Infanticidio
Il termine infanticidio (dal latino infans, "infante", e caedo, "uccido") indica l'uccisione volontaria di un bambino nella prima infanzia o, più comunemente, e in particolare nel linguaggio giuridico, l'uccisione del neonato al momento della nascita o subito dopo. Inquadrare il fenomeno dal punto di vista del diritto è sempre stato un compito complesso, così come complesso risulta il suo esame in una prospettiva antropologica interculturale. Attualmente prevale la tendenza a considerare l'infanticidio in un'accezione ampia che, partendo dall'uccisione deliberata e passando attraverso comportamenti intermedi quali l'abbandono, arriva a includere tutte le diverse modalità con cui si possono ridurre le possibilità di sopravvivenza della prole.
La terminologia giuridica concorda oggi con il linguaggio comune nel designare come infanticidio la soppressione di un bambino all'atto stesso della nascita, o poco dopo, per lo più a opera della madre. Questa definizione costituisce peraltro l'esito attuale di un processo storico peculiare dell'Occidente cristiano, che nel corso di due millenni ha conosciuto numerosi e radicali mutamenti delle concezioni dominanti circa il potere discrezionale spettante ai genitori sui figli. Gli storici del diritto sono concordi nel ritenere che nel mondo grecoromano prevalesse l'atteggiamento di considerare i figli come proprietà dei genitori, i quali potevano quindi disporre anche della loro vita. Non è senza importanza che il termine infanticidium non si ritrovi nel latino classico e sia attestato solo a partire dal 2°-3° secolo d.C. in Tertulliano e in altri autori cristiani. Con l'avvento del cristianesimo, infatti, il valore attribuito alla vita umana cambia e gli stessi rapporti familiari si modificano in base al principio secondo il quale, appartenendo i figli a Dio, mancare ai propri doveri verso di essi significa mancare verso Dio stesso. Dopo la fine dell'Impero Romano, da una situazione di implicita o esplicita legalità, l'infanticidio diventa una colpa grave e punita severamente (Selmini 1987). A partire da Costantino e dai primi imperatori cristiani, esso viene a configurarsi giuridicamente come un omicidio aggravato e per il Medioevo e l'Età moderna la pena capitale costituisce la regola in tutta l'Europa. Nel corso dell'Ottocento, tuttavia, per influenza della cultura illuminista e in presenza di una serie di trasformazioni all'interno della sfera familiare e sessuale, connessa ai primi cospicui fenomeni di industrializzazione e urbanizzazione (per es. il forte aumento delle nascite illegittime), si manifestano chiari segni di mutamento. Emerge anzitutto la tendenza a delineare l'infanticidio come delitto distinto dall'omicidio, legato a situazioni sociali ben precise e proprio di alcuni ceti e di specifiche figure femminili (per es., contadine, domestiche). Tanto nella dottrina giuridica quanto nella legislazione si assiste inoltre al passaggio da una considerazione di questa pratica come crimine gravissimo e severamente punito a una sua 'mitigazione' rispetto alle altre forme di omicidio. Tuttavia, la mitigazione della pena riguarda unicamente l'infanticidio commesso sulla prole illegittima; alcune legislazioni europee ne limitano addirittura l'ipotesi a questo solo caso, distinguendo così nettamente tra la donna sposata che agisce per motivi egoistici e la madre nubile che agisce, invece, per salvare l'onore proprio e della famiglia. Già nel corso dell'Ottocento, e ancor più nel Novecento, alla 'causa d'onore' si aggiungono gradualmente altre considerazioni, e in particolare l'apprezzamento delle turbe psichiche conseguenti al parto e al puerperio. Nella seconda metà del Novecento queste considerazioni sono divenute preponderanti: in Italia, la rilevanza penale della causa d'onore è stata abrogata nel 1981, ma l'infanticidio trova un'attenuante quando viene commesso dalla madre "in condizioni di abbandono materiale e sociale". Benché la dottrina abbia tentato di stabilirne con precisione le caratteristiche, l'infanticidio rimane per i giuristi un reato complesso, da decifrare attraverso una lettura su più livelli (Selmini 1987); non meno complesso è il compito dell'antropologo che voglia effettuarne una disamina in una prospettiva interculturale. È evidente al giurista, e ancor più all'antropologo, che i confini tra infanticidio, feticidio (l'uccisione