare ad avere una visione d’insieme. Anche nell’arredo le questioni reali non riguardano tanto il mercato quanto la ‘visione’, cioè il fatto di prevedere i mutamenti che avverranno fra una decina di anni nell’abitare, effettuando un lavoro sulle tipologie più che sullo ‘stile’, centrato fondamentalmente sull’interpretazione dei comportamenti e dei bisogni emergenti. All’industrial design si chiede in sostanza un’intelligenza complessiva. Il designer è l’uomo che assume il rischio dell’idea; è colui che si avvicina al cuore dell’impresa e ne interpreta le potenzialità. Il design è un valore intrinseco al prodotto, significa progetto, e progettare implica confrontarsi con la realtà industriale senza sottostare alle aride regole del marketing, ma facendo propria la realtà per immaginare ciò che non c’è, per concepire quindi invenzioni o, semplicemente – però il compito non è facile – per migliorare quello che già esiste.
A questo proposito, è interessante il concetto di progettazione continua, consistente nell’operare su prodotto e mercato non tanto con l’assillo della novità a tutti i costi, a ritmo serrato, quanto sottoponendosi a un incessante impegno di messa a punto e perfezionamento di soluzioni, muovendo da un’intuizione iniziale verificata attraverso una costante revisione. In tal senso, il mercato resta un parametro di progetto ineludibile; i vincoli imposti dal marketing, dalla produzione, dai materiali, dalla logistica possono rappresentare una sfida nei casi in cui la creatività e l’inventiva sostengono un ruolo chiave nella definizione del prodotto. Tale operare è paragonabile alla modalità definita fine tuning, mediante cui il prodotto si pone in sintonia, in modo sempre più raffinato, con le necessità produttive e di progetto e con i riscontri del mercato. I designer devono essere dotati oggi di una sensibilità più che di mercato (come viene talvolta un po’ semplicisticamente intesa) attenta agli aspetti culturali e sociologici, in grado di leggere le esigenze contemporanee, elaborando un corretto equilibrio fra design, industria e pubblico.
Prodotti come l’iPod o l’iPhone sono le icone del nuovo secolo, e indicano come ci si stia muovendo verso forme semplici, verso la riduzione delle dimensioni e una tecnologia user-friendly; si tratta di oggetti veri, che nascono da necessità concrete, risolvono esigenze reali e forniscono nuove prestazioni. Indicativo ancora una volta il settore dell’automobile, che si sta (forse con ritardo) indirizzando verso le fonti energetiche sostenibili, sviluppando macchine ibride o elettriche. Si può dire in sostanza che va crescendo la consapevolezza verso l’uso delle cose e verso la cultura intorno alla cose: questo aiuterà i designer e le aziende a concentrarsi su fatti reali e non su falsi miti.
La formazione del designer
In questo quadro si collocano le problematiche relative al percorso di formazione per chi opera nel design, in particolare in Italia. Senza trascurare altre modalità di istruzione di matrice ingegneristica, collegate alle necessità di progetto di prodotti a tecnologia complessa, tradizionalmente i designer si sono formati presso le facoltà di Architettura, almeno fino agli anni Novanta, periodo in cui sono state istituite le facoltà di Design e si sono sviluppate alcune scuole private (per es., la Domus academy di Milano).
Allo sviluppo dei luoghi della formazione specifica, finora non sempre ha corrisposto l’elaborazione di percorsi capaci di definire profili idonei alla realtà del design: si oscilla fra la pratica preparazione tecnico-professionale e un difficile confronto con culture/ideologie in sostanza ‘altre’, che vanno dal marketing all’economia, fino alla comunicazione; e si coltiva poco la specificità e l’orgoglio di una cultura/pratica del progetto che, in sintonia con l’etimo latino, allude a un ‘gettare oltre’, andare oltre l’esistente verso l’innovazione. Nel frattempo numerosi designer internazionali, formatisi in istituti specifici, hanno iniziato a collaborare attivamente con le più importanti aziende italiane, a cominciare da Cappellini.
Rispetto a università che preparano progettisti anche in soli tre anni, la professione è obbligatoriamente in fase di trasformazione. Di frequente queste modalità di trasmissione/apprendimento, oltre a impoverire la formazione, rendono le nostre scuole e le persone che vi studiano scarsamente competitive in una prospettiva internazionale. Le facoltà di Architettura restano ancora carenti per quanto riguarda gli insegnamenti tecnico-scientifici e disciplinari destinati specificamente al design, anche perché considerati ancillari ai più tradizionali corsi di progettazione. Inoltre, in Italia in pratica non esistono adeguate scuole di interior design o di architettura d’interni – e questa resta una lacuna grave nel panorama internazionale – e di conseguenza non sempre l’arredo delle abitazioni, ma anche degli spazi collettivi, è opera di progettisti specializzati, mentre è frequente il ‘fai da te’, con esiti talvolta qualitativamente mediocri. E questo nonostante l’elevato numero di riviste di arredamento edite nel nostro Paese.
