INERZIA
. Secondo il senso comune l'inerzia della materia contiene in sé questa duplice veduta: che la materia non può essere mossa da uno stato iniziale di quiete senza l'azione d'una forza che agisca sopra di essa; e che un corpo in moto, su cui non agiscano forze, tende a fermarsi in uno stato di quiete. Ma questa concezione è stata superata fin dall'antichità, per opera dei naturalisti greci. Anassagora ritiene di spiegare l'eterna rivoluzione del cielo stellato, ammettendo che il moto circolare della materia si prosegua indefinitamente quando sia stato prodotto una volta da un impulso iniziale (quale è dato, nel suo sistema, dalla forza animatrice del Nous). Poco dopo Leucippo e Democrito fanno muovere nello spazio infinito, di moto naturale rettilineo ed eterno, infiniti atomi, dai cui urti deriva la formazione dei mondi: di questo moto, che è e fu sempre, non si domanda la causa. C'è qui una veduta del principio d'inerzia quale viene posto a base della dinamica moderna: la materia su cui non agiscono forze persevera indefinitamente nel suo stato di quiete o di moto, le forze essendo non già causa della velocità del corpo mosso, ma della variazione di questa velocità.
I testi da cui si convalida questa interpretazione sono, da una parte, chiare testimonianze di dossografi, come per es. Cicerone (De Fin., I, 6, 17), dall'altra parte la polemica di Aristotele contro il vuoto degli atomisti, in cui viene esplicitamente detto che il moto rettilineo nel vuoto andrebbe all'infinito (Phys. IV, 6-9). Ma la concezione democritea dell'inerzia non fu compresa da Aristotele, che elaborò per proprio conto una dottrina del moto, ispirata alla fisica del senso comune: c'è un moto naturale, per cui i corpi sono spinti da un appetito o forza attrattiva al proprio luogo, cioè in basso, o piuttosto al centro della Terra, per i gravi, e in alto per i leggieri; e d'altra parte ci sono dei moti violenti dovuti all'impulso di forze di proiezione, i quali tendono a estinguersi e sono mantenuti dall'azione del mezzo ambiente. Quest'ultima concezione aristotelica, che appare strettamente connessa alle esigenze della sua metafisica, non si vede che fosse mai accettata dai successori; e in sua vece interviene la cosiddetta teoria dell'impeto attribuita all'astronomo Ipparco (sec. II a. C.), più rispondente al senso comune: il proiciente comunica al mobile una certa energia o potenza motrice, che va man mano esaurendosi. Tale era anche l'opinione d'un tardo commentatore d'Aristotele, Giovanni Filopono, del sec. VI d. C.
La discussione di questi problemi doveva riaccendersi in Europa, dopo che le opere d'Aristotele furono ricuperate per la cultura occidentale, attraverso gli Arabi. Insieme con le idee d'Aristotele, e spesso in contrasto con esse, pur entro la cerchia dei filosofi scolastici, tornano in qualche modo anche le idee di Democrito, come già si vede nelle tesi condannate di Nicola d'Autrecour (1348); e, a quanto pare in connessione con l'atomismo di questo, si riaffaccia anche una certa veduta dell'inerzia come stato naturale di movimento (moto naturale degli atomi). Gli scolastici dell'università di Parigi nel sec. XIV, G. Buridan (v.) e Alberto di Sassonia (v. alberto di halberstadt), confutano la spiegazione dei moti violenti d'Aristotele, opponendovi diverse esperienze, e riprendono la teoria dell'impeto: il moto che segue a un impulso del proiciente è mantenuto da una virtù motiva, comunicata da questo al corpo mobile, la quale a grado a grado si esaurisce e corrompe. Il passaggio da tale veduta all'inerzia dipende dal considerare il modo e le cause del corrompimento: la resistenza dell'aria, e anche la gravità, secondo quegli scolastici, consumano la virtù motiva; ma, indipendentemente da queste, non deve essa pure esaurirsi col moto stesso? Pare che in un caso almeno si sia affacciata l'ipotesi d'un proseguimento teoricamente illimitato e ciò - come nell'antichità per Anassagora - quando si tratta del moto circolare dei corpi celesti, per cui - dice Buridano - non c'è resistentia.... corruptiva vel repressiva illius impetus.... (Commento al L. VIII della Physica d'Aristotele, p. CXXI). Così dunque il moto degli astri, una volta impresso dal Creatore, deve continuare all'infinito, senza che soccorra altra intelligenza motrice. Alberto ripete la stessa veduta nel suo commento alla duodecima questione della fisica aristotelica.
Circa un secolo dopo, Nicola di Cusa, che appare ispirato all'atomismo democriteo, enuncia l'idea che una sfera perfetta, lanciata sopra un piano orizzontale perfetto, dovrebbe continuare all'infinito il suo moto di ruzzolamento (Dial. de ludo Globi, I, p. 123, in Opera, I, Basilea 1625).