del feto durante il parto) e aborto sono sottili e variabili storicamente e culturalmente. Inoltre, non è sempre agevole distinguere tra l'infanticidio e l'uccisione di bambini piccoli ma non più considerati neonati (pedicidio). Nell'attuale legislazione italiana, l'infanticidio riceve particolare attenzione rispetto all'omicidio quando l'uccisione del bambino avviene 'immediatamente dopo il parto', giacché si ritiene che sia in questo breve periodo di ore o di giorni che possono manifestarsi i disturbi depressivi in seguito ai quali il sentimento materno può rovesciarsi in un rapporto di estraneità distruttiva. È però significativo ricordare che in alcuni codici italiani preunitari l'infanticidio veniva distinto dall'omicidio quando commesso 'in persona di un fanciullo' nato di recente e non ancora battezzato o non ancora iscritto nei registri dello stato civile, o quando la nascita era ancora 'ignota alla società umana'. Questa definizione della pratica come soppressione di bambini non ancora entrati nella società religiosa o civile ricorda da vicino quanto sottolineato da molti antropologi, vale a dire che la distinzione tra infanticidio e altre forme di omicidio dipende non tanto dall'età quanto dalla condizione del bambino e che un infanticidio è reso più accettabile dalla credenza culturalmente radicata secondo la quale il bambino non è del tutto umano fino a quando non è entrato a pieno titolo nel gruppo sociale. L'ingresso si verifica nel momento in cui al piccolo è dato un nome, oppure quando appare sufficientemente robusto da sopravvivere, o ancora quando sviluppa caratteristiche 'umane', quali la capacità di camminare stando eretto o di parlare (Williamson 1978). La documentazione etnografica indica che il periodo che separa la nascita dall'accettazione nel gruppo sociale può variare, nelle varie culture, da pochi giorni ad alcuni anni. A rendere ancora più complessa la fenomenologia dei comportamenti infanticidi concorre il fatto che, al pari di altri 'reati a forma aperta', l'infanticidio può essere commesso anche mediante omissione (per es., omettendo di alimentare il neonato o di prestargli le cure necessarie). Inoltre, esso può avvenire per abbandono del neonato o per esposizione dello stesso a condizioni tali da provocarne la morte. È stata per questo suggerita l'opportunità di formulare definizioni più ampie che - partendo dall'uccisione deliberata (infanticidio attivo o diretto) e passando attraverso comportamenti intermedi quali l'abbandono - giungano ad abbracciare l'intera gamma delle azioni od omissioni che riducono la probabilità di sopravvivenza della prole (infanticidio passivo o indiretto). Va infine osservato che il comportamento - individuale e patologico - riconosciuto dalle attuali legislazioni come infanticida rappresenta uno dei due estremi di un continuum. L'infanticidio effettuato per causa d'onore fornisce un esempio d'azione che, oltre alla madre, tende a coinvolgere un'intera famiglia e trova un sostegno culturale riconosciuto dalla legge. Sono poi saldamente attestate, nella documentazione storica ed etnografica, forme d'infanticidio che trascendono non solo la sfera individuale ma anche quella familiare. L'esempio classico è quello di Sparta, dove neppure i genitori avevano il diritto di decidere sulla sopravvivenza dei figli, ma erano obbligati a sottoporli al giudizio di un consiglio di anziani: se i bambini erano giudicati deboli o malati, essi venivano abbandonati a morire in una grotta presso il monte Taigeto. Pur lontane dalla nozione d'infanticidio che attualmente prevale nella disciplina legislativa occidentale, non si possono inoltre dimenticare altre forme di uccisione di bambini del tutto sottratte alla sfera decisionale dei genitori e della famiglia, quali le 'stragi degli innocenti' di cui si narra nella Bibbia: quella ordinata dal Faraone, che impone alle levatrici di sopprimere tutti i figli maschi degli ebrei (Esodo 1, 15-16), e quella ordinata da Erode, che comanda l'uccisione di tutti i bambini di Betlemme dai 2 anni in giù per impedire la sopravvivenza del Messia (Matteo 2, 16). 