La figura leonardesca, enciclopedica, dell’architetto onnisciente non è però più proponibile. Questo è assai evidente in settori in cui l’elettronica è divenuta preponderante, portando all’abbandono delle tecnologie meccaniche – in passato si riusciva ancora a disegnare qualche dispositivo – e alla necessità di costituire centri di ricerca specializzati nei quali è indispensabile operare per poter ambire a essere protagonisti del design e dell’innovazione. Qualcosa di simile sta avvenendo in tutti i settori a tecnologia complessa, come, per es., nei mezzi di trasporto o nei grandi macchinari per la produzione.
Nuovi territori per il design
Con il 21° sec. – ma le questioni erano in campo da tempo – ai designer e alle imprese si vanno presentando con urgenza nuove direzioni di lavoro, collegate in generale a tematiche relative al ruolo etico dell’operare rispetto al mondo, e in particolare, fra l’altro, alle questioni di sostenibilità ambientale. Molti segnali sono già stati lanciati in questo senso, ed è nota la delicata condizione dell’intero pianeta. In tale ambito, il designer può fornire un contributo importante perché conosce l’uso delle risorse, le caratteristiche dei materiali, le logiche dei processi produttivi.
Senza volerci addentrare in argomentazioni sulla necessità di affrontare le questioni a livello di sistema complessivo, appare utile segnalare, a titolo di esempio, possibili interventi praticabili. Il primo riguarda una risorsa considerata tradizionale per il design, quella del legno, che può trovare impieghi maggiormente consapevoli. Per il mercato dell’Europa settentrionale sono stati già certificati con il marchio FSC (Forest Stewardship Council) diverse decine di prodotti realizzati in silvicoltura gestita in modo sostenibile – da semilavorati segati e piallati, a mobili e oggetti di falegnameria, a porte e finestre –; gli organismi non-profit annoverano fra i propri membri imprese commerciali come B&Q, Collins pine, Home depot, IKEA, o grandi sindacati come l’IFBWW (International Federation of Building and Wood Workers). Quello della sostenibilità rappresenta un costo aggiuntivo che l’industria è in grado di affrontare, soprattutto se può contare su consumatori consapevoli e avvertiti. Il secondo intervento considera invece un ambito interessante, fino a oggi poco percorso o dove prevalgono interventi di scarso valore legati a un’insufficiente cultura e a un carente approccio professionale: quello dell’arredo e dell’attrezzatura delle città e degli spazi aperti, ma anche dei luoghi pubblici. Sviluppare la cura e l’attenzione per gli ambiti collettivi è infatti significativo indice di un Paese democratico che funziona, capace di ragionare in termini di miglioramento della qualità globale della vita delle persone.
Bibliografia
V. Flusser, The shape of things. A philosophy of design, London 1999 (trad. it. Filosofia del design, Milano 2003).
Un’industria per il design. La ricerca, i designers, l’immagine B&B Italia, a cura di M. Mastropietro, R. Gorla, Milano 19993 (in partic.: V. Gregotti, Premessa, p. 22; R. Zorzi, Introduzione, p. 28).
G. Becattini, Dal distretto industriale allo sviluppo locale. Svolgimento e difesa di una idea, Torino 2000.
F. Carmagnola, Vezzi insulsi e frammenti di storia universale. Tendenze estetiche nell’economia del simbolico, Roma 2001.
G. Lojacono, Le imprese del sistema arredamento. Strategie di design, prodotto e distribuzione, Milano 2001.
Achille Castiglioni. Tutte le opere, 1938-2000, a cura di S. Polano, Milano 2001.
1951-2001 made in Italy?, a cura di L. Settembrini, Milano 2001.
G. Fabris, Il nuovo consumatore. Verso il postmoderno, Milano 2003.
L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Torino 2003.
A. Bassi, Antonio Citterio. Industrial design, Milano 2004.
P. Antonelli, Safe. Design takes on risk, New York 2005 (catalogo della mostra).
R. De Fusco, Il design che prima non c’era, Milano 2008.
V. Pasca, Il design oggi, «Op. cit.», 2008, 131, pp. 18-35.