Ma i presentimenti della nostra legge d'inerzia, sia suggeriti da alcune particolari esperienze (come quella del moto circolare d'una ruota), sia ispirati dalle dottrine antiche, restano sterili, finché si pretende accordarli coi principî contraddittorî della dinamica aristotelica, dove la forza è sempre concepita come causa di velocità. E d'altronde lo stesso postulato del moto rettilineo illimitato d'un punto materiale, su cui non agiscono forze, avrebbe soltanto il valore astratto d'un caso limite, ma non un vero significato concreto, fino a che non si colleghi con la veduta che il moto inerziale non si consuma per l'azione di altre forze, anzi si compone con esse (principio di relatività e di composizione dei moti). Per questo aspetto non si trova un sicuro progresso neppure nelle carte - recentemente studiate con somma cura da R. Marcolongo - di Leonardo da Vinci. Il quale, se pure accenni in un luogo al moto illimitato d'una sfera sul piano (Cod. Atl. ms. A., ff. 22 r., 21 v.), verosimilmente sotto l'ispirazione del Cusano, riprende il senso comune della dottrina dell'impeto: "Ogni moto attende al suo mantenimento, ovvero ogni corpo mosso sempre si move, in mentre che l'impressione della potentia del suo motore in lui si riserva" (Codice sul volo degli uccelli, f. 13 r.). Né qui, né altrove (Cod. Atl., f. 109 v.a.), si è autorizzati a pensare che la potenza del motore si consumi solo per cause esterne. E, in ogni modo, fra tali cause, Leonardo esplicitamente pone l'azione di altre forze: "Quello sasso o altra cosa ponderosa che fia gettato con furia muterà la linea del suo corso a mezzo il cammino"; "è segno che quella aveva finito il moto violento e n'entrava nel moto naturale, cioè che essendo ponderosa cadeva libera inverso il cientro" (Codice Arundel, ms. A., f. 4 r.).
Per arrivare a una lucida comprensione del principio d'inerzia, penetrando il vero senso che esso ha per la dinamica, restava dunque da superare una difficoltà fondamentale, cioè riconoscere l'inerzia in concreto, nel moto dei corpi soggetti a forze.
Il primo passo in questo senso sembra essere compiuto nella Nuova Scienza del Tartaglia (Venezia 1537), dove è corretto il vieto errore che la traiettoria dei proiettili si scinda in parti distinte, ove dominano successivamente il moto impresso e il moto naturale. L'uso delle armi da fuoco ha fornito occasione e ragione d'esperimentare largamente su tali fenomeni. Ma un passo ulteriore e decisivo si connette alla riforma astronomica, portata dal sistema copernicano. Infatti l'intelligenza di questo sistema (e quindi la confutazione di tutti i paradossi che esso solleva) si basa sul principio di relatività e sulla conservazione del moto per inerzia. Copernico e Keplero spiegavano la rotazione dei pianeti intorno al sole ammettendo una appetentia o forza gravitazionale (v. gravitazione), che deve comporsi con una facoltà o disposizione naturale al moto rettilineo: in mancanza d'un giusto concetto dell'inerzia (poiché Keplero suppone una tendenza della materia alla quiete) si dà ai corpi celesti un'anima motrice (Keplero, Opera Omnia, III, 151), risuscitando l'idea dell'antico pitagorico-democriteo Ecfanto di Siracusa. Finalmente la vera intelligenza del sistema copernicano, e con essa del principio d'inerzia, è raggiunta, con lungo sforzo, da Galileo Galilei, che accoglie e fa fruttificare gl'insegnamenti dei suoi maestri Tartaglia e Benedetti. Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, e specie nella seconda giornata, egli illustra in tutta la sua chiarezza la composizione della gravità e della forza impressa, fino all'affermazione che i proiettili, fatta astrazione dal peso, continuerebbero indefinitamente il loro moto rettilineo (Opere, VII, pp. 175, 201). Spiegazioni matematiche più precise si trovano nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due Nuove Scienze. Qui lo sforzo viene chiaramente definito come causa d'accelerazione (VIII, p. 201), rilevando che molta forza risulta da debolissimi momenti (VIII, p. 67) e così vien posta la seconda legge newtoniana del moto, con la sola restrizione che la forza sia la gravità; inoltre il principio d'inerzia (prima legge) è spiegato nel suo significato di composizione, che già abbiamo rilevato; e quindi il paradosso del Cusano, il moto indefinito d'un corpo sopra un piano orizzontale senz'attrito, si può giustificare, non più appellandosi alla visione del moto circolare della sfera, ma come caso limite della discesa dei gravi sopra un piano inclinato, cioè di quel moto di discesa, di cui già Leonardo aveva iniziato lo studio, e che ha condotto Galileo al chiaro riconoscimento e alla dimostrazione delle leggi di gravità (VIII, pp. 268 e 336).