2. Interpretazioni antropologiche Già il capitano J. Cook, visitando nel 1770 le coste australiane, si era domandato con quali mezzi la primitiva popolazione di quel paese riuscisse a mantenere livelli demografici così bassi da permettere la sussistenza, suggerendo che uno di questi mezzi era probabilmente il ricorso all'infanticidio. La questione sollevata da Cook fu ripresa, tre decenni più tardi, da T.R. Malthus nella seconda edizione del suo An essay on the principle of population as it affects the future improvement of society (1803). Pur non assegnando all'infanticidio una posizione preminente tra i mezzi di controllo della popolazione, Malthus osservava che l'uccisione di neonati appariva largamente praticata in India e in Cina, e diffusa anche tra le popolazioni 'selvagge', intorno alle quali aveva iniziato ad accumularsi, nella seconda metà del Settecento, un primo consistente corpo di osservazioni etnografiche. L'origine di tale pratica era da ricercarsi, secondo Malthus, nell'estrema difficoltà che si incontra ad allevare molti bambini quando si conduca una vita nomade, esposta a frequenti carestie e guerre. Nel corso di tutto l'Ottocento e dei primi decenni del Novecento, la nascente scienza antropologica dimostrò un interesse elevato e costante nei confronti dell'infanticidio. L'intensificazione dei contatti con l'Estremo Oriente aveva rivelato che, quanto meno fino a tempi recenti, esso era stato comunemente attuato non soltanto in Cina e in India, ma anche in Giappone e che in tutte queste grandi civiltà asiatiche erano state soprattutto le bambine a essere soppresse poco dopo la nascita. I sempre più numerosi resoconti di esploratori, missionari e amministratori coloniali mostravano inoltre che la pratica - condannata dal cristianesimo e dall'islamismo - si ritrovava invece in forme quasi istituzionalizzate presso molti di quelli che si era allora soliti chiamare 'popoli di natura' o 'primitivi'. La letteratura etnografica del tempo indicava che tra i primitivi, non diversamente dall'Occidente, i bambini la cui nascita non era socialmente riconosciuta come legittima avevano probabilità assai maggiori di venire soppressi. Era però più comunemente accettata l'idea che l'infanticidio potesse essere commesso anche su bambini di filiazione legittima e che quasi ovunque l'infanticidio femminile prevalesse su quello maschile. Pressoché universale era la soppressione dei neonati deformi o malati e frequente quella di bambini nati da parti multipli, un'eliminazione probabilmente riconducibile a un riconoscimento dell'impossibilità per la madre di due gemelli di allattare e allevare più di un figlio contemporaneamente, senza mettere a repentaglio la vita di entrambi. Se solo uno dei gemelli veniva tenuto in vita, era di solito il maschio, oppure il primogenito quando i gemelli erano dello stesso sesso. Per motivi analoghi poteva venire ucciso il bambino che nasceva quando il fratello o la sorella maggiore erano ancora piccoli e bisognosi di molte cure, e presso alcune società primitive era costume sopprimere il neonato la cui madre fosse morta di parto. In generale, l'infanticidio non lasciava trasparire sentimenti violenti o crudeli, ma era accettato come necessario alla sopravvivenza del gruppo. L'uccisione avveniva prevalentemente per soffocamento o per annegamento, evitando che ci fosse spargimento di sangue. Pur dimostrando l'esistenza di pratiche infanticide in un gran numero di società umane, la letteratura etnografica consentiva peraltro valutazioni e interpretazioni assai diverse. A parere di alcuni eminenti sociologi e antropologi (H. Spencer, E. Westermarck), esse avrebbero avuto una diffusione pressoché universale, ma un'incidenza generalmente ridotta. Da un punto di vista evolutivo, appariva poi dubbio vedere nell'infanticidio un fenomeno caratteristico delle popolazioni più primitive e, per estensione, dell'uomo preistorico: lo stesso Ch. Darwin (seguito da Westermarck) riteneva che nel periodo più antico della sua evoluzione l'uomo fosse stato guidato da un istinto ancora prossimo a quello animale, che lo portava ad amare i suoi piccoli e gli impediva di eliminarli. L'opinione dominante tra gli studiosi di fine Ottocento e di inizio Novecento era però che nelle società primitive il ricorso all'infanticidio fosse molto frequente, sia per ragioni religiose e politiche, sia soprattutto per motivi di controllo eugenetico e demografico. In una società primitiva, tale pratica sembrava essere uno dei pochi mezzi capaci di limitare efficacemente la popolazione: rispetto all'aborto essa garantiva un esito più sicuro, minori rischi per la madre e la possibilità di una selezione postnatale in base a criteri di vitalità del bambino e di preferenza per maschi o femmine. La più completa e organica elaborazione teorica di questa posizione si deve a A.M. Carr-Saunders, un biologo inglese rivoltosi allo studio delle problematiche di confine tra antropologia e demografia. Nel suo volume The population problem: a study in human evolution (1922), tuttora molto citato, Carr-Saunders sostenne che già nel Pleistocene l'uomo preistorico era stato in grado di mantenere un favorevole equilibrio tra popolazione e risorse, e che ciò si doveva in gran parte alla pratica generalizzata dell'infanticidio. La pubblicazione del libro di Carr-Saunders non impedì, tuttavia, un rapido declino dell'interesse di antropologi e demografi in merito al tema in esame. Impegnata a fornire prove di una sostanziale comunanza morale e razionale tra primitivi e civilizzati, la nuova antropologia, di cui proprio all'inizio degli anni Venti del 20° secolo si era fatto promotore B. Malinowski, preferì lasciare da parte costumi che, come l'infanticidio, potessero risultare ripugnanti alla sensibilità occidentale. Tanto in Gran Bretagna quanto negli Stati Uniti, inoltre, le più innovative scuole antropologiche manifestarono per lungo tempo una profonda avversione per ogni tematica di carattere evoluzionistico. Tra gli studiosi di problemi di popolazione, d'altro canto, si fece strada la convinzione che la demografia dell'uomo preistorico e primitivo fosse caratterizzata da livelli altissimi di natalità, controbilanciati da bassi livelli di sopravvivenza e da ricorrenti crisi acute di mortalità, che mantenevano la popolazione sostanzialmente stazionaria senza richiedere l'intervento di alcun mezzo di regolazione. A partire dalla metà degli anni Sessanta si è però registrata una forte ripresa dell'interesse antropologico per l'infanticidio, grazie a nuove prospettive teoriche e metodologiche (analisi ecosistemica, neofunzionalismo, sociobiologia) e ad alcune scoperte di grande rilevanza. La prima (frutto di sempre più approfondite ricerche sulle economie di caccia e raccolta) è che le popolazioni dell'Età della Pietra vivevano una vita più sana e più lunga di molti dei loro posteri. Studi di paleoantropologia, paleoepidemiologia e paleodemografia hanno rivelato, sorprendentemente, che tra i cacciatori-raccoglitori del Pleistocene la mortalità era minore che non tra le più tarde comunità sedentarie e agricole, che vivevano in condizioni favorevoli alla diffusione di malattie epidemiche e soffrivano di malnutrizione per una dieta a base di cereali e povera di proteine. Dal momento che nelle popolazioni di cacciatori-raccoglitori la mortalità (anche infantile) risulta essere relativamente moderata, la questione dei mezzi di controllo della crescita demografica si ripropone con rinnovata forza. Secondo l'antropologo americano M. Harris (1977), tale fatto rappresenta il problema fondamentale per chi studia l'evoluzione delle culture. A parere di numerosi ricercatori, quali J. Birdsell, F. Hassan e lo stesso Harris, nel Pleistocene la risposta a questo interrogativo sarebbe stata rappresentata essenzialmente da una elevata mortalità 'innaturale', ottenuta con l'infanticidio (soprattutto femminile), la cui incidenza è stata variamente stimata tra il 15 e il 50% delle nascite. Questa teoria è stata però messa in dubbio dai risultati di accurate indagini condotte presso attuali popolazioni di cacciatori-raccoglitori. Tali ricerche hanno mostrato che anche in gruppi dove la pratica è normativamente accettata, la sua incidenza può essere molto ridotta (poco più dell'1% delle nascite tra i boscimani !kung del Sudafrica, il gruppo meglio studiato e in precedenza spesso portato come esempio di popolazione infanticida). Fatto non meno significativo, le stesse ricerche hanno accertato che in queste popolazioni la fecondità delle donne tende a essere fortemente ridotta da estesi periodi di amenorrea, dovuti al prolungato allattamento al seno, e da un'elevata frequenza di aborti spontanei, provocati dalle durezze della vita nomade. La questione deve ritenersi aperta, anche in ragione della difficoltà di applicare a popolazioni preistoriche le indicazioni fornite da studi di gruppi di cacciatori-raccoglitori odierni. Non sono pochi, tuttavia, gli studiosi che ritengono assai probabile che il regime demografico