La scoperta dei principî della dinamica (prima e seconda legge di Newton) appartiene dunque a Galileo, se pure egli non li abbia enunciati in forma assolutamente generale. L'enunciato generale del principio d'inerzia si ritrova in Descartes come seconda legge della natura: Quod semel in vacuo incoepit moveri, semper et aequali velocitate movetur (in Principia philosophiae, II, p. 39).
Ed è interessante ricordare che questo enunciato, da Descartes comunicato a P. Mersenne nel 1629, sembra essergli stato suggerito da una conversazione con un ignoto galileiano da lui avuta nel 1620, di cui resta traccia in un libretto d'appunti: Cogitationes privatae (in Øuvres, ed. a cura di Adam e Tannery, X, p. 219). D'altra parte l'enunciato generale del principio d'inerzia è stato pure ritrovato da R. Giacomelli in uno scritto del palermitano Gius. Ballo (1576-1640; cfr. Atti Accad. di Napoli, 1912).
Ricorderemo infine che il principio d'inerzia figura, fra gli assiomi o leggi del moto, nei Philosophiae naturalis Principia mathematica di I. Newton (1689), come Lex prima: "Ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto uniforme e rettilineo se qualche forza ad esso applicata non lo costringe a mutarlo". E assume il suo significato proprio, in connessione con la legge seconda, per cui la forza (quale si può supporre definita da esperienze statiche) si fa proporzionale all'accelerazione, cioè al mutamento della velocità. Su questi principî è fondata la dinamica di Galileo-Newton, che ha una grandiosa applicazione nella descrizione dei moti planetarî. Tuttavia il senso preciso di quei principî dipende dalla definizione del moto. Essi sono approssimativamente veri per il moto rispetto alla Terra; ma cadono in difetto valutabile, e anzi questo difetto permette di riconoscere il moto di rivoluzione della Terra rispetto al suo asse. Una verifica sensibilmente esatta dei principî medesimi si ha invece riferendo il moto a un sistema di assi, col centro nel centro della Terra o nel baricentro del sistema solare e collegati alle cosiddette stelle fisse. Ma l'esigenza d'una verifica assolutamente esatta porta alla considerazione del moto assoluto. Galileo e Newton non dubitavano che questa supposizione risponda a un'effettiva realtà, ma tale presunzione è caduta di fronte alla critica moderna (v. moto). Così il principio d'inerzia, ove si voglia superare la visione dei fatti che esso esprime in via approssimativa, diventa a sua volta un criterio di definizione del moto; in tale definizione resta sempre arbitraria una traslazione uniforme, conformemente al principio di relatività di Galileo.
Bibl.: Per la storia del principio d'inerzia nell'antichità: F. Enriques e G. de Santillana, Storia del pensiero scientifico, I, Milano 1932, capitoli 5°, 6°, 11°, 23°, pp. 133-36, 148-49, 237-40, 480-82. - Per l'epoca medievale e moderna: E. Wohlwill, in Zeitschrift für Völkerpsychologie, XIV, XV, 1883-84, e Bibl. math., 1888; P. M. Duhem, Léonard de Vinci, ceux qu'il a lus et ceux qui l'ont lu, voll. 3, Parigi 1906-14; id., Études sur Léonard de Vinci. Les précurseurs parisiens de Galilée, Parigi 1913; id., Le système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic, Parigi 1913: opere ove si spiega un'immensa erudizione, ma dove il giusto senso della continuità storica è, almeno in parte, viziato dallo scopo tendenzioso di denigrare Galileo; G. Vailati, Le speculazioni di G. Benedetti sul moto dei gravi, in Scritti, p. 171; R. Marcolongo, Lo sviluppo della meccanica sino ai discepoli di Galileo, in Memorie Acc. Lincei, 1919; id., La meccanica di Leonardo da Vinci, in Memorie Acc. Napoli, 1932; F. Enriques, Problemi della scienza, Bologna 1906, cap. 6°; I. Newton, Principii di filosofia naturale, con note critiche sullo sviluppo dei concetti della meccanica per cura di F. Enriques e U. Forti, Roma 1925; U. Forti, Introd. stor. alla lettura d. Dialogo sui massimi sistemi di G. Galilei, Bologna 1931.
Inerzia dell'energia.
L'idea che si debba attribuire una certa massa all'energia elettromagnetica risale al fisico inglese J. J. Thomson, ed è una conseguenza delle teorie elettrodinamiche classiche. Già nel 1872 C. Maxwell aveva calcolato la pressione che esercita un'onda elettromagnetica, e quindi anche la luce, su una parete riflettente; e per via termodinamica l'italiano A. Bartoli era giunto alla stessa conclusione. In tempi più recenti M. Abraham, e poco dopo H. A. Lorentz, elaborando la teoria classica dell'elettrone, erano arrivati a un'espressione per la sua massa, calcolando l'energia cinetica dell'elettrone dal campo che esso genera nello spazio circostante.
Fu A. Einstein però il primo che, prescindendo da qualsiasi calcolo speciale, formulò nel 1905 in generale il principio dell'inerzia dell'energia, secondo cui la massa d'un corpo dipende dalla quantità d'energia, sotto qualunque forma, che il corpo stesso possiede. Einstein dedusse questo risultato come una conseguenza del principio di relatività, che aveva esposto qualche mese prima nel suo lavoro Sopra l'elettrodinamica dei corpi in movimento. Il suo ragionamento può esporsi brevemente così: nella teoria della relatività l'energia d'un corpo, che si muove con la velocità v rispetto all'osservatore, è:
In questa formula c è la velocità della luce (= 3.1010 cm. sec.-1) e m è la massa del corpo in riposo. Immaginiamo adesso che due corpi di massa m eguale si muovano l'uno verso l'altro con velocità uguale e opposta, e che, perdendo tutta la loro velocità a causa dell'urto, vengano a formare un unico corpo di massa m???, immobile perciò rispetto all'osservatore. Se supponiamo che l'urto sia stato elastico, che cioè prima e dopo l'urto si sia conservata costante l'energia del sistema, abbiamo la relazione:
e, calcolando il valore di m???, si deduce che, nel processo descritto, la massa in riposo dei due corpi è aumentata della quantità:
Questo risultato s'interpreta con Einstein, dicendo che l'aumento di massa in riposo è proporzionale all'energia cinetica posseduta dai due corpi prima dell'urto, e che la costante di proporzionalità è 1/c2. Vi è quindi una relazione reciproca fra massa ed energia; e siccome in tutte le trasformazioni tanto la massa quanto l'energia si conservano, dobbiamo concludere che sempre a ogni quantità d'energia E compete una massa E/c2 e viceversa a una massa m corrisponde un contenuto d'energia mc2, pari a m. 9.1020 ergs, se la massa è misurata in grammi.
Con questa concezione anche il problema della materia diventa un problema dinamico. Gli elettroni e i nuclei non sono più da concepirsi come gli ultimi elementi della materia, su cui dall'esterno agiscono le forze naturali; essi stessi invece sono un prodotto di queste forze o, come si suole dire, del campo. Il principio dell'inerzia dell'energia è diventato essenziale per una comprensione più intima della natura e si è mostrato indispensabile nello studio della fisica nucleare. Difatti dallo studio delle trasformazioni radioattive, dalle misure sugl'isotopi di F. Aston e dalle esperienze di E. Rutherford e altri sulla disintegrazione artificiale degli elementi è stato provato che ogni nucleo atomico è formato da un numero intero di particelle più semplici; e precisamente si è mostrato che nuclei d'idrogeno o protoni, nuclei d'elio o particelle ed elettroni sono i costituenti del nucleo di qualsiasi elemento.
Il fatto che le masse atomiche osservate non siano invece un multiplo intero della massa del protone - la massa degli elettroni è così piccola da essere trascurata - si spiega notando che il difetto o l'eccesso di massa misurato è dovuto alla perdita o all'assorbimento di energia da parte del nucleo nel processo della sua formazione. La particella α, per esempio, costituita da 4 protoni e due elettroni, ha un Massendefekt (difetto di massa) di 0,021, se esprimiamo le masse atomiche prendendo pari a 16 quella dell'ossigeno. Secondo il principio di Einstein l'energia corrispondente, pari a 4,3.10-5 ergs, sarebbe stata irradiata nel processo di formazione della particella stessa.
Dallo studio dei prodotti delle disintegrazioni artificiali si ha il mezzo, attraverso la valutazione accurata delle energie liberate e la misura della massa dei nuovi corpi che si ottengono, d'una verifica quantitativa della legge di Einstein. Una verifica esatta non è stata possibile finora perché non si è raggiunta, nella determinazione delle masse, una precisione sufficiente.
Bibl.: Per i vecchi lavori classici: M. Abraham, Theorie der Elektrizität, 2ª ed., Lipsia 1908; H. A. Lorentz, The theory of electrons, Lipsia 1909. - I lavori di Einstein usciti negli Annalen der Physik, XVII, 1905, sono: Zur Elektrodynamik bewegter Körper, Ist. die Trägheit eines Körpers von seinem Energie-Inhalt abhängig?. - Per la parte sperimentale: Rutherford, Chadwick, Ellis, Radiations from Radioactive Substances, Cambridge 1931.