dei cacciatori-raccoglitori preistorici fosse caratterizzato indubbiamente da una modesta mortalità, ma anche da livelli contenuti di fecondità, e che di conseguenza l'importanza dell'infanticidio come mezzo di controllo delle nascite debba essere ridimensionata. Altre scoperte rivoluzionarie sono venute dagli studi etologici, che sembrano indicare in molte specie di Pesci, Insetti, Uccelli e Mammiferi una diffusione di comportamenti infanticidi ben superiore a quanto precedentemente supposto. Anche in questo settore è tuttora vivace il dibattito riguardo all'effettiva frequenza di tali atti. È inoltre palese che le forme di infanticidio prevalenti nelle popolazioni umane differiscono significativamente da quelle documentate tra gli animali e, in particolare, tra gli altri Primati. Infatti, mentre l'infanticidio umano viene per lo più commesso dai genitori, tra i Primati i piccoli tendono a essere uccisi da maschi non imparentati (spesso i nuovi compagni della madre) o da femmine non appartenenti all'asse matrilineare della madre. Questi sviluppi dell'indagine etologica hanno nondimeno incoraggiato analisi comparative e l'adozione di nuovi quadri teorici. In precedenza, tutte le interpretazioni antropologiche avevano visto nel fenomeno primariamente una risposta alle esigenze di sopravvivenza del gruppo. Ponendosi in una prospettiva sociobiologica ed evolutiva, studi recenti hanno invece suggerito che, nelle popolazioni umane non meno che in quelle animali, la soppressione della prole è meglio spiegabile come parte di strategie individuali che risulterebbero, in ultima analisi, adattative, accrescendo, paradossalmente, il 'successo riproduttivo relativo' dei genitori. Al di là di alcuni aspetti controversi, tali teorie hanno avuto il merito di stimolare ricerche etnografiche sul terreno più attente alla rilevazione di comportamenti infanticidi, e di proporre nuove linee interpretative alla stessa analisi della documentazione storico-archivistica. 3. Prospettive storiche e situazione odierna L'infanticidio è una pratica estremamente difficile da osservare, documentare e quantificare; molto spesso la sua presenza può soltanto essere inferita dall'esistenza di rapporti numerici fortemente squilibrati tra maschi e femmine in una popolazione o in particolari classi di età. In molti paesi europei, tuttavia, il divieto e la repressione di tale pratica e la fondazione, a partire dal 14° secolo, di brefotrofi pubblici, proprio per combatterla e offrire assistenza all'infanzia abbandonata, hanno prodotto una considerevole mole di documentazione archivistica. Se gli atti processuali antichi e recenti si prestano soprattutto a uno studio qualitativo, risultando di grande aiuto per comprendere i motivi che spingevano e spingono a uccidere i neonati, alcune forme di 'maternità delegata', tendenti a ridurre la sopravvivenza della prole e quindi classificabili come indirettamente infanticide (abbandono in brefotrofio, affidamento a balia), sono, non di rado, eccellentemente documentate anche da un punto di vista quantitativo. L'analisi di questo materiale archivistico, intrapresa negli ultimi due decenni del Novecento, indica nel complesso che l'incidenza dell'infanticidio e la sua funzione di controllo demografico erano state sopravvalutate da precedenti generazioni di storici e demografi. La documentazione quantitativa disponibile sulla situazione odierna nei paesi occidentali è lontana dall'essere soddisfacente e non consente facili confronti con il passato. In Italia, per es., le statistiche ufficiali informano che nel decennio 1985-94 il numero di infanticidi denunciati, per i quali l'autorità giudiziaria ha iniziato un'azione penale, sono stati in media 8 all'anno. Ma la forte e capricciosa dispersione dei valori annuali intorno a questa media (14 casi denunciati nel 1987, solo 2 nel 1990, ancora 13 nel 1992) è solo uno degli indizi della scarsa attendibilità di queste cifre, che sicuramente tendono a sottostimare i dati reali. Sembra nondimeno giustificato ritenere che nel mondo occidentale la pratica infanticida sia attualmente un fenomeno raro e circoscritto, reso sempre più obsoleto dalla diffusione di metodi contraccettivi e dal ricorso all'aborto. Diversa, e più variegata, la situazione nelle altre parti del mondo. Indagini etnografiche, condotte a partire dalla metà degli anni Ottanta, segnalano l'esistenza di pronunciate differenze tra grandi aree culturali. I tassi di infanticidio risultano estremamente bassi in Africa, indipendentemente dal tipo di economia praticata, e molto più alti in Sud America, in Nuova Guinea e nell'Asia sud-orientale, con valori che per brevi periodi possono anche superare il 40% delle nascite. Queste enormi disparità sono state collegate da alcuni a corrispondenti differenze nei livelli di mortalità infantile (più elevati in Africa), da altri invece a un complesso di fattori culturali che assegnano grande importanza alla procreazione e sembrano anche spiegare la persistenza nell'Africa sub-sahariana di livelli molto elevati di natalità. A suscitare un intenso dibattito internazionale è stato però soprattutto il sospetto di comportamenti infanticidi di massa in Cina e, in misura minore, in altri paesi dell'Estremo Oriente e in India. Anche per questi paesi, e in particolare per il Giappone (per il quale esiste un'abbondante documentazione), recenti studi storici hanno riportato a più giuste dimensioni il ruolo di regolatore demografico svolto nel passato dall'infanticidio. I dati di censimento relativi ai nati tra il 1930 e la fine degli anni Quaranta indicano tuttavia che in Cina la soppressione dei neonati di sesso femminile era ancora largamente praticata. Nei primi tre decenni seguiti alla proclamazione della Repubblica Popolare, dal 1949 alla fine degli anni Settanta, l'infanticidio sembra aver conosciuto un netto declino; tuttavia, a partire dal 1980 si sono manifestati segni inequivocabili di una forte ripresa. Appare indubbio che a causare tale recrudescenza sia stata l'imposizione, da parte del governo cinese, della 'politica del figlio unico' che ha spinto molti genitori a sopprimere le figlie alla nascita, così da avere ancora la possibilità di generare un figlio maschio, per il quale esiste in Cina una fortissima preferenza culturale. Nel 1981 il rapporto tra il numero delle nascite di maschi ufficialmente registrate e quello delle femmine raggiunse, in alcune zone rurali del paese, il valore di 130 a 100, rispetto alla norma biologica universale di circa 105 a 100. Dati recentissimi indicano però che anche in Cina e in altri paesi orientali il fenomeno sta sparendo, per essere progressivamente sostituito da una selezione prenatale resa possibile dal diffondersi dell'amniocentesi e dell'ecografia, che consentono di conoscere in anticipo il sesso ed eventuali malattie o malformazioni del nascituro. Negli ultimi anni del 20° secolo questi e altri sviluppi della tecnologia medica hanno, in effetti, ridefinito i confini tra infanticidio e aborto, ponendo nuovi e delicati problemi bioetici (v. bioetica). Nel mondo occidentale, essendo cresciuta la consapevolezza degli elevati rischi di grave handicap che minacciano i bambini un tempo giudicati 'non vitali' e ora tenuti in vita grazie ai progressi della neonatologia, si distingue oggi da più parti tra un infanticidio 'malevolo' (sicuramente condannabile) e un infanticidio 'benevolo', al quale sarebbe eticamente ammissibile ricorrere al fine di risparmiare a questi bambini una vita di sofferenza.
bibl.: a.j. coale, j. banister, Five decades of missing females in China, "Demography", 1994, 3, pp. 459-79; m. dickeman, Demographic consequences of infanticide in man, "Annual Review of Ecology and Systematics", 1975, 6, pp. 107-37; m. harris, Cannibals and kings. The origins of cultures, New York, Random House, 1977 (trad. it. Milano, Feltrinelli, 1979); s.b. hrdy, Fitness tradeoffs in the history and evolution of delegated mothering with special reference to wet-nursing, abandonment, and infanticide, "Ethology and Sociobiology", 1992, 5-6, pp. 409-42; Infanticide. Comparative and evolutionary perspectives, ed. G. Hausfater, S.B. Hrdy, New York, Aldine, 1984; s. scrimshaw, Infanticide as deliberate fertility regulation, in Determinants of fertility in developing countries, ed. R.A. Bulatao, R.D. Lee, 2° vol., Fertility regulation and institutional influences, New York, Academic Press, 1983, pp. 245-66; r. selmini, Profili di uno studio storico sull'infanticidio, Milano, Giuffrè, 1987; l. williamson, Infanticide. An anthropological analysis, in Infanticide and the value of life, ed. M. Kohl, Buffalo, Prometheus Books, 1978, pp. 61-75; k. wrightson, Infanticide in European history, "Criminal Justice History", 1982, 3, pp. 1-20.